TRIBUNALE BOLOGNA RIESAME APPELLO RIESAME
se, nel procedimento di riesame del provvedimento di sequestro, sia applicabile il termine perentorio di cinque giorni, previsto dall’art. 309 c.p.p., comma 5, (con la conseguente perdita di efficacia del provvedimento in caso di violazione) per la trasmissione degli atti al tribunale”.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LUPO Ernesto – Presidente –
Dott. GRASSI Aldo – Consigliere –
Dott. CARMENINI Secondo Libero – Consigliere –
Dott. LOMBARDI Alfredo Maria – Consigliere –
Dott. CORTESE Arturo – Consigliere –
Dott. CONTI Giovanni – Consigliere –
Dott. VECCHIO Massimo – Consigliere –
Dott. FUMO Maurizio – rel. Consigliere –
Dott. BLAIOTTA Rocco Marco – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
C.M., nato a (OMISSIS);
avverso la ordinanza del 07/03/2012 del Tribunale di Bologna;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Maurizio Fumo;
udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato generale Dott. FEDELI Massimo, che ha concluso chiedendo rigettarsi il ricorso.
Svolgimento del processo
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Il Tribunale di Bologna, sezione impugnazioni cautelari penali, con ordinanza del 7 marzo 2012, ha confermato il decreto di sequestro preventivo, emesso il 13 febbraio precedente dal Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale, avente ad oggetto il sito web (OMISSIS), nell’ambito del procedimento penale instaurato a carico di C.M., indagato con riferimento al delitto di diffamazione, aggravato ai sensi dei commi primo e terzo dell’art. 595cod. pen., per avere offeso la reputazione dell’avv. B.D., nominata dal Comune di Bologna quale garante dei diritti dei detenuti, cui il C., secondo la tesi di accusa, aveva addebitato una condotta scorretta, in quanto ella avrebbe utilizzato la funzione pubblica sopraindicata per trarne utilità personali e professionali, essendo la B. avvocato penalista.
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Il Tribunale bolognese è giunto alla decisione sopraindicata dopo aver rigettato una serie di eccezioni in rito, prima tra esse, quella relativa alla inefficacia del decreto di sequestro preventivo, a causa della mancata trasmissione degli atti, da parte dell’autorità procedente, entro il termine di cinque giorni; invero, veniva precisato che il Tribunale aveva richiesto gli atti al procedente Pubblico ministero in data 24 febbraio 2012 e che detti atti erano però pervenuti al giudice del riesame solo in data 1 marzo 2012.
2.1. Altre censure in rito erano relative alla pretesa tardività delle querele, e alla denunziata invalidità delle stesse in quanto depositate da persona a tanto non autorizzata.
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Nel merito, il collegio cautelare aveva ritenuto sussistente il fumus con riferimento a una serie di articoli comparsi in rete, con i quali – secondo la lettura che ne veniva data – la querelante era accusata dal C. di aver strumentalizzato l’incarico ricevuto dal Comune di Bologna, per incrementare la propria clientela.
3.1. La stessa inoltre, sempre secondo quanto era possibile leggere sul web, avrebbe avuto la possibilità di fare ingresso nella casa circondariale bolognese in virtù di un “permesso permanente”, conferitole dal magistrato di sorveglianza, al di fuori di quanto previsto dall’ordinamento.
3.2. Il periculum in mora era ravvisato nel fatto che il C. non aveva rimosso, per lungo tempo, gli articoli denigratori, dimostrando, in tal modo, una ben radicata intenzione di curarne la diffusione via internet.
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Avverso la predetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione l’indagato, articolando nove motivi di doglianza.
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a) Violazione di legge processuale in ragione della non dichiarata perdita di efficacia del provvedimento di sequestro, dal momento che gli atti erano giunti al giudice del riesame il sesto giorno dopo la richiesta; invero la richiesta, come premesso, fu avanzata il giorno 24 febbraio 2012, ma gli atti pervennero solo il successivo primo marzo, vale a dire sei giorni dopo, essendo il 2012 anno bisestile.
Al proposito, il ricorrente contesta la giurisprudenza di legittimità richiamata nel provvedimento del tribunale bolognese.
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b) Violazione di legge in merito alla validità delle querele, in quanto depositate da persona non ritualmente incaricata, atteso che, anche ipotizzando che l’incarico in questione possa essere conferito oralmente, detto conferimento dovrebbe comunque risultare, quantomeno, dal verbale di ricezione, nel corpo del quale il presentatore dovrebbe dichiarare, sotto la sua responsabilità, di essere stato espressamente incaricato, sia pure oralmente. Ciò è quanto non è accaduto. In merito, la motivazione del giudice cautelare è illogica, in quanto si sostiene che il difensore della B., avv. M., aveva conferito per iscritto l’incarico a persona appartenente al suo studio (dott. L.M.), il che, evidentemente, sta a provare che non era stato conferito l’Incarico orale in incertam personam.
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c) Vizio di motivazione in ordine alla dedotta tardività delle querele. Il collegio cautelare non chiarisce il suo pensiero in ordine al momento consumativo del reato, che, per costante giurisprudenza di legittimità, va posto nel giorno in cui il messaggio denigratorio viene immesso in rete. Tanto premesso, poichè risultano almeno due date certe, vale a dire: il 23 ottobre 2009, giorno in cui il ricorrente fu sottoposto a procedimento disciplinare dall’Ordine degli avvocati di Bologna (anche perchè la querelante aveva lamentato la permanenza in rete degli articoli diffamatori, pur essendo il suo mandato scaduto da tre mesi), il 31 luglio 2010, giorno in cui la querelante non ottenne la proroga dell’incarico dal Comune della predetta città, ne consegue che i testi asseritamente diffamatori debbono necessariamente essere stati inseriti sul sito web tra il (OMISSIS) (o data prossima allo stesso giorno) e il (OMISSIS).
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d) Vizio di motivazione in ordine alla sussistenza del delitto contestato, atteso che il ricorrente si è limitato a segnalare l’oggettivo conflitto di interessi e la conseguente causa di incompatibilità in capo all’avv. B.D.. Al riguardo, il Tribunale bolognese ha confuso il concetto di oggettivo conflitto di interessi con quello di interessi privati in atti d’ufficio. Risulta inoltre rispondente al vero che la presunta persona offesa poteva accedere in carcere in forza di autorizzazione permanente, rilasciata con procedura cantra legem.
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e) Vizio di motivazione in ordine alla erronea esclusione della sussistenza della scriminante dell’esercizio del diritto di cronaca, atteso che il collegio cautelare arbitrariamente ha ritenuto di ravvisare nei testi immessi in rete messaggi allusivi e informazioni riferibili a fatti non realmente accaduti, laddove il C. si è limitato a sottolineare il duplice, incompatibile ruolo assunto dalla collega B.D., nonchè l’accesso sine titulo della stessa al carcere, e il conseguente conflitto di interessi come sopra indicato.
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f) Vizio di motivazione in ordine alla ritenuta irrilevanza delle integrazioni delle denunce-querele presentate dal difensore della querelante, atteso che esse comunque fanno riferimento a contenuti pubblicati sul sito sopraindicato.
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g) Vizio di motivazione in ordine al fatto che il Collegio cautelare non ha mai chiarito quali, in concreto, fossero le affermazioni allusive o denigratorie che, direttamente o indirettamente, attribuivano alla querelante la strumentalizzazione della sua funzione pubblica, allo scopo di aumentare il suo giro d’affari.
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h) Vizio di motivazione in ordine al fatto che il sequestro non fu limitato ai soli fogli elettronici in cui erano pubblicate le notizie ritenute diffamatorie, atteso che non vi era alcuna necessità di sequestrare l’intero sito web e che la giustificazione addotta è meramente pretestuosa. Invero, il sequestro preventivo del sito non può essere utilizzato per impedire la diffusione di documenti non ritenuti diffamatori.
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i) Vizio di motivazione in ordine alla sussistenza del periculum in mora, atteso che, fin quando non fu eseguito un primo sequestro preventivo, nel 2008 (provvedimento, per altro, annullato con rinvio dalla Corte di cassazione), non vi erano, in rete, riferimenti a contenuti diffamatori, i quali, infatti, secondo la stessa B., sono stati immessi in internet solo dopo il (primo) sequestro del sito e la sua riapertura nel 2010. Peraltro risulta per tabulas che l’indagato aveva richiesto al legale della querelante quali fossero le frasi ritenute diffamatorie, allo scopo di poterle rimuovere, senza ricevere adeguata risposta. Ciò emerge, per la precisione, oltre che dagli atti del procedimento, anche da quanto pubblicato sullo stesso sito, poi oggetto di sequestro.
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Il ricorso è stato assegnato alla Quinta Sezione penale che, con ordinanza del 18 gennaio 2013, ha, innanzitutto, ricordato come già in precedenza, era stato rilevato contrasto in relazione alla questione posta con la prima censura, tanto che, per ben due volte, i relativi ricorsi erano stati rimessi alle Sezioni Unite (che, tuttavia, non avevano avuto modo di affrontare il problema, atteso che, la prima volta, una questione preliminare In rito aveva loro impedito di entrare nel merito; la seconda, essendo stati dissequestrati medio tempore i beni in precedenza oggetto di sequestro, era sopravvenuta una evidente carenza di interesse, che aveva determinato la declaratoria di inammissibilità del ricorso).
5.1. Tanto premesso, la Quinta Sezione ha osservato che il contrasto permane. Invero, da un lato, si pone la giurisprudenza largamente maggioritaria, che – sul presupposto che la modifica legislativa introdotta con la L. 8 agosto 1995, n. 332, ha riguardato le sole misure cautelari personali – ritiene che il provvedimento ablativo non perda efficacia, anche nel caso in cui gli atti non siano trasmessi tempestivamente al tribunale del riesame (che quindi potrebbe anche richiedere una integrazione documentale); dall’altro, va rilevata una recente pronunzia della Terza Sezione penale che ha affermato un contrario indirizzo interpretativo, in base al quale la perentorietà del termine entro il quale gli atti devono pervenire al Collegio cautelare caratterizza, tanto il procedimento di riesame, relativo alle misure cautelari personali, quanto il procedimento relativo a quelle reali, con conseguente perdita di efficacia del provvedimento (di qualsiasi provvedimento cautelare) in caso di ritardata trasmissione degli atti.
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Il Primo Presidente, con decreto in data 7 febbraio 2013, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna udienza.
Motivi della decisione
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La questione posta con la prima censura, la quale ha determinato la rimessione del ricorso alle Sezioni Unite, deve essere correttamente formulata come segue: “se, nel procedimento di riesame del provvedimento di sequestro, sia applicabile il termine perentorio di cinque giorni, previsto dall’art. 309c.p.p., comma 5, (con la conseguente perdita di efficacia del provvedimento in caso di violazione) per la trasmissione degli atti al tribunale”.
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Al proposito va osservato che l’art. 324c.p.p., che, come è noto, disciplina il procedimento di riesame in tema di misure cautelari reali, non ha subito radicali modificazioni rispetto al suo impianto e al contenuto originari. Invero, se si fa eccezione per il secondo periodo del comma 2 (relativo al deposito in cancelleria dell’avviso della data di udienza per il soggetto richiedente, se diverso dall’imputato/indagato) e per un inciso di tre parole all’interno del comma 5 (che precisa che il tribunale di riesame ha composizione collegiale), esso è rimasto sostanzialmente identico dal 24 ottobre 1989, data di entrata in vigore del codice di procedura penale, a oggi.
2.1. Tale articolo, tuttavia, ha una particolare struttura, in quanto il suo settimo comma rinvia, per contenuto e disciplina, ai commi 9 e 10 del precedente art. 309, commi questi ultimi relativi sia al termine entro il quale gli atti in base ai quali assumere la decisione sullo status libertatis devono pervenire al tribunale, sia al termine entro il quale tale decisione deve essere assunta. La sanzione processuale per la violazione del primo termine (la perdita di efficacia del provvedimento impugnato) è, a sua volta, per le misure cautelari personali, conseguenza di un rinvio che, all’interno del medesimo art. 309, il comma 10 fa al comma 5, che impone la trasmissione degli atti entro il giorno successivo alla richiesta e “comunque” non oltre il quinto.
Ebbene, a differenza dell’art. 324, l’art. 309 cod. proc. pen. (disciplinante il riesame delle misure cautelari personali), così come l’art. 310 (disciplinante l’appello cautelare) hanno, nel corso del tempo, sofferto notevoli modificazioni. Essi, invero, oltre ad aver subito parziale dichiarazione di incostituzionalità (nella parte in cui non prevedono la possibilità che sia valutata la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza, nell’ipotesi in cui sia stato emesso il decreto che dispone il giudizio: cfr. Corte cost.
sent. n. 71 del 1996) e la “precisazione” sulla composizione collegiale dell’organo giudicante, ad opera della medesima legge già citata a proposito dell’art. 324 (L. 16 giugno 1998, n. 188), sono stati profondamente incisi dalla legge 8 agosto 1995, n. 332 (l’art. 309, per vero, anche dalle L. 23 ottobre 1996, n. 553 e L. 23 dicembre 1996, n. 652, in tema di competenza territoriale).
E proprio sui termini, vale a dire, per quel che qui interessa, riformulando i commi 5 e 10, il legislatore del 1995 è significativamente intervenuto, “allungando”, sia pure in via subordinata, il termine di trasmissione/ricezione degli atti (sostanzialmente da uno a cinque giorni), ma rendendolo perentorio.
2.2. Invero, nell’impianto originario dell’art. 309, il termine di cui al comma 5 (un giorno per la trasmissione degli atti) era meramente ordinatorio; per parte sua, il comma 3 dell’art. 324, in tema di riesame di misure reali, riproduceva esplicitamente detto termine (e tuttora lo riproduce, essendo, come si diceva, rimasto, sul punto, immutato).
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Il problema sollevato con la prima censura del ricorso, dunque, è essenzialmente un problema di coordinamento tra la lettera dell’art. 324c.p.p. e quella dell’art. 309c.p.p., cui il primo, come si è visto, rinvia; problema reso più spinoso dal fatto che, come ampiamente premesso, l’articolo con riferimento al quale il rinvio è effettuato (309) ha subito profonde modifiche, mentre immutato è rimasto l’art. 324.
La questione, allora, consiste, in sintesi, nello stabilire se tali modifiche abbiano comportato che, anche per quel che attiene al riesame delle misure cautelari reali, il termine per la trasmissione degli atti abbia assunto natura perentoria, con la inevitabile conseguenza che il suo mancato rispetto deve determinare la perdita di efficacia della misura a suo tempo adottata.
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La problematica, peraltro, come si è sopra accennato, non viene per la prima volta alla attenzione delle Sezioni unite. Invero, la medesima Quinta Sezione (con ordinanza n. 28539 del 5 giugno 2012, depositata il successivo 16 luglio) e, ancor prima, la Seconda Sezione (con ordinanza n. 42043 del 23 settembre 2011, depositata il successivo 16 novembre) avevano investito della questione le Sezioni Unite; e tuttavia il merito di essa non era stato affrontato per le ragioni già sopra specificate.
4.1. Il contrasto di giurisprudenza, che, in ragione del suo perdurare, ha indotto la Quinta Sezione a investire nuovamente le Sezioni unite si è manifestato a seguito della sentenza della Terza Sezione penale n. 24163 del 3 maggio 2011 (depositata il 16 giugno 2011), ricorrente Wang Zuojiong, con la quale si è affermato che “è abnorme la decisione con cui il Tribunale, in sede di riesame di un provvedimento di sequestro preventivo, rilevata la parziale trasmissione da parte del p.m. degli atti posti a fondamento dell’istanza di sequestro, rinvii il procedimento a nuovo ruolo, al fine di consentire la trasmissione degli atti mancanti, per poi fissare l’udienza di trattazione, invece di dichiarare l’inefficacia del provvedimento”.
L’abnormità, in particolare, consisterebbe nel fatto che il Tribunale avrebbe prorogato un termine perentorio già scaduto.
4.2. Fino ad allora, le diverse Sezioni della Corte non avevano mai dubitato del fatto che, anche dopo le modifiche dell’art. 309 cod. proc. pen., introdotte con la L. 8 agosto 1995, n. 332, art. 16, il termine (meramente ordinatorio) di un giorno per la trasmissione degli atti, previsto per il riesame delle misure cautelari reali, dovesse continuare a trovare applicazione, non potendo viceversa ritenersi esteso alla procedura ex art. 324 cod. proc. pen. il nuovo dettato dei commi 5 e 10 dell’art. 309 e, dunque, non dovendosi applicare il termine massimo di cinque giorni, con la relativa sanzione processuale della decadenza della misura, in caso di sua inosservanza.
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In merito, come è noto, avevano già avuto modo di prendere posizione anche le Sezioni Unite, con la sentenza n. 25932 del 29 maggio 2008 (depositata il 26 giugno 2008), ricorrente Ivanov, le quali, da un lato, hanno convalidato l’orientamento, sino ad allora seguito dalle sezioni semplici, ribadendo che, in caso di inosservanza, da parte dell’autorità procedente, del termine di cinque giorni dalla richiesta di riesame per la trasmissione degli atti al tribunale, non ha luogo la perdita automatica di efficacia della misura cautelare reale; dall’altro lato, hanno voluto, ad ogni buon conto, precisare che l’omessa o tardiva trasmissione di atti al tribunale del riesame non determina, di per sè e sempre, l’automatica caducazione della misura, dovendosi, in ogni caso, sottoporre alla così detta “prova di resistenza” il provvedimento cautelare, in modo da apprezzare, ai fini della sua adozione, il grado di rilevanza degli elementi non trasmessi o trasmessi intempestivamente, se posti a confronto con quelli già legittimamente acquisiti, i quali ben potrebbero essere, da soli, sufficienti a giustificare il mantenimento del vincolo.
Ebbene la prima affermazione è stata fondata sulla ritenuta inapplicabilità dell’art. 309 c.p.p., comma 5, al riesame delle misure reali, atteso che detto comma, dettato per le misure cautelari personali, esplicitamente prevede, dopo l’intervento legislativo del 1995 – in caso di inosservanza del predetto termine – la loro perdita di efficacia. Ciò in quanto il ricordato comma 5 non è richiamato dall’art. 324, comma 7 del codice, in tema di misure reali.
Tale affermazione, come premesso, ha rappresentato esplicita conferma della concorde giurisprudenza che, anche in epoca immediatamente successiva alle interpolazioni operate sul testo dell’art. 309 cod. proc. pen. dalla L. n. 332 del 1995, aveva affrontato il problema della valenza del rinvio operato dall’art. 324, comma 7 all’art. 309 c.p.p., comma 10, sostenendo che la modifica apportata dalla legge predetta (e i conseguenti effetti caducatori) fossero limitati al solo procedimento di riesame delle misure cautelari personali.
5.1. Infatti, già con la sentenza n. 639 del 9 febbraio 1996, D’Angiolella, la Terza Sezione ebbe modo di affermare che, se, dall’esame del Titolo primo, oggetto della su menzionata novella legislativa, si passa al successivo Titolo secondo, Capo terzo, relativo al regime delle impugnazioni delle misure cautelari reali, ci si avvede immediatamente che le procedure configurate dall’art. 324 – le quali in origine ricalcavano quasi pedissequamente la disciplina di cui all’art. 309 – “non sono state affatto interessate dagli interventi riformatori del legislatore, cui quella omogeneità di disciplina non poteva sfuggire”.
5.2. Sulla stessa linea interpretativa, nella medesima Terza Sezione:
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706 del 14/02/1996, Morgera, Rv. 204268; n. 588 del 07/02/1996, Sabbadini, Rv. 204861; n. 79 del 15/01/1997, Aiello, Rv. 207885; n. 42508, del 08/10/2002, Scarpa, Rv. 225401.
Anche le altre Sezioni, come si diceva, ebbero a condividere tale orientamento (cfr: Sez. 1: n. 5039 del 18/09/1997, Scibilia, Rv.
208968; n. 3392 del 09/06/1998, Voltolini, Rv. 210883; n. 1836 del 04/03/1999, Rocca, Rv. 213065; n. 5966 del 18/12/2001, dep. 2002, Rossini, Rv. 220703; Sez. 2: n. 16922 del 28/02/2003, Laforet, Rv.
224641; n. 6597 del 1602/2006, Pietropaoli, Rv. 233163; Sez. 4: n. 17101 del 21/02/2001, Cutuli, Rv. 219208; Sez. 5: n. 698 del 08/02/1999, Zamponi, Rv. 212862; n. 20274 del 02/04/2003, Di Ponio, Rv. 224544; Sez. 6: n. 2882 del 06/10/1998, Calcatela, Rv. 212677; n. 4227 del 21/11/2000, Cuomo, Rv. 218898; n. 7827 del 13/12/2000, dep. 2001, Vasco, Rv. 218060).
5.3. D’altronde, anche dopo l’intervento delle Sezioni Unite (con la ricordata sentenza Ivanov), sia la Prima, che la Sesta Sezione hanno avuto modo di ribadire il differente regime dei termini che caratterizza il procedimento di riesame delle misure cautelari reali rispetto a quelle personali.
E invero, la Prima Sezione, con la sentenza n. 34544 del 29/03/2011, Gallace, Rv. 250778, ha ripetuto il dictum per cui, nel procedimento di riesame dei provvedimenti di sequestro, non è applicabile la sanzione dell’inefficacia prevista dall’art. 309 c.p.p., comma 10, per l’inosservanza del termine di trasmissione degli atti da parte dell’autorità procedente, di cui al comma 5 della stessa norma, poichè l’art. 324 cod. proc. pen., pur dichiarando applicabile al procedimento di riesame della misura del sequestro l’art. 309 c.p.p., commi 9 e 10, non richiama il comma 5 di tale ultima disposizione.
La Sesta Sezione, per parte sua, con la sentenza n. 7475 del 21/01/2009, Andreacchio, Rv. 242918, sviluppando uno dei principi di diritto già contenuto nella sentenza Ivanov, ha affermato che, in tema di riesame di misure cautelari reali, l’acquisizione, anche d’ufficio, di informazioni e atti necessari per deliberare su eccezioni in rito eventualmente proposte dalle parti costituisce espressione di un dovere funzionale, il cui esercizio è indispensabile per la corretta definizione del procedimento incidentale, specie nell’ipotesi in cui nessuna disposizione normativa preveda un onere di preventiva documentazione a carico della parte, i cui atti vengono contestati.
Tale affermazione si giustifica solo se si presuppone il carattere non perentorio del termine entro il quale gli atti devono pervenire al tribunale del riesame (in argomento anche la più recente sentenza della Terza Sezione n. 37009 del 07/07/2011, Andriola, Rv. 251392).
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A tale consolidato orientamento si è contrapposta, come sopra accennato, la sentenza Wang Zuojiong della Terza Sezione, deliberata dopo la sopra menzionata -e quasi coeva – sentenza Gallace della Prima Sezione, ma depositata prima di essa.
6.1. La sentenza Wang Zuojiong non poteva certamente ignorare, e infatti non ha ignorato, il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale, come premesso, stante il difetto di coordinamento tra l’art. 324 e l’art. 309 cod. proc. pen., la previsione del termine, ordinatorio e non perentorio, entro il quale deve avvenire la trasmissione degli atti era ed è tuttora indicato in un giorno (comma 3 dell’art. 324) e non di cinque giorni (comma 5 dell’art. 309), con la conseguenza che la sua inosservanza non determina alcun effetto sul termine perentorio per la pronuncia del provvedimento, che decorre – in ogni caso – dalla ricezione, anche tardiva, degli atti da parte del tribunale.
Detto orientamento, tuttavia, essa ha radicalmente contestato.
6.2. Ha ritenuto infatti la Terza Sezione, innanzitutto, che il predetto orientamento ha l’effetto di vanificare l’esigenza prioritaria realizzata dal legislatore del 1995, vale a dire quella di rendere certo il termine di conclusione del procedimento di riesame, termine che, anche in forza di quanto statuito dalla sentenza n. 232 del 1998 della Corte costituzionale, è di complessivi 15 giorni al massimo, a far tempo dal giorno di deposito della richiesta di riesame.
Sarebbe allora irragionevole – si sostiene – far discendere il dies a quo di un termine perentorio dalla scadenza di un termine meramente ordinatorio.
Per di più: la decorrenza di detto termine perentorio (stabilito evidentemente a favore di una parte del processo) verrebbe a dipendere dall’osservanza, non sanzionata processualmente, e, quindi dalla discrezionalità – se non dal potenziale arbitrio – della controparte.
Peraltro, le limitazioni della sfera patrimoniale, oggetto del riesame dei provvedimenti di sequestro non hanno – secondo quello che si legge nella sentenza Wang Zuojiong – un rilievo costituzionale inferiore rispetto a quelle relative alla libertà personale e non giustificano, pertanto, un regime meno garantito.
6.3. Se, infatti, è indubbio che il legislatore possa differenziare i meccanismi di garanzia, modulandoli a seconda del rilievo dei diversi interessi costituzionali da tutelare, tuttavia non sembra possibile stabilire un regime intrinsecamente irragionevole, fissando a favore del soggetto richiedente il riesame un termine perentorio del tutto inutile, perchè decorrente da un momento non certo, così consentendo una limitazione sine die della sua libertà patrimoniale da parte del pubblico ministero.
6.4. In secondo luogo, si rileva nella sentenza sopra menzionata che la mancata riformulazione dell’art. 324 cod. proc. pen. non è di ostacolo a una (doverosa) interpretazione sistematica, nel senso della perentorietà del termine per la trasmissione degli atti, anche con riferimento al procedimento di riesame delle misure cautelari reali. Secondo la Terza Sezione, infatti, il richiamo dell’art. 324, comma 7, all’art. 309, comma 10, deve essere interpretato nel senso che il termine di cinque giorni del precedente comma 5, da quest’ultimo richiamato, sia perentorio e si riferisca anche al riesame dei sequestri, ad integrazione del termine, meramente ordinatorio, di un giorno fissato dall’art. 324, comma 3.
La volontà del legislatore del 1995 deve dunque essere ricostruita in vista della eliminazione della anomalia della mancanza di un momento certo per la decorrenza del termine per la decisione sul riesame. Poichè detta anomalia era simmetricamente presente, tanto nel regime delle impugnazioni delle misure cautelari personali (art. 309), quanto in quello delle misure cautelari reali (art. 324), appare logico che il “rimedio” riguardi entrambi gli istituti.
6.5. Diversamente ragionando, conclude la sentenza in esame, si dovrebbe ipotizzare che il richiamo dell’art. 324, comma 7, all’art. 309, comma 10, sia – ora – da ritenersi relativo al testo previgente di tale ultimo comma (il quale non prevedeva la perentorietà del termine per la trasmissione degli atti al tribunale); una simile lettura, tuttavia, contrasterebbe con l’esigenza di un’interpretazione sistematica e sincronica del codice di rito;
un’interpretazione, vale a dire, che tenga conto delle disposizioni di una medesima fonte normativa, vigenti in uno stesso momento storico. Tale interpretazione appare, infatti, ben più lineare, anche perchè consente di evitare che trovino (contemporaneamente) applicazione due diverse versioni dell’art. 309, comma 5: la previgente, ai fini del riesame di cui all’art. 324, e l’attuale, ai fini di quello di cui all’art. 309.
6.6. Proprio da tali premesse, la sentenza de qua fa discendere la sua conclusione circa la ricordata abnormità del provvedimento del giudice del riesame, il quale, nel procedimento a carico di Wang Zuojiong, in mancanza di un tempestivo invio degli atti da parte del Pubblico ministero procedente, aveva rinviato sine die la decisione, allo scopo di consentire la trasmissione degli atti mancanti, fissando l’udienza di trattazione solo all’esito di tale trasmissione.
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Ebbene, la tesi della sentenza Wang Zuojiong, pur acutamente argomentata, non convince, in quanto essa da per presupposto un assunto che resta, viceversa, indimostrato, vale a dire che il legislatore del 1995 minus dixit quam voluit e che lo stesso, quindi, pur non avendo esplicitamente riformato il regime della impugnazione cautelare in materia reale (sul quale ha mantenuto il silenzio), abbia comunque – incidendo su quello delle misure personali – inteso innovare, sul punto, l’intero impianto delle impugnazioni cautelari.
Ciò in quanto, dato il parallelismo originario tra le due procedure (quella ex art. 309 e quella ex art. 324 c.p.p.), parallelismo reso manifesto dai “richiami” che il secondo articolo fa al primo, la modifica normativa di uno dei due regimi non potrebbe non incidere anche sull’altro.
7.1. La rottura della simmetrica architettura procedimentale – secondo la predetta pronuncia – sarebbe, oltretutto, illogica e iniqua, non potendosi, come premesso, nemmeno, a contrario, obiettare che “le limitazioni della sfera patrimoniale, oggetto del riesame dei provvedimenti di sequestro, hanno un rilievo costituzionale inferiore rispetto a quelle della libertà personale e giustificano, perciò, un regime meno garantito”. Ciò in quanto una tale diversa regolamentazione delle modalità di compressione di beni – entrambi di rilievo costituzionale (libertà e patrimonio) – darebbe luogo a un “regime intrinsecamente irragionevole”, dal momento che fisserebbe, a favore del soggetto nel cui interesse viene richiesto il riesame, un termine perentorio che, non potendo decorrere da un momento certo (scil. predeterminabile), sarebbe del tutto inutile, proprio perchè, in tal maniera, verrebbe a essere, di fatto, privato del carattere della perentorietà.
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Al proposito è agevole rilevare che, nell’impianto originario, proprio questa era stata la costruzione operata dal legislatore.
Invero, sia per il riesame delle misure cautelari personali, che per quello delle misure cautelari reali, era previsto un termine ordinatorio molto breve per la trasmissione degli atti (un giorno:
cfr. art. 309, comma 5 e art. 324 c.p.p., comma 3), e un termine perentorio, ragionevolmente più lungo, per la decisione (10 giorni:
cfr. art. 309, comma 10 e art. 324 c.p.p., comma 7, che al predetto comma 10 rinviava e rinvia).
8.1. La L. 8 agosto 1995, n. 332, come ampiamente premesso, ha esplicitamente riformato solo l’art. 309, al quale, tuttavia, l’art. 324 – in nulla modificato – “continua”, come appena premesso, a operare rinvio, essendo rimasto invariato il richiamo che il comma 7 fa ai commi 9 e 10 dell’art. 309. Quello che tuttavia, tra gli altri, è stato modificato è il comma 5 di tale ultimo articolo, che, a far tempo dalla “riforma”, prevede, per la trasmissione degli atti, un termine ordinatorio (un giorno) che confluisce in un termine perentorio (5 giorni) e concorre a determinarlo.
3.2. La questione, dunque, nel suo nucleo essenziale, consiste nello stabilire se il rinvio dal comma 7 dell’art. 324 al comma 10 dell’art. 309 comporti anche (per il riesame dei sequestri) il “rimbalzo” dal predetto comma 10 al precedente comma 5 (all’interno del medesimo art. 309), con il conseguente recepimento, anche per le misure reali, del termine di decadenza di complessivi cinque giorni per la trasmissione degli atti al tribunale del riesame.
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Per affrontare in radice un tale quesito, occorre prendere le mosse dalla lettera del testo normativo del 1995, avente a oggetto “Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa”.
9.1. Ebbene: nonostante la rubrica, la legge del 1995 viene a incidere, non solo sul codice di rito, ma anche sul codice sostanziale, atteso che l’art. 25 modifica l’art. 371-bis cod. pen..
I residui articoli introducono effettivamente modifiche o aggiunte al codice di procedura, ma: a) gli artt. da 18 a 22 non riguardano le misure cautelari, b) gli artt. da 1 a 17, nonchè gli artt. 23, 24, 26, 27 hanno tutti riferimento a misure cautelari personali (l’art. 28 è una norma transitoria).
E invero, premesso che l’art. 16 modifica, nei sensi sopra più volte indicati, l’istituto del riesame per le misure cautelari personali, cioè l’art. 309 cod. proc. pen. (l’art. 17 quello dell’appello in tema di misure cautelari personali, vale a dire l’art. 310 cod. proc. pen.), va osservato che: l’art. 1 modifica l’art. 104 cod. proc. pen. (colloqui del difensore con l’imputato in custodia cautelare), l’art. 2 introduce nel predetto codice l’art. 141-bis (modalità di documentazione dell’interrogatorio di persona in stato di detenzione), l’art. 3 modifica l’art. 274 cod. proc. pen. (esigenze cautelari), l’art. 4 modifica l’art. 275 cod. proc. pen. (criteri di scelta delle misure), l’art. 5 modifica ancora l’art. 275 e inoltre l’art. 299 cod. proc. pen. (revoca e sostituzione delle misure), l’art. 6 modifica l’art. 278 cod. proc. pen. (determinazione della pena agli effetti della applicazione delle misure cautelari), l’art. 7 modifica l’art. 280 cod. proc. pen. (misure coercitive), l’art. 8 modifica l’art. 291 cod. proc. pen. (procedimento applicativo), l’art. 9 modifica l’art. 292 cod. proc. pen. (ordinanza del giudice), l’art. 10 modifica l’art. 293 cod. proc. pen. (adempimenti esecutivi), l’art. 11 modifica l’art. 294 cod. proc. pen. (interrogatorio della persona sottoposta a misura cautelare personale), l’art. 12 modifica l’art. 297 cod. proc. pen. (computo dei termini di durata delle misure), l’art. 13 modifica ancora gli artt. 299 e 294, attraverso il richiamo operato dall’art. 503 cod. proc. pen. (esame delle parti private), l’art. 14 modifica l’art. 301 cod. proc. pen. (estinzione delle misure disposte per esigenze probatorie), l’art. 15 modifica l’art. 304 cod. proc. pen. (sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare), l’art. 23 modifica l’art. 94 disp. att. cod. proc. pen. (ingresso in istituti penitenziari), l’art. 24 introduce l’art. 102-bis disp. att. cod. proc. pen. (reintegrazione nel posto di lavoro perduto per ingiusta detenzione), l’art. 26 modifica l’art. 381 cod. proc. pen. (arresto facoltativo in flagranza), l’art. 27 introduce l’art. 97-bis disp. att. cod. proc. pen. (modalità di esecuzione del provvedimento che applica gli arresti domiciliari).
9.2. Si può dunque, senza tema di smentita, affermare che l’attenzione del legislatore del 1995 è stata evidentemente tutta centrata sulla figura del soggetto la cui libertà sia stata compressa o limitata, atteso che, per la parte che qui interessa, la legge 332 viene a incidere su: misure precautelari, misure cautelari personali (detentive e coercitive), status delle persone tratte in arresto o sottoposte a custodia cautelare.
Si deve allora necessariamente concludere che, con la L. n. 332 del 1995, non è stata introdotta alcuna modifica al regime delle misure cautelari reali, sia per quanto riguarda la loro applicazione, sia per quanto riguarda le procedure di impugnazione.
Che, tuttavia, il Legislatore abbia avuto un propositum in mente retentum (la modifica “inespressa” anche dei termini relativi alla procedura di riesame delle misure cautelari reali) è circostanza che, a fronte della inequivoca struttura della riforma, andrebbe dimostrata e non meramente presupposta.
9.3. In realtà il testo normativo del 1995 è il frutto della fusione e della armonizzazione di alcune proposte di legge e di un disegno di legge governativo (1033/1994), nei quali non si rinviene cenno alcuno alle misure cautelari reali.
La proposta n. 998/1994 (Camera dei Deputati: Finocchiaro e altri) “intende affrontare le questioni più importanti in tema di custodia cautelare”; quella recante il n. 1005/1994 (Camera dei Deputati:
Saraceni e altri) ha quali “punti qualificanti…la eliminazione delle ipotesi in cui la custodia in carcere è l’unica misura cautelare applicabile, in violazione dei principi generali di adeguatezza e proporzionalità, nonchè la riduzione dei termini massimi di custodia cautelare, la limitazione ai delitti più gravi della applicazione delle misure cautelari per il pericolo di reiterazione del reato”; la proposta n. 1007/1994 (Camera dei Deputati: Grimaldi e altri) prende atto della “tragica necessità della privazione della libertà in condizioni di presunta non colpevolezza”, affermando che tale privazione “è giustificabile solo per esigenze strumentali all’accertamento della verità processuale”;
la proposta n. 1203/1994 (Camera dei Deputati: Milio) si propone la modifica degli artt. 291, 294 e 391 cod. proc. pen..
Per parte sua, la Relazione preliminare al disegno di legge governativo chiarisce esplicitamente che scopo della riforma è quello di rimodulare “le esigenze di tutela della libertà individuale in rapporto alle “dolorose” necessità delle indagini”;
per altro si legge ancora nella predetta relazione – e l’affermazione appare quanto mai significativa – “mantengono l’attuale regolamentazione le misure diverse dalla custodia cautelare in carcere”.
Di conseguenza viene “ulteriormente ribadito il concetto secondo cui la custodia cautelare in carcere deve rappresentare la extrema ratio”, essa dunque deve essere “circoscritta…alle sole ipotesi criminose punite con la reclusione superiore nel massimo a quattro anni” e inoltre “si consente in tutti i casi l’esercizio della facoltà del Pubblico ministero di disporre gli arresti domiciliari, anzichè la custodia in carcere, nei confronti del fermato o dell’arrestato…così potrà essere evitata la custodia in carcere per i soggetti che manifestano minore pericolosità”.
Nè in Senato la impostazione è mutata (Seconda Commissione permanente, rel. Palumbo, in data 1 agosto 1995, n. 1386/C), posto che scopo dichiarato della riforma è stato individuato nella necessità di rafforzare le garanzie di libertà del cittadino, evitando, tra l’altro, le così dette contestazioni a catena.
9.4. E’ allora evidente che la L. n. 332, affronta, con sistematicità e progressione, gli articoli del codice di rito che intende riformare e, in tema di misure cautelari, muove – come si è visto – dall’art. 274 e procede fino all’art. 310, per poi, con l’art. 18, intervenire sull’art. 335 cod. proc. pen., “scavalcando”, in tal modo, completamente il Titolo secondo del Libro quarto (misure cautelari reali: dall’art. 316 all’art. 325). Il che lascia ragionevolmente presumere che il legislatore abbia operato una precisa scelta e non sia incorso in una inescusabile disattenzione.
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Nella sentenza Wang Zuojiong, tuttavia, la Terza Sezione, rammentando, come si è accennato, il dictum della sentenza n. 232 del 1998 della Corte costituzionale, e anzi citandone un passo, ribadisce, come si è visto, che “a poco varrebbe un termine breve e perentorio per la decisione, assistito dalla sanzione di inosservanza, se la decorrenza del termine medesimo fosse determinata da eventi o adempimenti rimessi, sia pure sotto la comminatoria di termini ordinatori, alla stessa autorità giudiziaria che procede o che ha adottato la misura, ovvero all’autorità chiamata a decidere sulla richiesta di riesame”; per tale ragione, invero, ricorda la Terza Sezione, il Giudice delle leggi, con la citata pronunzia, dichiarando infondata la questione di costituzionalità sollevata in riferimento all’art. 309c.p.p., commi 5 e 10 (nella parte in cui non è prevista la perdita di efficacia dell’ordinanza che dispone la misura coercitiva personale, in caso di non immediato avviso della presentazione della richiesta di riesame all’autorità procedente), aveva affermato che il termine complessivo (e perentorio) entro il quale il tribunale del riesame deve produrre la sua decisione deve essere individuato in quello massimo di giorni 15 (5, al massimo, per la trasmissione degli atti, che, se utilizzato in tutto, confluisce in quello complessivo e finale, appunto di 15 giorni, entro il quale il giudicante deve accogliere o rigettare il ricorso) e che il dies a quo non è da individuarsi in quello in cui gli atti pervengono al tribunale, ma in quello in cui la richiesta di riesame viene depositata. Questo in quanto trattasi di momento definito e determinabile con certezza, con ciò realizzandosi una sostanziale garanzia per l’imputato/indagato.
Il principio, in un primo tempo non condiviso dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. U, n. 10 del 25/03/1998, Savino, Rv. 210804), è stato poi recepito (cfr. Sez. U, n. 25 del 16/12/1998, dep. 1999, Alagni, Rv. 213073, cui si sono uniformate le singole Sezioni).
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Il fatto è, tuttavia, che la sentenza Wang Zuojiong afferma, senza darne dimostrazione, che il principio, enucleato dalla Corte costituzionale con riferimento alla misure cautelari personali, debba aver valore anche per quel che riguarda il riesame delle misure cautelari reali.
Invero, pur nei limiti di una sentenza interpretativa di rigetto (tale è quella relativa all’art. 309 cod. proc. pen.), è da rilevare che la Corte non ha fatto parola della disposizione di cui ai commi 3 e 7 dell’art. 324 del codice di rito, certamente collegata, in ragione del rinvio ai commi 9 e 10 dell’art. 309, articolo sulla cui compatibilità costituzionale essa era stata chiamata a pronunziarsi.
11.1. In realtà, proprio nella giurisprudenza costituzionale, si rinvengo affermazioni relative alla fondatezza e alla ragionevolezza delle netta separazione del regime giuridico previsto per le “cose”, rispetto a quello che il legislatore deve approntare per la tutela delle persone.
A far tempo dalla storica sentenza n. 268 del 1986, il Giudice delle leggi ebbe modo di chiarire che la vigente Carta costituzionale ha riscritto la scala dei valori e degli interessi protetti dal diritto (anche penale), ridimensionando la tutela della res, rispetto a quella della persona, ponendo al centro i valori dell’essere, piuttosto che quelli dell’avere.
L’affermazione, fatta in tema di furto, deve ovviamente ritenersi avere carattere generale, atteso che la Corte, nella sentenza in questione, aveva fatto notare che la estrema severità con la quale, nell’originario impianto del codice Rocco, erano -inesorabilmente – puniti i delitti contro il patrimonio corrispondeva all’ideologia dell’epoca, molto attenta alla tutela dei beni materiali e alla difesa della proprietà; tanto che i delitti contro la libertà personale, quelli contro la potestà dei genitori, nonchè persino quelli contro la libertà sessuale erano puniti con pene di “gran lunga inferiori”.
L’avvento della Costituzione, tuttavia, osservava la Corte, aveva radicalmente mutato la gerarchia dei valori da tutelare. La persona umana, infatti, è venuta incondizionatamente in primo piano, in tutte le sue manifestazioni di libertà, mentre la tutela della proprietà privata è stata subordinata alla sua funzione sociale.
Anche in altre occasioni, d’altra parte, la Corte costituzionale ha tenuto nettamente separate le sfere del patrimonio e della libertà personale, avallando, per quel che specificamente riguarda la materia penale, la giurisprudenza di questa Corte di legittimità (come subito si chiarirà nel successivo capoverso).
11.2. Sulla base di tali premesse, è quantomeno discutibile che i principi stabiliti nella ricordata decisione n. 232 del 1998 della Corte costituzionale siano automaticamente estensibili, al di là della circostanza che, come visto, si tratta di una decisione interpretativa, anche alle misure cautelari reali.
Non si può dimenticare, infatti, che proprio su queste ultime, la Consulta, con la sentenza n. 48 del 1994, ebbe modo di puntualizzare, quanto ai presupposti per la loro emissione, che “il codice non si è peraltro spinto al punto da aver assimilato in toto i presupposti che devono assistere le misure cautelari personali, da un lato, e quelle reali, dall’altro”, anche perchè “il diritto di difesa ammette diversità di disciplina in rapporto alla varietà delle sedi e degli istituti processuali in cui lo stesso è esercitato; ciò consente, quindi, di affermare che non vi è un obbligo costituzionale ad assegnare uguale “contenuto difensivo” a rimedi che, pur se identici per denominazione – il riesame è infatti previsto, sia per le cautele personali, che per quelle reali – si distinguono nettamente sul piano strutturale e dei soggetti che possono essere coinvolti:
altro, infatti, è l’oggetto del riesame nelle misure cautelari personali, altro è quello del riesame contro i provvedimenti di sequestro, mentre, sul piano dei soggetti, titolare del potere di proporre riesame nelle misure cautelari reali è anche il terzo sequestratario, estraneo al fatto-reato per il quale si procede”.
Ed è esattamente per le ragioni appena sopra accennate che la ricordata sentenza del 1994 – nonchè la successiva sentenza della Corte n. 153 del 2007 -hanno chiarito che non può essere considerato incostituzionale l’orientamento giurisprudenziale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Mariano, Rv. 215840; n. 4 del 25/03/1993, Gifuni, Rv. 193117) in base al quale, in tema di misure cautelari reali, non si fa luogo alla valutazione degli indizi di colpevolezza (sussistenza e gravità). Invero, in presenza di una positiva distinzione (e di una obiettiva distinguibilità), di natura strutturale e soggettiva, rileva la situazione di obiettivo pericolo per la collettività derivante dalla disponibilità della cosa; il che giustifica la imposizione del vincolo, vincolo che non viene meno, anche in caso di assoluzione dell’imputato, se il bene è “in sè” pericoloso.
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Tutto ciò premesso e considerato, appare certamente non accettabile la esplicita affermazione della sentenza Wang Zuojiong sopra ricordata, in base alla quale le limitazioni della sfera patrimoniale hanno rilievo costituzionale “non inferiore” rispetto a quelle della libertà personale; il che non giustificherebbe un regime “meno garantito”.
Si tratta di un assunto incondivisibile, ma centrale nel percorso argomentativo della sentenza de qua, perchè da esso si fa discendere il fondamento del (supposto) originario (e inderogabile) parallelismo della disciplina della impugnazione cautelare delle misure personali rispetto a quelle reali. Parallelismo, invero, più funzionale che strutturale (la Relazione preliminare al codice afferma che la misura reale determina indisponibilità di cose e beni, con una incisività “analoga” a quella della custodia cautelare); parallelismo che, viceversa, rotto – come si è visto – anche formalmente (dato il silenzio del legislatore sulla intera materia delle misure cautelari reali) dalla legge del 1995, non era, ad evidenza, così stretto e vincolante nemmeno ab origine. E invero non può mettersi in dubbio che il codice del 1988, già nelle stesura originaria, pur operando il rinvio dall’art. 324 c.p.p. all’art. 309 c.p.p., aveva tenuto nettamente distinto il sistema delle impugnazioni delle misure cautelari personali da quello delle impugnazione delle misure cautelari reali.
Innanzitutto, va rilevata la diversa “disposizione topografica” delle norme: il Libro Quarto (misure cautelari) si articola in due titoli.
Il Primo Titolo (artt. 272-315) reca “Misure cautelari personali”; il Secondo (artt. 316-325) reca “Misure cautelari reali” (Capo Primo:
sequestro conservativo; Capo Secondo: sequestro preventivo). Inoltre, l’impugnazione cautelare per le misure personali è contenuta nel Capo Sesto (del Titolo Primo); l’impugnazione cautelare per le misure reali è contenuta nel Capo Terzo (del Titolo Secondo: artt. 324- 325).
Nulla, evidentemente, impediva al legislatore di predisporre una unica sedes materiae per ospitare un unico procedimento di riesame per entrambe le misure cautelari: quella personale e quella reale.
12.1. Non basta: le norme di attuazione, all’art. 100, impongono alla cancelleria o alla segreteria della autorità procedente di trasmettere al giudice competente per la decisione gli atti necessari, con precedenza assoluta su ogni altro affare; ma ciò -si badi bene – solo “quando è impugnato un provvedimento concernente la libertà personale”. Si tratta, ad evidenza, di una disposizione, che, incidendo nel campo della concreta attuazione dei meccanismi procedurali, indispensabili per attivare il riesame delle misure cautelari, sta chiaramente a indicare, da un lato, che il legislatore del 1988 ha ben presente la scala dei valori costituzionali resa manifesta della ricordata sentenza del Giudice delle leggi del 1986;
dall’altro, che i due istituti del riesame, quello personale e quello reale, pur in origine ispirati, per amore di simmetria, a un unico ideale modello procedimentale, tuttavia possono divaricarsi nella pratica applicazione, in quanto si deve far di tutto perchè il termine di un giorno (originariamente ordinatorio e poi assorbito da quello perentorio di cinque giorni), per la trasmissione degli atti, sia rispettato nel caso di riesame di misure personali, cui deve essere data priorità assoluta, anche a costo di ritardare altre attività interne alle indagini e al processo.
Intervenuta la riforma del 1995, la norma di attuazione è rimasta intatta. La “precedenza assoluta” continua ad aver senso e significato: vale a dire che, fermo il limite invalicabile dei 5 giorni, è obbligo della cancelleria o della segreteria fare il possibile perchè gli atti giungano al tribunale del riesame nel giorno successivo (a quello della richiesta) e, comunque, nel più breve tempo possibile.
Una simile “raccomandazione” nè il legislatore del 1988, nè quello del 1995 ha ritenuto di introdurre per le misure cautelari reali.
12.2. E d’altronde, non è senza significato il fatto che nel nostro ordinamento la compressione della libertà personale per fini cautelari deve essere contenuta entro predeterminati limiti temporali, atteso che l’art. 13 Cost., u.c. prevede che “la legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva”, direttiva cui, nel vigente sistema processuale, danno attuazione gli artt. 303 c.p.p. e ss.. Ebbene, analoghi limiti non sono previsti per le misure cautelari reali e l’omissione non contrasta con alcun principio espresso dalla Carta fondamentale, atteso che lo statuto costituzionale della proprietà (artt. 42, 43 e 44 Cost.) prevede significativi vincoli e pesanti (anche se eventuali) limitazioni. E’ certamente vero, infatti, che libertà e patrimonio sono entrambi beni “elastici”, quindi passibili di compressione e, poi, di riespansione, quando la compressione viene a cessare, ma la compressione della libertà (e la durata di tale compressione) non ha, per il titolare del bene, la stessa incidenza della compressione del patrimonio. Conseguentemente, la fine della compressione della libertà comporta sempre la restituzione al soggetto della facoltà di locomozione (e di ogni possibilità alla stessa collegata), mentre la fine della compressione esercitata su beni patrimoniali può anche non determinare, come si è visto, la immediata restituzione della res alla persona cui era stata tolta (cfr. art. 324 c.p.p., comma 8).
12.3. Peraltro, proprio in sede di tutela cautelare penale, come è noto, contrariamente a quel che si sostiene nella sentenza Wang Zuojiong, la posizione del soggetto in danno del quale viene eseguito il sequestro appare dotata di “minorata difesa”, se è vero come è vero che, ai sensi dell’art. 325 cod. proc. pen., il relativo ricorso per cassazione può essere proposto solo per violazione di legge.
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Perfettamente coerente con tali premesse normative appare poi la – ormai risalente, ma incontroversa – decisione delle Sezioni Unite, le quali ebbero modo di chiarire che la sospensione dei termini della procedura durante il periodo feriale ha luogo nei procedimenti incidentali relativi alle misure di cautela reale, mentre per quel che riguarda le misure personali detta sospensione è rinunziabile (Sez. U, n. 5 del 20/04/1994, Iorizzo, Rv. 197702; diverso regime, viceversa, anche per quel che riguarda le misure reali, si ha per i processi di criminalità organizzata: cfr: Sez. U, n. 12 del 08/05/1996, Giammaria, Rv. 205039; Sez. U, n. 37501 del 15/07/2010, Donadio, Rv. 247993).
Se, dunque, dovesse affermarsi il principio della perdita di efficacia del decreto che dispone la misura cautelare reale anche a seguito dell’inutile decorso dei cinque giorni dalla presentazione della richiesta senza che gli atti, nella loro integralità, siano pervenuti al tribunale del riesame, sarebbe davvero difficile – ha osservato attenta dottrina – continuare a ritenere che, dal 1 agosto al 15 settembre di ogni anno, le relative procedure restino sospese.
14.1. A ben vedere, d’altronde, proprio parte (non inconsistente) della dottrina, condividendo l’orientamento maggioritario (e prendendo atto del difettoso coordinamento legislativo tra le disposizioni di cui agli artt. 309 e 324 cod. proc. pen.), ha sottolineato come, nel comma 3 di tale ultimo articolo, è rimasta ferma la previsione che la trasmissione degli atti debba avvenire entro il giorno successivo a quello di ricezione dell’avviso e ha conseguentemente ritenuto di dover escludere che, dal combinato disposto dell’art. 324, comma 7, e art. 309, comma 10, possa desumersi la perdita di efficacia del provvedimento di sequestro, nel caso in cui gli atti necessari alla decisione siano pervenuti in ritardo.
E ciò sulla base del dato testuale, posto che l’art. 324 cod. proc. pen. richiama la sola norma dell’art. 309, comma 10, e non anche quella di cui all’art. 309 c.p.p., comma 5. E’ pur vero che l’art. 309, comma 10 contiene il riferimento anche al mancato rispetto dei termini di cui al comma 5 della medesima disposizione, tuttavia – si è fatto notare – l’art. 324 cod. proc. pen. prevede un’autonoma disciplina in tema di termine per la trasmissione degli atti (stabilendo che gli stessi siano inviati entro il giorno successivo all’avviso), con la conseguenza che il citato richiamo al disposto di cui all’art. 309 c.p.p., comma 10, deve ritenersi unicamente riferito al termine per la decisione.
14.2. Da tale impostazione ricostruttiva discende inoltre, per gli autori che aderiscono al predetto orientamento, il logico corollario per cui il termine per la trasmissione degli atti contenuto nell’art. 324, ai fini del riesame delle misure cautelari reali, a differenza di quello stabilito dall’art. 309 c.p.p., comma 5, per le misure cautelari personali, è sprovvisto della sanzione processuale dell’inefficacia e non può ritenersi, pertanto, contrassegnato da natura perentoria.
14.3. L’opinione sopra espressa non muta se pur si pone mente alla giurisprudenza Corte Europea dei Diritti umani in tema di impugnazione delle misure cautelari; invero, anche se si fa specifico riferimento al caso menzionato dal ricorrente (Corte EDU, Seconda Sezione, 4 marzo 2008, n. 63154/00, Marturana c. Italia), si deve rilevare che il Giudice Europeo si è occupato dalla incidenza del termine in tema di impugnazioni di misure cautelari personali e non di misure reali.
Lo stesso deve dirsi per le altre decisioni in tema di impugnazioni cautelari (cfr. Corte EDU, 25/10/2005, n. 57246/00, Vejrnola c. Repubblica Ceca; 09/06/2005, n. 42644/02, Picaro c. Italia;
19/05/2005, n. 76024/01, Rapacciuolo c. Italia; 15/02/2005, n. 55939/00, Sulaoja c. Estonia; 20/01/2005, n. 63378/00, Mayzit c. Russia; 20/06/2002, n. 29296/95, Igdeli c. Turchia; 28/03/2000, n. 28358/95, Baranowski c. Polonia; 26/09/1997, n. 19800/92, R.M.D. c. Svizzera; 25/10/1990, n. 11487/85, Koendjbiharie c. Paesi Bassi).
D’altra parte, l’affermazione di carattere generale (e quindi eventualmente estensibile anche alle cautele reali) che può trarsi dalle predette pronunzie è che la decisione deve intervenire “in termini brevi” (speedly), il che lascia il legislatore nazionale libero di prevedere termini flessibili, purchè ragionevoli.
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Resta il problema della contemporanea vigenza di due “versioni” dell’art. 309cod. proc. pen., atteso che, secondo la giurisprudenza maggioritaria, il rinvio effettuato dall’art. 324cod. proc. pen. avrebbe a oggetto il testo dell’art. 309 (e, segnatamente, i commi 9 e 10) come si presentava prima della riforma del 1995, mentre le impugnazioni cautelari delle misure personali sono indubbiamente disciplinate dal “nuovo” testo dello stesso articolo, quello rimodellato, appunto dalla L. n. 332 del 1995.
15.1. Secondo quel che si legge nella sentenza Wang Zuojiong, una simile ipotesi si porrebbe “in contrasto con l’esigenza di un’interpretazione sistematica e sincronica del codice di rito, un’interpretazione che tenga conto, cioè, delle disposizioni di una stessa fonte normativa, vigenti in uno stesso momento storico”.
15.2. In realtà, è necessario considerare che il codice di procedura penale contiene una fitta rete di rinvii tra articoli e, conseguentemente, un complesso rapporto tra norme. Accade poi, non infrequentemente, che la norma nei cui confronti il rinvio è effettuato sia modificata dal legislatore, con la conseguenza che – nel caso non si sia provveduto a modificare apertis verbis anche la norma che il rinvio ha operato – occorre poi stabilire se il rinvio, effettuato al testo dell’articolo previgente, debba intendersi pertinente al precedente o al vigente (e quindi riformato) contenuto normativo.
Al proposito, è noto che la dottrina ha distinto il rinvio recettizio (o statico) da quello formale (o dinamico): il primo recepisce per intero, senza che ne sia riprodotto il testo, il contenuto di un altro articolo, vale a dire la disposizione normativa (si tratta, in sintesi, di una tecnica di stesura della norma, ispirata al principio di “economia redazionale”); il secondo, viceversa, fa riferimento alla norma in sè, cioè al principio contenuto nella formula verbale dell’articolo del codice e ne segue, dunque, inevitabilmente, la eventuale evoluzione, di talchè, mutato il contenuto della norma di riferimento, muta inevitabilmente il significato della norma di rinvio.
15.3. La Corte costituzionale, per parte sua, con la sentenza n. 315 del 2004, ha affermato che, in presenza di un rinvio recettizio (o statico, che dir si voglia), il contenuto della disposizione richiamata diviene parte del contenuto della norma richiamante, restando le successive vicende della norma richiamata prive di effetto ai fini della esistenza ed efficacia della norma richiamante (in senso conforme Sez. 3 civ., n. 1761 del 08/02/2012, ric. Seltrade s.p.a. c. Azienda Energetica Trading s.r.l., Rv. 621712).
15.4. La distinzione tra rinvio statico e dinamico è ben presente anche nella giurisprudenza penale di questa Corte, che ha avuto modo di affrontare il problema in tema di sospensione della esecuzione della pena detentiva (art. 656 cod. proc. pen.) in relazione all’art. 4-bis Ord. Pen. (legge 26 luglio 1975, n. 354; cfr: Sez. U, n. 24561 del 30/05/2006, Aloi), nonchè di pronunziarsi in tema di circostanza aggravante ex art. 576 cod. pen. per il rinvio agli abrogati artt. 519, 520 e 521 cod. pen. (Sez. 1, n. 6775 del 28/01/2005, Erra), nonchè ancora in tema di processo minorile, e precisamente di applicabilità della custodia cautelare in carcere in ipotesi di furto in abitazione (Sez. 4, n. 15819 del 18/012007, Jankovic). In tale ultimo caso, la problematica consisteva nel rinvio che il D.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, art. 23, fa all’art. 380 cod. proc. pen., attesa la intervenuta modifica normativa introdotta dalla L. 26 marzo 2001, n. 128, che, come è noto, ha costituito in autonoma figura di reato il furto in appartamento e il furto con strappo (art. 624-bis cod. pen.), eliminando conseguentemente le corrispettive circostanze aggravanti a suo tempo presenti nell’art. 625 c.p., e ha introdotto la lettera e-bis) nell’art. 380 c.p.p..
Ebbene, nei casi sopra elencati questa Corte ha ritenuto che il rinvio fosse di carattere formale, ovvero dinamico, posto che vi era evidente continuità normativa tra le fattispecie incriminatrici che si sono succedute nel tempo.
Nel caso in esame, viceversa, il rinvio che l’art. 324 c.p.p., comma 7 effettua ai commi 9 e 10 del precedente art. 309 è riconoscibilmente recettizio, vale a dire statico; esso cioè è fatto alla mera veste letterale dei predetti commi. Il legislatore, in altre parole, invece di riprodurre, nell’art. 324, comma 7, le formule verbali dei commi 9 e 10 dell’art. 309 (così come si presentavano prima della riforma del 1995), le richiama perchè si abbiano per trascritte. Tale modalità di “incorporazione” per relationem comporta, inevitabilmente, la cristallizzazione della disposizione normativa recepita, che dunque, una volta inglobata nella norma che la richiama, ne entra a far parte integrante e non segue le eventuali “sorti evolutive” della norma richiamata.
15.5. In sintesi: in conseguenza della (sopra ricordata) esistenza di una fitta rete di richiami nei testi normativi, l’ordinamento conosce certamente letture sincroniche (rinvio dinamico-formale), ma, altrettanto certamente, conosce letture diacroniche (rinvio statico- recettizio, che impone di ignorare il novum legislativo che abbia eventualmente inciso la norma richiamata).
Peraltro, in mancanza di formule chiarificatrici, il rinvio operato a diversa disposizione di legge deve intendersi come rinvio statico.
Invero, il rinvio operato da una norma può essere considerato dinamico (formale) solo qualora esso si riferisca, non già a una disposizione determinata, ma a un istituto o a una normativa complessivamente considerati, oggetto di un separato atto normativo e dotati di una propria autonoma rilevanza. E’ il caso – sopra illustrato – delle norme (di rinvio) del processo penale a carico di imputati minorenni, norme che fanno riferimento alla disciplina del codice penale sostanziale in tema di furto.
Viceversa, il rinvio va considerato recettizio (id est statico) tutte quelle volte in cui a essere richiamata è la specifica disposizione contenuta nell’atto normativo richiamato.
Certamente recettizio, ad esempio, fu il rinvio di cui alla sentenza della Corte costituzionale n. 64 del 1973. In tale occasione, la Corte ebbe modo di chiarire che le trasgressioni all’art. 113, comma 5 del Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza (ribadito e specificato dalla L. 23 gennaio 1941, n. 166, art. 2), trovavano le loro sanzioni nell’art. 663 cod. pen., nella formulazione vigente all’epoca del rinvio, vale a dire l’unica cui poteva avere riferimento la citata L. del 1941.
15.6. Tanto premesso, che il rinvio che l’art. 324 c.p.p. effettua all’art. 309 del medesimo testo sia di carattere statico (recettizio) e non dinamico (formale) è opinione che ha più di un fondamento.
15.7. Innanzitutto, a differenza del codice sostanziale, che è essenzialmente un corpus normativo valoriale, nel quale – cioè – la tutela dei beni protetti assume rilievo centrale e funge da criterio per la determinazione – tra un minimo e un massimo – delle sanzioni da applicare, il codice di rito prescrive (e descrive) procedure, disegna iter, indica modalità attuative. Il richiamo dunque sarà prevalentemente indirizzato a norme determinate ed esattamente individuate dalla stessa norma che lo effettua; si tratta di circostanza che, sempre la Corte costituzionale (cfr. sentenza n. 311 del 1993), indica come sintomatica della natura recettizia del rinvio.
Invero, la legge penale (sostanziale), in quanto attuazione del neminem laedere, comporta che, quando muti l’equilibrio e la gerarchia tra i beni-valori, la cui distruzione o messa in pericolo costituisce l’oggetto del divieto, l’intero sistema debba (o, almeno, possa) essere rimodellato e ricalibrato. Si vuoi significare che l’interdipendenza tra le norme è, nel codice sostanziale, di regola, stretta, con la conseguenza che, in caso di rinvio da una norma all’altra, la riforma della norma di riferimento comporta, quasi sempre, il ripensamento della norma che ad essa rinvia. Il rinvio, pertanto, avrà, il più delle volte, natura dinamica, allo scopo di non compromettere la coerenza del sistema. E in effetti tale coerenza dipende (anche) dalla capacità reattiva dell’intero corpus normativo.
La legge processuale, invece, avendo principalmente natura e finalità strumentali, prevede spesso “un ventaglio” di opzioni operative (si pensi, ad esempio ai cosi detti riti alternativi), ciascuna delle quali risponde a una finalità (procedimentale) diversa, di talchè il principio del simul stabunt simul cadent, non è così stringente, con la conseguenza che il rinvio da una norma all’altra non sempre risponde a reali esigenze di coordinamento, coerenza e uniformità del sistema, ma si atteggia come mero espediente compilativo, ispirato a una logica di economia nella stesura delle norme. La natura meramente recettizia di tali rinvii è denunziata e resa evidente dal fatto che il richiamo riguarda meri frammenti normativi, quando non addirittura semplici “spezzoni semantici”.
Ebbene, il richiamo che l’art. 324 c.p.p. fa al precedente art. 309 riguarda parti ben determinate del testo di tale ultimo articolo: il comma 7 dell’art. 324 si limita a recepire il precetto del comma 9 dell’art. 309, nonchè la sanzione (si vedrà subito entro quali limiti) del comma 10.
15.8. In secondo luogo, anche l’analisi testuale conduce nella medesima direzione. Invero, il comma 7 dell’art. 324 cod. proc. pen., richiamando il comma 9 dell’art. 309, rinvia, come si diceva, a un precetto (il Tribunale deve annullare o confermare l’ordinanza applicativa della misura cautelare entro 10 giorni dalla ricezione degli atti); richiamando il comma 10, invece, rinvia a una sanzione (perdita di efficacia della misura, nel caso non vengano rispettati i termini). Resta da stabilire quali termini: se solo quello (di giorni 10) per la decisione, ovvero anche quello previsto per la ricezione degli atti. In questo secondo caso, si tratterebbe di stabilire se debba essere rispettato il termine “allungato” da 1 a 5 giorni, cui fa riferimento il comma 5 (come riformato) dell’art. 309, ovvero il termine di un giorno, che continua a essere presente nel comma 3 dell’art. 324. Va da sè che, se si aderisse alla seconda opzione, la trasmissione degli atti, nel procedimento di riesame per le misure reali, sarebbe imposta in termini di tempo ben più stringenti (un giorno, invece di cinque), rispetto alla trasmissione degli atti per il riesame delle misure personali. E ciò costituirebbe una nota di grave irrazionalità del sistema. L’alternativa, d’altra parte (se, a tutti i costi, si volesse sposare tale tesi “creativa”) sarebbe quella di ritenere abrogato (tacitamente) il comma 3 dell’art. 324 cod. proc. pen., in quanto il relativo termine sarebbe sostituito da quello del comma 5 dell’art. 309 (5 giorni). Ma la soluzione, oltre che arbitraria sul piano logico e letterale, è anche impraticabile su quello sistematico, in quanto il comma 7 dell’art. 324 non richiama direttamente il comma 5 dell’art. 309.
15.9. Il fatto è viceversa che, come si è appena scritto, il comma 3 dell’art. 324 (che prevede la trasmissione degli atti entro il giorno successivo a quello della richiesta) non è stato affatto cancellato. Il fatto è anche che il comma 10 del “nuovo” art. 309 costituisce sanzione del precetto di cui al comma 5 del medesimo articolo; ma – e ciò appare dirimente – da un rinvio a una sanzione (ciò che sembra fare il comma 7 dell’art. 324 nei confronti del comma 10 dell’art. 309) non si può dedurre un precetto (scil. quello di cui al comma 5 dell’art. 309, che impone la trasmissione degli atti, al massimo entro il quinto giorno).
Nè è senza rilievo il fatto che, anche ab origine, le due norme (art. 309 e art. 324) erano dotate di due distinti – anche se identici nel contenuto – precetti (comma 5 dell’art. 329 e comma 3 dell’art. 324), i quali imponevano, senza sanzionare l’inadempimento, che gli atti pervenissero al collegio cautelare entro il giorno successivo a quello della richiesta.
15.10. Non resta, allora, che concludere, per tutte le ragioni che si sono sopra illustrate, che la riforma dell’art. 309 cod. proc. pen., operata dalla L. n. 332 del 1995, non ha inciso sull’art. 324 c.p.p. e che, dunque, il rinvio che tale ultimo articolo fa all’art. 309 deve inevitabilmente essere inteso come rinvio al testo previgente (in tali termini esplicitamente, Sez. 3, n. 6597 del 16702/2006, Pietropaoli, Rv. 233163, già citata); dunque come un rinvio statico- recettizio. Ne consegue che unico termine perentorio nella procedura di riesame delle misure cautelari reali rimane quello originario di 10 giorni entro i quali la decisione deve essere assunta dal Tribunale (detto termine, nel caso il deposito della richiesta sia avvenuta ai sensi dell’art. 582 c.p.p., comma 2, decorre, ovviamente, dal momento in cui detta richiesta perviene al tribunale del riesame:
cfr. Sez. 6, n. 10687 del 22/01/2003, D’Ambrosio, Rv. 223763; Sez. 1, n. 3428 del 05/05/1999, Bitondo, Rv. 213834).
L’assunto, lungi dall’essere illogico, ha un suo solido fondamento razionale, in quanto è evidente che l’integrale recepimento del disposto dell’art. 309 c.p.p., comma 5, come modificato nel 1995, porrebbe gravi problemi di compatibilità sostanziale. Le procedure relative alla esecuzione di un sequestro conservativo o preventivo, l’esame della relativa documentazione, la decisione sulla legittimità degli stessi, possono essere ben più gravosi e “complicati” della valutazione delle problematiche inerenti a un procedimento de libertate (si pensi solo che, ai sensi dell’art. 318 cod. proc. pen., il riesame del provvedimento di sequestro conservativo può essere proposto da “chiunque vi abbia interesse” e che, ai sensi dell’art. 322 cod. proc. pen., il riesame del provvedimento di sequestro preventivo, può essere proposto, oltre che dall’imputato/indagato – e dal suo difensore – anche dalla persona cui le cose sono state sequestrate, nonchè da chi avrebbe diritto alla restituzione).
15.11. E’ evidente allora che la introduzione di un termine perentorio in tema di riesame dei provvedimenti cautelari reali dovrebbe tener conto di tali specificità; ragione di più per ritenere che il legislatore, se avesse voluto innovare la materia, lo avrebbe fatto con un provvedimento “mirato” e con la previsione di un termine adeguatamente calibrato. Il “silenzio legislativo” mantenuto sul punto, nel corso di oltre un decennio, d’altra parte, non può essere senza significato.
15.12. Nè si dica che la soluzione prospettata va respinta in quanto, mantenendo il termine, meramente ordinatorio, di cui all’art. 324 c.p.p., comma 3, si avrebbe un precetto sfornito di sanzione. A parte il fatto che tale era – anche per il riesame delle misure personali – l’impianto originario del codice, sta di fatto che il vigente sistema conosce norme minus quam perfectae, le quali non prevedono una sanzione – sostanziale o processuale – per il mancato rispetto di un precetto, ma “reagiscono” sul violatore (si factum sit, non rescinda, poenam infert ei qui fecit).
Nel caso in esame, è certamente vero che l’esatto adempimento dell’obbligo di trasmettere tempestivamente gli atti al tribunale è affidato alla parte, che, tuttavia, solo formalmente è una contro- parte, in quanto si tratta del pubblico ministero, di un soggetto, vale a dire, che non è “portatore di alcun interesse che ostacoli o ritardi l’immediata e integrale trasmissione al tribunale di tutti quegli atti, nella loro interezza, ciò costituendo … uno specifico dovere di quell’Ufficio, che ne dispone, rispetto al quale ogni eventuale ritardo o ingiustificato frazionamento troverebbe una sanzione, quantomeno disciplinare” (Sez. U, n. 14 del 18/06/1993, Dell’Omo).
Atteggiamenti neghittosi, di latori, colposamente o, peggio, dolosamente omissivi, del rappresentante dell’Organo dell’accusa sono intollerabili e, se posti in essere, vanno doverosamente denunziati e puntualmente repressi.
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Al quesito posto in apertura della presente parte motiva, vale a dire “se, nel procedimento di riesame del provvedimento di sequestro, sia applicabile il termine perentorio di cinque giorni, previsto dall’art. 309c.p.p., comma 5, (con la conseguente perdita di efficacia del provvedimento in caso di violazione) per la trasmissione degli atti al tribunale” si deve dunque rispondere negativamente, atteso che, per il riesame delle misure cautelari reali, il termine per la trasmissione degli atti al tribunale, è rimasto invariato, nella sua durata di un giorno e nella sua natura ordinatoria.
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Va ancora chiarito, tuttavia, quale sia – sempre per quel che riguarda il riesame delle misure cautelari reali – il dies a quo, dal quale decorre il termine (perentorio) di 10 giorni per la decisione nel caso di trasmissione frazionata degli atti al collegio cautelare.
Ebbene, escluso che la integrazione degli atti – se pretesa dal tribunale del riesame – possa essere qualificata come esplicazione di potestà istruttoria (potestà che il predetto collegio certamente non detiene: cfr. la già citata sentenza Dell’Omo), trattandosi, viceversa, di semplice completamento della base cognitiva sulla quale fu emesso il provvedimento impugnato e sulla quale, dunque, si deve esercitare (anche) la cognizione del decidente, investito della richiesta di riesame, non può che giungersi alla conclusione che il detto termine decorra dal momento in cui la predetta trasmissione possa ritenersi completa. Il provvedimento di acquisizione degli atti è meramente strumentale alla decisione, la quale deve necessariamente essere resa sulla base di un compendio documentale completo (cfr. Sez. U, n. 25 del 05/07/1995, Parlati; in senso conforme la giurisprudenza successiva fino alle già ricordate sentenze Andreacchio e Andriola, rispettivamente: Sez. 6, n. 7475 del 2009 e Sez. 3, n. 37009 del 2011; e, precedentemente: Sez. 3, n. 37413 del 10/07/2007, Sbardella, Rv. 237307).
Va da sè infatti che la possibilità per il tribunale di disporre eventuali integrazioni degli atti, nei limiti derivanti dall’effetto devolutivo dell’impugnazione, rappresenta il logico corollario della non perentorietà del termine di trasmissione degli atti. Invero, poichè il tribunale può procedere al giudizio solo con piena cognizione degli atti posti a sostegno della misura, il collegio, con provvedimento volto all’adempimento di un dovere funzionale (il cui esercizio è necessario e strumentale alla definizione del procedimento incidentale), può e deve disporre l’acquisizione degli atti mancanti, la cui trasmissione tardiva non può comportare la caducazione della misura.
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Alla luce di tutto quanto premesso, la prima censura va dichiarata infondata.
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La seconda censura è manifestamente infondata e dunque inammissibile. Invero, il deposito della querela può essere liberamente effettuato da chiunque, anche se non sia munito di procura speciale, a condizione che la sottoscrizione del querelante sia regolarmente autenticata (cfr: Sez. 6, n. 19805 del 10/02/2009, Rv. 243851; Sez. 2, n. 2623 del 09/12/2003, dep. 2004, Rv. 227310;
Sez. 5. n. 3019 del 14/01/1999, Rv. 212951).
Al proposito, è stato specificato che la querela sottoscritta dal proponente con firma autenticata dal difensore non richiede, ex art. 337 cod. proc. pen., ulteriori formalità per la presentazione ad opera di un soggetto diverso dal proponente (cfr. Sez. 5, n. 4649 del 19/12/2005, dep. 2006, Rv. 233602); conseguentemente, in tale ipotesi, il conferimento al difensore dell’incarico di presentare la querela non necessita di forma scritta.
19.1. Nel caso in scrutinio, per altro, è lo stesso ricorrente che riferisce che il difensore della querelante aveva incaricato per il deposito, indicandolo per iscritto, un appartenente al suo studio.
19.2. Ad abundantiam è appena il caso di osservare che, una volta accertata la sicura provenienza dell’atto, la eventuale mancata identificazione del depositante non rileva (cfr. Sez. 5: n. 9106 del 19/01/2012, Rv. 252956; n. 10137 del 01/12/2010, dep. 2011, Rv.
249943; Sez. 2, n. 43712 del 11/11/2010, Rv. 248683; cantra, ma isolata, Sez. 4, n. 15210 del 07/02/2007, Rv. 236167).
Comunque, la querela della B., come premesso, e come lo stesso ricorrente ammette, fu depositata da persona indicata per iscritto dal difensore della querelante.
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Le residue censure sono inammissibili, atteso che, in relazione a una misura cautelare reale, si deduce – sotto vari aspetti – il vizio di motivazione (illogicità, incompletezza, contraddittorietà), con ciò travalicando il limite posto dall’art. 325cod. proc. pen., che, come già ricordato (cfr. punto 12.3.), prevede il ricorso per cassazione solo per violazione di legge.
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Conclusivamente, il ricorso merita rigetto e il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 28 marzo 2013.
Depositato in Cancelleria il 17 giugno 2013
Originally posted 2021-08-16 09:14:48.