PROFESSIONISTA ASSEVERATORE ecobonus 110 PARTECIPE ALLA TRUFFA ?

PROFESSIONISTA ASSEVERATORE ecobonus 110 PARTECIPE ALLA TRUFFA ?

REATI INFORMATICI

, in presenza di evidenti anomalie come l’incoerenza dei dati, l’assenza delle relazioni tecniche e dell’Ape, il pagamento dei premi assicurativi da parte del committente, il numero particolarmente elevato di asseverazioni redatte.

Afferma la cassazione: Nella valutazione complessiva della condotta serbata dall’indagato per il raggiungimento del reato oggetto di volontà comune, peraltro, non incidono le presunte erronee o omesse valutazioni denunciate dalla difesa del ricorrente, trattandosi di argomentazioni che, lungi dal denunciare l’esistenza di un vizio di violazione di legge, tendono diversamente a sviluppare una non consentita critica dei passaggi argomentativi dell’ordinanza impugnata (ad esempio, contestando che la liquidità esistente sul c/c ed oggetto del sequestro non sarebbe riconducibile ai reati ipotizzati, in particolare quello di truffa, risultando invece utilizzata dall’indagato anche per fini personali; od, ancora, tacciando di falsità l’ordinanza laddove sostiene che gli emolumenti ricevuti dal Consorzio SGAI non sarebbero stati fatturati dall’indagato una volta ricevuti i bonifici di pagamento delle prestazioni professionali, ciò che sarebbe il frutto non di un travisamento probatorio –

REATI TRIBUTARI BOLOGNA
REATI TRIBUTARI BOLOGNA

La Cassazione respinge il ricorso partendo dall’analisi del provvedimento, che descrive la condotta del professionista tecnico indagato e riporta le dichiarazioni dei denuncianti che fanno riferimento a fatti nei quali anche il lo stesso risulta implicato (occupandosi il medesimo, quale professionista abilitato che rilasciava – unitamente ad altri indicati nel capo di imputazione cautelare – al general contractor/Consorzio l’asseverazione richiesta dalla legge al termine dei lavori e/o per ogni SAL ai fini dell’attestazione dei requisiti tecnici sulla base del progetto predisposto e dell’effettiva realizzazione dell’intervento).
La Terza Sezione penale ha affermato che integra il “fumus” del delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti la condotta di chi, avendo monetizzato il credito derivante dalla realizzazione di opere suscettibili di fruire dell’agevolazione fiscale del cd. “superbonus 110%” mediante la sua cessione o lo “sconto in fattura” ex art. 121 d.l. 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, nella legge 17 luglio 2020, n. 77, effettui la fatturazione “in acconto” di spese relative a opere non ultimate o per le quali non sia stato emesso, da un tecnico abilitato, uno “stato di avanzamento lavori” attestante l’esecuzione di una porzione dell’intervento “agevolabile” e la congruità delle spese per esso sostenute, posto che l’emissione di tali fatture mira a simulare l’esistenza di spese in concreto non ancora sopportate e a creare fittiziamente il presupposto costitutivo del diritto alla detrazione.

il ricorrente aveva svolto il compito di tecnico asseveratore in ben 139 lavori (su 181) inerenti il superbonus, gestiti tutti dallo stesso general contractor;

tutte le asseverazioni rilasciate erano relative al primo S.A.L. dei lavori al 30%;

denunce querela bologna
denunce querela bologna

in esse, non era mai indicato il numero di protocollo del deposito in comune;

mancava sempre, in tutte le procedure sospette, l’allegazione dell’Ape post intervento;

l’importo complessivo delle spese asseverate a copertura dei lavori, non era coincidente con quanto dichiarato dal tecnico nelle asseverazioni, di volta in volta, inoltrate agli organi di controllo;

in relazione a tutti i pagamenti ricevuti dal general contractor, il professionista non aveva emesso fatture, tanto che non è stata offerta dal ricorrente alcuna contraria prova documentale, né in primo grado, né in sede di riesame;

ancora, in relazione ad almeno uno dei tre contratti assicurativi rinvenuti dagli inquirenti, ed obbligatori, secondo il Decreto Rilancio, a garanzia della correttezza delle operazioni di asseverazioni, il premio relativo risultava pagato dal general contractor. Tale circostanza è parsa alla Suprema Corte assolutamente anomala, posto che è il tecnico asseveratore a dover sottoscrivere la polizza e l’importo da lui corrisposto alla compagnia assicurativa, a saldo della quietanza, può essere dedotto ai fini del pagamento delle imposte sui redditi.

AVVOCATO PENALISTA BOLOGNA INFO
AVVOCATO PENALISTA BOLOGNA INFO

SUPERBONUS 110

Il ruolo del tecnico asseveratore, secondo i giudici della Suprema Corte in riferimento alla Sentenza sopra citata può generare il “fumus” della partecipazione al meccanismo fraudolento, in virtù delle seguenti circostanze:
* il professionista ha svolto il ruolo di asseveratore in 139 pratiche di Superbonus nell’arco di pochi mesi;
* sono stati reperiti i contratti assicurativi sottoscritti dal professionista, il premio di almeno uno dei quali sarebbe stato pagato dal GC stesso, circostanza che appare anomala, atteso che è il tecnico asseveratore a dover sottoscrivere la polizza assicurativa a garanzia di eventuali danni provocati dalla sua attività e non l’impresa che effettua i lavori sui quali si svolge la verifica del tecnico;

La Cassazione continua, evidenziando come nelle asseverazioni esaminate dall’ENEA e relative al Consorzio sono state riscontrate varie anomalie, come il fatto che:

  • si riferiscono tutte al primo SAL del 30%;
  • in esse non viene dichiarato il numero di protocollo del deposito in comune, prima dell’inizio lavori, della relazione tecnica ex art. 28 della legge 10/91 ed ex art. 8 del d.lgs.. 192/05, ma solo la dizione “PEC”;
  • non viene allegato l’ APE post intervento.

Inoltre, il computo metrico allegato è quasi sempre non pertinente e il relativo importo complessivo dei lavori non coincide con quanto dichiarato nell’asseverazione.
 non sono state rinvenute fatture emesse dal professionista a fronte dei pagamenti ricevuti dal Consorzio per le asseverazioni rilasciate;
* le asseverazioni sono state firmate tramite una firma apposta dal professionista tramite un file immagine, sempre identica, espressione secondo i Giudici di una modalità “automatica” di asseverazione, compiuta in difetto dei necessari controlli e delle verifiche previste dalla legge che sono alla base dell’attività dell’asseveratore;
* le asseverazioni si riferiscono tutte al primo SAL del 30%;
* che nelle asseverazioni non viene dichiarato il numero di protocollo del deposito in Comune, prima dell’ inizio lavori, della relazione tecnica ex art. 28 della L. 10/1991 e art. 8 del D. Leg.vo 192/2005, ma solo la dizione “PEC”, e che non viene allegato l’APE convenzionale post intervento;
* che il computo metrico allegato alle asseverazioni è in molti casi non pertinente e il relativo importo complessivo dei lavori non coincide con quanto dichiarato nell’asseverazione;
* che in alcuni casi viene erroneamente dichiarato che il Comune di ubicazione dell’edificio oggetto dell’intervento è compreso nell’elenco dei comuni di cui al comma 4-ter, art. 119 del D.L. 34/2020.

IntestazioneSvolgimento del processoMotivi della decisioneP.Q.M.Conclusione

Intestazione

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI NICOLA Vito – Presidente –

Dott. ACETO Aldo – Consigliere –

Dott. GENTILI Andrea – Consigliere –

Dott. SCARCELLA Alessio – rel. Consigliere –

Dott. ZUNICA Fabio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

A.A., n. (Omissis);

B.B., n. (Omissis);

avverso l’ordinanza dell’8/02/2022 del Tribunale del riesame di Foggia;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;

sentita la relazione svolta dal consigliere Alessio Scarcella;

udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. CIMMINO Alessandro, che, nel riportarsi alle conclusioni di cui alla requisitoria già depositata dal proprio Ufficio, ha chiesto il rigetto del ricorso;

udite, per i ricorrenti, le conclusioni dell’Avv. Andrea Gemma e dell’Avv. Fabio Lattanzi, i quali, in esito alla discussione orale, hanno insistito per l’accoglimento dei ricorsi.

Svolgimento del processo

  1. Con ordinanza 8.02.2022, il tribunale del riesame di Foggia rigettava l’istanza di riesame avverso il decreto di sequestro preventivo disposto dal GIP/Tribunale di Foggia in data 17.01.2022 delle quote e delle aziende di alcune società (tra cui quelle riferibili agli attuali indagati), dei crediti di imposta attualmente nelle disponibilità delle società medesime nonchè quelli dalle stesse ceduti, anche presso i terzi cessionari, per un importo complessivo pari ad Euro 1.017.680.552,00 da eseguirsi mediante blocco sul portale A.d.E. e corrispondente riduzione dei plafond di crediti fiscali compensabili nei rispettivi cassetti fiscali, nominando apposito amministratore giudiziario, il tutto relativamente ai reati di emissione di fatture per operazioni inesistenti e truffa aggravata ai danni dello Stato (D.Lgs. n. 74 del 2000art. 8; art. 640, cpv. n. 1, c.p.).
  2. Propongono sperati ricorsi per cassazione il B.B. e la A.A., a mezzo dei rispettivi difensori fiduciari, deducendo tre motivi di identico contenuto, di seguito illustrati.

2.1. Deducono, con il primo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 8 e all’art. 125, comma 2, c.p.p. In sintesi, premesso che il provvedimento ritiene sussistente il fumus del reato fiscale in esame fondandolo sulla pretesa falsa fatturazione che integrerebbe il delitto de quo e costituirebbe l’artificio previsto dal reato di truffa, sostiene la difesa dei ricorrenti che già in sede di riesame era stata depositata una memoria difensiva che, avvalendosi di analitica produzione documentale, aveva provato l’inesistenza della falsa fatturazione oggetto di contestazione. Richiamato il contenuto della memoria, si sostiene che i giudici del riesame avrebbero omesso di confrontarsi con le deduzioni difensive, appiattendosi sull’argomentazione del primo giudice, riportando alcuni passaggi dell’ordinanza da cui emergerebbero evidenti errori (la circostanza che gli interventi eseguiti non fossero quelli previsti dal D.L.n. 34 del 2020 ma dal D.L. n. 63 del 2013, c.d. ecosismabonus; la circostanza che dagli atti risulta che nessuna compensazione è stata effettuata dai contribuenti indagati), e contestando il sillogismo operato dai giudici del riesame secondo i quali al cospetto di una incompleta e parziale esecuzione dei lavori, peraltro relativi a cantieri esistenti e dimostrati, non avrebbero potuto essere emesse le fatture in acconto oggetto di contestazione, con la conseguenza che le stesse dovrebbero considerarsi false e le operazioni inesistenti. I giudici, tuttavia, avrebbero omesso di considerare che si tratta di fatture emesse in acconto, ossia in anticipo rispetto alla materiale esecuzione dei lavori, come previsto dalla normativa in tema di ecosismabonus, e che fe stesse sono state utilizzate dalle società Mama International Business Srl , acronimo MIB, e dalla Sviluppo Immobiliare Valle Srl , acronimo SIV, in conformità alla normativa atteso che per ciascun cantiere: a) è presente la manifestazione della volontà delle parti di voler ristrutturare usando/cedendo il credito d’imposta spettante a chi realizzerà le opere, c.d. sconto in fattura (si tratterebbe delle delibere condominiali, contratti di appalto, etc.); b) è presente la comunicazione all’A.d.E. della volontà di cedere il credito d’imposta per ristrutturare l’immobile sulla Piattaforma Cessione Crediti al fine di rendere solo virtualmente visibile il relativo credito d’imposta; c) vi è la possibilità per l’appaltatrice di continuare a cedere tale credito d’imposta quinquennale o decennale a terzi proprio per renderlo liquido, monetizzarlo e consentire il pagamento di tutti i costi finalizzati alle opere di ristrutturazione. Nel caso di specie, le operazioni descritte in fattura sarebbero tutte esistenti, essendovi stato il sostenimento della spesa, ossia il pagamento della fattura tramite il c.d. bonifico parlante, per ciascun anno d’imposta, dimostrato ed esistente grazie alla cessione dell’85% del credito del committente/contribuente verso l’appaltatore, oltre al saldo del restante 15% e dell’IVA sul totale fattura/acconto. Non sarebbe quindi possibile parlare nella specie di operazioni inesistenti solo perchè taluni o parte dei lavori non siano stati eseguiti alla data della fattura, in quanto la normativa sull’ecosismabonus “funziona” in anticipazione finanziaria, autorizzando espressamente la legge l’emissione anticipata della fattura, nè richiedendo che i lavori siano eseguiti perchè possa venire in esistenza il credito e lo stesso possa essere ceduto, possibilità di cessione consentita, peraltro, dietro la semplice emissione della fattura e del pagamento delle somme a carico del contribuente secondo il principio di cassa. Richiamati a tal proposito i meccanismi di funzionamento dei regimi agevolativi in esame (sismabonus, ex D.L.n. 63 del 2013 art. 16, conv. in L. 90 del 2013; ecobonus, ex D.L.n. 63 del 2013 art. 14; ecosismabonus, ex D.L.n. 63 del 2013 art. 1 4 comma 2-quater, conv. in L. 90 del 2013), evidenzia la difesa dei ricorrenti come proprio quest’ultimo, quello utilizzato da MIB e SIV, prevede la possibilità di usufruire di una detrazione dell’85% con la riduzione di due o più classi di rischio sismico, con un limite di spesa complessivo pari a 136.000 Euro per ogni unità immobiliare che compone l’edificio condominiale, individuando come beneficiari del regime agevolativo i singoli proprietari delle unità immobiliari che sostengono la spesa in forza di delibera condominiale, sia i soggetti che a vario titolo anche attraverso contratti personali di godimento, detengono il possesso dell’immobile. Svolte, quindi, alcune considerazioni circa il funzionamento atteso di tale meccanismo agevolativo, la difesa precisa che tali regimi agevolativi sono confluiti nel più recente provvedimento di cui al D.L. n. 34/2020 che ha introdotto il c.d. superbonus, senza tuttavia sopprimere i preesistenti maccanismi, sottolineando come, tra le disposizioni della più recente normativa, sia applicabile, al c.d. ecosismabonus, l’art. 121 che ha introdotto in via generalizzata la possibilità di optare in via alternativa alla detrazione, per lo sconto in fattura o per la cessione del credito derivante dall’applicazione di tutti i bonus, quindi sia il nuovo superbonus che i precedenti, tra cui l’ecosismabonus, così liberalizzando il meccanismo della cessione del credito e la possibilità di una sua plurima cessione (almeno nella fase iniziale della normativa, n.d.r.). Ciò che distingue, tuttavia, la nuova normativa sul c.d. superbonus da quella sul c.d. ecosismabonus, è la circostanza che l’opzione dello sconto in fattura/cessione del credito può essere in quest’ultimo caso esercitata anche laddove nel contratto di appalto non sia prevista l’emissione di stati di avanzamento lavori (c.d. SAL), e senza dover tener conto del SAL, quindi anche prima dell’inizio dei lavori, differenza che risulta confermata da una serie di interventi sia del Ministero dell’Economia e delle Finanze che dell’A.d.E. (in ricorso si richiamano: risposta MEF ad interrogazione parlamentare 5-06307; risposta MEF 10.11.2021 ad interrogazione parlamentare 5-07055; risposta MEF 20.10.2021 ad interrogazione parlamentare 5-06751; circolare A.d.E. 24/E dell’8.08.2020; Circolare A.d.E. 30/E del 22.12.2020).

Alla luce di quanto sopra, dunque, per la difesa è dimostrato che al momento dell’emissione della fattura per pretese operazioni inesistenti, non era necessario avere intrapreso, avviato od eseguito i lavori, con la conseguenza che verrebbe meno il “sillogismo” cui si è accennato in precedenza, secondo cui alla mancata esecuzione dei lavori prima dell’emissione della fattura corrisponderebbe un’operazione inesistente. La normativa, certamente, richiede che i lavori siano eseguiti, ma il legislatore avrebbe approntato un sistema di controlli ex post che, ove negativamente conclusi, determinano la revoca dell’agevolazione ed il recupero delle somme anticipate, maggiorate di sanzioni ed interessi, senza tuttavia imporre un termine entro il quale detti lavori debbano essere ultimati al fine di poter usufruire dell’agevolazione, limitandosi a precisare che i lavori devono essere eseguiti in conformità con i titoli abilitativi (dunque, secondo la normativa edilizia, per prassi si ritiene che detto termine sia di 3 anni dalla data di inizio lavori, che in caso di p.d.c. devono essere iniziati entro 1 anno dal rilascio del titolo e, in caso di CILA, entro 30 gg. dalla presentazione del titolo), termini peraltro prorogabili su richiesta e privi di natura perentoria. Si aggiunge, peraltro, in ricorso che fiscalmente l’emissione delle fatture è perfettamente conforme alla disciplina vigente come confermato anche dalla giurisprudenza CGUE (il riferimento è in particolare, all’interpretazione operata con la sentenza “Bupa Hospital” 21.06.2006, in causa C-4019/02 e con la sentenza “Lebara” 3.05.2021, in causa C-520/10), con la conseguenza che, anche con riferimento ai crediti di imposta relativi alla disciplina in materia di ecosismabonus, il legislatore sarebbe in linea con la giurisprudenza Eurounitaria purchè si sia al cospetto di una sufficiente determinatezza degli elementi essenziali dell’operazione, circostanza provata nella specie, essendosi all’evidenza in presenza di operazioni sufficientemente determinate al momento dell’emissione delle fatture, essendo peraltro coerente l’anticipazione dell’esigibilità dell’imposta con la ratio del bonus fiscale che incentiva con il monte fiscale gli interventi edilizi in questione e li finanzia con il sistema dello sconto in fattura o della cessione del credito: l’emissione della fattura in acconto nella logica del sistema ecosismabonus necessariamente anticipa l’avvio dei lavori.

Sulla scorta di tale ricostruzione, pertanto, la difesa dei ricorrenti evidenzia come, in concreto, le società riferibili agli indagati avrebbero rispettato tutti i requisiti previsti dalla normativa per accedere al regime agevolativo, come dimostrato dal deposito dei documenti acquisiti agli atti del procedimento (v. pag. 14 ricorso), evidenziandosi come, in sede di riesame, il PM avrebbe prodotto una nota G.d.F. da cui risulta che tutti i cantieri sono stati rinvenuti, tutti hanno SAL e tre cantieri non sono stati visitati perchè fuori dalla regione Puglia, e non già perchè non sono stati trovati come si afferma erroneamente nell’ordinanza, aggiungendosi inoltre come tutti i titoli sono di recente emissione, sicchè i termini per l’esecuzione dei lavori evidentemente non sono scaduti per nessuno dei cantieri; da qui, dunque l’inesistenza del fumus del D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 8.

2.2. Deducono, con il secondo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione agli artt. 325, c.p.p., D.Lgs. n. 74 del 2000 artt. 89 e 12-bis, e correlato vizio di motivazione apparente ex artt. 125, comma 3, e 321, comma 2, c.p.p. In sintesi, si sostiene che i giudici del riesame avrebbero acriticamente recepito l’ordinanza di convalida ed il contestuale decreto di sequestro preventivo disposto dal GIP identificando il profitto del reato tributario di cui all’art. 8 citato nei crediti di imposta asseritamente generati dalle false fatture di cui si contesta l’emissione agli attuali indagati. Detta impostazione non sarebbe condivisibile, ad avviso della difesa, proprio in considerazione della peculiare natura giuridica del delitto di emissione di fatture per operazioni inesistenti, evidenziandosi come il PM avrebbe ipotizzato che gli attuali indagati avessero operato attraverso le condotte descritte nell’imputazione cautelare al precipuo fine di consentire a terzi rimasti ignoti un’indebita compensazione. Si osserva, però, che, essendo escluso il concorso tra emittente ed utilizzatore dal D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 9, dovrebbe escludersi che il profitto del reato conseguito dall’emittente le fatture false corrisponda al profitto conseguito dall’utilizzatore, potendo coincidere solo quest’ultimo con l’ammontare del credito ceduto e dovendosi per converso identificare il primo nel solo prezzo del reato, vale a dire nel corrispettivo solo eventualmente ottenuto per la falsa fatturazione. A sostegno dell’assunto, in particolare, la difesa dei ricorrenti richiama giurisprudenza di questa Sezione (il riferimento è a Cass. 37933/2021 nonchè a Cass. 6288/2010), concludendo quindi che il sequestro, disposto nella specie per il valore complessivo dei crediti d’imposta generati dalle false fatture emesse dalle indagate sarebbe stato operato al di fuori del perimetro applicativo del D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 12-bis.

Si aggiunge, peraltro, che nel provvedimento impugnato non è richiamato l’istituto della confisca ex art. 640-quater, c.p., e del sequestro ad essa funzionale, con la conseguenza che l’applicabilità di tale norma, riferibile in astratto al delitto di truffa aggravata pure ipotizzato nel caso in esame, andrebbe esclusa, rilevando ciò in punto di identificazione del profitto confiscabile (e, quindi, di pertinenzialità della res con la disposta misura del sequestro), posto che l’ordinanza impugnata attiene esclusivamente al sequestro preventivo operato ex D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 12-bis, riferibile solo al delitto di emissione di false fatture per operazioni inesistenti, il cui profitto coincide, pur sempre, con il corrispettivo eventualmente versato dall’accipiens, ossia dall’autore del reato di frode fiscale ex D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 2, dovendosi rilevare tuttavia che, nella specie, l’autore del reato non è stato identificato, che è rimasto ignoto l’ammontare del presunto vantaggio compensativo nè ipotizzato un corrispettivo per l’emissione delle fatture in tutto in parte inesistenti, donde non esisterebbe alcun vantaggio economico suscettibile di sequestro per gli attuali indagati.

2.3. Deducono, con il terzo motivo, il vizio di violazione di legge in relazione all’art. 640-quater, c.p. e correlato vizio di carenza della motivazione in relazione agli artt. 125, comma 3 e 321, comma 2, c.p.p. nonchè violazione dell’art. 117, Cost., quale norma interposta in relazione al diritto di proprietà tutelato dall’art. 1, prot. 1 CEDU e violazione dell’art. 11 Cost., in relazione all’art. 52, p.1, CFDUE. In sintesi, ribadito che nell’ordinanza impugnata non vi sarebbe alcun riferimento alla confiscabilità dei beni ex art. 640-quater, c.p., si insiste sul fatto che la misura ablatoria non sarebbe stata disposta in funzione di confisca prevista da tale disposizione. Ad ogni modo, la difesa dei ricorrenti sostiene che la paventata truffa difetterebbe comunque dell’identificazione del profitto confiscabile, in quanto nè il GIP nè l’ordinanza del tribunale del riesame avrebbero argomentato in merito al quantum del profitto relativo alla ipotizzata truffa. Parimenti sarebbe mancante la motivazione quanto al periculum in mora, in relazione al sequestro disposto per tutti i reati ipotizzati, soprattutto alla luce del recente arresto delle Sezioni Unite El/ade n. 36959/2021, non essendo indicate le ragioni per cui si sarebbe resa necessaria l’anticipazione dell’effetto ablativo prima della definizione del giudizio, in particolare emergendo dal p. 6 dell’ordinanza solo l’indicazione delle ragioni del sequestro impeditivo, e la presunta illiceità del bene, derivante dal canale di conseguimento dello stesso, quindi dal reato, ancora sub iudice e da accertare. Nemmeno l’ordinanza conterrebbe argomenti circa le ragioni di anticipazione della cautela reale, ex art. 321, comma 2, c.p.p., soffermandosi solo sul sequestro impeditivo e sulla nozione di profitto confiscabile ex D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 12-bis. Nè potrebbe argomentarsi, infine, che la natura obbligatoria della confisca rende automaticamente obbligatorio il sequestro ad essa funzionale, posto che il comma 2 dell’art. 321, c.p.p. facoltizza e non impone il sequestro, sicchè ove si affermasse che anche il sequestro disposto a norma del comma 2 dell’art. 321, c.p.p., è legittimo in virtù della confiscabilità del bene e della conseguente insita pericolosità oggettiva, si finirebbe per trascurare la natura autonoma e diversa da quello impeditivo, svilendo la diversità tra i diversi tipi di confisca ed i sequestri ad essa funzionali. Quanto sopra troverebbe conforto anche nella giurisprudenza CEDU e CGUE richiamata in ricorso (v. pag. 21). L’assenza assoluta di motivazione sul punto, quindi, determinerebbe la nullità del provvedimento ex art. 125, comma 3, c.p.p. 3. Con requisitoria scritta del 31.08.2022, il Procuratore Generale presso questa Corte ha chiesto il rigetto del ricorso.

In particolare, quanto al primo motivo, il Tribunale ha valutato la tesi difensiva secondo cui, in estrema sintesi, sarebbero state emesse fatture “in acconto” rispetto alla materiale esecuzione dei lavori. Sul punto, è stato rilevato che “in relazione a n. 182 interventi oggetto di relazioni tecniche da parte dei professionisti, non risulta ancora dichiarato, nè avviato alcun cantiere; per quanto riguarda, invece, i 58 cantieri già dichiarati come avviati, dai sopralluoghi eseguiti, è emersa l’inesistenza di n. 3 cantieri” (cfr. pag. 11 del provvedimento impugnato). Tali risultanze, unitamente alle altre evidenziate nel provvedimento, sono state ritenute sufficienti, con motivazione condivisibile, per ravvisare il fumus dei reati contestati, in particolare quello di emissione di fatture per operazioni inesistenti, perchè “rendono inconsistenti le censure avanzate dalla difesa in merito all’esistenza degli interventi edilizi e alla conseguente legittimità delle agevolazioni fiscali conseguite” (cfr. pag. 16).

In relazione al secondo motivo, in forza dell’indirizzo giurisprudenziale richiamato dai ricorrenti, in tema di emissione di fatture per operazioni inesistenti, non può essere disposto il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente, sui beni dell’emittente per il valore corrispondente al profitto conseguito dall’utilizzatore delle fatture medesime, in quanto il regime derogatorio previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 9 – escludendo la configurabilità del concorso reciproco tra chi emette le fatture ‘per operazioni inesistenti e chi se ne avvale – impedisce l’applicazione in questo caso del principio solidaristico, valido nei soli casi di illecito plurisoggettivo (cfr., Sez. 3, n. 43952 del 05/05/2016, Rv. 267925 – 01, in motivazione, la S.C. ha chiarito che il vincolo nei confronti dell’emittente può essere imposto in relazione al solo prezzo del delitto di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 8, da individuare – in sede di sequestro – con riferimento a qualsiasi utilità economica valutabile ed immediatamente o indirettamente derivante dalla commissione del reato). Nella specie, però, il sequestro non è stato compiuto nei confronti delle sole società emittenti le fatture per operazioni inesistenti, essendo emerso che le società raggiunte dal provvedimento si sono precostituite, “attraverso cessioni reciproche”, i requisiti per poter conseguire i crediti di imposta allo scopo di cederli in qualità di prime cedenti. Esse hanno “emesso fatture, reciprocamente l’una nei confronti dell’altra, per importi rilevanti e pari alla quasi totalità dei costi” (cfr. pag. 6 e 7). In un simile contesto, pertanto, il sequestro non ha colpito le società emittenti, ma quelle che si sono avvalse delle fatture, conseguendo il profitto per effetto della cessione. I crediti d’imposta generati dalle false fatture, come ha rilevato il Tribunale, costituiscono il profitto del reato e come tale possono essere oggetto del sequestro. Può essere utile anche aggiungere che “le società hanno due unità locali in comune” e che, prima del 2020 “dichiaravano un volume d’affari modesto ed irrisorio rispetto agli importi fatturati dall’entrata in vigore delle agevolazioni” (cfr. pag. 8).

In ordine al terzo motivo, il provvedimento impugnato ha affrontato con argomenti condivisibili il tema del periculum in mora, ritenendo sussistente, tra l’altro, il pericolo che gli indagati possano incamerare definitivamente i crediti d’imposta ancora circolanti, non impedito dal fatto che l’Agenzia delle entrate ha disposto una misura temporanea di blocco della cessione dei crediti.

  1. La difesa, con tempestiva richiesta depositata telematicamente, ha chiesto ed ottenuto la trattazione orale dei ricorsi.

Motivi della decisione

  1. I ricorsi, trattati oralmente ex D.L. n. 137 del 2020art. 23, comma 8,, e successive modifiche ed integrazioni, sono complessivamente infondati.
  2. Il primo motivo è infondato.

I giudici del riesame hanno, con motivazione del tutto adeguata e analitica, indicato le ragioni per le quali il fumus del reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 8 può essere ritenuto configurabile nella vicenda esaminata.

Il provvedimento impugnato si caratterizza, infatti, per la attenta e puntuale ricostruzione del meccanismo fraudolento messo in opera dagli indagati, utilizzando società a loro riferibili, che, abusando del regime di detrazioni fiscali introdotto allo scopo di favorire la ripresa economia nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia, hanno tratto profitto illecito dalla creazione e successiva cessione a terzi di crediti di imposta inesistenti.

In particolare, a seguito dell’individuazione di anomale e rilevanti operazioni effettuate sulla Piattaforma Cessione crediti, l’Agenzia delle Entrate aveva individuato alcuni soggetti, società e persone fisiche, tra cui gli stessi indagati ricorrenti, che, nella ricostruzione della Pubblica Accusa, favorevolmente vagliata dal Gip prima e dal tribunale del riesame poi, attraverso un’articolata organizzazione, hanno ideato, realizzato e gestito un sistema fraudolento finalizzato alla creazione e monetizzazione di falsi crediti d’imposta per oltre un miliardo di Euro. In particolare, nella corretta ricostruzione operata dai giudici del merito, la simulazione della sussistenza dei presupposti costitutivi del beneficio fiscale – ovvero del diritto del contribuente alla detrazione dell’imposta lorda dell’intero importo delle spese sostenute per gli interventi di cui al D.L. 34 del 2020 (nonchè degli ulteriori interventi previsti dalla previgente disciplina, anche in tema di ecosismabonus, nella prospettiva degli indagati) – è risultata strumentale alla creazione di crediti di imposta inesistenti, suscettibili dell’opzione di cui al D.L. n. 34 del 2020 art. 121, in funzione della realizzazione di un duplice illecito obiettivo: da un lato, l’indebito conseguimento di ingenti liquidità monetarie di lecita provenienza, ottenute attraverso la cessione dei crediti a istituti di credito o intermediari finanziari, in talune ipotesi, attraverso la previa cessione intermedia a società ovvero a persone fisiche compiacenti; dall’altro, l’elusione fiscale attuata mediante indebita compensazione dei crediti di imposta, con conseguente locupletazione dei profitti derivanti dall’omesso versamento delle imposte dovute, il c.d. ri Spa rmio di spesa.

La descrizione del meccanismo fraudolento, nello specifico, viene dettagliatamente riportata nelle pagg. 6 e segg. del provvedimento impugnato, cui in questa sede si opera integrale rinvio per esigenze di economia motivazionale trattandosi di argomentazioni note agli indagati, nè essendo tenuta questa Corte a ripercorrere gli argomenti in fatto, ma soffermarsi unicamente su quelle questioni di diritto rilevanti, tenuto conto, del resto, dei ristretti limiti di impugnabilità previsti dall’art. 325, c.p.p., che esclude la consumabilità del vizio di motivazione, salvi i casi di motivazione apparente (per tutte: Sez. U, n. 5876 del 28/01/2004 – dep. 13/02/2004, PC Ferazzi in proc. Bevilacqua, Rv. 226710 01), che evidentemente non è rilevabile nella presente vicenda attesa la completezza del compendio argomentativo sviluppato dai giudici del riesame.

2.1. In tale contesto, dunque, è utile soffermarsi solo sugli elementi utili a verificare la sussistenza del fumus del delitto di emissione di false fatture per operazioni inesistenti, la cui configurabilità è stata contestata dalla difesa degli indagati.

A tal proposito, è emerso che gli organi inquirenti, analizzando gli acquisti e le cessioni poste in essere dalle società riconducibili agli indagati (per brevità denominate MIB e SIV), hanno accertato che nel 2021 le stesse hanno emesso fatture “reciprocamente l’una nei confronti dell’altra” (pag. 7 ordinanza impugnata), per importi rilevanti e pari alla quasi totalità dei costi. Nello specifico la SIV, costituita solo nel 2019, riceve fatture solo nel 2020 e nel corso del 2021 per un importo complessivo superiore a 607m1n di Euro e la MIB costituisce il suo maggiore se non unico fornitore. Mentre nel 2020 SIVnon ha emesso alcuna fattura, nel 2021 emette fatture esclusivamente verso MIB per 568 mln di Euro. Nello stesso periodo, MIB riceve fatture per un importo superiore a 614m1n di Euro, rappresentando SIVil suo principale fornitore. Proprio tali fatture costituiscono la fonte dei considerevoli crediti di imposta di cui le stesse risultano beneficiarie, crediti che hanno formato oggetto sia di reciproche compravendite, sia di ulteriori cessioni ad altri soggetti tra cui, anzitutto, altre due società che compaiono nell’indagine la AD TRADING Srl e la SPEED RAIL WAYS Srl .

Risulta, nello specifico, che la SIVtra il novembre 2020 ed il novembre 2021 ha acquistato crediti di imposta per ecobonus e sismabonus del valore di oltre 365m1n di Euro, e ne ha ceduti 563m1n. Di questi, oltre 335m1n di Euro costituiscono prime cessioni, donde, come evidenziano i giudici del riesame, la società avrebbe dovuto aver maturato i requisiti per conseguire tali crediti di imposta, aver investito negli interventi oggetto di agevolazione e, quindi, risultare destinataria di fatture per importi pari almeno all’importo ceduto.

La singolarità del fatto – che destituisce di fondamento le argomentazioni difensive – sta nel fatto che le operazioni in cui la SIVcompare come primo cedente vedono come cessionaria la MIB e, nello stesso periodo, quest’ultima emette fatture verso la SIVper oltre 594 mln di Euro. La MIB tra novembre 2020 e novembre 2021 cede complessivamente crediti di imposta per 516 mln di Euro, di cui oltre 327 mln di Euro a SIV. Ne deriva, quindi, nella corretta ricostruzione dei giudici del riesame, che per cedere i crediti di imposta di rilevante entità, in qualità di primo cedente, sono stati maturati da MIB a seguito di presunti lavori di ristrutturazione edilizia realizzati e di conseguenza fatturati a suo favore da SIVe viceversa.

Allarmante è il quadro che emerge dall’ordinanza impugnata circa la capziosità del meccanismo fraudolento posto in essere dagli indagati attraverso le società a loro riconducibili, MIB e SIV, che non solo hanno due unità locali in comune, ma le cui compagini risultano esattamente sovrapponibili essendo il 50% del capitale pari a 100.000 Euro per entrambe le società, di proprietà dei due indagati al 50% delle quote ciascuno, risultando formalmente amministrate entrambe dal B.B..

Ulteriore dato che rende chiara la manovra fraudolenta complessivamente posta in essere è rappresentato dalla circostanza che la MIB è proprietaria di 1194 immobili e 10 terreni nel comune di Vieste e di 126 immobili e 7 terreni nel comune di (Omissis), ma risulta che 1152 immobili, pari all’87% del totale, sono di categoria C/6, ossia stalle, scuderie, rimesse e autorimesse, con rendita catastale media di 50 Euro:. è dunque evidente, come bene sottolineano i giudici del riesame, la sproporzione tra le caratteristiche intrinseche del bene e l’entità degli importi fatturati e, dunque, dei lavori edili da realizzare, posto che gli indagati hanno indistintamente richiesto, per tutti gli interventi, di poter usufruire della percentuale massima di detrazione, raggiungendo il tetto massimo di spesa previsto dalla legge.

Gli stessi giudici del riesame, peraltro – con ciò risultando priva di pregio la doglianza difensiva sul punto – danno conto nell’ordinanza impugnata della circostanza che le fatture emesse reciprocamente dalle due società sono tutte fatture di acconto, dunque relative a lavori tutti ancora da completare, con la conseguenza che i notevoli importi già fatturati e di per sè incongruenti, costituirebbero solo una parte del valore complessivo. A ciò va aggiunto che le fatture sono state emesse in poche giornate nell’arco di un ristretto periodo temporale, richiamandosi nel provvedimento, a titolo esemplificativo, la circostanza che l’11.11.2021 la SIVha emesso 52 fatture verso la cliente per complessivi 170 mln di Euro, mentre la MIB nella stessa data ha emesso 20 fatture per 119 mln di Euro. Ancora, emerge che la MIB ha stipulato nel 2021 50 contratti di locazione di immobili per un uso diverso dall’abitativo con canoni annui irrisori in molti casi pari a 300 Euro annui. Analogamente la SIV, che non possiede immobili, dalla fine del 2020, in qualità di conduttrice, ha concluso 85 contratti di locazione di negozi A/10 e di cantine C/2, situati tra (Omissis) e (Omissis), di proprietà di varie persone fisiche. Tali immobili sono stati fittiziamente presi in locazione dalle società, a canoni annuali esigui, dai 300 Euro ai 2400 Euro, al solo scopo di precostituirsi un requisito di accesso al bonus, come bene spiegato a pag. 9 dell’ordinanza impugnata.

Di conseguenza, sottolineano i giudici del riesame, le operazioni ritenute agevolabili dalla società e quindi da esse poste a fondamento dei crediti ceduti quali prime cedenti, sono state ricondotte a presunti lavori effettuati proprio sugli immobili detenuti quali conduttrici fittizie. Proprio in relazione a tale circostanza, i giudici del riesame, nell’assolvere al ruolo di garante della legittimità del vincolo cautelare apposto, sottolineano come, nella memoria depositata in data 8.02.2022, la difesa degli indagati avrebbe fornito una giustificazione dell’operazione che, anzichè smentire, sembrerebbe confermare allo stato l’ipotesi accusatoria. Ci si riferisce alla considerazione per la quale, ogni volta che la SIVo la MIB alternativamente rivestivano il ruolo di conduttore di un’unità immobiliare per potersi far carico degli altri condomini, degli oneri di anticipazione del corrispettivo dell’appalto, l’altra società assumeva il ruolo di appaltatore nella qualità di genera/ contractor, che applicava lo sconto in fattura previsto per la misura agevolativa dell’ecosismabonus. Stipulato il contratto di appalto, la società che assumeva il ruolo di GC, sia essa la MIB o la SIV, emetteva fattura nei confronti dell’altra società committente che aveva, dunque, l’obbligo di pagare il 15% della fattura, mentre il restante 85% dell’imponibile aveva titolo per richiedere il bonus fiscale sotto forma di credito di imposta, inviando richiesta all’A.d.E. tramite l’apposita piattaforma.

Orbene, come si legge nell’impugnata ordinanza, dalle indagini svolte, è tuttavia emerso che la SIVnel 2020 si è avvalsa della collaborazione di due lavoratori autonomi remunerati con importi irrisori (7500 e 150 Euro) e, nel 2021, ha versato finora ritenute su compensi di lavoro autonomo per complessivi 51.000 Euro, e per lavoro dipendente per complessivi 1.335 Euro. Analogamente MIB nel 2020 risulta avere avuto 3 dipendenti che hanno percepito redditi irrisori, e lo stesso vale per il 2021, come risulta dalle interrogazioni INPS, laddove nel 2021 la società ha versato ritenute per lavoro autonomo per complessivi 165.000 Euro.

Da qui l’ovvia e logica considerazione, svolta dai giudici del riesame, secondo cui l’entità della forza lavoro su cui le due società possono rispettivamente contare per eseguire i lavori in qualità di ditte appaltatrici non risulta coerente con il valore milionario dei lavori già reciprocamente fatturati, peraltro, solo a titolo di acconto.

A ciò va aggiunto come l’importo dei lavori – e ciò, si badi bene, a prescindere dal meccanismo della fatturazione in acconto su cui ruota il motivo di impugnazione, e che sconfesserebbe la tesi dell’insussistenza delle operazioni fatturate – appare sempre spropositata rispetto al presunto valore degli immobili locati, con riferimento, ad esempio a SIV, su lavori svolti per almeno 335 mln di Euro, ogni immobile avrebbe dovuto essere, in media, oggetto di interventi agevolabili per quasi 4 mln di Euro: ciò, come bene evidenziano i giudici del riesame, deriva dalla circostanza che, al fine di ottenere la maggior agevolazione possibile, per ogni intervento edilizio, le società hanno indicato prezzi esorbitanti per l’esecuzione dei lavori, non congrui rispetto alle caratteristiche degli immobili e agli interventi realizzabili in concreto, ed hanno usufruito esclusivamente della percentuale massima di detrazione, pari per il sisma bonus all’85% delle spese sostenute se vi è il passaggio a due classi di rischio sismico inferiore, calcolata sull’ammontare massimo delle spese previsto dalla legge, ossia 96.000 Euro per sisma bonus da moltiplicare per il numero delle unità immobiliari nel caso di condomini.

Tra gli elementi individuati dai giudici del riesame a sostegno della prospettazione accusatoria, vi è, ancora, la circostanza, corroborata dal PM con produzione documentale nel corso dell’ud. 8.02.2022, per cui a fronte di dichiarazioni di cessione di crediti già effettuate sulla relativa piattaforma web da parte delle società indagate in relazione ad interventi edilizi per importi rilevanti (da 1.618.400,00 Euro a 5.433.200,00 Euro) è stata riscontrata l’assenza dei relativi titoli amministrativi abilitativi all’esecuzione dei lavori. In alcuni casi, si legge nel provvedimento impugnato, l’istanza per ottenere -il titolo abilitativo risulta inoltrata dalle società indagate alle competenti autorità amministrative in data successiva all’emissione e all’esecuzione del provvedimento di sequestro oggetto di impugnazione. In particolare, gli accertamenti eseguiti sull’effettiva realizzazione degli interventi edilizi per cui le società indagate hanno dichiarato di aver in corso pratiche edilizie con sisma bonus, e di conseguenza hanno già effettuato dichiarazione di cessione di crediti sulla piattaforma web, hanno evidenziato che vi sono 244 pratiche edilizie curate da soli 12 professionisti e, soprattutto, in relazione a 182 interventi oggetto delle predette relazioni tecniche, non risulta ancora dichiarato nè avviato alcun cantiere, mentre per quanto riguarda i 58 cantieri già dichiarati come avviati, dai sopralluoghi eseguiti, sarebbe emersa l’inesistenza di 3 cantieri (non rilevando, su tale ultima circostanza, la contestazione difensiva fondata sul fatto che in realtà i cantieri si sarebbero trovati fuori dalla Puglia, contestazione che si fonderebbe su un presunto travisamento probatorio dell’informativa G.d.F., vizio tuttavia non deducibile in questa sede in considerazione dei ristretti limiti imposti dall’art. 325, c.p.p.).

Significativa, peraltro, al fine di escludere qualsiasi valenza alle considerazioni espresse dagli indagati nel motivo di ricorso – si ripete fondato su una presunta erronea applicazione della normativa in materia, non essendo condizionata all’esecuzione preventiva dei lavori l’emissione delle fatture in acconto – è peraltro la circostanza, pure evidenziata dall’ordinanza impugnata (pag. 11) in cui si sottolinea come, con riferimento alle relazioni tecniche redatte dai professionisti incaricati circa lo stato dei luoghi, prodotte dagli indagati in sede di riesame, proprio il PM, nel corso dell’ud. 8.02.2022, ha rappresentato l’emersione di alcune anomalie che conducono a dubitare della veridicità dei dati ivi contenuti.

Il riferimento, a titolo esemplificativo, è ad una perizia datata 1.03.2022 a firma di tale Arch. C.C. che, all’atto dell’accesso della G.d.F. in data 21.01.2022 avrebbe disconosciuto il contenuto del documento dichiarando di averlo effettivamente redatto, ma di non ricordare di aver inserito i dati, i numeri e gli importi quali risultanti nel documento. Le successive verifiche eseguite dallo stesso professionista, che ha inviato l’originale del documento alla G.d.F. il giorno successivo all’accesso, hanno consentito di appurare che il documento originale a suo tempo consegnato alla società incaricata dell’esecuzione die lavori, fosse del tutto difforme da quello prodotto in giudizio dagli indagati.

2.2. Orbene, senza qui soffermarsi su ulteriori elementi di solida gravità indiziaria (quali, ad esempio, quelli afferenti ai rapporti tra la MIB e la SIVcon le altre due società attenzionate e con altri soggetti persone fisiche, queste ultime nella maggior parte dei casi, soggetti privi di reddito o con redditi esigui tutti residenti nella zona di (Omissis), in molti casi essendo appartenenti ad interi gruppi familiari tra loro collegati, figurando peraltro tra i cedenti, e talvolta anche tra i cessionari delle due società MIB e SIV, anche gli attuali indagati, cfr. pag. 16 ordinanza impugnata), non possono esservi dubbi in ordine alla sussistenza del fumus del delitto di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 8, atteso che l’emissione delle false fatture commerciali ha avuto la funzione di simulare l’esistenza delle relative spese sostenute e creare così fittiziamente il presupposto costituivo del diritto alla detrazione.

I correlati crediti di imposta, di importo corrispondente alla detrazione fittiziamente creata sono, dunque, inesistenti nella realtà, ma esistenti sulla carta e idonei all’utilizzo fiscale. Quanto sopra rende astrattamente configurabile il delitto in esame con riferimento alle fatture (capo 1) ed ai documenti aventi valore analogo alle fatture (capo 2), emesse dagli indagati al fine di comprovare l’esecuzione dei lavori ed il pagamento delle relative spese.

Si ribadisce come nessuno spessore argomentativo abbia la prospettazione difensiva, valutata dal tribunale, secondo cui, in estrema sintesi, sarebbero state emesse fatture “in acconto” rispetto alla materiale esecuzione dei lavori. Sul punto, si ricorda è stato rilevato che “in relazione a n. 182 interventi oggetto di relazioni tecniche da parte dei professionisti, non risulta ancora dichiarato, nè avviato alcun cantiere; per quanto riguarda, invece, i 58 cantieri già dichiarati come avviati, dai sopralluoghi eseguiti, è emersa l’inesistenza di n. 3 cantieri” (cfr. pag. 11 del provvedimento impugnato). Tali risultanze, unitamente alle altre evidenziate nel provvedimento, sono state ritenute sufficienti, con motivazione condivisibile e sufficiente ai fini della valutazione della sussistenza dell’illecito, per ravvisare il fumus dei reati contestati, in particolare quello di emissione di fatture per operazioni inesistenti, perchè “rendono inconsistenti le censure avanzate dalla difesa in merito all’esistenza degli interventi edilizi e alla conseguente legittimità delle agevolazioni fiscali conseguite” (cfr. pag. 16), oltre che prive di rilievo le deduzioni difensive circa le ragioni del mancato avvio dei lavori, atteso che l’illecito sistema, per come ideato ed attuato, aggira del tutto le fasi dell’esecuzione dei lavori (attestati nell’iter ordinario, dai computi metrici e dai SAL, certificati dal direttore die lavori), e del pagamento delle relative spese, presupposti ai quali la legge ricollega l’insorgenza del diritto alla detrazione fiscale: il riconoscimento normativo del beneficio esige, infatti, quali presupposti fattuali costitutivi il pagamento delle spese sostenute per gli interventi indicati dalla legge (per le persone fisiche, compresi gli esercenti le arti o professioni e gli enti non commerciali, per i quali vige il criterio di cassa) o l’ultimazione dei lavori (per le imprese individuali, le società e gli enti commerciali, per le quali vige il criterio di competenza), presupposti di cui va fornita in entrambi casi prova documentale, nella specie costituita proprio dalle fatture indicate nel capo 1 e dai documenti aventi valore analogo alle fatture indicati nel capo 2.

2.3. Più nello specifico, al fine di meglio lumeggiare l’approdo cui è pervenuta questa Corte nel ritenere l’inesistenza delle operazioni fatturate “in acconto” (e, dunque, configurabile il delitto di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 8), si osserva come la fruizione dei bonus fiscali per gli interventi edilizi è indissolubilmente vincolata all’esecuzione completa degli interventi stessi, secondo quanto indicato nei relativi atti abilitativi e nei tempi previsti dagli atti stessi. Le agevolazioni sono infatti concesse per l’esecuzione di interventi edilizi: per questo i suddetti interventi devono essere completati, e sempre per questo – ad esempio – per un intervento di riduzione del rischio sismico con Sismabonus non è sufficiente ultimare le opere strutturali e collaudarle, ma occorre comunque terminare l’intervento come dedotto nel titolo edilizio.

Il principio generale per discernere le spese agevolabili da quelle che non lo sono prevede che le spese, per poter essere detratte con i vari bonus, devono essere fatturate e pagate durante il periodo di vigenza dei bonus stessi, quindi entro la scadenza, come chiaramente indicato ad esempio per il Superbonus dalla Circolare 24/E/2020, punto 4 (“criterio di cassa” – vedi anche Circolare 25/06/2021, n. 7/E, pag. 293 per il Bonus ristrutturazioni, pag. 389 per l’Ecobonus;òpag. 423 per Eco-Sismabonus).

In applicazione del principio di cassa, per l’Ecobonus (cfr. risposte a FAQ Enea per l’Ecobonus, risposta n. 3.E) si consente – per i lavori non completati al termine del periodo d’imposta (anno solare) – di portare le spese in detrazione già nella dichiarazione dei redditi dell’anno successivo (es. spese 2021 già detraibili nella dichiarazione 2022 su redditi 2021). Questo, seppure si tratti di una detrazione sub iudice, legata come detto all’effettivo concretizzarsi dell’intervento nel suo complesso (tutte le opere indicate ed entro i tempi dettati dalle pratiche edilizie), quindi con il rischio che a eventuali controlli si riscontri la mancata fine dei lavori, caso in cui i benefici già fruiti verrebbero revocati (vedi in tal senso la risposta a interrogazione fornita dal Ministero economia e finanze il 17/11/2021 in Commissione VI (Finanze) alla Camera, risposta n. 5-07055). In assenza di chiarimenti, tale soluzione si ritiene applicabile anche al Sismabonus e più in generale agli altri bonus con requisiti. Nessun dubbio sorge invece per l’applicabilità di tale principio a quei bonus – Ristrutturazione 50% e Bonus facciate “non termico” – per i quali non è necessaria una attestazione concernente il rispetto di specifici requisiti tecnico-prestazionali.

Si può trarre da quanto sopra una prima conclusione: è possibile in linea generale, quando si deve semplicemente portare la spesa in detrazione in dichiarazione dei redditi, anticipare i pagamenti anche per lavori da eseguirsi, fermo restando che i benefici verrebbero revocati qualora i lavori non terminassero per intero come nei titoli edilizi. Anche qui si ricavano conferme dalla risposta a interrogazione fornita dal Ministero economia e finanze il 17/11/2021 in Commissione VI (Finanze) alla Camera, risposta n. 5-07055.

2.4. Il discorso muta però – ed in ciò si annida l’errore commesso dalla difesa – quando si intende sfruttare la possibilità di monetizzare fin da subito il credito, tramite la sua cessione o lo sconto in fattura, ai sensi dell’art. 121 del D.L. n. 34/2020. Detta opportunità è come noto consentita a fine lavori, oppure “a stato di avanzamento” (SAL), previa emissione del SAL stesso da parte di un tecnico, che attesti: a) l’avvenuta esecuzione di una determinata porzione dei lavori agevolabili (che per il Superbonus deve essere almeno il 30% mentre negli altri casi la percentuale è libera, potendosi emettere fino a un massimo di 9 SAL); b) la congruità delle relative spese sostenute.

Gli adempimenti di cui sopra, fino a poco tempo fa previsti solo per il Superbonus 110%, sono stati estesi ad opera del D.L. n. 157/2021 (c.d. “Decreto Antifrode” – Decreto Antifrode per il Superbonus e gli altri Bonus edilizi) a tutti i bonus edilizi, seppure solo in caso di cessione del credito (per la precisione ai fini dell’Ecobonus ordinario, l’attestazione di congruità delle spese era, e continua ad essere prevista anche in assenza di cessione del credito o sconto in fattura, vedi Ecobonus (110 e non), asseverazione e congruità dei costi: indicazioni pratiche e consigli).

A fini esegetici, illuminante è però la definizione di “Stato di avanzamento lavori” di cui al D.M. infrastrutture e trasporti n 49 del 7 marzo 2018art. 14, comma 1, lett. d), (Approvazione delle linee guida sulle modalità di svolgimento delle funzioni del direttore dei lavori e del direttore dell’esecuzione), il quale definisce lo “Stato di avanzamento lavori” come il documento che riassume tutte le lavorazioni e tutte le somministrazioni eseguite dal principio dell’appalto sino ad allora.

Si può trarre, pertanto, da quanto sopra una seconda conclusione: dovendo il tecnico attestare “tutte le lavorazioni e tutte le somministrazioni eseguite dal principio dell’appalto sino ad allora”, non devono essere incluse nel SAL lavorazioni che – seppure fatturate e pagate – non siano tuttavia state eseguite.

Quanto sopra anche perchè attraverso il SAL si sta sostanzialmente anticipando la completa “maturazione” del beneficio fiscale, che come si è detto è indissolubilmente vincolato all’esecuzione degli interventi, che alla fine dei lavori dovrà essere completa, mentre al SAL è relativa solo alla percentuale dedotta nel documento. Sulla base della definizione normativa di SAL, al massimo, possono essere validamente contabilizzate le eventuali mere somministrazioni (forniture) di beni a piè d’opera.

Ne segue, infine, come terza conclusione, che alla luce dell’approccio esegetico indicato in precedenza, non deve essere rilasciato il visto di conformità relativamente a cessione crediti in presenza di lavorazioni o somministrazioni non ancora eseguite.

Da qui, dunque, la complessiva infondatezza della tesi difensiva secondo cui sarebbero state emesse fatture “in acconto” rispetto alla materiale esecuzione dei lavori in quanto ciò sarebbe stato consentito per legge, laddove, diversamente, i dati normativi dianzi indicati collidono con tale interpretazione.

  1. Il secondo motivo è invece manifestamente infondato.

Proprio alla luce del descritto meccanismo evidenziato nell’ordinanza impugnata, non può trovare applicazione l’indirizzo giurisprudenziale richiamato dai ricorrenti, secondo cui in tema di emissione di fatture per operazioni inesistenti, non può essere disposto il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente, sui beni dell’emittente per il valore corrispondente al profitto conseguito dall’utilizzatore delle fatture medesime, in quanto il regime derogatorio previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 9 – escludendo la configurabilità del concorso reciproco tra chi emette le fatture per operazioni inesistenti e chi se ne avvale – impedisce l’applicazione in questo caso del principio solidaristico, valido nei soli casi di illecito plurisoggettivo (cfr., Sez. 3, n. 43952 del 05/05/2016, Rv. 267925 – 01, in motivazione, la S.C. ha chiarito che il vincolo nei confronti dell’emittente può essere imposto in relazione al solo prezzo del delitto di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 8, da individuare – in sede di sequestro – con riferimento a qualsiasi utilità economica valutabile ed immediatamente o indirettamente derivante dalla commissione del reato).

Come, infatti, ben evidenziato dal PG nella sua requisitoria scritta, nella specie, però, il sequestro non è stato compiuto nei confronti delle sole società emittenti le fatture per operazioni inesistenti, essendo emerso che le società raggiunte dal provvedimento si sono precostituite, “attraverso cessioni reciproche”, i requisiti per poter conseguire i crediti di imposta allo scopo di cederli in qualità di prime cedenti. Esse, come risulta dal provvedimento impugnato, hanno “emesso fatture, reciprocamente l’una nei confronti dell’altra, per importi rilevanti e pari alla quasi totalità dei costi” (cfr. pag. 6 e 7). In un simile contesto, pertanto, il sequestro non ha colpito (solo) le società emittenti (ossia la MIB e la SIV), ma (anche) quelle che si sono avvalse delle fatture (che sono, attesa la reciprocità dell’emissione, per come descritto dai giudici del riesame, ambedue le società), conseguendo il profitto per effetto della cessione.

I crediti d’imposta generati dalle false fatture, come ha rilevato il Tribunale, costituiscono il profitto del reato e come tale possono ben essere oggetto del sequestro ex D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 12-bis. E, in tale contesto, correttamente il PG ha ricordato quanto evidenziato nell’ordinanza impugnata, ossia che “le società hanno due unità locali in comune” e che, prima del 2020 “dichiaravano un volume d’affari modesto ed irrisorio rispetto agli importi fatturati dall’entrata in vigore delle agevolazioni” (cfr. pag. 8), a sostegno non solo della inesistenza delle operazioni fatturate ma anche della evidenza del complesso meccanismo fraudolento sotteso alle operazioni medesime.

Da ultimo, al fine di evidenziare l’indubbia legittimità del provvedimento di sequestro, si richiama quanto contenuto a pag. 22 del provvedimento impugnato, laddove viene chiarito che proprio l’informatizzazione delle procedure tributarie attribuisce immediata efficacia all’iscrizione nel sistema informatico della situazione debitoria del contribuente, sicchè l’alterazione di documenti informatici preordinata a simulare l’esistenza di un credito di imposta, come la comunicazione dell’opzione ex D.L. n. 34 del 2020 art. 121, – produce, con l’accettazione dell’Amministrazione finanziaria che rilascia la relativa ricevuta, l’immediato illecito arricchimento del contribuente e correlativo danno per l’Erario, conseguente, all’eliminazione, in tutto o in parte, del debito tributario.

  1. Anche il terzo ed ultimo motivo non ha pregio.

Ed invero, per quanto, effettivamente, il provvedimento impugnato si concentri, nella motivazione relativa al periculum in mora, sulla norma del D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 12 bis, riferibile evidentemente ai reati tributari di cui all’art. 8, D.Lgs. citato, contestati ai capi 1) e 2) dell’imputazione cautelare, è tuttavia altrettanto indubbio che, nel motivare il periculum, a pag. 22 i giudici del riesame specificano che l’evidente collegamento delle aziende oggetto di sequestro, apparato strumentale di cui gli indagati si sono avvalsi per realizzare il programma criminoso ideato, ai “reati” per i quali si procede è idoneo a giustificare la misura cautelare adottata ex art. 321 c.p.p., comma 1, per evitare il pericolo che la loro disponibilità possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato ovvero agevolare la commissione di altri reati, in particolare specificando la attualità e la concretezza del pericolo “in considerazione della possibilità per gli indagati, in caso di annullamento del sequestro, di generare nuovi crediti di imposta fittizi e di incamerare i crediti d’imposta ancora circolanti” (valore di realizzo dei crediti ceduti costituente l’ingiusto profitto del reato in esame, con corrispondente danno per i cessionari pari ai corrispettivi pagati, secondo l’imputazione cautelare), pericolo non impedito dal fatto che l’Agenzia delle entrate ha disposto una misura temporanea di blocco della cessione dei crediti.

Non rileva, quindi, la circostanza che i giudici non abbiano, con riferimento all’adozione del sequestro, operato una motivazione espressa sulle finalità del sequestro funzionali alla confisca ex art. 640-quater, c.p., posto che, quand’anche si ritenesse fondata l’argomentazione difensiva, residuerebbe pur sempre la misura disposta quale sequestro impeditivo, come visto adeguatamente motivata con riferimento al periculum, non derivandone dall’eventuale accoglimento alcun effetto pratico utile ai ricorrenti, nè potendosi ritenere nel caso di specie applicabile il principio affermato dalle Sezioni Unite Giordano (Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010 – dep. 19/01/2011, Rv. 248865 – 01), in merito alla configurabilità del rapporto di specialità tra le fattispecie penali tributarie in materia di frode fiscale (artt. 2 ed 8, D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74) ed il delitto di truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640, comma 2, n. 1, c.p.), nel senso che qualsiasi condotta fraudolenta diretta alla evasione fiscale esaurisce il proprio disvalore penale all’interno del quadro delineato dalla normativa speciale, versandosi nel caso in esame nell’eccezione indicata dalla stessa Corte, derivando invero dalla condotta un profitto ulteriore e diverso rispetto all’evasione fiscale, quale l’ottenimento di pubbliche erogazioni (nella specie, il riconoscimento di un credito di imposta, frutto delle false fatturazioni, e destinato, attraverso il meccanismo delle cessioni, ad essere ulteriormente ceduto con conseguente danno non solo nei confronti dell’Erario, ma, soprattutto, nei confronti delle società ed enti cessionari dei crediti, con conseguimento di un ingiusto profitto pari al valore di realizzo dei crediti ceduti con corrispondente danno per i cessionari pari ai corrispettivi pagati).

Peraltro, e conclusivamente, il motivo di ricorso dovrebbe comunque essere dichiarato inammissibile, per difetto di specificità, limitandosi alla critica di una sola delle “rationes decidendi” poste a fondamento della decisione, ove siano entrambe autonome ed autosufficienti, come, nella specie, la compiuta e corretta motivazione sulla sussistenza delle ragioni di mantenimento del sequestro per finalità impeditive in relazione anche alla truffa aggravata, non attinta dal ricorso (Sez. 3, n. 30021 del 14/07/2011 – dep. 27/07/2011, Rv. 250972 – 01).

  1. Al rigetto dei ricorsi segue la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 13 ottobre 2022.

Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2022

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI NICOLA Vito – Presidente –

Dott. ACETO Aldo – Consigliere –

Dott. GENTILI Andrea – Consigliere –

Dott. SCARCELLA Alessio – Consigliere –

Dott. ZUNICA Fabio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

A.A., n. (Omissis);

avverso l’ordinanza del 21/03/2022 del Tribunale del riesame di Napoli;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;

sentita la relazione svolta dal consigliere Alessio Scarcella;

letta la requisitoria scritta del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. GIORDANO Luigi, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

  1. Con ordinanza 21.03.2022, il tribunale del riesame di Napoli confermava il decreto di sequestro preventivo disposto dal GIP in data 3.03.2022 nei confronti dell’indagato A.A., in via diretta, fino alla concorrenza della somma pari ad Euro 83.517.108,4 corrispondente al profitto del reato di cui all’art. 640, comma 1 e comma 2 n. 1 c.p. da rinvenirsi nella disponibilità, tra gli altri indagati, del A.A., nella sua qualità di professionista abilitato che avrebbe partecipato al meccanismo fraudolento meglio descritto nel capo di imputazione cautelare.
  2. Propone ricorso per cassazione il A.A., a mezzo del difensore fiduciario, deducendo un unico, articolato, motivo, di seguito illustrato.

2.1. Deduce, con tale unico motivo, il vizio di violazione di legge sostanziale e processuale contestando sia l’insussistenza del fumus del reato di truffa ipotizzato che del periculum in mora, instando per la revoca del sequestro preventivo quanto al c/c dell’indagato e la restituzione della liquidità giacente pari a poco più di 5.000 Euro.

In sintesi, premesso che già in sede di udienza camerale 21.03.2022 era stata denunciata l’assenza del fumus del contestato reato di truffa, la difesa, nel descrivere a pag. 4 sinteticamente gli elementi in base ai quali l’indagato era stato ritenuto compartecipe del meccanismo fraudolento meglio descritto nell’imputazione cautelare (l’aver svoltò in 139 pratiche le funzioni di tecnico asseveratore, dall’aprile all’ottobre 2021; l’essere stati reperiti presso il General contractor tre contratti assicurativi ed il premio di uno di essi sarebbe stata pagato dal committente; mancato rinvenimento di fatture emesse dall’indagato a fronte di pagamenti ricevuti dal Consorzio SGAI, documenti nemmeno versati in sede di udienza camerale; asserita non autografia della firma apposta sulle asseverazioni, in quanto apparentemente apposta attraverso un file immagine, come affermato in una nota GdF del 18.03.2022), sostiene quanto al fumus, che, alla luce di quanto accertato dal CTP B.B. e riportato nel suo elaborato depositato agli atti, in realtà la liquidità esistente sul c/c ed oggetto del sequestro non sarebbe riconducibile ai reati ipotizzati, in particolare quello di truffa, risultando invece utilizzata dall’indagato anche per fini personali, quali ad esempio il pagamento di utenze domestiche. Non sarebbe peraltro rispondente al vero che gli emolumenti ricevuti dal Consorzio SGAI non sarebbero stati fatturati dall’indagato una volta ricevuti i bonifici di pagamento delle prestazioni professionali; si duole quindi la difesa dell’errore investigativo commesso dalla G.d.F. nell’affermare che non sarebbero state emesse fatture a fronte dei compensi ricevuti dal General contractor nonchè dell’omesso esame della fatturazione fiscale allegata alla CTP B.B., decisiva per dimostrare l’estraneità ai fatti dell’indagato; si contesta, inoltre, l’affermazione dei giudici del riesame i quali avrebbero ritenuto che tutte le asseverazioni emesse dai professionisti sarebbero false in quanto dal controllo eseguito dalla G.d.F. della contabilità del Consorzio SGAI, non risulterebbero annotati i costi relativi a tale attività tecnica e, quindi, anche quelle riconducibili all’indagato sarebbero mendaci per l’omessa fatturazione, circostanza che invece sarebbe stata smentita proprio dalla regolare fatturazione fiscale (si tratta di 5 fatture) in seguito ai bonifici bancari ricevuti sul c/c dal General Contractor. Quanto, poi, al rinvenimento dei tre contratti presso il Consorzio SGAI ed alla circostanza che uno dei premi di tali contratti assicurativi risulterebbe pagato dal committente, la difesa rileva che l’aver aderito l’indagato al c.d. regime fiscale di vantaggio ex L. n. 244 del 2007 art. 1, comma 96/117, che non prevede la detrazione di alcuna spesa per l’attività professionale svolta e, dunque, nemmeno l’importo corrisposto ai fini assicurativi, escluderebbe la rilevanza di tale elemento. Quanto sopra, pertanto, escluderebbe l’esistenza del fumus, considerando peraltro che le firme apposte sulle pratiche asseverate non sono state disconosciute dall’indagato (asseritamente non autografe perchè inserite con file immagine, secondo la G.d.F.), escludendo quindi qualsiasi condotta compartecipativa dell’indagato al predetto meccanismo fraudolento, non essendovi alcun collegamento tra il reato di truffa e quanto caduto in sequestro. In merito, poi, all’inesistenza del periculum in mora, premesso che il giudice del riesame ritiene che il denaro ricevuto dall’indagato dal Consorzio costituirebbe il profitto che l’indagato ha tratto dall’attività criminosa, si contesta l’errore investigativo commesso dalla G.d.F. che non avrebbe acquisito le 5 fatture emesse dall’indagato a fronte dei bonifici ricevuti dal Consorzio SGAI in pagamento delle prestazioni professionali svolte dall’indagato nell’interesse del committente. Non sussisterebbe quindi alcun collegamento tra il denaro sequestrato e il delitto di truffa per cui il sequestro è stato disposto, dovendo peraltro il periculum presentare i requisiti della concretezza ed attualità, nella specie mancanti.

  1. Con requisitoria scritta del 31.08.2022, il Procuratore Generale presso questa Corte ha chiesto il rigetto del ricorso.

In particolare, in relazione al primo motivo, come è noto, ai sensi dell’art. 325, comma 1, c.p.p., il ricorso per cassazione contro i provvedimenti emessi in materia di sequestro preventivo è ammesso solo per violazione di legge, in tale nozione dovendosi comprendere sià gli errores in iudicando o in procedendo, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (Sez. U, n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov, Rv. 239692; Sez. 6, n. 7472 del 21/01/2009, P.M. in proc. Vespoli e altri, Rv. 242916; Sez. 5, n. 35532 del 25/06/2010, Angelini, Rv. 248129). Nel caso di specie, nessuna mancanza di motivazione o motivazione apparente è ravvisabile con riguardo alla integrazione del fumus boni iuris in ordine all’incolpazione elevata nei confronti del ricorrente, solidamente poggiata dai giudici della cautela reale sulle denunce e su plurimi elementi documentali raccolti nelle indagini, tra cui le mail di protesta dei clienti. Il Tribunale, tra l’altro, ha rilevato che la firma apposta dal professionista appaia “prima facìe non autografa”, apposta tramite un file immagine, sempre identica, espressione di una modalità “automatica” di asseverazione compiuta in difetto dei necessari controlli e delle verifiche previste dalla legge. In dette asseverazioni, poi, sono state rinvenute le anomalie descritte nel provvedimento.

Quanto al secondo motivo, il Tribunale ha precisato che si tratta del sequestro finalizzato alla confisca diretta del profitto del reato, nella parte rinvenuta nella disponibilità del ricorrente, profitto da egli percepito per le asseverazioni e comunque rinvenuto in misura minima rispetto a quanto effettivamente percepito.

  1. La difesa, con richiesta depositata telematicamente in data 21.09.2022, ha chiesto la trattazione orale del ricorso, richiesta non accolta con provvedimento del presidente titolare del 23.09.2022.

Motivi della decisione

  1. Il ricorso, trattato cartolarmente ex D.L. n. 137 del 2020art. 23, comma 8, e successive modifiche ed integrazioni, è inammissibile.
  2. Sul punto, deve rilevarsi che il provvedimento genetico descrive la condotta dell’indagato e riporta le dichiarazioni dei denuncianti che fanno riferimento a fatti nei quali anche il A.A. risulta implicato (occupandosi il medesimo, quale professionista abilitato che rilasciava – unitamente ad altri indicati nel capo di imputazione cautelare – l’asseverazione richiesta dalla legge al termine dei lavori e/o per ogni SAL ai fini dell’attestazione dei requisiti tecnici sulla base del progetto predisposto e dell’effettiva realizzazione dell’intervento).

In particolare, il provvedimento impugnato (pag. 3) evidenzia chiaramente che lo stesso “attiene al profitto del solo reato di truffa aggravata”, precisando peraltro che, per una sua valutazione, non potesse prescindersi dall’esaminare la complessa vicenda nella sua interezza, atteso che tutti i reati in contestazione (oltre alla truffa aggravata, per cui il provvedimento è stato emesso, anche per il reato di falso, contestato nel medesimo capo 2), nonchè per il delitto associativo contestato al capo 1) nonchè per il delitto di tentata indebita compensazione contestato al capo 4), tutti ascritti parimenti al A.A.) sono tra loro collegati, essendo i reati finanziari ed i reati di falso finalizzati, tra l’altro, anche alla commissione della truffa ai danni dei cessionari dei crediti di imposta inesistenti.

La stessa struttura del provvedimento impugnato, del resto, rende ragione della valutazione del fumus del reato di cui si discute (truffa aggravata), di cui in particolare si occupa alle pagg. 3 ss. dell’ordinanza qui ricorsa, sottolineandone la sussistenza non solo in termini di fumus, ma persino di qualificata gravità indiziaria, idonea come è noto a giustificare anche l’emissione di un provvedimento custodiale, ricostruendo nel dettaglio la vicenda criminosa che ha dato avvio alle attività di indagine della Guardia di Finanza.

Con particolare riferimento, poi, alla posizione dell’indagato A.A., l’ordinanza impugnata dedica uno specifico approfondimento alle pagg. 17 ss.; i giudici del riesame, dopo aver premesso il contenuto dei motivi di riesame (che, come è agevole rilevare dal loro tenore, sono stati sostanzialmente riprodotti nell’impugnazione in sede di legittimità, senza alcuna apprezzabile elemento di novità critica), dedicano un particolare approfondimento al tema del fumus del reato di truffa aggravata, osservando come dagli atti in possesso del Tribunale si evincesse il fumus del coinvolgimento dell’odierno indagato nella vicenda criminosa innanzi descritta. In particolare, come risulta dal prospetto riepilogativo delle asseverazioni trasmesse sul portale dell’ENEA in relazione ai lavori del Consorzio SGAI inerenti alle agevolazioni del cd. superbonus 110%, il A.A. risulta aver svolto il compito di tecnico asseveratore in ben 139 casi, dall’aprile all’ottobre del 2021. Tale dato, peraltro, si legge nell’ordinanza, trova conforto anche nella consulenza di parte, prodotta all’udienza, che analizza i versamenti. Inoltre, tra gli atti rinvenuti presso il Consorzio, l’ordinanza valorizza tre contratti assicurativi effettuati dal consorzio al A.A., proprio in relazione a tale attività. Ebbene, precisano i giudici del riesame, il premio di almeno uno di questi risulta pagato dal Consorzio stesso, circostanza che appare anomala, atteso che è il tecnico asseveratore a dover sottoscrivere la polizza assicurativa a garanzia di eventuali danni provocati dalla sua attività (tanto che, puntualizza l’ordinanza, il relativo premio può essere dedotto ai fini del pagamento delle imposte sui redditi) e non l’impresa che effettua i lavori sui quali si svolge la verifica del tecnico. Altra anomalia rilevata dai giudici del riesame sta nel fatto che nessuna fattura è stata emessa dal A.A. a fronte dei pagamenti ricevuti dal Consorzio, nè tali fatture si afferma nell’ordinanza sono state prodotte in sede di riesame. L’ordinanza, peraltro, valorizza in particolare quanto evidenziato in una nota della G.d.F. in atti, ossia la circostanza che anche la firma del A.A. apposta alle asseverazioni appare prima facie non autografa, ma apposta attraverso un file immagine, tanto che su diversi documenti tale firma appare innaturalmente del. tutto identica. Quanto sopra, aggiungono i giudici del riesame, considerato che il A.A. non ha disconosciuto dette firme, ammettendo di aver anche ricevuto il pagamento per l’attività professionale espletata, farebbe pensare ad una modalità automatica di asseverazione, operata in assenza di quegli accertamenti e quelle verifiche che sono alla base dell’attività in questione. Sul punto, i giudici del riesame si soffermano a valorizzare il ruolo dell’asseverazione nel meccanismo introdotto dalla normativa del c.d. superbonus, in particolare evidenziando come nelle asseverazioni esaminate dall’ENEA e relative al Consorzio SGAI sono state riscontrate varie anomalie, come il fatto che queste si riferiscono tutte al primo SAL del 30%, che in esse non viene dichiarato il numero di protocollo del deposito in comune, prima dell’inizio lavori, della relazione tecnica della L. 10 del 1991 ex art. 28 del D.Lgs. n. 192 del 2005 ed ex art. 8, ma solo la dizione “PEC”, che non viene allegato l’APE post intervento. Inoltre, il computo metrico allegato è quasi sempre non pertinente e il relativo importo complessivo dei lavori non coincide con quanto dichiarato nell’asseverazione. A ciò si aggiunga che, in alcuni casi, viene dichiarato erroneamente che il comune di ubicazione dell’edificio oggetto dell’intervento è compreso nell’elenco dei comuni di cui al D.L. n. 34/2020 art. 119 comma 4 ter. Con la conseguenza che gli importi massimi ammissibili sono incrementati del 50%. Si tratta di anomalie, queste, che i giudici del riesame sottolineano essere state tutte riscontrate nelle dichiarazioni dei tecnici che hanno operato quali asseveratori per il Consorzio, tra i quali l’odierno indagato A.A., autore di ben 139 asseverazioni delle 1381 totali effettuate in relazione a lavori del Consorzio SGAI. Tutto ciò, per i giudici del riesame, consente di ritenere sussistente il fumus in ordine alla partecipazione del A.A. al sistema illecito in contestazione, atteso che il suo è senza dubbio un ruolo fondamentale per la riuscita del piano criminoso e la realizzazione della truffa ai danni dello Stato.

Quanto, poi, al periculum in mora, correttamente i giudici del riesame puntualizzano che il denaro ricevuto dal Consorzio costituisce, per quanto sin qui esposto, il profitto che il A.A. ha ricavato dall’attività criminosa posta in essere. In quanto tale ne viene giustificato il sequestro, ai fini della successiva confisca. L’ammontare del profitto, si precisa nell’ordinanza impugnata, è stato correttamente individuato anche nella consulenza difensiva ed è sicuramente superiore alla somma rinvenuta sul conto intestato al A.A. e posta in sequestro. Del resto, aggiungono i giudici del riesame, la stessa difesa ha ammesso che i proventi dell’attività in favore del consorzio sono transitati su quel conto sebbene detta circostanza non sia determinante, attesa la fungibilità del denaro e la pacifica sequestrabilità del quantum che costituisce profitto illecito anche in mancanza di diretta derivazione delle somme effettivamente vincolate dalla contestata attività illecita. In tal senso del tutto correttamente i giudici del riesame ricordano come le Sezioni Unite di questa Corte (sentenza 27 maggio 2021 n. 42415), hanno affermato il principio per cui “la confisca del denaro costituente profitto o prezzo del reato, comunque rinvenuto nel patrimonio dell’autore della condotta e che rappresenti I ‘effettivo accrescimento patrimoniale monetario conseguito va sempre qualificata come diretta, e non per equivalente, in considerazione della natura fungibile del bene, con la conseguenza che non è ostativa alla sua adozione l’allegazione o la prova dell’origine lecita della specifica somma di denaro oggetto di apprensione”.

2.1. Al cospetto di tale apparato argomentativo, le doglianze difensive circa la asserita assenza di qualsiasi argomentazione in ordine al fumus ed al periculum del reato ipotizzato a carico del A.A. perdono di qualsiasi spessore argomentativo, avendo diversamente i giudici del riesame focalizzato attentamente la propria attenzione sul ruolo assunto dal A.A. nel meccanismo fraudolento, individuando il ruolo assunto dall’indagato nella vicenda, segnalando tutte le “anomalie” che rendevano evidente la compartecipazione del A.A. nella vicenda criminosa descritta.

Nella valutazione complessiva della condotta serbata dall’indagato per il raggiungimento del reato oggetto di volontà comune, peraltro, non incidono le presunte erronee o omesse valutazioni denunciate dalla difesa del ricorrente, trattandosi di argomentazioni che, lungi dal denunciare l’esistenza di un vizio di violazione di legge, tendono diversamente a sviluppare una non consentita critica dei passaggi argomentativi dell’ordinanza impugnata (ad esempio, contestando che la liquidità esistente sul c/c ed oggetto del sequestro non sarebbe riconducibile ai reati ipotizzati, in particolare quello di truffa, risultando invece utilizzata dall’indagato anche per fini personali; od, ancora, tacciando di falsità l’ordinanza laddove sostiene che gli emolumenti ricevuti dal Consorzio SGAI non sarebbero stati fatturati dall’indagato una volta ricevuti i bonifici di pagamento delle prestazioni professionali, ciò che sarebbe il frutto non di un travisamento probatorio – peraltro nemmeno denunciabile in questa sede in considerazione dei ristretti limiti imposti dall’art. 325, c.p.p. – ma di un errore investigativo commesso dalla G.d.F. nell’affermare che non sarebbero state emesse fatture a fronte dei compensi ricevuti dal General contractor).

Analogamente è a dirsi quanto al presunto omesso esame della fatturazione fiscale allegata alla CTP B.B., asseritamente decisiva per dimostrare l’estraneità ai fatti dell’indagato, avendo diversamente i giudici del riesame dato atto nell’ordinanza impugnata di aver tenuto conto delle risultanze della CTP come, parimenti tendente a contestare la motivazione dell’ordinanza e non la sua legittimità, è la critica rivolta all’ordinanza impugnata quanto all’affermazione della falsità delle asseverazioni non avendo peraltro il ricorrente provveduto a disconoscere la firma apposta con file digitale. Ancora, irrilevante, nell’economia della motivazione del provvedimento impugnato, si appalesa la critica all’ordinanza impugnata per aver valorizzato il rinvenimento dei tre contratti presso il Consorzio SGAI e la circostanza che uno dei premi di tali contratti assicurativi risulterebbe pagato dal committente, per aver aderito l’indagato al c.d. regime fiscale di vantaggio L. n. 244 del 2007 ex art. 1, comma 96/117, che non prevede la detrazione di alcuna spesa per l’attività professionale svolta, con la conseguenza, dunque, che nemmeno l’importo corrisposto ai fini assicurativi, escluderebbe la rilevanza di tale elemento, trattandosi all’evidenza di argomentazione che tende a censurare la logicità dell’apparato argomentativo, non consentita in questa sede.

Infine, quanto al periculum, ancora una volta si critica l’ordinanza non per un error iuris, ma si contesta l’errore investigativo commesso dalla G.d.F. che non avrebbe acquisito le 5 fatture emesse dall’indagato a fronte dei bonifici ricevuti dal Consorzio SGAI in pagamento delle prestazioni professionali svolte dall’indagato nell’interesse del committente, argomento che, come già in precedenza sottolineato, è palesemente inidoneo a scalfire la tenuta dell’ordinanza impugnata).

2.2. Deve, pertanto, conclusivamente concordarsi con il PG, il quale ha condivisibilmente argomentato sottolineando come, nel caso di specie, nessuna mancanza di motivazione o motivazione apparente è ravvisabile con riguardo alla integrazione del fumus boni iuris in ordine all’incolpazione elevata nei confronti del ricorrente, solidamente poggiata dai giudici della cautela reale sulle denunce e su plurimi elementi documentali raccolti nelle indagini, tra cui le mail di protesta dei clienti. Lo stesso PG, correttamente, valorizza proprio la circostanza per la quale il Tribunale del riesame ha rilevato che la firma apposta dal professionista appaia “prima facie non autografa”, apposta tramite un file immagine, sempre identica, espresgione di una modalità “automatica” di asseverazione compiuta in difetto dei necessari controlli e delle verifiche previste dalla legge (questione di assoluta rilevanza, su cui, non casualmente, nessuna argomentazione in senso contrario è stata sviluppata dalla difesa del ricorrente) e, ancora, che in dette asseverazioni, poi, sono state rinvenute le anomalie descritte nel provvedimento.

Quanto al periculum, infine, altrettanto correttamente il PG ricorda che si tratta del sequestro finalizzato alla confisca diretta del profitto del reato, nella parte rinvenuta nella disponibilità del ricorrente, profitto da egli percepito per le asseverazioni e comunque rinvenuto in misura minima rispetto a quanto effettivamente percepito, donde nessun dubbio può esservi in ordine alla legittimità del provvedimento su tale aspetto.

  1. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma, ritenuta adeguata, di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di tremila Euro in favore della Cassa delle ammende.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 13 ottobre 2022.

Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2022