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reati tributari – misure cautelari

reati tributari – misure cautelari

Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 47832 depositata il 25 novembre 2019

reati tributari – misure cautelari

Corte di Cassazione, sezione penale, sentenza n. 47832 depositata il 25 novembre 2019 reati tributari – misure cautelari

FATTO

– ritenuta la gravità indiziaria a carico della G.M., derivante dal fatto che ella risultava, unitamente al marito, peraltro attualmente impossibilitato nello svolgimento di attività professionali in quanto anche lui, da tempo, attinto da misure giurisdizionali impeditive, l’effettiva amministratrice dello Studio D.B. presso il quale erano state sistematicamente realizzate, tramite il loro operato, le attività di frode fiscale, e considerata la sussistenza delle esigenze cautelari, connesse al pericolo di recidiva derivante dalla professionalità con la quale erano state poste in essere le condotte delittuose di cui alle indagini, tali da far ritenere siffatte esigenze caratterizzate dalla attualità e concretezza, a nulla rilevando il fatto che, a seguito di una circolare adottata dalla Agenzia delle entrate non è più possibile eseguire operazioni di compensazione susseguenti all’avvenuto accollo di un debito tributario altrui, posto che l’esigenza cautelare rilevante ha ad oggetto non la commissione di reati identici a quelli di cui alla provvisoria contestazione ma anche reati aventi profili di contiguità con essi – ha rigettato il ricorso, ritenendo, altresì, misura minima idonea a prevenire il pericolo di reiterazione quella degli arresti domiciliari.

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Avverso la predetta ordinanza ha interposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore fiduciario, la G.M., articolando due motivi di impugnazione

 DIRITTO E MOTIVAZIONE reati tributari – misure cautelari

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso, essendo risultati o direttamente inammissibili o manifestamente infondati i motivi posti alla base del medesimo, deve essere dichiarato a sua volta inammissibile.

Con riferimento al primo motivo di impugnazione se ne rileva la evidente inammissibilità quanto al profilo relativo dedotto al vizio di motivazione in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico della indagata.

Come è, infatti, noto, in sede di ricorso per cassazione i provvedimenti emessi ai sensi degli artt. 322-bis e 324 cod. proc. pen. sono suscettibili di essere impugnati solo attraverso lo strumento del ricorso per violazione di legge.

Né, quanto al caso di specie, può dirsi che i giudici della cautela reale abbiano solo apparentemente motivato il loro provvedimento, in quanto essi non avrebbero considerato, secondo quanto riportato da parte della difesa della ricorrente, che la falsità del crediti tributari in sostanza portati in compensazione, attraverso il meccanismo dell’accollo dei debiti tributari di costoro da parte della O.D. Srl, dai clienti dello studio di consulenza fiscale gestito dalla indagata non è stata oggetto di alcun accertamento definitivo in sede propriamente tributaria.

Si osserva infatti, ed il rilievo già sarebbe esaustivo di ogni altra considerazione, che nella presente sede cautelare la natura meramente indiziaria degli elementi a carico del soggetto indagato, sufficienti ai fini della adozione del provvedimento emesso a suo carico, si pone in evidente contrasto logico con la pretesa sostenuta dalla difesa di quello secondo la quale, ai fini della adozione della misura, occorrerebbe un accertamento definitivo dell’avvenuta violazione tributaria.

REATI TRIBUTARI BOLOGNA
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Ma vi è di più, ove si rifletta sulla sostanziale autonomia fra processo tributario penale ed accertamento dell’illecito nella sede specificamente tributaria, autonomia tale da aver condotto questa stessa Corte alla conclusione che in materia di reati tributari l’accertamento definitivo in sede contenziosa non ha efficacia vincolante nel processo penale (Corte di cassazione, Sezione III penale, 26 ottobre 1991, n. 10813) e che fra giudizio penale e giudizio tributario non sussiste alcun vincolo di pregiudizialità che limiti il potere cognitivo del giudice penale (cfr.: Corte di cassazione, Sezione III penale, 7 novembre 2018, n. 51157; idem Sezione III penale, 7 ottobre 2011, n. 36396).

Risulta, pertanto, destituita di fondamento l’affermazione contenuta nel ricorso proposto dalla indagata, secondo la quale non sarebbe consentito contestare il reato di indebita compensazione di crediti tributaria, ai sensi dell’art. 10-quater del dlgs n. 74 del 2000 sino all’avvenuto definitivo accertamento nella sede tributaria della falsità del credito portato in compensazione.

Quanto al profilo relativo alla sussistenza in capo alla indagata dell’elemento soggettivo del reato a lei contestato, si rileva che, sebbene in sede cautelare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico dell’indagato debba avere ad oggetto sia gli elementi oggettivi del reato in provvisoria contestazione che l’elemento soggettivo di esso (Corte di cassazione, Sezione V penale, 17 febbraio 2014, n. 7465), nel caso in esame il Tribunale di Brescia ha rilevato, in relazione alla posizione della G.M., il dolo del reato contestato, cioè la consapevolezza da parte della indagata, quanto meno a livello indiziario, della inesistenza dei crediti portati in compensazione, dal dato obbiettivo che il credito Iva, che – attraverso gli uffici dello studio di consulenza fiscale presso il quale la G.M. svolgeva le sue mansioni di carattere non certo solo esecutivo – era stato portato da varie imprese in compensazione i era maturato (per un complessivo importo di circa 8.700.000,00 euro), per usare le parole della ordinanza, in seno ad una impresa artigiana la quale aveva avuto un volume di affari relativo all’anno 2014 pari a soli 7.000,00 euro; elemento, questo, che avrebbe dovuto certamente costituire un chiaro indice di fittizietà di detti crediti e tale indurre la indagata, quale titolare dello Studio che aveva promosso le compensazioni costituenti, in ipotesi, reato, a ben più accurati controlli in ordine alla veridicità dei crediti portati a scomputo delle imposte gravanti sui soggetti che, sostanzialmente, attraverso il meccanismo dell’accollo tributario, le compensazioni avevano operato.

La assenza di qualsivoglia seria verifica da parte della indagata, appare plausibilmente sicuro indice della sua piena consapevolezza della natura solo cartolare dei crediti in questione. D’altra parte, della poca limpidezza delle predette operazioni beni si erano accorti gli addetti allo Studio D.B. Srl i quali lo avevano segnalato anche alla G.M., senza che ciò, tuttavia, avesse avuto tin qualche sostanziale effetto, secondo quanto incontestatamente riportato nella ordinanza impugnata.

Passando al secondo motivo di impugnazione, con il quale è stata dedotta la illegittimità della ordinanza impugnata in quanto in essa non è stato considerato che – data la impossibilità giuridica di eseguire ulteriormente delle operazioni del tipo di quella contestata alla indagata, avendo, infatti, la Agenzia delle Entrate con circolare (recte: risoluzione) n. 140/E del 15 novembre 2017 espressamente rilevato che: “deve (…) negarsi, in via generale, che il debito oggetto di accollo possa essere estinto utilizzando in compensazione crediti vantati dall’accollante nei confronti dell’Erario”, cioè proprio la operazione che è stata contestata alla G.M. – non sussisterebbe più la attualità e la concretezza della reiterabilità delle condotte delittuose, rileva la Corte la manifesta infondatezza della censura formulata dalla difesa della indagata.

Va, infatti, detto che il Tribunale del riesame, e prima di esso il Gip del Tribunale di Brescia, hanno desunto la esistenza delle esigenze cautelari poste a base della adozione della misura restrittiva domiciliare a carico della indagata in funzione della esistenza di un “sistema criminale perfettamente organizzato e di un meccanismo ampiamente collaudato, destinato a ripetersi innumerevoli volte”, cui era asservita la intera struttura operativa dello Studio D.B. Srl.

Ciò posto, rileva il Collegio che, a fronte di tale organizzazione, funzionalmente e stabilmente, secondo gli elementi sino a questo momento emersi, dedita a reati tributari caratterizzati dalla frode in danno dell’Erario, posti in essere attraverso la callida utilizzazione di strumenti giuridici apparentemente leciti, sebbene viziati nei loro presupposti materiali, organizzazione della quale la indagata, stante la condizione di impossibilità cui è sottoposto il marito, a sua volta destinatario di misure restrittive della libertà personale, è attualmente magna pars, del tutto correttamente i giudici della cautela hanno ritenuto sussistente il pericolo della recidivanza specifica.

In particolare, correttamente il Tribunale di Brescia ha ritenuto, al riguardo, non determinante il contenuto della ricordata risoluzione della Agenzia delle Entrate, essendo, infatti, sul punto condivisibile l’argomentazione svolta in sede di merito in ordine alla concreta ed attuale possibilità che la indagata possa utilizzare la predetta organizzazione e la indubbia professionalità che sottende ad essa, per la realizzazione di reati certamente aventi un modus operandi evidentemente diverso da quelli per cui si procede, ma, per altro verso/ appartenenti al medesimo genus dei reati tributari (o comunque per i quali il soggetto passivo è da individuarsi in un soggetto pubblico) realizzati mediante frode. Va, infatti, ricordato che la giurisprudenza di questa Corte, come per altro lo stesso Tribunale di Brescia ha rilevato, ha da tempo chiarito che la esigenza cautelare, che la misura intende tutelare allorché il legislatore richiama il concetto di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, non deve intendersi riferita alla sola reiterazione del medesimo reato (Corte di cassazione, Sezione V penale, 2 gennaio 2019, n. 70) oggetto di indagini, ma deve intendersi estesa a tutti quegli illeciti – i quali consentano in linea astratta la adozione della misura di volta in volta in questione – che (vuoi per tipologia del bene-interesse tutelato, vuoi per le modalità operative) presentino quella che è stata icasticamente definita “uguaglianza di natura” rispetto ai reati ancora sub iudice (Corte di cassazione, Sezione V penale, 9 dicembre 2016, n. 52301).

Il ricorso deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile e la ricorrente va condannata, visto l’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

PQM

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

 

Originally posted 2020-04-11 18:09:12.