AVVOCATO PENALISTA BOLOGNA CESENA FORLI RAVENNA REATO DI APPROPRIAZIONE INDEBITA DIFESA APPELLO TRIBUNALE CASSAZIONE
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Domanda quale pena è prevista per il reato di appropriazione indebita?
Il reato di appropriazione indebita è punito con la reclusione fino a 3 anni, oltre alla multa fino a 1.032,00 euro. Se il reato è commesso su cose possedute a titolo di deposito necessario (ad esempio perché il proprietario sia stato costretto al deposito per motivi accidentali quali incendio, rovina di edificio, ecc…) la pena è aumentata fino ad un terzo. Saranno inflitti ulteriori aumenti di pena, in caso di ulteriori circostanze aggravanti.
Domanda come è procedibile il reato di appropriazione indebita?
In assenza di aggravanti, è procedibile a querela con presentazione della medesima entro tre mesi dal giorno della notizia del fatto che costituisce reato.
E’ previsto all’art 646 cp, si procede d’ufficio se il reato di appropriazione indebita è aggravato. Pertanto, chi venga a conoscenza del fatto non ha termini per poter proporre la propria denuncia.
DOMANDA In quanto si prescrive il reato di appropriazione indebita?
Il reato di appropriazione indebita si prescrive normalmente in 6 anni.
DOMANDA Solo il proprietario puo’ fare la querela per appropriazione indebita ?
La Corte territoriale ha correttamente disatteso il gravame sul punto richiamando il costante insegnamento di legittimità che riconosce il diritto di querela per il reato di appropriazione indebita anche al soggetto, diverso dal proprietario, che, detenendo legittimamente ed autonomamente la cosa, ne abbia fatto consegna a colui che se ne sia appropriato illegittimamente (Sez. 2, n. 20776 del 08/04/2016, Sabatino, Rv. 267037; n. 26805 del 16/04/2009, Di Ilio, Rv. 244713). diritto di querela per il reato di appropriazione indebita spetta anche al soggetto, diverso dal proprietario, che, detenendo legittimamente ed autonomamente la cosa, ne abbia fatto consegna a colui che se ne sia appropriato illegittimamente.
DOMANDA : QUANDO SI CONSUMA IL REATO DI APPROPRIAZIONE INDEBITA?
Al proposito rileva quell’orientamento secondo cui (Sez. 2, Sentenza n. 29451 del 17/05/2013, Rv. 257232) il delitto di appropriazione indebita è reato istantaneo che si consuma con la prima condotta appropriativa e, cioè nel momento in cui l’agente compia un atto di dominio sulla cosa con la volontà espressa o implicita di tenere questa come propria; così la Corte ha ritenuto perfezionato il delitto di appropriazione indebita della documentazione relativa al condominio da parte di colui che ne era stato amministratore, non nel momento della revoca dello stesso e della nomina del successore, bensì nel momento in cui l’agente, volontariamente negando la restituzione della contabilità detenuta, si era comportato ‘uti dominus’ rispetto alla ‘res’.
DOMANDA POSSONO CONCORRERE PIU’ PERSONE AL REATO DI APPROPRIAZIONE INDEBITA?
la concezione unitaria del concorso di più persone nel reato, recepita nell’art. 110 cod. pen., consente di ritenere che l’attività costitutiva della partecipazione può essere rappresentata da qualsiasi contributo, di carattere materiale o psichico, del quale deve essere, nondimeno, fornita idonea prova, anche in via logica o indiziaria, mediante elementi dotati di sicura attitudine rappresentativa che involgano sia il rapporto di causalità materiale tra condotta e evento che il sostrato psicologico dell’azione.
Deve, peraltro, evidenziarsi come alla stregua di consolidati insegnamenti della giurisprudenza di legittimità la volontà di concorrere non presuppone necessariamente un previo accordo o, comunque, la reciproca consapevolezza del concorso altrui, essendo sufficiente che la coscienza del contributo fornito all’altrui condotta esista unilateralmente, con la conseguenza che essa può indifferentemente manifestarsi o come previo concerto o come intesa istantanea ovvero come semplice adesione all’opera di un altro che rimane ignaro (Sez. U, n. 31 del 22/11/2000 Rv. 218525) mentre il contributo concorsuale – ove sussistente – acquista rilevanza non solo quando si ponga come condizione dell’evento illecito, ma anche quando assuma la forma di un contributo agevolatore e di rafforzamento del proposito criminoso già esistente nei concorrenti, in modo da aumentare la possibilità di commissione del reato (Sez. 6, n. 36125 del 13/05/2014, Minardo e altro, Rv. 260235).
DOMANDA quali aggravanti per il reato di appropriazione indebita?
La prima questione problematica prospettata è ‘se, con riferimento al reato di furto, il mero occultamento all’interno di una borsa o sulla persona della merce sottratta dagli scaffali di un esercizio commerciale nel quale si pratichi la vendita a self service configuri la circostanza aggravante dell’uso di mezzo fraudolento prevista dall’art. 625 c.p., comma 1, n. 2’.Al riguardo, nella variegata giurisprudenza di questa Corte, si scorgono differenti orientamenti.
Un primo indirizzo esclude l’esistenza dell’aggravante. In una recente sentenza (Sez. 6, n. 40283 del 27/09/2012, Diaji, Rv. 253776) relativa ad un caso in cui le scarpe sottratte erano state deposte nella borsa, si rimarca che la circostanza di cui si discute delinea un tratto specializzante della condotta rispetto all’ordinarietà. Il semplice occultamento della refurtiva rientra nelle modalità ordinarie del furto. Invece l’aggravante del mezzo fraudolento ricorre quando la condotta ‘presenti una significativa ed oggettiva maggior gravità dell’ipotesi ordinaria in ragione delle modalità con le quali vengono aggirati i mezzi di tutela apprestati dal possessore del bene sottratto’. Tale condotta deve consistere in una modalità peculiare, o nell’utilizzazione di un particolare strumento che consenta, oltre al mero occultamento, l’elusione del controllo sui beni esposti per la vendita. Ciò accade, ad esempio, quando il reo predisponga mezzi particolari per superare i normali controlli, come una borsa con doppio fondo, indumenti realizzati appositamente per agevolare l’occultamento della merce rubata, attrezzi per rimuovere o schermare le targhe antitaccheggio o per rendere comunque seriamente difficoltoso l’accertamento della sottrazione. Nello stesso senso, da ultimo, Sez. 4, n. 10134 del 19/01/2006, Baratto, Rv. 233716.
In altra sentenza relativa ad un caso in cui la merce era stata occultata nella tasca del giaccone indossato, si è ribadito che l’aggravante riguarda condotte caratterizzate da straordinarietà, improntate a scaltrezza, astuzia ed idonee ad eludere le cautele adottate dal proprietario: un elemento in più rispetto all’attività necessaria per operare la sottrazione. Nel caso esaminato tale situazione non si verificava, posto che la sottrazione era stata realizzata con il mezzo più semplice (Sez. 4, n. 24232 del 27/04/2006, Giordano, Rv. 234516).
In un caso in cui parte della merce prelevata dagli scaffali era stata nascosta in una borsa e non dichiarata alla cassa, si è esclusa l’aggravante posto che, se il cliente non nascondesse subito in qualche modo la merce sottratta, la consumazione stessa del furto sarebbe impossibile, poichè il personale sarebbe senz’altro in grado di accorgersi dell’asportazione: l’occultamento è il mezzo necessario e non può quindi rappresentare il quid pluris che concreta l’uso di mezzo fraudolento (Sez. 2, n. 291 del 08/03/1967, Castaidi, Rv. 105432).
In consonanza con tale indirizzo, in altre pronunzie si pone in luce la differenza tra il mero occultamento e l’adozione di più insidiose misure per soverchiare le difese apprestate dal possessore.
In un caso in cui le cose sottratte erano state nascoste in un’apposita panciera (Sez. 5, n. 11143 del 06/10/2005, Battisti, Rv.
233886), si è considerato che l’imputata non si era limitata ad impossessarsi della merce esposta, nascondendola e sottraendola al controllo degli addetti del supermercato, ma aveva operato con una maggiore astuzia, avvalendosi di tale apprestamento per superare gli accorgimenti approntati dal soggetto passivo a tutela delle proprie cose e, quindi, utilizzando un mezzo fraudolento.
L’uso di mezzo fraudolento è stato ravvisato anche nell’uso di pantaloni elasticizzati indossati sotto l’abito per favorire il nascondimento di quanto sottratto (Sez. 5, n. 15265 del 23/03/2005, Lamberti, Rv. 232142). Si è considerato che si è in presenza di accorgimento malizioso che, pur posto in essere dopo la sottrazione, in quanto finalizzato alla definitiva e piena disponibilità della cosa, configura l’aggravante quale espressione di maggiore criminosità desunta dalla dimostrata capacità di superare con la frode la custodia apprestata dall’avente diritto e tale, pertanto, da giustificare una più severa risposta sanzionatoria.
2.2. Altro contrapposto orientamento ravvisa l’aggravante in caso di occultamento di merce sulla persona (Sez. 5, n. 10997 del 13/12/2006, Rada, Rv. 236516); o sotto l’abbigliamento (Sez. 2, n. 1862 del 21/10/1983, Salines, Rv. 162897). Si argomenta che un comportamento siffatto è improntato ad astuzia e scaltrezza ed è diretto ad eludere e vanificare le cautele e gli ordinari accorgimenti predisposti dal soggetto passivo a difesa dei propri beni.
Anche l’occultamento sotto il cappotto di una giacca sottratta ha dato luogo alla configurazione della circostanza (Sez. 4, n. 13871 del 06/02/2009, Tundo, Rv. 243203). Secondo il giudice di merito, tale nascondimento di per sè, non configurava l’aggravante in questione, non trattandosi di attività idonea a sorprendere o soverchiare con insidia ed astuzia la contraria volontà del detentore La Corte di cassazione, invece, ha annullato con rinvio la pronunzia, affermando che l’aggravante è da ravvisare in ogni caso di comportamento con frode idoneo a superare la custodia apprestata dall’avente diritto sui suoi beni. In tale nozione rientra ogni operazione improntata ad astuzia o scaltrezza, diretta ad eludere le cautele ed a frustare gli accorgimenti predisposti dal soggetto passivo a difesa delle proprie cose, e cioè gli impedimenti che si frappongono tra l’agente e la cosa oggetto della sottrazione.Le Sezioni unite ritengono che il primo indirizzo giurisprudenziale colga nel segno.
La questione prospettata pone un problema interpretativo che riguarda la determinazione dell’espressione ‘si vale di qualsiasi mezzo fraudolento’ che compare nell’art. 625 c.p..
Il lessico della legislazione penale, per la sua spiccata vocazione generalizzante, mostra frequentemente l’uso di termini vaghi, elastici come ‘violenza’, ‘minaccia’, ‘osceno’, ‘onore’. Il loro significato deve essere definito, concretizzato dall’interprete al fine di conferire, per quanto possibile, reale valore alla legalità penale.
L’espressione di cui ci si occupa è per l’appunto vaga, ma nell’elaborazione giurisprudenziale di cui si è sopra dato sommariamente conto e negli studi dottrinali si rinvengono chiarificazioni sostanzialmente consonanti. Si parla di stratagemma diretto ad aggirare, annullare, gli ostacoli che si frappongono tra l’agente e la cosa; di operazione straordinaria, improntata ad astuzia e scaltrezza; di escogitazione che sorprenda o soverchi, con l’insidia, la contraria volontà del detentore, violando le difese apprestate dalla vittima; di insidia che eluda, sovrasti o elimini la normale vigilanza e custodia delle cose.
Tali definizioni spiegano bene la ratio della circostanza: le cose altrui vengono aggredite con misure di affinata efficacia che rendono più grave il fatto e mostrano altresì maggiore intensità del dolo, più intensa risoluzione criminosa e maggiore pericolosità sociale.
Si tratta di chiarificazioni che, se aiutano a cogliere il nucleo antigiuridico dell’aggravante, non risolvono i casi dubbi che si rinvengono solitamente nell’area grigia posta ai margini di quasi tutte le figure giuridiche.
L’inefficienza delle evocate definizioni nelle situazioni controverse, sfumate, che non mostrano macroscopicamente i tipici tratti di studiata, fraudolenta aggressività propri dell’aggravante, è testimoniata dal fatto che le medesime definizioni finiscono col dare copertura argomentativa a soluzioni antitetiche sul piano applicativo.
La ragione principale di tale insuccesso è costituita dal fatto che le chiose alla legge fanno uso di termini non meno vaghi di quelli utilizzati dal codice: sinonimi che risultano tautologici piuttosto che esplicativi.
L’analisi razionale della disposizione acquista qualche maggiore concretezza proprio attraverso il riferimento alle specifiche modalità dell’azione, alle tipologie dell’aggressione del bene.
Definita la fenomenologia, si tratta di comprendere se essa presenti intensità sufficiente a giustificarne la collocazione entro la fattispecie aggravante; se essa presenti il grado di disvalore che, nell’ottica della legge, giustifica la maggiore gravità del fatto e l’incremento della sanzione che ne deriva. Si tratta, in breve, di interpretare la disposizione aggravante al fine di definirne il contenuto offensivo tipico.
- E’ dunque chiamato in causa, sia pure in peculiare guisa, il principio di offensività. Il tema ha straordinaria ampiezza e deve essere qui accennato solo per il decisivo rilievo che assume nell’interpretazione della fattispecie aggravata di cui ci si occupa.
La riflessione scientifica sui fondamenti della penalità ha rimarcato l’esigenza che il fatto di reato esprima oltre ad un dato naturalistico anche un momento di valore, un evento giuridico inteso come concreta offesa all’interesse delle vita tutelato dalla norma incriminatrice.
La tesi ha dapprima trovato fondamento normativo nell’art. 49 c.p., nel quale si è ritenuto di individuare un’ipotesi tipica di divergenza tra conformità allo schema descrittivo e realizzazione dell’offesa: un comportamento perfettamente corrispondente alla norma incriminatrice risulta per qualunque motivo posto in essere in circostanze tali da rendere impossibile la realizzazione dell’evento che costituisce il contenuto del reato. In breve il fatto, oltre a possedere i connotati formali tipici, deve anche presentarsi in concreto carico del significato in forza del quale è assunto come fattispecie produttiva di conseguenze giuridiche.
La portata di tale concezione realistica del reato, basata sull’idea di offensività in concreto, è stata persuasivamente ridimensionata sulla base della considerazione che se l’interesse tutelato deve essere dedotto dall’intera struttura della fattispecie, riesce difficile immaginare un fatto conforme ad essa e non lesivo, sicchè l’inoffensività di un singolo elemento è in realtà l’inoffensività di un requisito del tipo.
Il principio di offensività ha trovato la più alta e compiuta espressione con la sua costituzionalizzazione, conseguita attraverso la lettura integrata di diverse norme: l’art. 27, comma 3, (l’equilibrio tra le funzioni retribuiva e rieducativa della pena rappresenta una saldatura tra il momento garantista o liberale della retribuzione per il reato necessariamente lesivo e le aperture sociali e solidaristiche della rieducazione); l’art. 25, comma 2 (la locuzione ‘fatto’, che esclude la visione dell’illecito come mera disobbedienza); l’art. 27, comma primo (il divieto di strumentalizzazione dell’uomo a fini di politica criminale).
Nel segno dell’offensività, il legislatore è vincolato ad elevare a reati solo fatti che siano concretamente offensivi di entità reali.
L’interprete delle norme penali ha l’obbligo di adattarle alla Costituzione in via ermeneutica, rendendole applicabili solo ai fatti concretamente offensivi, offensivi in misura apprezzabile. Insomma, i beni giuridici e la loro offesa costituiscono la chiave per una interpretazione teleologica dei fatti che renda visibile, senza scarti di sorta, la specifiche offesa già contenuta nel tipo legale del fatto. E’ dunque sul piano ermeneutico che, come è stato suggestivamente considerato in dottrina, viene superato lo stacco tra tipicità ed offensività. I singoli tipi di reato dovranno essere ricostruiti in conformità al principio di offensività, sicchè tra i molteplici significati eventualmente compatibili con la lettera della legge si dovrà operare una scelta con l’aiuto del criterio del bene giuridico, considerando fuori del tipo di fatto incriminato i comportamenti non offensivi dell’interesse protetto. In breve, è proprio il parametro valutativo di offensività che consente di individuare gli elementi fattuali dotati di tipicità.Tale ordine concettuale ha altissime potenzialità, ancora non compiutamente espresse, nell’orientare l’interpretazione delle espressioni legali che individuano i tratti essenziali del reato; in modo che la severità della legge penale si limiti a mostrarsi, sensatamente ed equamente, solo di fronte a fatti gravidi di reale disvalore.
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Si tratta di approccio che può essere trasposto, pur con ogni cautela e con le dovute precisazioni, anche nell’ambito degli elementi accidentali del reato costituiti dalle circostanze aggravanti. Attraverso esse il legislatore attribuisce rilievo ad elementi che accrescono il disvalore della fattispecie e giustificano un trattamento sanzionatorio più severo. Le valutazioni che attengono a tali scelte normative sono le più disparate ed attengono solitamente alla gravità delle conseguenze del reato, alle peculiarità della condotta, alle connotazioni dell’atteggiamento interiore.
Tali elementi, dunque, pur non concorrendo all’individuazione dell’offesa tipica, rilevano ai fini della definizione del grado di disvalore del fatto. Pure per essi si pone, dunque, un problema interpretativo volto a cogliere nel lessico legale una portata che esprima fenomenologie significative, che giustifichino l’accresciuta severità sanzionatoria. Si tratta di assicurare che l’incremento di pena sia proporzionato al grado dell’offesa o, in una prospettiva più ampia conformata sulle peculiarità della fattispecie aggravata, alle modalità dell’aggressione del bene protetto o all’intensità dell’atteggiamento interiore. Una lettura di tale genere dovrà considerare i tratti, le finalità dell’aggravante e la portata del relativo trattamento sanzionatorio.
Si tratta di considerazioni che si attagliano particolarmente alla fenomenologia di cui ci si occupa, giacchè l’aggravante afferisce alla condotta inerente al momento della sottrazione che, come si avrà modo di esporre più diffusamente nel prosieguo, costituisce il cuore della fattispecie e ne contrassegna significativamente il disvalore tipico.Venendo alla specifica aggravante in esame, occorre brevemente rammentare che per tradizione risalente sino alla codificazione preunitaria il furto è stato disciplinato non con una accurata descrizione della fattispecie, bensì attraverso l’individuazione di numerose tipologie tipiche costituenti circostanze aggravanti. Uno stile esasperatamente casistico che si rinviene pure nel codice Zanardelli, ove compaiono ben venti categorie che racchiudono innumerevoli situazioni aggravanti, afferenti prevalentemente all’oggetto della sottrazione od alle modalità della condotta. Esse determinavano l’incremento della pena massima da tre a sei o ad otto anni a seconda che si fosse in presenza di una o più circostanze.
Il codice vigente ha sostanzialmente rispettato tale tecnica normativa. E’ stata proposta una definizione alquanto elaborata della fattispecie e sono state al contempo tratteggiate otto categorie aggravanti che riconducono a più affinata generalizzazione alcune delle situazioni previste dalla precedente legislazione. Tale generalizzazione ha condotto all’individuazione dell’aggravante della violenza o della frode.
Come è ben noto, tale modello casistito è accompagnato da uno speciale rigore sanzionatorio che a molti pare eccessivo, anche in considerazione del mutamento della gerarchia di valori determinato dalla Costituzione. Infatti, la pena massima ascende da tre a sei o a dieci anni a seconda che si sia in presenza di una o più aggravanti.
E d’altra parte, la varietà delle situazioni aggravanti rende difficile la perpetrazione del furto semplice.
Tradizionalmente il furto con frode, definito nei termini esplicativi di cui si è dato sopra conto, viene riferito a tipiche, ricorrenti situazioni come l’uso di chiavi false o grimaldelli, la scalata dell’edificio, l’uso di carte bancomat false e simili. Meno classificabile e più raro l’uso di raggiri o artifizi volti ad ingannare la vittima in modo che sia favorita l’acquisizione della cosa.
Si richiede, in breve, una condotta caratterizzata da marcata, insidiosa efficienza offensiva, che sorprende la contraria volontà del detentore, vanifica le difese che questi ha apprestato a difesa della cosa ed agevola la spoliazione della vittima.
Due gli elementi di valutazione che si traggono da tale analisi della fattispecie. Da un lato l’istanza di speciale funzionalità aggressiva della condotta, attuata con artata predisposizione di mezzi o con ingannevole messa in scena. Dall’altro, la speciale gravità delle conseguenze sanzionatorie che da tale predisposizione derivano.
Coniugando tali coordinate, ne discende pianamente che un’interpretazione dell’idea di frode, con riferimento alla fattispecie di furto, deve tendere ad individuarvi condotte che concretino l’aggressione del bene con marcata efficienza offensiva, proporzionata allo speciale rigore sanzionatorio.
Tale interpretazione è ispirata al principio di offensività definito nei termini sopra esposti, afferente cioè non al nucleo offensivo del reato ma alle modalità offensive, aggressive, della condotta. Essa aiuta ad orientarsi nella già evocata area grigia posta ai margini della fattispecie aggravante. La condotta di spoliazione può rivelare diversi gradi di accuratezza nel contrastare le difese della vittima. Allora, alla luce delle considerazioni generali qui prospettate, la frode si riferisce non a qualunque banale, ingenuo, ordinario accorgimento, ma richiede qualcosa in più: un’astuta, ingegnosa e magari sofisticata predisposizione.
Entro questo ordine di idee traspare che il mero nascondimento nelle tasche, in borsa, sulla persona di merce prelevata dai banchi di vendita costituisce un mero accorgimento, banale ed ordinario in tale genere di illeciti; privo dei connotati di studiata, rimarchevole efficienza aggressiva che caratterizza l’aggravante. Per contro, uno sguardo ai casi proposti dalla prassi, consente di individuare condotte che presentano i tratti di scaltrezza, ingegnosità che connotano e delimitano la fattispecie. Ad essi occorre riferirsi, sia pure solo esemplificativamente, per sottrarre, per quanto possibile, l’argomentazione all’astrattezza. E’ allora sufficiente richiamare i casi del doppio fondo o della panciera per occultare abilmente la merce, o di accorgimenti per schermare le placche antitaccheggio.
Coglie dunque nel segno l’evocata giurisprudenza quando individua nella condotta fraudolenta un tratto specializzante rispetto alle modalità ordinarie, costituito da significativamente maggiore gravità a causa delle peculiari modalità con le quali vengono aggirati i mezzi di tutela apprestati dal possessore del bene. Non meno puntuale appare la sottolineatura della straordinarietà dell’azione, improntata a scaltrezza, astuzia.
Meno persuasivo appare il richiamo all’essenzialità dell’accorgimento ai fini della sottrazione. La considerazione, generalmente parlando, può avere qualche significato nell’ambito della peculiare fenomenologia di cui ci si occupa, nella quale emerge un tratto ineliminabile di affidamento al cliente, che limita l’efficienza delle difese, come testimoniato dalla grandissima rilevanza complessiva delle sottrazioni negli esercizi a self service. Si vuoi dire che, essendo solitamente limitate le difese e forte l’affidamento, è difficile (sempre in linea generale) che la condotta furtiva abbisogni delle ingegnose predisposizioni che danno luogo alla condotta fraudolenta tipica dell’aggravante. Si tratta, tuttavia, di un rilievo di sfondo che non può obliterare la considerazione delle peculiarità di ciascuna fenomenologia e di ciascun caso concreto. L’argomento, in ogni caso, risulterebbe erroneo e fuorviante ove venisse utilizzato in contesti caratterizzati da affinate difese antifurto che rendessero necessarie condotte di sottrazione violente o fraudolente. In tali casi l’essenzialità di tali condotte non farebbe certamente venire meno l’aggravante.
- Da quanto esposto discende il seguente principio di diritto:
‘L’aggravante dell’uso di mezzo fraudolento di cui all’art. 625 c.p., comma 1, n. 2, delinea una condotta, posta in essere nel corso dell’iter criminoso, dotata di marcata efficienza offensiva e caratterizzata da insidiosità, astuzia, scaltrezza; volta a sorprendere la contraria volontà del detentore ed a vanificare le difese che questi ha apprestato a difesa della cosa. Tale insidiosa, rimarcata efficienza offensiva non si configura nel mero occultamento sulla persona o nella borsa di merce esposta in un esercizio di vendita a self service, trattandosi di banale, ordinano accorgimento che non vulnera in modo apprezzabile le difese apprestate a difesa del bene’.
il divieto di utilizzare la testimonianza di chi non sia in grado di indicare la persona o la fonte da cui ha appreso i fatti oggetto del suo esame non può trovare applicazione nei confronti di ufficiali o agenti di p.g. sentiti sugli esiti di indagini svolte in un paese straniero da forze locali o internazionali di polizia, quando -come nel caso di specie – l’informazione sia ricondotta ad organismi di polizia qualificati e ben individuati, quali le forze di polizia doganali rumene (v.: Cass. Sez. 6, 15.12.2003 n. 15.4.2004, Farina, rv. 231457; Cass. Sez. Fer., 18.8.2009 n. 34180, rv. 245375).
Suprema Corte di Cassazione
sezione VI
sentenza n. 33627 del 4 settembre 2012
Fatto e diritto
- Con il ministero del difensore l’imputato F.A. impugna per cassazione la sentenza della Corte di Appello di Bologna che ha confermato la decisione resa il 9.12.2004 dal g.u.p. del Tribunale di Ravenna, all’esito di giudizio abbreviato subordinato ex art. 438 co. 5 all’esame di un testimone addotto dall’imputato e scandito da complementare integrazione probatoria disposta d’ufficio dal giudice ex art. 441 co. 5 c.p.p. (assunzione delle testimonianze di due ufficiali di p.g.).
Decisione con la quale il F. è stato condannato alla pena di un anno e otto mesi di reclusione per i due connessi reati, unificati dalla continuazione, di: a) appropriazione indebita, essendosi impadronito di un’autovettura Mercedes SW classe A noleggiata il 6.1.2003 a Bologna presso la società H. I., cui non restituiva il veicolo, che esportava il (omissis) in Romania ove lo cedeva ad un cittadino rumeno che ne chiedeva l’immatricolazione in quello Stato; b) calunnia, avendo denunciato il 5.2.2003 ai Carabinieri di Milano Marittima di aver subito il furto della “propria” suddetta vettura Mercedes ad opera di ignoti, che gli avevano rubato le chiavi del mezzo mentre si trovava in un ristorante.
Sulla base dell’analisi dei dati sequenziali raccolti sugli accertati spostamenti della Mercedes noleggiata e dello stesso F., entrato in Romania a bordo della vettura della H. e poi uscitone con una vettura diversa (giusta le riferite registrazioni della polizia di frontiera rumena), nonché degli integrativi dati di conoscenza acquisiti nel giudizio abbreviato le due conformi sentenze di merito hanno giudicato il F. raggiunto da concordanti prove di colpevolezza per entrambi i reati ascrittigli. - Con il ricorso si deduce un unico vizio per violazione di legge e per contraddittorietà e illogicità della motivazione, articolato nei termini di seguito esposti.
La Corte di Appello ha confermato la sentenza di primo grado valorizzando le dichiarazioni rese nel giudizio abbreviato: dall’ufficiale di p.g. ispettore D.P., che ha riferito delle notizie raccolte presso la polizia doganale rumena sull’ingresso in Romania del F. alla guida della Mercedes noleggiata nel (omissis) e la sua successiva uscita dal Paese, dopo breve permanenza, con una vettura diversa dalla Mercedes (rimasta in Romania e dove un cittadino rumeno chiederà di lì a poco di immatricolarla); dal testimone M.G. , addotto dalla difesa del prevenuto, che all’esito di uno stringente esame ha ammesso di aver accompagnato in Romania il F. a bordo della vettura Mercedes e di essere poi rientrato autonomamente in Italia con altre persone.
Entrambe le dichiarazioni testimoniali debbono considerarsi inutilizzabili.
L’ufficiale di p.g. ha reso una testimonianza indiretta, omettendo di indicare, nonostante le sollecitazioni della difesa, i nomi delle persone (poliziotti rumeni) da cui ha appreso le notizie sui transiti rumeni dell’imputato, così da non consentire l’esame diretto di dette persone la verifica dell’attendibilità delle notizie. Ne discende che le dichiarazioni dell’ispettore D. sono inutilizzabili ai sensi dell’art. 195 co. 3 c.p.p..
Analoga sorte di inutilizzabilità probatoria investe le dichiarazioni del teste M. , assunte in violazione degli artt. 63, 197 e 197 bis c.p.p.. Costui, infatti, risultava indagato in procedimento connesso, come desumibile da un’informativa di p.g. 23.4.2003 dei Carabinieri in cui era ritenuto indiziato di concorso nei fatti criminosi attribuiti al F.. Il M., per il suo stato di persona indagata in procedimento connesso, non poteva assumere l’ufficio di testimone (art. 197 c.p.p.) e avrebbe dovuto essere escusso con l’assistenza di un difensore a norma dell’art. 197 bis co. 2 c.p.p. (in relazione agli artt. 63 co. 2 e 64, co. 3-lett. c, c.p.p.).
L’invalidità delle due testimonianze rende inconsistente la prova dei reati di cui è stato dichiarato colpevole il ricorrente e la sentenza diappello va annullata. - I descritti motivi di ricorso non sono fondati.
Nondimeno la sentenza impugnata deve essere annullata per intervenuta prescrizione dei reati, qualificato previamente il fatto di calunnia contestato con il capo B) della rubrica come simulazione di reato ai sensi dell’art. 367 c.p.
3.1. Le dichiarazioni rese, in qualità di testimone, da M.G. , non possono ritenersi inutilizzabili. L’assunzione del M. è avvenuta, come ricorda la sentenza di appello, su richiesta (condizionante il giudizio abbreviato) del difensore dell’imputato, che ne ha qualificato la posizione di semplice testimone ex artt. 194 ss. c.p.p., posizione solo a posteriori censurata per la presunta veste di persona indagata in procedimento connesso asseritamente conferibile al M. Sul punto non può non richiamarsi l’arresto delle Sezioni Unite di questa Corte regolatrice, per cui in tema di prova dichiarativa, quando venga in rilievo la veste che può assumere il dichiarante, spetta al giudice il potere di verificare in termini sostanziali (al di là del riscontro di indici formali, come l’eventuale già intervenuta iscrizione nominativa nel registro delle notizie di reato), l’attribuibilità allo stesso della qualità di indagato nel momento in cui le dichiarazioni stesse vengano rese (cfr.: Cass. S.U., 25.2.2010 n. 15208, Mills, rv. 246584; Cass. S.U., 23.4.2009 n. 23868, Fruci, rv. 243417). Ora, dalla lettura dell’atto di appello proposto dal F. avverso la sentenza di primo grado, si evince come lo stesso imputato affermi che “nulla sia stato dato conoscere” sulla reale posizione processuale del M., non avendo in tutta evidenza l’informativa di p.g. (citata anche nel ricorso) prodotto alcun esito, atteso che non risultano adottate dal procedente p.m. iniziative di nessun tipo nei confronti del “testimone” M., mai considerato indagato di reato.
Ad ogni buon conto giova aggiungere, per completezza di analisi, che – quale che sia la qualità ora per allora riconoscibile al M. – le indicazioni dallo stesso rese non rivestono, come appare chiaro dalla lettura delle due conformi decisioni di merito, alcun decisivo valore nella valutazione della posizione del ricorrente e nel percorso attraverso il quale ne è stata affermata e ribadita la penale responsabilità, fondata su altri e autosufficienti dati probatori, quali quelli relativi all’esportazione del costoso veicolo noleggiato dal F., alla sua mancata restituzione alla società H., alla inequivoca falsità della strumentale denuncia di furto del veicolo resa dall’imputato una volta rientrato in Italia senza la Mercedes, fatta propria e rivenduta in Romania.
3.2. Nessuna sanzione di inutilizzabilità inficia, la testimonianza dell’ispettore di polizia D.
In proposito è agevole in primo luogo osservare che – come affermato dalla giurisprudenza di questa S.C. – il divieto di utilizzare la testimonianza di chi non sia in grado di indicare la persona o la fonte da cui ha appreso i fatti oggetto del suo esame non può trovare applicazione nei confronti di ufficiali o agenti di p.g. sentiti sugli esiti di indagini svolte in un paese straniero da forze locali o internazionali di polizia, quando -come nel caso di specie – l’informazione sia ricondotta ad organismi di polizia qualificati e ben individuati, quali le forze di polizia doganali rumene (v.: Cass. Sez. 6, 15.12.2003 n. 15.4.2004, Farina, rv. 231457; Cass. Sez. Fer., 18.8.2009 n. 34180, rv. 245375).
In secondo luogo, ricordato che il giudizio nei confronti del ricorrente si è svolto con le forme del rito abbreviato, occorre rimarcare come in tale giudizio sia senz’altro utilizzabile il verbale delle dichiarazioni rese de relato dal testimone (ufficiale di p.g. o soggetto privato), poiché in tal caso l’inutilizzabilità della deposizione di chi rifiuti o non sia in grado di indicare la persona o la fonte delle riferite notizie sui fatti oggetto di esame (art. 195 co. 7 c.p.p.) opera soltanto nell’ipotesi in cui la parte abbia subordinato l’accesso al rito ad un’integrazione probatoria costituita proprio dall’assunzione del testimone indiretto e se, nonostante l’audizione, sia rimasta ignota la fonte dell’informazione. Come chiarito all’inizio, l’esame dell’ispettore D. non è stato richiesto dall’imputato, ma è stato disposto dal g.u.p. d’ufficio ai sensi dell’art. 421 co. 5 c.p.p. (cfr.: Cass. Sez. 3, 29.1.2008 n. 11100, Gomiero, rv. 239080; Cass. Sez. 6, 6.7.2010 n. 44420, Belforte, rv. 249029).
3.3. Alle precedenti deduzioni, asseveranti – per gli effetti di cui all’art. 129 co. 2 c.p.p. – la sussistenza degli illeciti penali oggetto del processo e la loro commissione da parte del ricorrente, si coniuga la sopravvenuta (alla pronuncia della sentenza di appello) estinzione dei fatti reato ascritti all’imputato per decorso dei corrispondenti termini prescrizionali, in rilevata assenza di loro eventuali cause sospensive.
L’evenienza è pacifica per il reato di appropriazione indebita della vettura Mercedes di cui al capo A) della rubrica, che risulta compiutamente accertato in data (omissis). Si che il relativo termine di prescrizione del reato, pari a sette anni e sei mesi (nell’attuale come nel previgente regime della prescrizione disciplinato dall’art. 157 c.p.) è spirato nel settembre 2010.
Altrettanto è a dirsi per il fatto reato integrato dalla falsa denuncia di furto della vettura Mercedes presentata dall’imputato, fatto contestato dal p.m. e ritenuto dai giudici di merito alla stregua della fattispecie della calunnia (capo B della rubrica), ma che più correttamente deve – invece – essere ricondotto alla diversa e meno grave ipotesi della simulazione di reato di cui all’art. 367 c.p.
3.4. Per quanto è dato desumere dalla lettura delle due conformi decisioni di merito, il 5.2.2003 il F. ha denunciato ai Carabinieri di aver subito ad opera di ignoti il furto della vettura Mercedes in suo possesso, asportatagli – previa fraudolenta sottrazione delle chiavi dal suo borsello – mentre era parcheggiata nei pressi del locale pubblico in cui si trovava. Sulla oggettiva falsità della denuncia e sull’inesistenza del denunciato furto le emergenze probatorie non consentono dubbi di sorta.
Nondimeno con la denuncia, con cui ha tentato di precostituirsi un elemento di prova a sostegno della sua difesa dall’accusa di appropriazione indebita del veicolo, il F. non ha formulato accuse o sospetti di sorta nei confronti di alcuno, cioè di una persona determinata o indirettamente individuabile. La denuncia con cui l’imputato ha falsamente affermato essere avvenuto il reato di furto in suo danno è stata senz’altro idonea, in rapporto alla natura di reato istantaneo e di pericolo dell’assunto simulatorio manifestatosi nel suo carattere formale o diretto (denuncia di un reato mai avvenuto), a dar luogo al promovimento di indagini e di un procedimento penale per accertare l’autore del furto falsamente denunciato. Ma ciò pur sempre nel quadro di un procedimento virtualmente instaurarle – al momento della denuncia (cui occorre avere riguardo per la consumazione dei reati di cui agli artt. 367 e 368 c.p.) – nei confronti di persone non identificate (ignote) e, per definizione (per la genetica insussistenza del reato lamentato), non identificabili.
È in questa peculiare connotazione di una falsa denuncia di reato che risiede il discrimine ontologico tra la fattispecie della simulazione di reato e quella della calunnia, detta seconda più grave ipotesi potendo e dovendo essere configurata – oltre che ovviamente quando il falso denunciante indichi in modo espresso un determinato autore del descritto reato (che, nel caso della calunnia, può anche essersi davvero verificato), sapendolo ad esso estraneo – tutte le volte in cui (c.d. calunnia indiretta) il contesto narrativo della denuncia consenta di leggervi l’implicita indicazione dell’autore in una persona specifica e – per ragioni storiche e logiche immanenti nella esposizione del fatto reato denunciato – facilmente identificabile con semplici verifiche.
In altre parole per ritenere configurabile la calunnia indiretta occorre che la falsa incolpazione sia idonea, per modalità e circostanze sottese alla falsa attribuzione del fatto reato, ad esprimere l’univoca riferibilità dell’accusa ad una persona reale e determinata o determinabile, nel senso che questa e soltanto questa risulti essere la persona cui attribuire il fatto illecito denunciato, pur in difetto di una formulazione nominativa dell’accusa. Quando, invece, il reato risulti genericamente attribuibile ad una qualunque persona (quisque de populo) sconosciuta (ignota) ed in nessun modo individuabile in base agli elementi addotti nella falsa denuncia, diviene configurabile la diversa fattispecie della simulazione di reato punita dall’art. 367 c.p. (v.: Cass. Sez. 6, 8.6.1983 n. 9521, Focardi, rv. 161144; Cass. Sez. 6, 25.9.2002 n. 38814, Pontonio, rv. 222859; Cass. Sez. 2,6.7.2010 n. 32453, Corsini, rv. 248359).
È evidente, allora, che in ragione dei dati conoscitivi offerti dalle due uniformi sentenze di merito la condotta criminosa di falsa denuncia di (un falso) furto attuata dal F. deve essere inquadrata, così giuridicamente definendosi l’originaria accusa di calunnia, nella fattispecie della simulazione di reato ai sensi dell’art. 367 c.p..
Anche questo reato, al pari dell’appropriazione indebita prescrivibile ex art. 157 c.p. (nei testi attuale e previgente) nel termine massimo di sette anni e sei mesi, risulta oggi attinto da causa estintiva prescrizionale maturata alla data del 5.8.2010.
Per l’effetto la sentenza della Corte di Appello di Bologna impugnata dal F. deve essere annullata senza rinvio perché entrambi i reati ascritti all’imputato sono estinti per prescrizione.
P.Q.M.
Qualificato il capo B) come simulazione di reato, annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché i reati sono estinti per prescrizione.
Tanto premesso in diritto, occorre quindi verificare: a) se la somma liquidata dal giudice a favore del G. fosse o meno di proprietà dell’avv.to L.; b) se il G. la possedeva in virtù di un qualche legittimo titolo di possesso e, quindi, se effettuò l’interversione.
La risposta ai suddetti quesiti discende dalla disamina del rapporto che lega il cliente all’avvocato.
In proposito è indiscusso che il suddetto rapporto ha alla base un rapporto di mandato professionale a seguito del quale il professionista ha il diritto di pretendere il pagamento della prestazione.
Il pagamento della suddetta prestazione costituisce, quindi, a carico del cliente, un obbligo che discende dall’interno rapporto di mandato essendo regolamentato dalle pattuizioni che le parti hanno stabilito in ordine al quantum ed alle modalità.
Nell’ipotesi, poi, di una causa civile, le modalità con le quali il professionista può farsi pagare sono due: 1) direttamente dal cliente ed indipendentemente dalla liquidazione che il giudice effettua in sentenza; 2) direttamente dalla parte soccombente: è l’ipotesi espressamente prevista dall’art. 93 c.p.c., che disciplina la fattispecie, appunto, della distrazione delle spese.
Nel caso in esame, è pacifico che la somma in questione venne liquidata a favore non dell’avv. L. ma direttamente a favore del G. in quanto parte vincitrice a titolo di spese.
E’ chiaro, pertanto, che quella somma era di sua esclusiva proprietà ed alla stessa il G. era libero di dare la destinazione che più gli aggradava pur essendo tenuto al pagamento della parcella dell’avv.to L..
AVVOCATO PENALISTA BOLOGNA AVVOCATO PENALISTA RAVENNA AVVOCATO PENALISTA FORLI AVVOCATO PENALISTA CESENA
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II PENALE
Sentenza 24 giugno 2011, n. 25344
Svolgimento del processo
Con sentenza del 8/7/2010, la Corte di Appello di Bari confermava la sentenza pronunciata in data 21/01/2008 con la quale il Tribunale della medesima città aveva assolto G.A. dal reato di cui all’art. 646 c.p., “per essersi appropriato indebitamente della somma di Euro 16.710,00 percepita al solo scopo di corrisponderla al suo legale avv. L.N. ed in realtà mai consegnata”. p.2. Avverso la suddetta sentenza, il PROCURATORE GENERALE presso la Corte di Appello di Bari ha proposto ricorso per cassazione deducendo violazione dell’art. 646 c.p..
Sostiene, infatti, il ricorrente che le somme liquidate dal giudice in favore del difensore sono detenute dalla parte vincitrice nomine alieno, con la conseguenza che, mutare ad opera della parte vincitrice in giudizio la destinazione delle somme liquidate dal giudice in sentenza trattenendole per sè, costituisce un comportamento appropriativo che integra gli estremi della condotta descritta nell’art. 646 c.p..
Motivi della decisione
Il ricorso è infondato per le ragioni di seguito indicate.
Il fatto che ha dato origine al presente procedimento penale è pacifico:
all’esito di un giudizio civile, al G., assistito dall’avvio L.N., veniva liquidata la somma di Euro 16.710,00 a titolo di competenze legali. Il G., però, non pagava l’avv.to L.. Da qui il processo.
In punto di diritto, è appena il caso di rammentare che i requisiti giuridici perchè possa ritenersi configurabile il reato di cui all’art. 646 c.p., sono i seguenti: a) l’appartenenza dei beni oggetto di appropriazione, ad un terzo in virtù di un titolo giuridico; b) il possesso legittimo dei suddetti beni da parte del terzo; c) la volontà di interversione del possesso, la qual cosa si verifica quando il possessore effettua e rende esplicito al proprietario del bene, l’interversione del possesso ossia la sua volontà di non restituire più il bene del quale ha il possesso; d) l’ingiusto profitto.
Infatti, la ratio dell’art. 646 c.p., “deve essere individuata nella volontà del legislatore di sanzionare penalmente il fatto di chi, avendo l’autonoma disponibilità della res, dia alla stessa una destinazione incompatibile con il titolo e le ragioni che giustificano il possesso della stessa”: Cass. 11628/1989 riv 182001.
Tanto premesso in diritto, occorre quindi verificare: a) se la somma liquidata dal giudice a favore del G. fosse o meno di proprietà dell’avv.to L.; b) se il G. la possedeva in virtù di un qualche legittimo titolo di possesso e, quindi, se effettuò l’interversione.
La risposta ai suddetti quesiti discende dalla disamina del rapporto che lega il cliente all’avvocato.
In proposito è indiscusso che il suddetto rapporto ha alla base un rapporto di mandato professionale a seguito del quale il professionista ha il diritto di pretendere il pagamento della prestazione.
Il pagamento della suddetta prestazione costituisce, quindi, a carico del cliente, un obbligo che discende dall’interno rapporto di mandato essendo regolamentato dalle pattuizioni che le parti hanno stabilito in ordine al quantum ed alle modalità.
Nell’ipotesi, poi, di una causa civile, le modalità con le quali il professionista può farsi pagare sono due: 1) direttamente dal cliente ed indipendentemente dalla liquidazione che il giudice effettua in sentenza; 2) direttamente dalla parte soccombente: è l’ipotesi espressamente prevista dall’art. 93 c.p.c., che disciplina la fattispecie, appunto, della distrazione delle spese.
Nel caso in esame, è pacifico che la somma in questione venne liquidata a favore non dell’avv. L. ma direttamente a favore del G. in quanto parte vincitrice a titolo di spese.
E’ chiaro, pertanto, che quella somma era di sua esclusiva proprietà ed alla stessa il G. era libero di dare la destinazione che più gli aggradava pur essendo tenuto al pagamento della parcella dell’avv.to L..
Costui, quindi, non poteva su di essa accampare alcun diritto potendo solo richiedere la somma ritenuta congrua a titolo di parcella per l’opera professionale svolta, direttamente nei confronti del suo cliente, somma che avrebbe potuto essere, in ipotesi, sia minore che superiore a quella liquidata dal giudice.
Erra, quindi, il P.G. ricorrente quando sostiene che la somma liquidata aveva un vincolo di destinazione a favore dell’avvocato.
In realtà, la somma era di proprietà esclusiva del G. essendo stata liquidata a suo favore, sicchè nessuna appropriazione indebita è ipotizzabile proprio perchè manca il principale presupposto giuridico ossia che la somma fosse di proprietà dell’avvocato e che il G., possedendola per un legittimo titolo, effettuò l’interversione del possesso rifiutandosi di consegnarla all’avvocato.
Nel respingere pertanto il ricorso può enunciarsi il seguente principio di diritto: “non commette il reato di appropriazione indebita la parte vincitrice di una causa civile – a cui favore il giudice abbia liquidato una somma a titolo di spese legali – che si rifiuti di consegnarla al proprio avvocato che reclami come propria la suddetta somma”.
P.Q.M.
RIGETTA il ricorso.
AVVOCATO PENALISTA BOLOGNA AVVOCATO PENALISTA RAVENNA AVVOCATO PENALISTA FORLI AVVOCATO PENALISTA CESENA
delitto di appropriazione indebita e’ integrato dalla interversione del possesso, che si manifesta quando l’autore si comporti uti dominus non restituendo il bene di cui ha avuto la disponibilita’ senza giustificazione, cosi’ da evidenziare in maniera incontrovertibile anche l’elemento soggettivo del reato (Sez. 2, n. 25288 del 31/05/2016 – dep. 17/06/2016, Trovato, Rv. 26711401). Non si presta poi a censure la valutazione operata dalla Corte d’Appello della congerie istruttoria disponibile, in quanto l’imputato che neghi la sussistenza della condotta ascrittagli ha l’onere di provare o allegare non un fatto negativo, consistente nel mancato accadimento di quanto gli e’ addebitato, e segnatamente nella mancata appropriazione, ma specifiche circostanze positive contrarie a quelle provate dalla pubblica accusa dalle quali possa desumersi che il fatto in contestazione non e’ avvenuto (Sez. 2, n. 7484 del 21/01/2014 – dep. 17/02/2014, P.G., P.C. in proc. Baroni, Rv. 25924501; nello stesso senso Sez. 2, n. 20171 del 07/02/2013 – dep. 10/05/2013, Weng e altro, Rv. 25591601).
AVVOCATO PENALISTA BOLOGNA AVVOCATO PENALISTA RAVENNA AVVOCATO PENALISTA FORLI AVVOCATO PENALISTA CESENA
Suprema Corte di Cassazione
sezione II penale
sentenza 22 maggio 2017, n. 25444
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DIOTALLEVI Giovanni – Presidente
Dott. PARDO Ignazio – Consigliere
Dott. PAZZI Alberto – rel. Consigliere
Dott. ARIOLLI Giovanni – Consigliere
Dott. RECCHIONE Sandra – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
(OMISSIS), nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 1590/2015 del 5.4.2016 della Corte di Appello di Brescia;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Alberto Pazzi;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. LORI Perla, che ha concluso per l’inammissibilita’ del ricorso;
udito il difensore dell’imputato, Avv. (OMISSIS) in sostituzione dell’Avv. (OMISSIS), che ha concluso riportandosi ai motivi di ricorso e chiedendone l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
- Con sentenza in data 5 aprile 2016 la Corte di Appello di Brescia ha integralmente confermato la sentenza del Tribunale di Bergamo del 16 febbraio 2015 con cui (OMISSIS) era stato ritenuto responsabile dei reati di cui agli articoli 646 (per essersi appropriato, quale amministratore di un condominio, di somme versate dai condomini per spese di gestione dell’immobile) e 640 c.p. (per aver indotto i condomini in errore circa l’entita’ delle spese di gestione da sostenere ed essersi cosi’ fatto versare dagli stessi somme non dovute) ed era stato conseguentemente condannato alla pena ritenuta di giustizia e al risarcimento dei danni subiti dal condominio costituitosi parte civile.
- Ha proposto ricorso per Cassazione avverso la predetta sentenza il difensore dell’imputato, deducendo:
2.1 la falsa applicazione dell’articolo 646 c.p.; a questo proposito la difesa, dopo aver rappresentato che non vi era prova di come le somme fossero uscite dalla disponibilita’ condominiale, di quando l’ammanco si fosse verificato in epoca antecedente il 30 aprile 2007 e di dove i denari fossero finiti, ha sostenuto che il semplice uso del denaro, ancorche’ momentaneo, non integrava l’interversione del possesso, sottolineando poi che non era l’imputato a dover giustificare la destinazione delle somme mancanti ma l’accusa a dover provare gli elementi costitutivi del reato;
2.2 la falsa applicazione dell’articolo 640 c.p.; al riguardo la difesa ha sostenuto che la corte territoriale non aveva verificato il ricorrere degli elementi costitutivi del delitto di truffa, controllando quali attivita’ inesistenti erano state retribuite o quali importi non dovuti o eccessivi erano stati corrisposti;
2.3 la falsa applicazione degli articoli 640 e 646 c.p., in relazione al momento consumativo dei reati, da individuarsi con la realizzazione del profitto ingiusto per la truffa e con la prima condotta appropriativa per l’appropriazione indebita;
2.4 la falsa applicazione dell’articolo 99 c.p., in quanto la recidiva specifica e infraquinquennale era stata contestata malgrado i reati posti a base della recidiva fossero coevi o successivi a quelli contestati in questa sede processuale e senza alcuna valutazione dell’esistenza di una relazione qualificata fra i precedenti del reo e il nuovo illecito;
2.5 la falsa applicazione dell’articolo 161 c.p., in quanto, tenuto conto del fatto che gli ammanchi si erano verificati in epoca antecedente all’aprile 2007, il reato di cui al capo a) era comunque prescritto, mentre quello di cui al capo b) risultava tale una volta esclusa la recidiva illegittimamente contestata;
2.6 l’omessa motivazione circa l’applicazione della recidiva e dell’aggravante di cui all’articolo 61 c.p., n. 7, rispetto alle quali i giudici di merito non avevano speso alcuna motivazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
- La corte territoriale ha constatato che per gli anni di gestione del condominio 2007 – 2009, affidati all’odierno ricorrente quale amministratore dopo una precedente gestione assolutamente lineare, il saldo attivo del conto comune sarebbe dovuto essere pari a Euro 29.544,96 mentre in realta’ non vi era alcuna disponibilita’ di cassa e ha conseguentemente ritenuto integrato il reato di appropriazione indebita in ragione del fatto che l’imputato, al subentro del nuovo amministratore, trattenne per se’ le somme di pertinenza condominiale.
Una simile valutazione e’ del tutto conforme all’orientamento di questa Corte secondo cui il delitto di appropriazione indebita e’ integrato dalla interversione del possesso, che si manifesta quando l’autore si comporti uti dominus non restituendo il bene di cui ha avuto la disponibilita’ senza giustificazione, cosi’ da evidenziare in maniera incontrovertibile anche l’elemento soggettivo del reato (Sez. 2, n. 25288 del 31/05/2016 – dep. 17/06/2016, Trovato, Rv. 26711401). Non si presta poi a censure la valutazione operata dalla Corte d’Appello della congerie istruttoria disponibile, in quanto l’imputato che neghi la sussistenza della condotta ascrittagli ha l’onere di provare o allegare non un fatto negativo, consistente nel mancato accadimento di quanto gli e’ addebitato, e segnatamente nella mancata appropriazione, ma specifiche circostanze positive contrarie a quelle provate dalla pubblica accusa dalle quali possa desumersi che il fatto in contestazione non e’ avvenuto (Sez. 2, n. 7484 del 21/01/2014 – dep. 17/02/2014, P.G., P.C. in proc. Baroni, Rv. 25924501; nello stesso senso Sez. 2, n. 20171 del 07/02/2013 – dep. 10/05/2013, Weng e altro, Rv. 25591601).
- AVVOCATO REATI MILITARI :CASSAZIONE INSUBORDINAZIONE reati militari in tempo di pace reati militari procedibilità reati militari reati militari commessi all’estero reati militari commessi da civili reati militari in tempo di guerra reati militari querela reati militari disobbedienza reati militari procedibilità a querela reati militari peculato reato associazione militare amnistia reati militari reato militare busca reati militari colposi reati militari contro la persona reato militare competenza reato militare commesso da civile reato militare connessione reato militare definizione reato militare di violata consegna reato militare di insubordinazione reato militare disobbedienza reato militare diserzione reato militare di ingiuria reato militare diffamazione reati disciplina militare reati esclusivamente militariRispetto al secondo capo di imputazione la Corte d’ Appello di Brescia ha riscontrato che i condomini avevano consegnato all’imputato, nella sua veste di amministratore, la complessiva somma di Euro 13.335,84 a fronte di spese inesistenti o ingiustificate o comunque non seguite dalle azioni promesse; la Corte ha poi spiegato che gli artifici e raggiri erano consistiti nella richiesta di pagamenti falsamente giustificati relativi a prestazioni fasulle che avevano comportato un’ induzione in errore dei condomini, i quali avevano versato somme non dovute che erano state incamerate dall’imputato senza alcun titolo. In questo modo la corte territoriale, una volta preso atto che l’imputato non aveva in alcun modo assolto l’onere di allegazione che su di lui incombeva di fornire all’ufficio le indicazioni e gli elementi necessari all’accertamento di fatti e circostanze ignoti che fossero idonei, ove riscontrati, a volgere il giudizio in suo favore, ha puntualmente dato conto del ricorrere degli elementi costitutivi del reato di truffa in contestazione.
- La Corte d’Appello ha ritenuto che il reato di appropriazione indebita si sia consumato tramite l’interversione del possesso avvenuta nel momento in cui e’ risultata manifesta la volonta’ dell’imputato di trattenere per se’ le somme che sarebbero dovute essere presenti sul conto corrente condominiale al subentro del nuovo amministratore, dunque in coincidenza con il venir meno dell’incarico gestorio.
Questa valutazione non si presta a censure.
In vero, pur essendo pacifico che il delitto di appropriazione indebita e’ reato istantaneo che si consuma con la prima condotta appropriativa nel momento in cui l’agente compie un atto di dominio sulla cosa con la volonta’ espressa o implicita di tenere questa come propria, mentre rimane irrilevante l’epoca in cui si viene a conoscenza del comportamento illecito (Sez. 2, n. 17901 del 10/04/2014 – dep. 29/04/2014, Idone, Rv. 25971501), nel caso in cui l’agente abbia la disponibilita’ di denaro altrui in virtu’ dello svolgimento di un incarico gestorio il reato di appropriazione indebita e’ integrato dall’interversione del possesso, che si manifesta quando l’autore si comporta uti dominus non restituendo senza giustificazione le somme detenute, che non ha piu’ ragione di trattenere, in modo da evidenziare in maniera incontrovertibile anche l’elemento soggettivo del reato.
Per quanto riguarda l’individuazione del momento consumativo della truffa la corte territoriale ha ritenuto che questo delitto si sia consumato nel momento in cui si e’ verificato l’arricchimento dell’agente con il correlativo danno patrimoniale per i condomini, momento da individuarsi anche in questo caso in coincidenza con la nomina del nuovo amministratore e della conseguente perdita definitiva delle somme.
Un simile assunto non puo’ essere condiviso.
In vero il perfezionamento della truffa e’ legato al verificarsi del danno patrimoniale per la vittima e dell’ingiusto profitto per l’agente (dato che e’ necessario che il profitto dell’azione truffaldina entri nella sfera giuridica di disponibilita’ dell’agente, non essendo sufficiente che esso sia fuoriuscito da quella del soggetto passivo; Sez. 5, n. 14905 del 29/01/2009 – dep. 06/04/2009, Coppola e altro, Rv. 24360801) e si verifica nel momento in cui queste evenienze vengano entrambe a esistenza o, in caso di mancata contestualita’, in coincidenza con l’avverarsi dell’ultima componente.
Dunque la truffa contrattuale e’ reato istantaneo e di danno la cui consumazione coincide con la perdita definitiva del bene in cui si sostanzia il danno del raggirato e il conseguimento dell’ingiusto profitto da parte dell’agente (Sez. 2, n. 20025 del 13/04/2011 – dep. 20/05/2011, Pg in proc. Monti e altri, Rv. 25035801).
Nel caso di specie l’imputato ha preteso il pagamento di compensi per prestazioni professionali fasulle, condotta a cui hanno fatto seguito l’addebito al condominio degli importi fatturati descritti nel capo d’imputazione e l’incasso da parte dell’amministratore o di parenti dell’imputato dei compensi non dovuti.
Il perfezionamento del reato deve percio’ ritenersi avvenuto nel momento in cui l’indebito esborso e il correlato ingiusto profitto si verificarono, a prescindere dalla sua constatazione da parte dell’amministratore, e dunque nei tempi indicati nel capo d’ imputazione (negli anni 2007 e 2008).
- La corte territoriale ha ritenuto che la contestazione della recidiva reiterata e infraquinquennale sia stata correttamente effettuata, a fronte delle risultanze del certificato penale.
In realta’ il (OMISSIS) annovera due precedenti per omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali, conseguenti a due decreti penali divenuti esecutivi rispettivamente il 26.6.2008 e il 30.7.2010, e una condanna per appropriazione indebita divenuta irrevocabile il 2.10.2014.
Ora, posto che perche’ possa configurarsi la recidiva occorre che il nuovo reato sia commesso dopo che la precedente condanna sia divenuta irrevocabile e tenuto conto di quanto in precedenza precisato in merito ai momenti consumativi dei reati ascritti all’imputato, la recidiva infraquinquennale e’ stata correttamente contestata rispetto al reato di appropriazione indebita, perfezionatosi, come detto, nel giugno 2009 al momento del subentro del nuovo amministratore, poiche’ a quella data il primo decreto penale era divenuto esecutivo (non assumendo rilievo ai fini della contestazione della recidiva il condono disposto, come ha chiarito Sez. 2, n. 34147 del 30/04/2015 – dep. 04/08/2015, P.G in proc. Agostino e altri, Rv. 26462901).
Diverse considerazioni devono essere fatte rispetto al reato di truffa, che si e’ perfezionato nei tempi indicati nel capo d’imputazione (e piu’ precisamente nei momenti in cui vennero emesse le fatture fra l’1.6.2007 e il 1.2.2008) e dunque in epoca precedente all’esecutivita’ del primo decreto penale.
Deve quindi essere esclusa, rispetto al reato di cui al capo B), la recidiva contestata.
- E’ stato in precedenza precisato che il reato di appropriazione indebita si e’ consumato al momento della dismissione da parte dell’imputato dell’incarico di amministratore di condominio, nel giugno 2009, dovendosi di conseguenza escludere la sua prescrizione, in applicazione del combinato disposto degli articoli 157 e 161 c.p., e tenuto conto della recidiva infraquinquennale contestata e degli atti interruttivi della prescrizione intervenuti.
Il reato di truffa invece si e’ consumato, come detto, nei tempi indicati nel capo d’imputazione, nel corso degli anni 2007 e 2008, in coincidenza con l’indebito esborso dei condomini e il conseguimento dell’ingiusto profitto da parte dell’amministratore.
Ne consegue, dovendosi escludere la recidiva in contestazione, la constatazione dell’intervenuta prescrizione del reato a causa dell’intero decorso del periodo previsto dall’articolo 157 c.p., pur aumentato di un quarto per effetto dell’interruzione della prescrizione.
- E’ senz’altro condivisibile l’osservazione difensiva secondo cui sussiste uno specifico onere motivazionale a carico del giudice nel caso in cui egli ritenga di applicare in concreto la recidiva facoltativa che sia stata contestata, in conformita’ all’insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte (“In tema di recidiva facoltativa, e’ richiesto al giudice uno specifico dovere di motivazione sia ove egli ritenga sia ove egli escluda la rilevanza della stessa” Cass. sez. un., n. 5859 del 27/10/2011 Marciano’, Rv. 25169001).
E’ noto tuttavia che un simile onere puo’ essere adempiuto anche implicitamente, ove la sentenza dia conto della sussistenza di quei requisiti di riprovevolezza della condotta e pericolosita’ del suo autore, che sono alla base dell’aggravamento di pena disposto dal legislatore per effetto della circostanza di cui all’articolo 99 c.p., (“Il rigetto della richiesta di esclusione della recidiva facoltativa, pur richiedendo l’assolvimento di un onere motivazionale, non impone al giudice un obbligo di motivazione espressa, ben potendo quest’ ultima essere anche implicita” Cass., sez. 2, n. 39743 del 17/09/2015 Del Vento e altri, Rv. 26453301, la quale ha esaminato una fattispecie nella quale la Corte ha ritenuto implicita la motivazione sul diniego della richiesta di esclusione della recidiva, desumendola dal richiamo operato nella sentenza impugnata alla negativa personalita’ dell’imputato emergente dalla gravita’ dei precedenti penali).
Concorrono a fornire questo quadro motivazionale sia il richiamo ai precedenti penali contenuto all’interno della decisione di primo grado, sia la valutazione fatta dallo stesso giudice della condotta tenuta dall’imputato, che non ha dimostrato alcun sintomo di resipiscenza ne’ volonta’ di restituzione delle somme. La corte territoriale, nel valutare il ricorrere dei presupposti dell’aggravante di cui all’articolo 61 c.p., n. 7, ha poi fatto corretta applicazione dei principi affermati da questa Corte sia in merito alla necessita’ di una valutazione complessiva del danno cagionato in caso di reato continuato (“In caso di reato continuato, valendo, in mancanza di tassative esclusioni, il principio della unitarieta’, la valutazione in ordine alla sussistenza o meno dell’aggravante del danno di rilevante gravita’ deve essere operata con riferimento non al danno cagionato da ogni singola violazione, ma a quello complessivo causato dalla somma delle violazioni” Sez. 2, n. 45504 del 27/10/2015 – dep. 16/11/2015, Badaloni e altri, Rv. 26555701), sia rispetto alla rilevanza della consistenza oggettiva del danno arrecato (“Nel valutare l’applicabilita’ della circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravita’, puo’ farsi riferimento alle condizioni economico-finanziarie della persona offesa solo qualora il danno sofferto, pur non essendo di entita’ oggettiva notevole, puo’ essere qualificato tale in relazione alle particolari condizioni della vittima, che sono invece irrilevanti quando l’entita’ oggettiva del danno e’ tale da integrare di per se’ un danno patrimoniale di rilevante gravita’” (Sez. 2, n. 48734 del 06/10/2016 – dep. 17/11/2016, Puricelli, Rv. 26844601).
In conclusione sulla base delle considerazioni appena esposte, una volta esclusa la contestata recidiva, la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente all’affermazione di responsabilita’ in ordine al reato di cui all’articolo 640 c.p., atteso che lo stesso e’ estinto per intervenuta prescrizione, con rinvio ad altra sezione della Corte d’ Appello di Brescia per la rideterminazione della pena relativa al delitto di appropriazione indebita, rispetto al quale il ricorso risulta inammissibile.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente all’affermazione di responsabilita’ in ordine al reato di cui all’articolo 640 c.p., previa esclusione della contestata recidiva, essendo lo stesso estinto per prescrizione, con rinvio ad altra sezione della Corte d’ Appello di Brescia per la rideterminazione della pena.
Dichiara inammissibile il ricorso limitatamente al delitto di appropriazione indebita.
AVVOCATO PENALISTA BOLOGNA AVVOCATO PENALISTA RAVENNA AVVOCATO PENALISTA FORLI AVVOCATO PENALISTA CESENA
Originally posted 2021-06-29 08:18:08.