PROCESSO PENALE OMICIDIO DIFENSORE BOLOGNA

PROCESSO PENALE OMICIDIO DIFENSORE BOLOGNA

ESAMINIAMO UNA IMPORTANTE SENTENZA DELLA CORTE D’ASSISE D’APPELLO DI BOLOGNA CHE HA CONFERMATO UN ERGASTOLO 

Ugualmente, non costituisce post factum non punibile, rispetto alla contraffazione dei documenti ricettati, il delitto di sostituzione di persona, contestato al capo M), per avere l’imputato indotto in errore sulla propria identità due albergatori, grazie all’esibizione dei documenti falsi, al fine di trovare alloggio presso di loro. Anche in questo caso, giurisprudenza costante insegna che l’assorbimento del delitto di cui all’art. 494 c.p. in quello di cui agli artt. 477 e 482 si verifica solo se i due reati sono consumati con un’unica contestuale condotta (Cass., Sez. 5, sent. 04981 del 27/04/1998 (UD.27/01/1998), RV. 210600, Imp. L.: “Il delitto di sostituzione di persona (art. 494 cod. pen.) è sussidiario rispetto ad ogni altro reato contro la fede pubblica, come si evince dall’inciso “se il fatto non costituisce altro delitto contro la fede pubblica” contenuto nella norma incriminatrice; esso, tuttavia, in tanto può ritenersi assorbito in altra figura criminosa in quanto ci si trovi in presenza di un fatto unico, riconducibile contemporaneamente sia alla previsione dell’art. 494 cod. pen. sia a quella di altra norma posta a tutela della fede pubblica; viceversa, quando ci si trovi in presenza di una pluralità di fatti e quindi di azioni diverse e separate, si ha concorso materiale di reati. (In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto la sussistenza in concorso dei delitti di falso materiale e sostituzione di persona nella condotta di un soggetto che, contraffatto un documento di identità, se ne era servito per trarre i terzi in errore sulla sua identità)”.

Nello stesso senso, proprio in materia di esibizione di un documento falso ad un albergatore, Cass., sez. 5, sent. 12246 del 21/11/1980 (UD.29/10/1980), RV. 146730, Imp. B., secondo cui: “Perché si applichi la deroga al concorso di reati di cui all’art. 494 cosiddetto pen., occorre che si tratti di unico fatto che violi, oltre la disposizione dello stesso art. 494, altra disposizione di legge, dettata a tutela della pubblica fede. (Nella specie l’imputato, oltre ad ingannare l’obbligatore (rectius: albergatore, n.d.e.) attribuendo a se stesso un falso nome, concorse anche nella falsificazione del documento d’identità. In applicazione del principio di cui sopra, la Cassazione ha escluso la deroga osservando che non vi era unicità di fatti, intesa come unicità di azione o di omissione, ma che si trattava di azioni diverse e distinte)”. Conf. 7601894 132279; Conf. 7712655 137048).

Il che nella specie non è avvenuto, essendo certo che Sempronio ROSSO era già in possesso dei documenti contraffatti prima del ferragosto 1998, mentre le condotte di sostituzione di persona sono avvenute dopo.

In ordine all’ultima censura difensiva, relativa alla mancata concessione dell’attenuante del fatto di particolare tenuità con riferimento alla ricettazione dei documenti d’identità (art. 648, comma 2, c.p.), si osserva quanto segue. Nella valutazione dell’ipotesi lieve del delitto contestato, per concorde insegnamento della Corte di cassazione, devono essere tenute presenti tutte le componenti oggettive e soggettive del commesso reato, secondo i criteri dettati dall’art. 133 c.p. Cosicché, se anche il valore del bene ricettato è di per sé modesto, questo non basta per ritenere integrata l’ipotesi di cui si discute. Il giudice deve vagliare il fatto nel suo complesso, comprese le note soggettive del reato, tra cui la personalità dell’agente (Cfr., tra le tante, Cass., Sez. 2, sent. 05813 del 26/01/2000 (CC. 29/11/1999), RV. 216520, Imp. PM in proc. P., secondo la quale: “In tema di ricettazione, al fine di stabilire la sussistenza dell’ipotesi di particolare tenuità di cui al capoverso dell’art. 648 cod. pen., non è sufficiente di per sé l’irrilevanza o la scarsa rilevanza economica della cosa oggetto di ricettazione, ma occorre avere riguardo al fatto nella sua globalità storico-giuridica apprezzandone l’incidenza antigiuridica sulla base di tutti gli elementi che, a parte il valore economico dell’oggetto ricettato, entrano nella componente dell’azione delittuosa, ivi compresa la personalità dell’agente. (In applicazione del principio di cui in massima la S.C. ha annullato l’ordinanza del G.I.P. che aveva rigettato la richiesta di applicazione della misura cautelare ritenendo che il possesso di un passaporto di provenienza delittuosa configurasse l’ipotesi di particolare tenuità prevista dall’art. 648 cpv)”. Conf. 199110944 188488; Conf. 199103731 186765; Conf. 198900590 180207.

del reato p. e p. dagli artt. 110, 648 c.p. perché, in concorso con Tizio Bianco (deceduto nella rapina), al fine di procurarsi un ingiusto profitto, non concorrendo nel reato di furto, riceveva, conoscendone la provenienza illecita, l’autovettura rossa Fiat Punto tg. (omissis) sottratta al proprietario C.C. mentre era parcheggiata sulla pubblica via;

b) del reato p. e p. dagli artt. 110, 628 co. 1 e co. 3 n. 1 c.p., perché, in concorso con Tizio Bianco, (deceduto nella rapina), al fine di procurarsi un ingiusto profitto, entrambi travisati nell’aspetto – Tizio Bianco con un cappellino con visiera, occhiali scuri e un fazzoletto sulla bocca, lo Sempronio Rosso con occhiali e con un parrucchino e pure lui con un fazzoletto sulla bocca -, minacciando, con armi da sparo – due pistole semiautomatiche di cui una, quella in possesso del Tizio Bianco, calibro 7,65 -, le persone presenti nell’istituto bancario – L.G., F.C., S.M., G.G., I.L. e F.R. – di “stare fermi”, si impossessava, sottraendola all’istituto di Credito B., della somma di Lire 106.540.892, di cui Lire 29.639.000 in lire italiane e il residuo in diversa valuta straniera;

c) art. 110, 605, 612 comma 2° e 61 n. 2 c.p. perché, al fine di assicurarsi il provento del reato di cui al capo b), in concorso con Tizio Bianco (deceduto nella rapina), privava della libertà personale L.G., F.C., S.M., G.G., I.L. e F.R., rinchiudendoli in bagno con la porta chiusa a chiave, poi, al fine di assicurarsi la fuga e l’impunità, sempre in concorso con il Tizio Bianco, prendeva come ostaggi, puntandoli le pistole contro e spintonandoli e trascinandoli, G.G. e I.L., minacciando il Brig. Capo P.I. ed il C.re U.C., nel frattempo accorsi, “… di buttare la pistola… altrimenti avrebbero ucciso gli ostaggi.

d) artt. 110. 575 e 61 n. 2 e 10 c.p. perché, al fine di conseguire l’impunità per il reato di cui ai capi b) e c), in concorso con Tizio Bianco (deceduto nella rapina), cagionava – con l’uso della pistola semiautomatica calibro 7,65 Browning – la morte del Brigadiere Capo dei Carabinieri P.I., il quale, in adempimento alle sue funzioni accorso ove si stava perpetrando la rapina di cui al capo b), li inseguiva per assicurarli alla giustizia: il Brigadiere era attinto “… da due distinti colpi d’arma da fuoco, dei quali uno mirato al capo – un foro d’entrata al volto, in ragione orbita zigomatica destra con penetrazione all’interno della scatola cranica – e uno all’addome… – nella sua superficie laterale destra in corrispondenza della regione del fianco”;

e) art. 110 c.p., 4 e 71. n. 895/1967, come modificati dagli artt. 12 e 141. n. 497/1974, e 61 n. 2 c.p. perché, al fine di eseguire i reati di cui ai capi b) c) e d), in concorso con Tizio Bianco (deceduto nella rapina), portava, illegalmente, in luogo pubblico due pistole semiautomatiche, di cui una calibro 7,65 Browning, classificabili come armi comuni da sparo;

f) art. 110 e 61 n. 2 c.p. e 61, 895/1967 come modificato dall’art. 13 l. n. 497/1974 perché, al fine di assicurarsi la via di fuga e l’impunità e al fine di incutere un pubblico timore, attentando all’ordine pubblico, all’incolumità e alla sicurezza pubblica, in concorso con Tizio Bianco (deceduto nella rapina), dopo aver perpetrato la rapina di cui al capo b), imboccata a piedi la pubblica via, sparava colpi di arma da fuoco con l’intento di arrestare la corsa degli inseguitori e di dileguarsi;

g) art. 110, 612 comma 2°, 339 e 61 n. 10 e 61 n. 2 c.p., perché in concorso con Tizio Bianco (deceduto nella rapina), al fine di assicurarsi il profitto della rapina commessa e l’impunità, prendendo la via della fuga, intimava al Brig. Capo P.I. “… di disfarsi della pistola altrimenti …” avrebbe sparato al C.re U.C., il quale, a fronte della minaccia di un grave danno ingiusto, si appoggiava al muro retrostante, alzava le braccia e “… si inginocchiava adagiando la… pistola a terra tenendola ferma con il ginocchio sinistro…”;

h) art. 110, 624, 625 n. 4 e 7 e 61 n. 10 e n. 2 c.p. perché – con destrezza, approfittando della situazione, oggettiva e soggettiva, che non consentiva al Brig. Capo P.I. e al C.re U.C. di reagire e che gli consentiva, invece, di eludere facilmente la resistenza di questi ultimi e con pregiudizio al servizio di pubblica sicurezza atteso dalle Forze dell’Ordine – al fine di trarre un ingiusto profitto – consistente questo nel provento della rapina – ed al fine di assicurarsi l’impunità, concorreva con Tizio Bianco (deceduto nella rapina) nell’impossessarsi, sottraendola al C.re U.C., della pistola d’ordinanza modello Beretta 92 SB cal. 9 parabellum che si trovava a qualche metro di distanza dal C.; questi, minacciato, si era inginocchiato adagiando la pistola a terra tenendola ferma con il ginocchio sinistro; nel trambusto, il Tizio Bianco urtava l’arma con il tacco della scarpa allontanandola di qualche metro e, così facendo, la raccoglieva portandola seco nella fuga tanto che non è mai stata ritrovata;

i) artt. 648 c.p. e 12 lett. c) e 61 n. 2 c.p. perché, conoscendone la provenienza illecita, al fine di procurarsi profitto – consistente nel celarsi sotto false generalità, nel sottrarsi all’esecuzione di un ordine di cattura e nell’assicurarsi l’impunità per i reati di cui ai capi da a) ad h) e il provento della rapina di cui al capo b) – riceveva il modello della carta d’identità con numero poligrafico xxx ed il modello della patente di guida con numero poligrafico yyy, entrambi modelli autentici in bianco, oggetto di furto avvenuto in xxx;

l) artt. 477 e 482 e 61 n. 2 c.p., perché, al fine di assicurarsi l’impunità per i reati di cui ai capi da a) ad h), falsificava materialmente, contraffacendoli, i moduli della carta d’identità e della patente di cui al capo i), compilandoli con il nome e le generalità di tale “G.C. nato il xxx a Vicenza ed ivi residente”;

m) artt. 494 e 81 cpv e 61 n. 2 c.p. perché, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, al fine di deviare le indagini ed assicurarsi, così, l’impunità per i reati di cui ai capi da a) ad h), induceva in errore il titolare dell’albergo Hotel xxx in Brunico (BZ) ed il titolare dell’albergo “yyy” in Paderno del Grappa (TV) attribuendosi il falso nome di G.C. risultante dal registro delle presenze;

n) artt. 496 c.p. e 61 n. 2 c.p. perché, al fine di procurarsi l’impunità, fermato dai carabinieri all’uscita del casello autostradale di Parma, mentre si trovava alla guida dell’autovettura Volkswagen Polo blu tg. xxx; interrogato sulla sua identità e generalità, esibiva la carta d’identità e la patente di guida contraffatte intestate a “G.C. nato il xxx a Vicenza ed ivi residente”, fornendo così mendaci dichiarazioni sulla sua persona a pubblici ufficiali nell’espletamento delle loro funzioni di controllo;

o) artt. 648 e 61 n. 2 c.p. perché, al fine di procurarsi l’impunità nonché un ingiusto profitto, non concorrendo nel reato di furto, riceveva, conoscendone la provenienza illecita, l’autovettura Volkswagen Polo blu tg. xxx, sottratta al proprietario F.T. mentre era parcheggiata nel cortile dell’abitazione; lo Sempronio Rosso, al momento della cattura, era alla guida di questa autovettura ed usciva al casello autostradale di Parma;

con l’aggravante di aver commesso i reati di cui ai capi da a) ad m) durante il tempo in cui era latitante perché sottrattosi volontariamente all’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Corte d’Appello di Trieste in data 20/05/1998 in relazione al procedimento n. 252/97 R.G.N.R.;

con la continuazione ex art. 81 cpv c.p. e la connessione ex artt. 12 lettere b) e c) e 16 c.p.p. per i reati di cui ai capi a), i), l), m), n) e o);

con la recidiva reiterata specifica infraquinquennale ex art. 99 commi 1 e 2 n. 1 e n. 2 e comma 3° e comma 4° c.p.

appellante l’imputato: SEMPRONIO ROSSO

avverso la sentenza emessa dal CORTE ASSISE di REGGIO EMILIA in data 24/10/2002 che ha pronunciato il seguente dispositivo:

Visti gli artt. 533, 535 c.p.p. e 72, 81 c.p. dichiara Sempronio Rosso responsabile dei reati contestati, salvo l’assorbimento dei capi F e G rispettivamente nei capi D e C e, unificati i reati sotto il vincolo della continuazione sotto la più grave ipotesi rubricata sub D, lo condanna alla pena dell’ergastolo con l’isolamento diurno per un periodo di tempo pari a 12 mesi oltre al pagamento delle spese processuali e di custodia. Dichiara altresì Sempronio Rosso interdetto in perpetuo dai pubblici uffici ed in stato di interdizione legale. Dispone la pubblicazione, per estratto, della presente sentenza nel Comune di Reggio Emilia, di Luzzara ed in quello di San Donà di Piave nonché, per una volta, nei quotidiani “xxx” e “yyy”. Dispone la confisca e la distruzione del materiale relativo alla Fiat Punto di colore rosso e del materiale repertato dall’Arma dei CC di Gualtieri, dei reperti relativi ai rilievi tecnici effettuati dal CIS sulle autovetture Fiat Punto; BMW tg xxx, BMW tg. yyy ad eccezione della musicassetta e degli occhiali e della custodia per occhiali, di cui ne dispone la vendita, nonché la confisca e la distruzione dei reperti prelevati all’interno e nelle vicinanze della Fiat Punto. Dispone la restituzione agli aventi diritto degli indumenti del Brigadiere I. e degli indumenti di Tizio Bianco, nonché del materiale relativo alla BMW di Tizio Bianco. Dispone infine la restituzione all’imputato dei suoi effetti personali, nonché la confisca e la distruzione di quant’altro sequestrato in – conseguenza del suo arresto.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

CORTE D’ASSISE D’APPELLO DI BOLOGNA

PRIMA SEZIONE

composta dai signori:

1 – Dr. Paolo Angeli – Presidente –

2 – Dr. Alberto Candi – Consigliere Rel. –

3 – Sig. Laura Borsari – Giudice Popolare –

4 – Sig. Marco Strazzi – Giudice Popolare –

5 – Sig. Marzia Maini – Giudice Popolare –

6 – Sig. Mimma Bonocore – Giudice Popolare –

7 – Sig. Massimo Bartolucci – Giudice Popolare –

8 – Sig. Silvia Benatti – Giudice Popolare –

Udita la relazione della causa fatta alla pubblica udienza odierna dal Consigliere relatore Dott. Alberto Candi

Inteso il Procuratore Generale, Dr. Roberto Mescolini

ed i difensori, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa penale

CONTRO

1 – SEMPRONIO ROSSO

det. Casa Circ.le Ferrara – Presente

con la costituzione della parte civile: I.A. elett.te dom.to presso il difensore Avv. Romano Corsi Reggio Emilia – con data costituzione precedente al 01/03/2002 –

NON COMPARSO

2004/0004

IMPUTATO

a) del reato p. e p. dagli artt. 110, 648 c.p. perché, in concorso con Tizio Bianco (deceduto nella rapina), al fine di procurarsi un ingiusto profitto, non concorrendo nel reato di furto, riceveva, conoscendone la provenienza illecita, l’autovettura rossa Fiat Punto tg. (omissis) sottratta al proprietario C.C. mentre era parcheggiata sulla pubblica via;

b) del reato p. e p. dagli artt. 110, 628 co. 1 e co. 3 n. 1 c.p., perché, in concorso con Tizio Bianco, (deceduto nella rapina), al fine di procurarsi un ingiusto profitto, entrambi travisati nell’aspetto – Tizio Bianco con un cappellino con visiera, occhiali scuri e un fazzoletto sulla bocca, lo Sempronio Rosso con occhiali e con un parrucchino e pure lui con un fazzoletto sulla bocca -, minacciando, con armi da sparo – due pistole semiautomatiche di cui una, quella in possesso del Tizio Bianco, calibro 7,65 -, le persone presenti nell’istituto bancario – L.G., F.C., S.M., G.G., I.L. e F.R. – di “stare fermi”, si impossessava, sottraendola all’istituto di Credito B., della somma di Lire 106.540.892, di cui Lire 29.639.000 in lire italiane e il residuo in diversa valuta straniera;

c) art. 110, 605, 612 comma 2° e 61 n. 2 c.p. perché, al fine di assicurarsi il provento del reato di cui al capo b), in concorso con Tizio Bianco (deceduto nella rapina), privava della libertà personale L.G., F.C., S.M., G.G., I.L. e F.R., rinchiudendoli in bagno con la porta chiusa a chiave, poi, al fine di assicurarsi la fuga e l’impunità, sempre in concorso con il Tizio Bianco, prendeva come ostaggi, puntandoli le pistole contro e spintonandoli e trascinandoli, G.G. e I.L., minacciando il Brig. Capo P.I. ed il C.re U.C., nel frattempo accorsi, “… di buttare la pistola… altrimenti avrebbero ucciso gli ostaggi.

d) artt. 110. 575 e 61 n. 2 e 10 c.p. perché, al fine di conseguire l’impunità per il reato di cui ai capi b) e c), in concorso con Tizio Bianco (deceduto nella rapina), cagionava – con l’uso della pistola semiautomatica calibro 7,65 Browning – la morte del Brigadiere Capo dei Carabinieri P.I., il quale, in adempimento alle sue funzioni accorso ove si stava perpetrando la rapina di cui al capo b), li inseguiva per assicurarli alla giustizia: il Brigadiere era attinto “… da due distinti colpi d’arma da fuoco, dei quali uno mirato al capo – un foro d’entrata al volto, in ragione orbita zigomatica destra con penetrazione all’interno della scatola cranica – e uno all’addome… – nella sua superficie laterale destra in corrispondenza della regione del fianco”;

e) art. 110 c.p., 4 e 71. n. 895/1967, come modificati dagli artt. 12 e 141. n. 497/1974, e 61 n. 2 c.p. perché, al fine di eseguire i reati di cui ai capi b) c) e d), in concorso con Tizio Bianco (deceduto nella rapina), portava, illegalmente, in luogo pubblico due pistole semiautomatiche, di cui una calibro 7,65 Browning, classificabili come armi comuni da sparo;

f) art. 110 e 61 n. 2 c.p. e 61, 895/1967 come modificato dall’art. 13 l. n. 497/1974 perché, al fine di assicurarsi la via di fuga e l’impunità e al fine di incutere un pubblico timore, attentando all’ordine pubblico, all’incolumità e alla sicurezza pubblica, in concorso con Tizio Bianco (deceduto nella rapina), dopo aver perpetrato la rapina di cui al capo b), imboccata a piedi la pubblica via, sparava colpi di arma da fuoco con l’intento di arrestare la corsa degli inseguitori e di dileguarsi;

g) art. 110, 612 comma 2°, 339 e 61 n. 10 e 61 n. 2 c.p., perché in concorso con Tizio Bianco (deceduto nella rapina), al fine di assicurarsi il profitto della rapina commessa e l’impunità, prendendo la via della fuga, intimava al Brig. Capo P.I. “… di disfarsi della pistola altrimenti …” avrebbe sparato al C.re U.C., il quale, a fronte della minaccia di un grave danno ingiusto, si appoggiava al muro retrostante, alzava le braccia e “… si inginocchiava adagiando la… pistola a terra tenendola ferma con il ginocchio sinistro…”;

h) art. 110, 624, 625 n. 4 e 7 e 61 n. 10 e n. 2 c.p. perché – con destrezza, approfittando della situazione, oggettiva e soggettiva, che non consentiva al Brig. Capo P.I. e al C.re U.C. di reagire e che gli consentiva, invece, di eludere facilmente la resistenza di questi ultimi e con pregiudizio al servizio di pubblica sicurezza atteso dalle Forze dell’Ordine – al fine di trarre un ingiusto profitto – consistente questo nel provento della rapina – ed al fine di assicurarsi l’impunità, concorreva con Tizio Bianco (deceduto nella rapina) nell’impossessarsi, sottraendola al C.re U.C., della pistola d’ordinanza modello Beretta 92 SB cal. 9 parabellum che si trovava a qualche metro di distanza dal C.; questi, minacciato, si era inginocchiato adagiando la pistola a terra tenendola ferma con il ginocchio sinistro; nel trambusto, il Tizio Bianco urtava l’arma con il tacco della scarpa allontanandola di qualche metro e, così facendo, la raccoglieva portandola seco nella fuga tanto che non è mai stata ritrovata;

i) artt. 648 c.p. e 12 lett. c) e 61 n. 2 c.p. perché, conoscendone la provenienza illecita, al fine di procurarsi profitto – consistente nel celarsi sotto false generalità, nel sottrarsi all’esecuzione di un ordine di cattura e nell’assicurarsi l’impunità per i reati di cui ai capi da a) ad h) e il provento della rapina di cui al capo b) – riceveva il modello della carta d’identità con numero poligrafico xxx ed il modello della patente di guida con numero poligrafico yyy, entrambi modelli autentici in bianco, oggetto di furto avvenuto in xxx;

l) artt. 477 e 482 e 61 n. 2 c.p., perché, al fine di assicurarsi l’impunità per i reati di cui ai capi da a) ad h), falsificava materialmente, contraffacendoli, i moduli della carta d’identità e della patente di cui al capo i), compilandoli con il nome e le generalità di tale “G.C. nato il xxx a Vicenza ed ivi residente”;

m) artt. 494 e 81 cpv e 61 n. 2 c.p. perché, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, al fine di deviare le indagini ed assicurarsi, così, l’impunità per i reati di cui ai capi da a) ad h), induceva in errore il titolare dell’albergo Hotel xxx in Brunico (BZ) ed il titolare dell’albergo “yyy” in Paderno del Grappa (TV) attribuendosi il falso nome di G.C. risultante dal registro delle presenze;

n) artt. 496 c.p. e 61 n. 2 c.p. perché, al fine di procurarsi l’impunità, fermato dai carabinieri all’uscita del casello autostradale di Parma, mentre si trovava alla guida dell’autovettura Volkswagen Polo blu tg. xxx; interrogato sulla sua identità e generalità, esibiva la carta d’identità e la patente di guida contraffatte intestate a “G.C. nato il xxx a Vicenza ed ivi residente”, fornendo così mendaci dichiarazioni sulla sua persona a pubblici ufficiali nell’espletamento delle loro funzioni di controllo;

o) artt. 648 e 61 n. 2 c.p. perché, al fine di procurarsi l’impunità nonché un ingiusto profitto, non concorrendo nel reato di furto, riceveva, conoscendone la provenienza illecita, l’autovettura Volkswagen Polo blu tg. xxx, sottratta al proprietario F.T. mentre era parcheggiata nel cortile dell’abitazione; lo Sempronio Rosso, al momento della cattura, era alla guida di questa autovettura ed usciva al casello autostradale di Parma;

con l’aggravante di aver commesso i reati di cui ai capi da a) ad m) durante il tempo in cui era latitante perché sottrattosi volontariamente all’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Corte d’Appello di Trieste in data 20/05/1998 in relazione al procedimento n. 252/97 R.G.N.R.;

con la continuazione ex art. 81 cpv c.p. e la connessione ex artt. 12 lettere b) e c) e 16 c.p.p. per i reati di cui ai capi a), i), l), m), n) e o);

con la recidiva reiterata specifica infraquinquennale ex art. 99 commi 1 e 2 n. 1 e n. 2 e comma 3° e comma 4° c.p.

appellante l’imputato: SEMPRONIO ROSSO

avverso la sentenza emessa dal CORTE ASSISE di REGGIO EMILIA in data 24/10/2002 che ha pronunciato il seguente dispositivo:

Visti gli artt. 533, 535 c.p.p. e 72, 81 c.p. dichiara Sempronio Rosso responsabile dei reati contestati, salvo l’assorbimento dei capi F e G rispettivamente nei capi D e C e, unificati i reati sotto il vincolo della continuazione sotto la più grave ipotesi rubricata sub D, lo condanna alla pena dell’ergastolo con l’isolamento diurno per un periodo di tempo pari a 12 mesi oltre al pagamento delle spese processuali e di custodia. Dichiara altresì Sempronio Rosso interdetto in perpetuo dai pubblici uffici ed in stato di interdizione legale. Dispone la pubblicazione, per estratto, della presente sentenza nel Comune di Reggio Emilia, di Luzzara ed in quello di San Donà di Piave nonché, per una volta, nei quotidiani “xxx” e “yyy”. Dispone la confisca e la distruzione del materiale relativo alla Fiat Punto di colore rosso e del materiale repertato dall’Arma dei CC di Gualtieri, dei reperti relativi ai rilievi tecnici effettuati dal CIS sulle autovetture Fiat Punto; BMW tg xxx, BMW tg. yyy ad eccezione della musicassetta e degli occhiali e della custodia per occhiali, di cui ne dispone la vendita, nonché la confisca e la distruzione dei reperti prelevati all’interno e nelle vicinanze della Fiat Punto. Dispone la restituzione agli aventi diritto degli indumenti del Brigadiere I. e degli indumenti di Tizio Bianco, nonché del materiale relativo alla BMW di Tizio Bianco. Dispone infine la restituzione all’imputato dei suoi effetti personali, nonché la confisca e la distruzione di quant’altro sequestrato in – conseguenza del suo arresto.

Visto l’art. 539 c.p.p. condanna altresì Sempronio Rosso al risarcimento dei danni a favore della costituita parte civile da liquidarsi in separato giudizio, disponendo a favore della stessa una provvisionale nella misura di Euro 105.000,00. Condanna infine l’imputato alla rifusione delle spese di costituzione ed assistenza che si liquidano in complessivi Euro 40.846,54 oltre accessori dovuti per legge.

Motivazione in giorni 90.

CONCLUSIONI

Il Procuratore Generale conclude chiedendo la conferma della sentenza di primo grado.

L’avv. Dario Bolognesi del Foro di Ferrara difensore dell’imputato conclude chiedendo l’accoglimento integrale dei motivi di appello.

Svolgimento del processo

La sentenza di primo grado.

L’imputato Sempronio ROSSO è stato condannato in primo grado alla pena dell’ergastolo, aggravato da dodici mesi d’isolamento diurno, per una serie di delitti commessi mentre era latitante, essendosi sottratto all’esecuzione di un provvedimento di custodia cautelare dell’autorità giudiziaria di Trieste.

Il reato più grave è l’omicidio del brigadiere capo dei carabinieri I., commesso in concorso con altra persona in data 28/7/1998, con l’aggravante di aver agito per assicurarsi l’impunità in relazione a una rapina a mano armata commessa ai danni della Banca A. L’imputazione contesta anche le aggravanti di cui ai nn. 6 e 10 dell’art. 61 c.p., relative allo stato di latitanza dell’imputato all’epoca del fatto ed alla qualifica di pubblico ufficiale della persona offesa. Sono contestati, poi, i reati connessi concernenti il porto delle armi ed il sequestro e le minacce in danno delle persone presenti in banca, nonché le minacce in danno del carabiniere C., intervenuto, insieme ad I., per sventare la rapina ed arrestare i colpevoli. Sono, altresì, contestati i delitti di ricettazione e falsificazione di una carta d’identità e di una patente trovate in possesso di Sempronio ROSSO al momento dell’arresto, avvenuto il 25/2/1999, di ricettazione della vettura a bordo della quale l’imputato viaggiava in tale ultima data, di sostituzione di persona commessa presentandosi ai titolari di due alberghi sotto il falso nome di C.G., infine di false dichiarazioni sulla propria identità personale, con riferimento all’esibizione del documento falso ed alle generalità declinate ai carabinieri al momento dell’arresto.

La corte di assise di Reggio Emilia, giudice di primo grado, ricostruisce la vicenda processuale secondo il seguente filo narrativo. Della rapina e dell’omicidio viene brevemente ricordato che, dopo aver sequestrato due ostaggi per uscire dalla banca, gli esecutori materiali del crimine s’imbatterono nei due carabinieri. I malviventi disarmarono il carabiniere C., rilasciarono gli ostaggi e si diedero alla fuga per raggiungere l’auto con la quale allontanarsi. Nel tratto che li separava dalla vettura, ingaggiarono un conflitto a fuoco con il brigadiere capo I., a seguito del quale persero la vita il militare ed uno dei due malviventi. Il cadavere di quest’ultimo fu trovato accanto all’auto servita per la fuga: una Fiat Punto rossa targata xxx, che i carabinieri rinvennero, con il parabrezza anteriore forato e i finestrini laterali infranti da colpi d’arma da fuoco, alle ore 17,40 di quello stesso giorno, lungo l’argine del Po, in località xxx.

La corte di primo grado incentra, poi, la sua attenzione sugli elementi che hanno condotto ad identificare Sempronio ROSSO come il complice del rapinatore morto. Quest’ultimo, in base alle impronte digitali prelevate dal cadavere, fu identificato in Tizio Bianco, pluripregiudicato per reati contro il patrimonio. Gli inquirenti accertarono, quindi, che costui era in possesso dell’utenza cellulare… e che, negli ultimi mesi, a parte le telefonate dei figli e di pochi conoscenti estranei al processo, era stato ripetutamente chiamato da delle cabine pubbliche gravitanti, prevalentemente, in Emilia-Romagna. In particolare, era stato accertato che, in più occasioni, dalla cabina da dove era stato composto il numero di Tizio Bianco, subito prima, o subito dopo, era stato composto anche il numero di telefono corrispondente all’utenza dell’abitazione di tale Caio Verde, residente a Bologna. Dalla reiterazione di questa coincidenza e dalla durata delle telefonate, i primi giudici deducono che era la stessa persona a comporre i due numeri in questione. Le telefonate erano state effettuate il 16/6/1998, quando dalla cabina di Castelmaggiore (Bologna), era stata chiamata l’utenza di Tizio Bianco alle 15,35 e quella di Caio Verde alle 15,37; il 23/6/1998, quando dalla cabina di Castelmaggiore, era stato chiamato Tizio Bianco alle 11,05 e, quindi, dalla cabina di Bologna, alle 11,54 l’utenza di Caio Verde ed alle 11,55 ancora quella di Tizio Bianco; il 24/6/1998, quando dal posto pubblico dell’autogrill di Ferrara era stato chiamato, alle 15,09, Tizio Bianco e subito dopo Caio Verde; il 17/6/1998, quando dalla cabina di Marostica (Vicenza) era stato chiamato Tizio Bianco, ed alle 14.16, dal posto pubblico di Mason Vicentino, distante solo quattro chilometri, era pervenuta una telefonata a Caio Verde; il 27/7/1998 – giorno precedente la rapina – quando dalla cabina di Via xxx era stato chiamato Tizio Bianco alle 8,59 e poi, dalla stessa cabina, Caio Verde alle 17,25 ed infine, alle 17,26, era stata effettuata una telefonata verso l’utenza cellulare…, intestata al suocero di Sempronio ROSSO, L.C., e pacificamente in uso a L.C., moglie dell’imputato.

Ad avviso del giudice di primo grado, sono poi significative le risultanze dei tabulati telefonici di due cabine pubbliche, nonché dell’utenza privata di Caio Verde. Le cabine pubbliche sono site, la prima, nel comune di San Donà di Piave e, la seconda, a Borgoforte. San Donà di Piave è il paese dove abitano i C. e Borgoforte è un paesino che dista da Riva di Suzzara, luogo del rinvenimento dell’auto dei rapinatori, una quindicina di chilometri. Orbene, dall’incrocio dei tabulati delle predette tre utenze, risulta che il giorno della rapina, il 28/7/1998, l’utenza di Caio Verde era stata chiamata alle 20,50 dalla cabina di San Donà di Piave, quindi era stata raggiunta, alle 22,54, da una telefonata proveniente dalla cabina di Borgoforte. In seguito, alle 22,55, dalla cabina di Borgoforte era stata effettuata una comunicazione con il portatile in uso a L.C. (intestato al padre); alle 23,01, dalla stessa cabina, era stato richiamato lo stesso numero; quindi, alle 23,16, era stata effettuata una nuova telefonata a Caio Verde e, da ultimo, alle 00,07 (del 29/7/1998) era stata chiamata ancora l’utenza di L.C.

Si passa, quindi, all’esame delle dichiarazioni di Caio Verde. Costui fu detenuto in carcere per uxoricidio negli anni ’80. Tra i compagni di detenzione conobbe l’odierno imputato, Sempronio ROSSO. Sentito in dibattimento, Caio Verde – che non è mai stato indagato né per complicità, né per favoreggiamento dell’imputato, e contro il quale non sono emersi, ad avviso dei primi giudici, indizi di sorta – ha precisato che durante l’estate del 1998 ebbe ad ospitare in casa propria, per un paio di mesi, Sempronio ROSSO, che gli aveva chiesto accoglienza con la spiegazione di stare attraversando un momento di crisi coniugale. Sul contenuto delle telefonate ricevute il 28/7/98, il testimone ha precisato che, quella sera, ricevette, per prima, la telefonata di una persona sconosciuta, qualificatasi per un amico di Sempronio ROSSO, poi – dopo circa un’ora – una telefonata di Sempronio ROSSO. Questi lo informò di aver avuto un incidente d’auto, ma Caio Verde gli negò il proprio soccorso, perché – pur essendo in possesso della patente di guida e di una vettura – era da un paio d’anni che non guidava. Il teste consigliò all’amico di parcheggiare l’auto a fianco della carreggiata e di aspettare un meccanico. Quella sera Sempronio ROSSO rientrò a casa verso l’una, l’una e trenta della notte.

Ricorda la corte di primo grado che il teste, prima di confondersi un po’ a causa del ripetersi delle medesime domande, avanzate più volte dalle parti, ha chiarito che la prima telefonata, quella dell’amico di Sempronio ROSSO, era intervenuta quando c’era ancora luce. Si trattava, dunque, della telefonata delle ore 20,50.

Dal raffronto delle telefonate sopra indicate la corte reggiana ha dedotto che la telefonata partita da San Donà di Piave alle 20,50 – quando d’estate, appunto, c’è ancora luce – era della persona presentatasi come un amico di Sempronio ROSSO; che quelle delle 22,54 e delle 23,16 dirette alla utenza di Caio Verde (anche se questi non ricordava la seconda), provenivano da Sempronio ROSSO; che questi, dunque, la notte del 28/7/98 si trovava a Borgoforte.

La telefonata fatta alle 20,50 a Caio Verde dalla cabina di San Donà di Piave viene attribuita dai giudici di primo grado ai familiari di Sempronio ROSSO in base ai seguenti argomenti. L’imputato era latitante dall’aprile di quell’anno, quando si era sottratto alla misura custodiale degli arresti domiciliari che avrebbe dovuto eseguire presso l’abitazione di San Donà di Piave. Il giorno dei fatti, il telegiornale delle ore 20,00 diede notizia della rapina di Luzzara, trasmettendo poi un ampio servizio dalle 20,24 alle 20,25. Le abitazioni della moglie e del suocero di Sempronio ROSSO distano dalla cabina di San Donà, dalla quale fu effettuata la telefonata, poco più di un chilometro. Ritengono, perciò, verosimile – i primi giudici che la telefonata in esame sia nata dalla preoccupazione dei familiari dell’imputato per il proprio congiunto. La notizia del tragico epilogo della rapina spinse i C. a cercare Sempronio ROSSO dove sapevano che abitava: da Caio Verde. Lo stato di apprensione per le sorti del proprio congiunto sarebbe comprovato dal numero di telefonate intercorse tra l’utenza fissa di C. padre e quella mobile della figlia, nell’arco di tempo che va dalle 20,16 alle 20,25, in cui si susseguirono ben quattro chiamate, seguite, a loro volta, da una quinta comunicazione delle ore 21,52. Finalmente, alle ore 22,54 (recte: 22,55 n.d.e.), giunse la chiamata di Sempronio ROSSO da Borgoforte che li tranquillizzò circa le sorti del familiare.

L.C. ha deposto davanti alla corte d’assise di Reggio Emilia dichiarando quanto segue. Sempronio ROSSO passò la giornata del 28/7/98 presso la propria famiglia a San Donà di Piave. Vedremo, in seguito, in quale contesto. L’imputato era arrivato la notte precedente ed aveva parcheggiato l’auto rubata, con cui viaggiava, nel parcheggio sito nei pressi della cabina telefonica dalla quale alle 20,50 del 28 luglio fu chiamata l’abitazione di Caio Verde. Le telefonate intervenute tra le 20,16 e le 20,25 di quella sera, tra la sua utenza e quella della figlia L.C., erano consistite in comunicazioni familiari aventi, tra l’altro, ad oggetto la necessità che il teste accompagnasse Sempronio ROSSO alla propria auto per ritornare a Bologna. Uscendo di casa, nella fretta, l’imputato avrebbe preso per sbaglio il telefono che “doveva stare a casa”. Accortosene, al momento di scendere dall’auto del suocero lo avrebbe restituito a quest’ultimo pregandolo di consegnarlo, alla prima occasione, alla moglie. Non sarebbe stato L.C., dunque, ad effettuare la telefonata delle 20,50 a Caio Verde dalla cabina di San Donà di Piave. La telefonata l’avrebbe fatta Sempronio ROSSO per avvisare l’amico del proprio prossimo rientro a Bologna. L.C., in seguito, avrebbe tenuto acceso il cellulare consegnatogli da Sempronio ROSSO nell’eventualità che il genero avesse bisogno di qualcosa. Sarebbero perciò arrivate a lui le due telefonate delle 22,55 e delle 23,01 provenienti dalla cabina di Borgoforte, mentre quella delle 00,07 l’avrebbe presa la figlia S. In tutti e tre i casi, a telefonare sarebbe stato lo stesso individuo, qualificatosi come un amico di Sempronio ROSSO, che pretendeva di mettersi in contatto con costui. Poiché, però, l’uomo non aveva detto chi fosse, non gli era stata data alcuna indicazione, né era stato messo in contatto con Sempronio ROSSO. L’individuo non si era più fatto sentire e l’indomani L.C. aveva restituito il portatile alla figlia.

Tale versione – ad avviso della corte di Reggio Emilia – contrasterebbe con la circostanza che il telefono sul quale arrivarono le telefonate della cabina di Borgoforte non era quello della casa di L.C., ma il portatile con cui la donna comunicava riservatamente con il proprio marito. Ed anche le dichiarazioni effettuate da Sempronio ROSSO, nella stessa udienza, per correggere alcuni asseriti errori di memoria del proprio suocero, conterrebbero il medesimo riferimento al telefono di casa, preso per sbaglio, anziché a quello usato esclusivamente dalla moglie per le proprie comunicazioni riservate con il marito. Infine, l’ultima versione resa dall’imputato il 17/6/2002, avrebbe fatto – sì – riferimento al telefono personale della moglie, ma avrebbe instaurato una poco verosimile similitudine addirittura tra tre telefoni: quello di Sempronio ROSSO, quello della moglie dell’imputato, ed il cordless usato nella casa di costei.

La versione dell’imputato e del suocero, poi, non spiegherebbe perché Sempronio ROSSO avesse deciso di ripartire da San Donà di Piave ancora con la luce, mentre è pacifico che il giorno prima, come s’addice ad un latitante, egli aveva viaggiato con il buio. Così pure, susciterebbe perplessità il lungo tempo impiegato da Sempronio ROSSO per ritornare da San Donà di Piave a Bologna, posto che l’imputato afferma di essere entrato a casa verso mezzanotte e Caio Verde testimonia che Sempronio ROSSO rientrò addirittura verso l’una, una e mezza, di notte. Va anche ricordato – ad avviso del primo giudice – che l’imputato afferma di essere entrato in casa con le proprie chiavi, mentre Caio Verde ricorda di essere rimasto sveglio ad aspettare l’amico proprio perché questi non aveva le chiavi dell’appartamento.

La corte reggiana ricorda che – stando all’ultima versione dell’imputato – il numero del cellulare della moglie, che in precedenza tutti avevano affermato segreto, sarebbe stato conosciuto anche da Tizio Bianco. Il quale sarebbe stato anche l’unico – sempre secondo tale ultima versione – a conoscere il rifugio di Sempronio ROSSO a Bologna.

Tutto ciò premesso, il primo giudice sostiene di non poter credere alla versione dell’imputato e del suocero di questi, che lasciano intendere che le telefonate dalla cabina di Borgoforte sarebbero state effettuate da persona diversa da Sempronio ROSSO. Per poter credere a questa versione, bisognerebbe avere gli elementi per ipotizzare la presenza di un terzo individuo, diverso dall’imputato e da Tizio Bianco, e complice di costui nella rapina, che fosse in rapporti tanto intimi con il rapinatore morto, da essersi fatto dare il numero segreto della moglie di Sempronio ROSSO e quello del rifugio di quest’ultimo, a Bologna. E bisognerebbe, altresì, poter ipotizzare che l’ignoto terzo individuo avesse cercato Sempronio ROSSO, senza conoscerlo, per un’intera notte, per poi smettere all’improvviso di chiamarlo: l’imputato, infatti, afferma che quest’uomo non lo cercò mai più.

La tesi difensiva non si concilia con le dichiarazioni del teste Caio Verde. Inoltre, l’esame delle telefonate a Tizio Bianco, nei giorni precedenti la rapina, evidenzia numerose chiamate da posti pubblici dell’Emilia-Romagna che, per la loro contiguità con quelle fatte a Caio Verde, non possono che provenire da Sempronio ROSSO. L’imputato, dal canto suo, ha ammesso che molte di queste telefonate erano le sue. Perciò, pensando che il complice di Tizio Bianco era persona a questi nota e che le telefonate portano tutte al terzetto Tizio Bianco – Caio Verde – L.C., se ne deduce che il secondo rapinatore era necessariamente Sempronio ROSSO. Caio Verde, infatti, non risulta avere avuto alcun rapporto con Tizio Bianco.

La prima corte affronta, poi, il tema delle ricognizioni di persona. Evidenzia che il primo rapinatore, identificato in Tizio Bianco da diversi testi, era stato descritto come un uomo alto mt. 1,60-1,65, di corporatura grassa, con i capelli scuri, la carnagione chiara, il viso rotondo, indossante una tuta blu. Più difficoltosa era stata l’indicazione dei tratti del secondo rapinatore, indossante una maglietta gialla. Costui aveva un fazzoletto davanti alla bocca, un’età tra i trentacinque e i cinquant’anni, la corporatura esile, un’altezza tra mt. 1,60 e 1,73, il viso scarno.

Secondo la difesa, le ricognizioni fornirebbero il dato certo che tale ultimo rapinatore non è Sempronio ROSSO ed, in particolare, sarebbero molto significative le ricognizioni negative dei testi L., G. e C. La corte di primo grado non è dello stesso avviso e ritiene, innanzi tutto, che le descrizioni del secondo rapinatore non contengano dei dati incompatibili con le sembianze dell’imputato. Sempronio ROSSO, infatti, nel 1998 aveva cinquant’anni, era magro ed alto mt. 1,65. Inoltre le ricognizioni, pur non favorevoli all’imputato, non sarebbero ricognizioni negative, tali da escludere che Sempronio ROSSO fosse il secondo rapinatore. L., che aveva descritto un individuo coi capelli di media lunghezza, scuri e voluminosi, in sede di incidente probatorio ha precisato di non aver riconosciuto il rapinatore in una foto pubblicata dai giornali, nella quale – peraltro – Sempronio ROSSO appare stempiato e con i capelli corti; poi, messo davanti, di persona, all’imputato, si è limitato a dire che questi gli sembrava diverso dal rapinatore. Aveva descritto – sì – degli occhi scuri, mentre Sempronio ROSSO li ha azzurri; però l’imputato ha occhi molto piccoli. L., infine, mentre nel ’98 aveva indicato per due volte S.M. (persona indagata e poi prosciolta), nel ’99 non l’aveva più riconosciuto, così dimostrando l’indebolimento del ricordo. G., che come L., aveva inizialmente indicato in fotografia tale S.M., in dibattimento, aveva modificato età ed altezza del rapinatore ringiovanendolo ed alzandone la statura. Il carabiniere C., che doveva essere rimasto assai scosso dall’episodio, aveva indicato persone diverse, identificando prima un collega, tale M., poi S.M.. In dibattimento, aveva fornito dati differenti da quelli ricordati dagli altri testimoni, in particolare parlando di un uomo dalla corporatura robusta e con i capelli separati da una riga laterale.

Osserva, poi, la corte reggiana che la teste C. aveva parlato per prima di una probabile parrucca, ricordando che il rapinatore aveva una capigliatura “troppo folta”. Questa teste, che in istruttoria aveva indicato S.M. come rassomigliante al 50% al malvivente, nell’incidente probatorio, allorché l’imputato le era stato mostrato travisato, insieme ad altri, aveva riconosciuto Sempronio ROSSO “per corporatura e viso scarno”. Ed il riconoscimento è stato ripetuto in aula.

Dall’esame delle ricognizioni i primi giudici concludono che il secondo rapinatore era simile ad S.M., con il quale, peraltro, l’imputato ha in comune la caratteristica somatica degli occhi “all’ingiù”.

L’alibi dell’imputato. Questo è stato fornito per la prima volta nel maggio 2002, a distanza di quasi quattro anni dall’inizio delle indagini. Esso si affida al ricordo della moglie, del suocero e della figlia dell’imputato. Sempronio ROSSO sarebbe giunto a San Donà di Piave la sera del 27/7/98 e vi sarebbe rimasto fino ad oltre le 20,00 del giorno dopo. Il 28/7/98 si festeggiò, in famiglia, l’anniversario dell’apertura del negozio di L.C. e della figlia L.R. L’apertura era avvenuta, a dire il vero, il giorno 25 luglio, ma poiché, nel ’98, tale giorno cadeva di sabato ed era lavorativo, mentre la domenica successiva uno degli invitati, M.L., non poteva intervenire, si decise di fissare per il 28 luglio, che era un martedì, giorno di chiusura settimanale del negozio.

La corte di primo grado osserva che i parenti dell’imputato cadono in contraddizione sui motivi che avrebbero determinato lo spostamento della data del pranzo: L.C. afferma che si scartò la domenica per volontà dei coniugi Sempronio ROSSO, che erano soliti incontrarsi da soli in tale giornata; L.R. afferma, invece, di essere stata lei a voler evitare la domenica, perché quel giorno voleva andare al mare con il fidanzato. Inoltre, la ricostruzione dei familiari di Sempronio ROSSO è smentita dall’unico teste indifferente che partecipò al pranzo. Infatti, M.L., pur avendo ricordato di aver preso parte, quell’estate, ad un pranzo cui era presente anche l’imputato, non ha saputo dire che giorno fosse, e – soprattutto – ha escluso che la prima data propostagli dalla C. fosse di sabato o di domenica. Ha, infatti, ricordato che l’appuntamento che gli fece chiedere di spostare la data del pranzo non cadeva nel week-end, ma in un giorno lavorativo. Il teste ha agganciato il proprio ricordo al fatto che la persona che doveva incontrare gli stava molto a cuore, e che lui le aveva proposto un incontro nel fine settimana, mentre questa persona aveva fissato l’appuntamento in un giorno infrasettimanale.

Anche l’esame dei tabulati telefonici, ad avviso della corte di primo grado, depone contro un pranzo tenutosi martedì 28 luglio ’98. Risulta, infatti, che quel giorno, nelle primissime ore del pomeriggio, dal negozio erano partite delle telefonate, qualcuna delle quali diretta al telefono cellulare in uso alla famiglia C. Ciò contrasterebbe con il pranzo al quale sarebbero stati presenti tutti i familiari. E’ vero che M., la figlia dell’imputato, si è assunta la paternità di queste telefonate, giustificandole con il fatto che, essendo vegetariana e mangiando poco, aveva abbandonato ben presto gli altri commensali, anche per andare a riordinare il negozio, ma la corte ritiene la giustificazione poco verosimile, anche perché nei martedì precedente e successivo, parimenti giorni di chiusura al pubblico, nessuna telefonata era stata effettuata.

I primi giudici ritengono, altresì, scarsamente plausibile il comportamento di Sempronio ROSSO la sera del fatto. Egli si sarebbe allontanato da San Donà di Piave mentre era ancora giorno, pur potendo aspettare il buio, con la debole giustificazione che si sentiva sazio.

Quale indizio a carico dell’imputato, viene valorizzata, dalla corte reggiana, anche la testimonianza della moglie di Tizio Bianco, la signora G.N. Sentita in dibattimento, la donna ha affermato che, per i funerali del marito, tenutisi nell’agosto del ’98 a Trento, ella si incontrò con i vecchi amici di Tizio Bianco, restando ospite per qualche giorno di N.G., detto B. In particolare, ella parlò con F.I., il quale le disse che il complice di Tizio Bianco era tale Sempronio ROSSO. F.I. aggiunse di saperlo perché inizialmente anche lui avrebbe dovuto partecipare alla rapina; aveva, poi, finito per dire: “Se sapevo che era Sempronio ROSSO, ci sarei andato anch’io”. Alla conversazione era stata presente anche la figlia della G.N., P.B., oltre alla figlia di N.G., all’epoca molto piccola.

Sentito ai sensi dell’art. 195 c.p.p., F.I. ha negato di aver mai parlato del coinvolgimento di Sempronio ROSSO nella rapina. Ha sostenuto che fu la signora G.N. a chiedergli se conoscesse tale Sempronio ROSSO; domanda alla quale aveva risposto che conosceva Sempronio ROSSO, per essere stato detenuto insieme a lui, anni prima.

La corte di primo grado osserva che la credibilità della G.N. risulta avvalorata dal fatto che la donna non ha parlato subito del colloquio con F.I., ma solo dopo che la figlia, P.B., ha fatto presente di aver appreso dagli amici del padre che il complice di costui era Sempronio ROSSO. Solo a questo punto la signora G.N., non potendo smentire la figlia, si è decisa a svelare, sino in fondo, tutto ciò che aveva appreso dal colloquio con F.I. e che, in precedenza, aveva in parte taciuto per paura. D’altronde, nell’agosto del ’98, agli inquirenti e, tanto più, alla G.N., era ignoto il cognome di Sempronio ROSSO. Non potevano, perciò, essere state le due donne a fare questo cognome, ma solo F.I. Osserva, inoltre, la prima corte che è plausibile che F.I., già in agosto, avesse saputo come stavano le cose; egli era, infatti, amico non solo di Tizio Bianco, ma anche di Sempronio ROSSO. Che, poi, F.I. dovesse partecipare anche lui alla rapina, oppure che questa partecipazione fosse solo frutto delle fantasticherie da alcolista del teste, non ha importanza. Il dato che, in ogni caso, emerge è che il nome dell’imputato circolava, già nell’agosto del ’98, negli ambienti della malavita.

Come ulteriori indizi contro l’imputato, la corte di primo grado individua l’impronta digitale evidenziata su una bottiglia di alcol che era contenuta all’interno del baule della Fiat Punto rossa utilizzata dai banditi per la fuga, nonché alcune caratteristiche comuni a tale auto ed alla Wolksvagen Polo a bordo della quale Sempronio ROSSO fu fermato il 25/2/99.

La perizia disposta in dibattimento ha evidenziato che l’impronta in questione è attribuibile a Sempronio ROSSO per ben sedici punti, permettendo così pervenire ad un giudizio di certezza sulla circostanza che la bottiglia fosse stata toccata dall’imputato e ad una correlazione tra costui e la vettura. Che questa fosse nella disponibilità di Sempronio ROSSO è avvalorato – afferma il primo giudice dai seguenti altri elementi. Nel giugno del `98 l’auto era stata multata in due occasioni – il giorno 2 ed il 20 – a Bassano del Grappa ed a Bologna e nelle stesse date Caio Verde aveva ricevuto delle telefonate da cabine telefoniche di località poco distanti da quelle delle multe (Duecarre, in provincia di Padova e Castelmaggiore). La Fiat Punto, inoltre, presentava due caratteristiche peculiari: aveva percorso molti chilometri dal giorno in cui era stata rubata e le erano state sostituite le ruote anteriori. Queste due identiche caratteristiche emergevano dall’esame della Polo in possesso dell’imputato al momento dell’arresto: anch’essa aveva un chilometraggio molto più elevato di quando era stata rubata e le erano state sostituite le ruote davanti. Sempronio ROSSO ha ammesso di aver viaggiato molto, durante il periodo della propria latitanza.

L’imputato, ad avviso del primo giudice, ha fornito una versione “fantasiosa” per giustificare l’impronta digitale sulla bottiglia. Ha sostenuto che nel giugno del ’98 aveva incontrato Tizio Bianco, al quale si era rivolto, da latitante, per ottenere dei documenti falsi ed un’auto rubata. All’incontro, Tizio Bianco si era presentato con un’auto – diversa dalla Punto rossa – che conteneva una quantità tale di merce rubata da un supermercato che, per sedersi di fianco al conducente, Sempronio ROSSO aveva dovuto spostare diversi oggetti. Tra questi, probabilmente, la bottiglia d’alcol in esame.

La corte afferma che sembra poco plausibile la scelta di Tizio Bianco di rubare dell’alcol, mentre i restanti oggetti asportati erano generi alimentari, e che sulla bottiglia non sono state rilevate altre impronte, a parte quella di Sempronio ROSSO. Di talché, posto che Tizio Bianco aveva avuto in dotazione sempre altre vetture, l’utilizzatore della Punto, che usava l’auto per percorrere molti chilometri ed aveva le medesime “attenzioni manutentive” di Sempronio ROSSO, non poteva essere che l’imputato.

Ancora, viene messo in evidenza che Sempronio ROSSO, al momento dell’arresto, era in possesso di denaro contante anche in valuta estera e che, nella rapina di Luzzara, era stato sottratto anche questo genere di valuta. L’imputato, poi, è stato trovato in possesso di guanti di lattice, cioè di guanti dello stesso tipo di quelli rinvenuti nei pressi del luogo dove i rapinatori abbandonarono la Punto. Sempronio ROSSO ha un impressionante numero di precedenti per rapine perpetrate in filiali di banche di piccoli paesi, tutte compiute con modalità analoghe a quella in esame. Mentre nel luglio del ’98 l’imputato non aveva grandi disponibilità di mezzi, tanto da doversi fare ospitare nella modesta abitazione di Caio Verde, in seguito egli cambiò genere di vita, permettendosi di alloggiare in alberghi e pranzare in ristoranti. L’imputato ha cercato di giustificare tali disponibilità di denaro con un genere di attività (i furti in appartamento) estranea ai suoi precedenti, mentre appare significativo che nella rapina di Luzzara il bottino sia stato di oltre 100 milioni di lire. Nell’agenda sequestrata all’imputato erano segnati, opportunamente occultati, solo il numero del suo telefono, nonché i numeri degli apparecchi in uso alla C., a Caio Verde ed a Tizio Bianco.

Non è plausibile, ad avviso della prima corte, che Sempronio ROSSO si fosse rivolto a Tizio Bianco solo per ottenere un’auto e dei documenti rubati, poiché era Sempronio ROSSO e non Tizio Bianco ad avere i contatti con la malavita bolognese che avrebbe fornito la vettura all’imputato. Sempronio ROSSO, infine, aveva la possibilità di procurarsi documenti falsi da delle fonti ben più veloci di Tizio Bianco. Quest’ultimo, infatti, non era stato in grado di trovarli in circa due mesi, mentre l’imputato – come da lui dichiarato – dopo la morte dell’amico riuscì a procurarseli in soli due giorni.

Passando al tema relativo alla determinazione della pena, la corte reggiana ha osservato che il conflitto a fuoco nel quale il brigadiere capo I. perse la vita per due colpi di arma da fuoco, entrambi mortali, che lo attinsero al capo e all’addome, era facilmente prevedibile posto che Luzzara è un piccolo paese e la banca è vicina alla stazione dei militari dell’Arma. Pertanto, non importa quale dei due malviventi abbia sparato ed ucciso. Sempronio ROSSO deve, in ogni caso, rispondere dell’omicidio a titolo di concorso, stante il prevedibile sviluppo dello scontro a fuoco con le forze dell’ordine. Provate sono le aggravanti dell’aver agito per conseguire l’impunità e del fatto commesso contro un pubblico ufficiale nell’esercizio delle funzioni. Il ruolo primario di Sempronio ROSSO nella rapina, l’uso senza esitazioni dell’arma, i precedenti penali pessimi, hanno condotto il giudice a determinare la pena nell’ergastolo. I capi F e G sono stati ritenuti assorbiti rispettivamente nell’omicidio sub D e nelle minacce sub C. Le restanti nove imputazioni sono provate – ha affermato la prima corte – dalle modalità della rapina riferite dai testi; dall’accertamento della provenienza furtiva delle vetture di cui si tratta; dal possesso, in capo all’imputato, dei documenti falsificati; dalle generalità false declinate dall’imputato e dall’esibizione di documenti contraffatti per ottenere alloggio in due alberghi; infine, dalle dichiarazioni false sulla propria identità rese ai carabinieri all’atto dell’arresto. La recidiva è stata correttamente contestata.

Ciò considerato, la corte di prime cure ha ritenuto che, per i reati in continuazione, si sarebbero dovuti infliggere più di cinque anni di reclusione; perciò, in applicazione dell’art. 72 c.p., ha disposto che l’ergastolo fosse aggravato dall’isolamento diurno per la durata di dodici mesi. Ha condannato poi, genericamente, Sempronio ROSSO al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile, liquidando una provvisionale, in favore del figlio della vittima, di 105.000,00 Euro.

L ‘appello della difesa.

I primi due motivi d’appello contestano la responsabilità dell’imputato in ordine alle imputazioni di cui ai capi da A ad H. Il primo motivo è intitolato alla ricostruzione degli avvenimenti secondo la corretta lettura delle risultanze processuali; il secondo è dedicato alla critica della ricostruzione degli avvenimenti operata dalla corte d’assise di Reggio Emilia. Essi vengono qui riferiti unitariamente, in quanto contengono molti argomenti comuni.

Si inizia con la ricostruzione della rapina. Si afferma che i carabinieri arrivarono all’esterno della banca quando Tizio Bianco ed il complice stavano uscendo. Per primo era uscito quest’ultimo, che indossava un maglietta gialla e teneva in ostaggio G. Il rapinatore, minacciando di uccidere l’impiegato sequestrato, imponeva al carabiniere C. di deporre la pistola. Usciva, poi, dalla banca anche il secondo rapinatore, Tizio Bianco, che a propria volta si faceva scudo di L. Lasciati gli ostaggi i due malviventi si davano alla fuga verso Via xxx. Il brigadiere I. iniziava a sparare sin da Via yyy, mentre il vero conflitto a fuoco, con la risposta dei malviventi, veniva ingaggiato in Via xxx. Non c’erano testimoni della sparatoria. Il carabiniere C., sbucando in Via xxx, vedeva il brigadiere capo I. esplodere due colpi e quindi cadere colpito. Di qui, afferma la difesa, si evince che la Punto, quando il carabiniere C. sparò, era già in movimento e stava allontanandosi. La Fiat venne poi trovata a Riva di Suzzara, in un pioppeto lungo l’argine del Po.

Ricorda l’appellante che molteplici sono state le ricognizioni fotografiche o personali operate dai testimoni (nel luglio del ’98; nel corso dell’incidente probatorio del 26/4/99; nel novembre del ’99 e, infine, in udienza). Tali ricognizioni hanno dato esito negativo. G., che fu l’ostaggio sequestrato dal rapinatore con la maglia gialla non ha mai riconosciuto Sempronio ROSSO, né in fotografia, né nel corso dell’incidente probatorio, nel quale l’imputato gli fu mostrato prima non travisato e poi travisato. Il ricordo di questo testimone è molto importante perché egli sarebbe l’unico ad aver intravisto il volto del rapinatore in esame ed è l’unico ad avere riconosciuto nella foto di Tizio Bianco le sembianze del primo rapinatore. Il bandito che lo aveva sequestrato e che durante l’azione aveva il viso coperto da un fazzoletto, fu visto da G. nel momento in cui questi fu lasciato libero. Non solo G. non riconosce Sempronio ROSSO, ma ha sempre indicato S.M., che non assomiglia a Sempronio ROSSO. Il teste parla poi di occhi scuri del rapinatore, mentre Sempronio ROSSO ha gli occhi azzurri.

Il teste L., anche lui importante perché era l’ostaggio di Tizio Bianco, ha riconosciuto anch’egli S.M., nel corso della prima ricognizione fotografica; non ha riconosciuto Sempronio ROSSO nel corso dell’incidente probatorio. Ha fornito, del rapinatore in maglia gialla, dati incompatibili con la persona dell’imputato, ad esempio descrivendo una carnagione olivastra, mentre quella dell’imputato è chiara. Non importa, poi, che in foto, nel novembre ’99 non sia riuscito a riconoscere di nuovo S.M.; una circostanza, questa, che è in grado semmai di inficiare un riconoscimento positivo, ma non uno negativo. Il teste non sa dire se il rapinatore indossasse un parrucchino.

Anche il carabiniere C. è importante perché puntò la pistola contro il rapinatore ed a sua volta si vide puntare contro l’arma del malvivente. Dice di aver notato una fossetta sul mento di quest’ultimo, particolare che non appartiene a Sempronio ROSSO. C. in sede di ricognizione personale (incidente probatorio) ha riconosciuto un birillo. Aveva, invece, riconosciuto una certa rassomiglianza tra il rapinatore e S.M. in un’occasione in cui vide costui presso una caserma dei carabinieri.

Pochi testimoni hanno indicato delle somiglianze tra il rapinatore e Sempronio ROSSO, e le loro dichiarazioni sono incerte e inattendibili. La teste C. ha ravvisato somiglianza tra il rapinatore e Sempronio ROSSO sia in sede d’incidente probatorio, sia in udienza. Tuttavia ha detto di trovare rassomigliante al rapinatore anche S.M.. Aveva dato, originariamente, una descrizione del rapinatore incompatibile con le sembianze di Sempronio ROSSO, in particolare per gli occhi scuri ed il viso un po’ butterato. Aveva, comunque, detto di essere riuscita ad osservare poco del rapinatore, da lei ricordato soprattutto per la forma del viso e il disegno degli occhi. Nel corso dell’incidente probatorio ha riconosciuto Sempronio ROSSO solo quando le è stato mostrato travisato. Nel novembre ’99, invece, lo ha riconosciuto in una foto al naturale. In dibattimento, contrariamente a quanto aveva sempre detto, ha affermato che il rapinatore aveva gli occhi chiari. Se ne deduce che la teste ha adattato il proprio ricordo alle caratteristiche somatiche dell’imputato.

R.F., dipendente dell’Istituto di credito rapinato, fu colui che, entrando in banca nel primo pomeriggio dalla porta riservata al personale, fu sospinto dentro dal rapinatore più magro, che gli puntò la pistola alla schiena. Egli non ricorda neppure l’abbigliamento del rapinatore, che tutti gli altri ricordano indossare una maglia gialla. Ha detto poi di avere osservato il malvivente solo con la coda dell’occhio. Prima di riconoscere Sempronio ROSSO davanti al giudice per le indagini preliminari in sede d’incidente probatorio, ha affermato che aveva visto pubblicata dai giornali una foto dell’imputato. Eppure, subito dopo il fatto, non aveva riconosciuto la foto di Sempronio ROSSO mostratagli in questura. Inizialmente, il teste non aveva parlato di un possibile parrucchino indossato dal rapinatore, elemento uscito fuori in un secondo momento per l’insistenza dei carabinieri.

Dunque, i testi che hanno riconosciuto Sempronio ROSSO lo hanno fatto – secondo la difesa – partendo dall’indimostrata premessa che il rapinatore indossasse un parrucchino, mentre gli altri hanno riconosciuto S.M. che non assomiglia all’imputato.

Anche S.M. ha indicato, in sede di incidente probatorio, Sempronio ROSSO come simile al rapinatore con la maglia gialla. In precedenza, però, nel corso del riconoscimento fotografico, aveva indicato S.M.. Prima dell’incidente probatorio ha detto di aver visto una foto dell’imputato sui giornali e che questa non assomigliava al rapinatore. Ha poi indicato una caratteristica fisica incompatibile con Sempronio ROSSO: vale a dire, che il rapinatore zoppicava vistosamente. Anche lei non è stata in grado di dire, con certezza, se il rapinatore indossasse una parrucca. E, se così non era, l’imputato non potrebbe essere il rapinatore.

Vi sono poi riconoscimenti meno significativi. G.L., che ha dichiarato di non essere in grado di riconoscere alcuno, ha però indicato caratteristiche somatiche incompatibili con l’imputato, come il viso ruvido o butterato. Ha detto poi che il rapinatore aveva una capigliatura normale, il che porta ad escludere Sempronio ROSSO che, per essere autore della rapina, avrebbe dovuto indossare una parrucca.

C.L. riconobbe nell’immediatezza del fatto S.M.; poi non è più stato in grado di riconoscere nessuno.

E.B., titolare di una pizzeria sita di fronte alla filiale di banca rapinata ha riconosciuto nella foto di S.M. l’effigie di una persona che, qualche giorno prima della rapina, le chiese delle informazioni, e nella foto di G. Marrone l’immagine di un altro che aveva visto in un bar del paese, sempre nel luglio del ’98.

Concludendo l’esame dei riconoscimenti, la difesa osserva che da tali atti sorge la ragionevole convinzione che Sempronio ROSSO non possa essere il complice di Tizio Bianco. Alcuni particolari somatici indicati dai testi, come la fossetta sul mento, il viso rovinato, la zoppia o la corporatura media, sono in contrasto con i caratteri fisici dell’imputato.

La difesa non vuol dire che a commettere la rapina sia stato S.M., ma il complice del rapinatore morto potrebbe essere un individuo di estrazione nomade-giostraia, come S.M.. Sono, infatti, emersi molti spunti che ricollegano Tizio Bianco a tale mondo. La conoscenza tra Tizio Bianco e S.M., nonché con altri giostrai emerge, ad esempio, dalle dichiarazioni di B.R., titolare del bar xxx (TN); dalle testimonianze del maresciallo C. e dell’appuntato C.; da quella di A.E., che ha affermato che Tizio Bianco aveva conosciuto i S.M. tramite F.C.; dalle dichiarazioni dei figli di Tizio Bianco che hanno affermato di aver accompagnato il padre presso un campo nomadi vicino Trento, che andrebbe identificato nell’accampamento dei S.M.; nelle testimonianze di Z.R. e di S.S. Z., titolare di un negozio di Luzzara, afferma di aver visto Tizio Bianco nel suo negozio insieme a dei nomadi una quindicina di giorni prima della rapina; la S. vide transitare sulla strada che costeggia l’argine del Po, pochi giorni prima della rapina, una Golf bianca con a bordo dei nomadi ed una persona da lei riconosciuta in Tizio Bianco.

La difesa passa, poi, ad esaminare le circostanze della fuga del rapinatore sopravvissuto, per dedurne che costui aveva degli altri complici, rimasti ignoti, e che gli sarebbe stato impossibile raggiungere a piedi Borgoforte da Riva di Suzzara, luogo dove l’auto è stata abbandonata.

L’esistenza di almeno un altro complice e di una vettura di appoggio, viene ricavata dalla difesa dai seguenti elementi. Due individui giovani, mai visti prima, entrarono quella mattina in banca per effettuare dei cambi di moneta. Ciò richiama una sorta di sopralluogo definitivo prima del colpo. Inoltre, S.S. ha dichiarato di aver visto, quella mattina, transitare sull’argine del Po una Fiat Punto con a bordo tre persone. La Punto era seguita – anche se la teste non sa dire se lo stesso giorno, o alcuni giorni prima – da una BMW con a bordo due persone di cui una da lei riconosciuta in tale M.D., intestatario di una scheda utilizzata da S.M.. La S. vide, altresì, qualche giorno prima dei fatti, transitare, sempre sull’argine del Po, una Golf bianca con a bordo tre persone riconosciute in S.M.G., S.M.M. e Tizio Bianco. Di qui, la difesa deduce che Tizio Bianco era stato visto insieme a dei nomadi alcuni giorni prima della rapina e che la Punto rossa dei rapinatori, la mattina del delitto, fu vista con a bordo tre persone.

Anche altre persone di Luzzara hanno visto Tizio Bianco insieme a dei nomadi, nei giorni precedenti la rapina: Z. lo vide circa quindici giorni prima; i testi A. e R. il 24 o il 25 luglio. Tutto ciò conduce la difesa ad affermare che Tizio Bianco aveva più di un complice, come del resto appare funzionale all’organizzazione di una rapina, in cui è necessario l’appoggio di un’auto pulita.

Una seconda auto, ad avviso della difesa, c’era ed era proprio nel luogo dov’è stata abbandonata la Punto. Dalle dichiarazioni del carabiniere S. si dedurrebbe, infatti, che non furono eseguiti rilievi per accertare se nei pressi della Punto ci fossero le impronte dei pneumatici di un’altra auto. La zona è poi piena di stradine che intersecano l’argine golenale, tutte agevolmente utilizzabili. Sicché, di lì, si sarebbe potuto raggiungere in fretta la statale 62.

L’esame delle caratteristiche geografiche e di coltivazione della zona che va da Riva di Suzzara a Borgoforte, permette alla difesa di sostenere che, poiché non è presente solo della vegetazione ad alto fusto ed, anzi, sono presenti ampi spazi arati e coltivati a frumento, un rapinatore che fosse rimasto a piedi in quei luoghi non avrebbe potuto sfuggire all’ampio spiegamento di forze messo in campo dagli inquirenti per dare la caccia al bandito fuggiasco. Furono, infatti, impiegate delle unità cinofile, degli elicotteri ed anche un carabiniere a cavallo. Inoltre, per arrivare a Borgoforte, occorre superare il Po e sui due ponti che permettono di attraversare il fiume erano stati certamente istituiti dei posti di blocco. L’accusa, che aveva disposto che la zona fosse filmata, non ha mai depositato le relative riprese, così rinunciando a provare il contrario di quanto la difesa ha affermato e ragionevolmente provato.

I motivi d’appello si soffermano, poi, sullo studio delle telefonate della notte del 28/7/98 e sull’alibi fornito dall’imputato. Sempronio ROSSO quella notte effettuò una sola telefonata: quella delle 20,50, proveniente dalla cabina di San Donà di Piave e diretta all’abitazione di Caio Verde. La telefonata servì ad avvisare l’amico, come di solito, che di lì a non molto l’imputato sarebbe rientrato a casa. Sempronio ROSSO era giunto a San Donà di Piave, presso i propri familiari, la sera prima. Il 28 luglio partecipò al pranzo per l’anniversario dell’apertura del negozio della moglie e della figlia. Verso sera se ne andò; il suocero lo accompagnò, in auto, fino ad un parcheggio non distante da dove lui aveva lasciato la propria vettura, e vicino al quale esiste la cabina telefonica in questione. Da questa telefonò a Caio Verde. Nello scendere dall’auto del suocero, si avvide di aver preso, per sbaglio, il telefono cellulare della moglie e così pregò il suocero di restituirglielo, magari il giorno dopo.

Quella notte, sul telefonino della C. arrivarono tre telefonate (alle 22.54 (recte: 22,55, n.d.e.), alle 23,01 ed alle 00,07), da parte di un individuo che non volle qualificarsi. Diceva di essere un amico di Sempronio ROSSO e chiedeva come fare a rintracciarlo. Le prime due telefonate le prese L.C. e la terza la figlia di costui a nome S. Poiché l’individuo non si qualificava, gli fu detto che non era possibile dargli una risposta. L.C. non avvertì di queste telefonate Sempronio ROSSO, perché non avrebbe saputo che cosa dirgli, visto che l’interlocutore non aveva detto chi fosse. Il giorno dopo riconsegnò il telefono alla figlia L.C.

Il pranzo si tenne effettivamente martedì 28/7/98 e Sempronio ROSSO vi partecipò. Ne fanno fede le dichiarazioni di tutti gli intervenuti, ivi compreso M.L., testimone indifferente. Si è risaliti alla data esatta dell’avvenimento partendo dall’anniversario dell’apertura del negozio della moglie e della figlia dell’imputato, che cadeva il 25 luglio. Poiché si trattava di un sabato e la domenica era il giorno in cui i coniugi Sempronio ROSSO s’incontravano da soli e sia L.R., sia M., avevano degli impegni, ci si mise d’accordo per il martedì successivo, che era il giorno di chiusura infrasettimanale del negozio. Tale alibi è sostenuto da tutti e L.R. ha anche spiegato perché aveva effettuato delle telefonate dal negozio, nel primo pomeriggio: è vegetariana e, dunque, si alzò da tavola prima degli altri. Questa caratteristica della ragazza è stata avvalorata dalle dichiarazioni di M., che ha anche spiegato che, tra i commercianti, è frequente l’usanza di riordinare il negozio nel giorno di chiusura; cosicché si spiega perché L.R. si fosse recata in negozio nonostante questo fosse chiuso.

E’, poi, poco importante l’apparente contraddizione tra L.C. e M., a proposito del giorno inizialmente stabilito per la riunione, che la donna ha indicato nella domenica, giorno che, invece, è stato escluso dall’uomo. Infatti, uno dei due potrebbe essersi sbagliato, senza che ciò possa costituire un indice di falsità dell’alibi. Potrebbe essere successo che, all’inizio, fosse stata scelta una rosa di date, con la successiva esclusione di una data per gli impegni della famiglia C. e di un’altra per l’impedimento di M. Potrebbe anche essere che quest’ultimo ricordi male in che data aveva l’impegno, visto che non ricorda neppure il giorno, né il mese, dell’anno in cui il pranzo si tenne. Ciò che conta è che si trattava del pranzo per l’anniversario dell’apertura del negozio e che questo si tenne qualche giorno dopo la precisa ricorrenza della data, dunque martedì 28/7/98; e conta che al pranzo – secondo il comune ricordo di tutti – abbia partecipato l’imputato Sempronio ROSSO.

Le dichiarazioni rese in dibattimento da Caio Verde confortano l’alibi dell’imputato. La difesa aveva chiesto di sentire il teste ai sensi dell’art. 210 c.p.p. quale imputato di reato connesso o collegato, in quanto Caio Verde ospitò Sempronio ROSSO, nel periodo della sua latitanza, per un paio di mesi, come lo stesso teste ha ammesso in dibattimento. Ma la corte d’assise di Reggio Emilia, con ordinanze del 15 e del 22/4/2002, impugnate dalla difesa, non ha accolto la richiesta.

Caio Verde, in dibattimento ha detto tre cose fondamentali, ad avviso della difesa: che Sempronio ROSSO telefonò una volta sola, quella sera; che egli non è sicuro dell’esatta sequenza cronologica delle telefonate di Sempronio ROSSO e del suo amico sconosciuto, per cui risulta confermato che la telefonata delle 20,50 dalla cabina di San Donà di Piave la fece l’imputato; che quest’ultimo rincasò – quella notte – verso l’una, l’una e trenta senza dare a Caio Verde l’impressione di essere agitato.

Nel corso del suo esame dibattimentale, poi, Caio Verde non ha confermato che Sempronio ROSSO gli avesse telefonato per chiedergli di andarlo a prendere in auto. Il particolare è saltato fuori solo nel corso del controesame della difesa, ma esso si spiega con due bugie che inizialmente Caio Verde si era trovato costretto adire agli inquirenti per salvarsi dall’accusa di favoreggiamento. La prima relativa al periodo in cui aveva ospitato Sempronio ROSSO, inizialmente indicato in pochi giorni; la seconda relativa alla richiesta dell’imputato di andarlo a prendere in auto. Caio Verde, in realtà, non guidava da due anni ed una simile richiesta era assurda. E’ evidente, quindi, che la richiesta di Sempronio ROSSO fu un’invenzione di Caio Verde data in pasto agli inquirenti per salvare la propria posizione processuale; invenzione che il teste ha voluto ripetere in dibattimento. Il vero contenuto della telefonata è, però, quello riferito nelle risposte fornite in udienza dal testimone al pubblico ministero. Vale a dire che Sempronio ROSSO si limitò ad avvisare che aveva avuto un incidente ed a tranquillizzare Caio Verde perché sarebbe comunque arrivato.

Un ulteriore riscontro logico della circostanza che l’autore delle telefonate da Borgoforte non fu Sempronio ROSSO si rinviene nell’esame delle telefonate delle 22,54, delle 22,55 e, finalmente, delle 00,07. La prima fu fatta a Caio Verde e la seconda al cellulare in uso a L.C. Orbene, la difesa afferma che, se fosse stato l’imputato a telefonare per tranquillizzare i parenti e l’amico circa le proprie condizioni, non è verosimile che egli telefonasse prima all’amico e poi alla propria moglie. Al contrario, è plausibile che uno sconosciuto cercasse Sempronio ROSSO nel luogo dove questi dimorava e, solo dopo, presso la moglie. La telefonata delle 00,07, poi, è importante perché Caio Verde riferisce che Sempronio ROSSO era a casa sua verso l’una o l’una e mezza della notte; in così poco tempo, non si raggiunge Bologna da Borgoforte. La difesa, infine, ipotizza che l’ignoto telefonista fosse un amico di Tizio Bianco che voleva notizie di costui. Tizio Bianco – con il quale l’imputato, in quel periodo, era pacificamente in contatto – avrebbe fornito a questo amico sconosciuto il numero di telefono di Caio Verde e della moglie di Sempronio ROSSO. L’individuo di cui si tratta, probabilmente, prima di mettersi in contatto con Sempronio ROSSO, aveva cercato Tizio Bianco, il cui telefono non è mai stato trovato.

La difesa critica il sillogismo con il quale la sentenza di primo grado giunge all’affermazione che colui che telefonò da Borgoforte non poteva essere altri che Sempronio ROSSO. Il sillogismo si basa su una premessa maggiore, costituita dall’affermazione che chi telefonava dalla cabina di Borgoforte era il complice di Tizio Bianco, e su una premessa minore, costituita dall’asserzione che solo Sempronio ROSSO può essere l’autore di quelle telefonate. Di qui la conclusione che Sempronio ROSSO sarebbe il complice di Tizio Bianco. Sennonché – ad avviso della difesa – la premessa maggiore è del tutto incerta, perché il complice di Tizio Bianco, con ogni verosimiglianza, si era già dileguato dalla zona della rapina a bordo di un’auto; né si vede il motivo per il quale costui avrebbe dovuto telefonare proprio da Borgoforte, quando anche tutti gli altri paesi della zona sono forniti di cabine telefoniche pubbliche. Inoltre, è incerta la premessa minore, perché Tizio Bianco, proprio pensando di commettere una rapina, potrebbe aver fornito ad un terzo i numeri di telefono di un individuo del tutto estraneo al delitto e, nello stesso tempo, fidato. Non è, poi, vero che Tizio Bianco frequentasse solo Sempronio ROSSO, in quel periodo; infatti, in data 30/6/98, il rapinatore rimasto ucciso a Luzzara commise una rapina, a Reggiolo, con una persona diversa da Sempronio ROSSO. Orbene, l’imputato è stato coinvolto anche in quest’ultimo fatto, ma è stato prosciolto per avere i testimoni escluso che fosse lui il complice di Tizio Bianco.

Viene criticato il metodo con il quale la corte di primo grado avrebbe svalutato l’esito delle ricognizioni; un esito sicuramente negativo e tale da escludere, da solo, la responsabilità dell’imputato nella rapina. Sono state svilite le testimonianze dei tre testimoni che hanno visto da vicino, in viso, il rapinatore con la maglia gialla: G., L. e C. I giudici, invece, hanno evidenziato un unico particolare allo scopo di sostenere una somiglianza tra Sempronio ROSSO e S.M.: la forma degli occhi. Tale particolare è stato preso dalle dichiarazioni della teste C., rivelatasi inattendibile ed influenzata dalle fotografie viste.

Nel valutare la testimonianza di Caio Verde la corte d’assise di Reggio Emilia ha commesso, innanzi tutto, un errore di fatto. Essa ha affermato che Caio Verde avrebbe detto di aver ricevuto la telefonata dell’ignoto amico di Sempronio ROSSO quando ancora faceva luce. Il testimone, invece, ha detto di non ricordarsi il particolare ed ha finito per ammettere di non ricordare l’ordine delle telefonate ricevute. Sarebbe stata la pubblica accusa a suggerire a Caio Verde l’ordine inizialmente da questi indicato; al contrario, costretto a ragionare nel corso del controesame della difesa, il teste si è reso conto di non essere in grado di ricordare. La sentenza, poi, non spiega perché Sempronio ROSSO avrebbe dovuto chiedere aiuto ad un Caio Verde che palesemente non guidava la vettura; come non spiega perché l’imputato si sarebbe rivolto prima all’amico, anziché ai propri familiari. Infine, non risponde alla domanda su come avrebbe fatto Sempronio ROSSO a raggiungere Bologna in poco più di un’ora.

La corte di primo grado fa male a giudicare tardivo l’alibi presentato dall’imputato. A parte che la scelta del momento opportuno in cui svelare un alibi rientra nella strategia della difesa tecnica, tale scelta non può incidere sul giudizio circa l’attendibilità dei testimoni. Si osserva, inoltre, che gli elementi di prova furono resi noti all’imputato solo nel luglio del 2000 e che Sempronio ROSSO fu sottoposto a custodia cautelare solo nell’aprile 2001, quando la Corte di cassazione rigettò il ricorso della difesa contro l’ordinanza del tribunale della libertà che, accogliendo l’appello del pubblico ministero, applicava la misura cautelare in precedenza negata dal g.i.p. Poco dopo ci fu l’udienza preliminare, nella quale la difesa scelse di discutere solo questioni di carattere tecnico, rinviando al pubblico giudizio il palesamento dell’alibi. Del resto non è stato facile, per Sempronio ROSSO e per i suoi familiari, ricostruire che cosa avesse fatto l’imputato il giorno della rapina. Solo nel febbraio del ’99 Sempronio ROSSO seppe di essere indagato, mentre il pranzo del 28/7/98 non aveva costituito un’occasione particolarmente memorabile: infatti, non era stata l’unica volta in cui Sempronio ROSSO, da latitante, si era ritrovato con i propri familiari. Questi ultimi ricordavano il pranzo di festeggiamento dell’anniversario dell’apertura del negozio. Ricordavano, anche, che esso si era tenuto in un giorno di chiusura al pubblico, ma solo grazie al registro I.V.A. sono riusciti a ricostruire che il convivio si era svolto proprio martedì 28 luglio. Inoltre, l’esito negativo delle ricognizioni del 26/4/99 era considerato tranquillizzante da Sempronio ROSSO, che si attendeva un esito processuale diverso dal rinvio a giudizio.

Il primo giudice taccia d’inattendibilità le testimonianze dei parenti dell’imputato, ma lo fa immotivatamente. Vengono riproposte le ragioni della credibilità dei testimoni e si sottolinea che non è inverosimile che L.C. ricordi meglio il contenuto delle poche telefonate con un anonimo interlocutore, piuttosto che quello delle tante telefonate con i propri familiari.

Dalle telefonate intercorse tra il telefono di L.C. e quello della figlia L.C., a cavallo tra le 19,23 e le 21,52, non è ravvisabile alcun indizio di particolare ansia, come invece pretenderebbe il giudice di primo grado. Infatti, molte di queste telefonate avvennero prima che la televisione trasmettesse il servizio sulla rapina; inoltre, se fosse stato L.C. a telefonare a Caio Verde alle 20,50, non è plausibile che egli avesse poi aspettato per circa un’ora (appunto fino alle 21,52) prima di avvisare la propria figlia che Sempronio ROSSO non era a casa. E, nell’ipotesi che fosse stato Sempronio ROSSO a telefonare da Borgoforte alle 22,55, non è plausibile che nessuna telefonata fosse, di seguito, intervenuta tra i telefoni dei C., padre e figlia.

Lo scambio dei telefonini, ritenuto inverosimile nella sentenza di primo grado, è invece del tutto verosimile. Non c’era ragione di sostenere il falso. Sarebbe bastato dire che le telefonate dell’ignoto interlocutore le aveva ricevute L.C. e non il padre. Né si deve dare importanza alle spontanee dichiarazioni rese da Sempronio ROSSO all’udienza del 6/6/2002, allorché l’imputato ha sostenuto che era stata la figlia L.R. a telefonare al nonno col telefono della madre per chiedergli di andare a prendere Sempronio ROSSO. L’imputato si è sbagliato e probabilmente la sua confusione è stata indotta dal fatto che il telefono fisso dell’abitazione della moglie è munito di un cordless che è simile ad un telefono cellulare. E’ infine verosimile che Sempronio ROSSO abbia telefonato a Caio Verde alle 20,50 per avvertirlo che stava tornando. L’amico dell’imputato, infatti, è molto apprensivo e si preoccupava se Sempronio ROSSO tardava a rincasare; quindi è logico che costui partisse presto da San Donà di Piave, anche se c’era ancora luce. Egli doveva percorrere delle strade secondarie ed evitare i posti di blocco.

Il collegamento tra la Fiat Punto rossa e l’imputato è attuato dalla prima corte sulla base di presupposti incerti: l’appartenenza dell’impronta digitale trovata sulla bottiglia d’alcol a Sempronio ROSSO, le due multe che la vettura avrebbe preso nelle stesse zone in cui Sempronio ROSSO, in quelle date, telefonò a Caio Verde, ed alcune caratteristiche che la Fiat Punto avrebbe avuto in comune con la Polo che era in possesso di Sempronio ROSSO al momento dell’arresto.

Il ritrovamento della bottiglia sulla quale è stata rilevata l’impronta giudiziaria è considerato dubbio dalla difesa, che osserva come di quell’oggetto non si facesse menzione negli atti che pure diedero conto del ritrovamento della Punto il 28/7/98. La bottiglia, poi, fu sequestrata solo l’1/10/98, a seguito di un decreto di perquisizione sollecitato dai carabinieri al pubblico ministero. Quanto alla perizia che ha operato il raffronto tra l’impronta digitale repertata sulla bottiglia e quella di Sempronio ROSSO, il perito prof. D. non è stato inizialmente in grado, in udienza, d’indicare quali fossero le undici minuzie individuate prima della sottoposizione dell’impronta al procedimento di decolorazione che ha permesso di far risaltare la parte del reperto che era stata interessata da un alone formatosi per una scolatura di alcol. Ciò appare grave perché, se le minuzie giudicate dal consulente di parte come solo intuite, fossero coincise con quelle del secondo rilevamento dei periti, allora ne risulterebbe rafforzata la tesi che si tratta di minuzie scientificamente non provate. In un secondo momento, il perito si è pronunciato, individuando ben sette minuzie individuate dopo l’asportazione dell’alone (invece delle cinque indicate nella relazione scritta). Con ciò ingenerando un’incertezza inaccettabile perché i periti avrebbero dovuto distinguere sin dall’inizio le due tranche di minuzie individuate.

Che alcune di queste specificità dell’impronta siano solo intuite si può rilevare anche dalle spiegazioni fornite dal prof. D. circa la minuzia n. 1. Nel corso del suo esame, il tecnico ha dimostrato di aver individuato tale minuzia dal confronto con l’impronta di Sempronio ROSSO. Il che non è corretto, dovendo l’individuazione dei punti di ogni impronta avvenire prima ed a prescindere dal raffronto con quella da comparare.

Infine, tra le minuzie individuate dai periti ve ne sono due che non erano state individuate dagli esperti del RIS dei carabinieri, mentre questi ultimi ne hanno individuate altre quattro non evidenziate dai periti. Le risposte fornite a proposito di queste differenze dai consulenti del RIS non sono convincenti. Essi hanno sostenuto che le due minuzie da loro non evidenziate furono ritenute superflue, dato il gran numero di coincidenze già raggiunto e che la mancata evidenziazione, in perizia, delle quattro minuzie da loro osservate può essere dipesa dall’alone prodottosi sull’impronta per la fuoriuscita di alcol dalla bottiglia. Né l’una, né l’altra di queste spiegazioni è accettabile: la prima perché contrasta con l’interesse di cui i consulenti dell’accusa sono portatori, di evidenziare tutti gli elementi a carico dell’imputato; la seconda perché contrasta con l’affermazione del prof. D. secondo cui l’operazione di asportazione dell’alone non ha comportato alterazioni dei sottostante disegno delle creste papillari dell’impronta. Rimane perciò il dubbio che i periti e i consulenti abbiano individuato delle minuzie diverse, perché in realtà nessuna di esse è così chiara e decisiva. Mancano, inoltre, le particolarità più caratteristiche delle impronte, come le isole e gli occhielli.

In ogni caso, Sempronio ROSSO ha spiegato come mai una sua impronta potrebbe essere finita sulla bottiglia d’alcol in esame. Egli ha riferito che, nell’ultimo incontro con Tizio Bianco, in data 18/7/98, questi si presentò con la propria BMW talmente stipata di prodotti sottratti ad un supermercato che egli, per potersi sedere sul sedile di fianco al guidatore, dovette spostare una pluralità di oggetti. Tra questi, forse, anche la bottiglia in esame.

L’impronta digitale non ha il valore indiziante voluto dall’accusa e dalla sentenza di primo grado. Per avere un simile valore, l’impronta dovrebbe essere caduta su un oggetto logicamente prossimo al delitto, come un’arma. Nel nostro caso, Sempronio ROSSO ha fornito una plausibile giustificazione della presenza della propria impronta sulla bottiglia; inoltre, l’impronta non riguarda neppure la vettura servita per la fuga, ma semplicemente un oggetto contenuto all’interno di questa. Cosicché non è possibile concludere che Sempronio ROSSO si sia seduto dentro l’auto, tanto meno il giorno della rapina: l’impronta potrebbe risalire, infatti, ad un qualsiasi giorno precedente.

Nessun valore hanno gli altri indizi valorizzati dal primo giudice per attribuire il possesso della Fiat Punto all’imputato. Basti dire, per le due multe, che le telefonate che, negli stessi giorni, Sempronio ROSSO avrebbe fatto a Caio Verde, non risultano effettuate dagli stessi luoghi dove le multe sono state elevate. Secondo le dichiarazioni di C.M., il furto della vettura sarebbe stato commissionato da persone appartenenti al mondo dei nomadi-giostrai, con il quale Sempronio ROSSO non ha nulla a che fare e che, invece, era frequentato da Tizio Bianco. All’interno dell’auto fu trovato un mozzicone di sigaretta che non apparteneva né all’imputato né ad alcuno dei suoi parenti maschi.

La deposizione di G.N., compagna di Tizio Bianco e madre dei suoi figli, è stata male interpretata. La donna, sentita in dibattimento il 16/5/2002, ha riferito di aver saputo da F.I., nell’agosto del ’98, quando si tennero i funerali del marito a Trento, che il complice di Tizio Bianco era Sempronio ROSSO. Ma quando è stata sentita il giorno dopo, ovverosia il 17/5/2002, la G.N. ha riferito una cosa diversa: vale a dire, che F.I. le aveva detto solamente di conoscere Sempronio ROSSO e che lei aveva intuito che costui fosse il complice di Tizio Bianco. Questo, anche perché F.I. aveva affermato che avrebbe dovuto partecipare pure lui alla rapina.

F.I. ha negato di aver detto alla donna che Sempronio ROSSO fosse il complice di Tizio Bianco. Ha ricordato, invece, che la donna gli chiese di Sempronio ROSSO e che lui le riferì che si trattava di una persona conosciuta da lui e da Tizio Bianco in carcere, una decina d’anni prima. F.I. ha negato di avere mai detto che avrebbe dovuto partecipare alla rapina. Un altro amico di Tizio Bianco, N.G., anch’egli introdotto – come F.I.- negli ambienti della malavita trentina, ha negato di essere mai venuto a conoscenza del nome del complice di Tizio Bianco e si è dimostrato scettico rispetto all’ipotesi che F.I., all’epoca già da tempo alcolista, potesse essere in grado di partecipare a una rapina.

Dalle dichiarazioni di P.B. emerge che molti dei colloqui che, dopo la tragica rapina, lei, il fratello e la madre intrattennero con i carabinieri, per cercare di aiutarli a trovare il complice del padre, s’incentrarono sulla figura di un certo Sempronio ROSSO, conosciuto, tempo prima, dalla G.N. in un campo nomadi in comune di Iesolo. Osserva la difesa che la G.N. non ha riconosciuto in Sempronio ROSSO il Sempronio che lei ricordava, mentre l’affermazione della donna di aver appreso da F.I. che il secondo rapinatore era Sempronio ROSSO è frutto di un equivoco. A leggere bene le dichiarazioni di P.B., ma anche della stessa G.N., si capisce che quest’ultima domandò a F.I. se conoscesse tale Sempronio. L’amico le rispose di conoscere Sempronio ROSSO, ex-compagno di carcere suo e di Tizio Bianco. Dopo di che, essendo il discorso continuato sulla rapina ed avendo – F.I. – affermato che avrebbe preferito esserci lui, con Tizio Bianco, a commettere la rapina, perché così avrebbe evitato che le cose finissero male, la G.N. ricollegò erroneamente il nome di Sempronio ROSSO alla partecipazione al delitto.

Con il terzo motivo di gravame, sempre relativo ai capi d’imputazione da A ad H, la difesa sottolinea come sia mancata una esatta ricostruzione della sparatoria, anche per l’assenza di testimoni oculari. Tuttavia, essa osserva che la sparatoria fu iniziata dal brigadiere capo I. quando questi si trovava ancora in Via yyy, come indica un bossolo calibro 9×19 parabellum trovato nella griglia del parabrezza di un’auto parcheggiata in tale via e la testimonianza di C.F., abitante sopra l’istituto di credito rapinato. Al fuoco del carabiniere rispose un rapinatore solo, poiché sono stati trovati i bossoli di una sola pistola cal. 7,65 (gli altri appartengono alle armi dei carabinieri). Questo rapinatore fu Tizio Bianco. Ad indicare univocamente che fu costui a rispondere agli spari dei militari sono le particelle di piombo, bario e antimonio che sono state trovate concentrate tutte dalla parte del passeggero della Fiat Punto, dove appunto era seduto il rapinatore morto. Alcune particelle di piombo, bario e antimonio, inoltre, sono state trovate sulla mano destra di Tizio Bianco.

Si deve altresì ritenere che quest’ultimo non abbia mirato intenzionalmente al capo del brigadiere capo I. Il consulente medico legale del pubblico ministero ha precisato, in proposito, di aver accertato solamente che i colpi esplosi dal malvivente avevano attinto la testa e l’addome del carabiniere. Non si sa, inoltre, quali fossero le posizioni dei protagonisti degli spari; posizioni che sono necessarie per capire le traiettorie, e quindi la precisione, dei colpi sparati.

In corrispondenza dell’angolo tra Via xxx e Via zzz, da dove se ne andò la Punto dei malviventi, furono trovate delle macchie di sangue di Tizio Bianco. E’ certo che il carabiniere C. abbia sparato cinque o sei colpi con la mitraglietta M12, quando l’auto dei malviventi era già in movimento. In ragione della significatività delle tracce di piombo, bario e antimonio trovate sulle mani di Tizio Bianco, si deve ritenere che fu costui a sparare e ad uccidere il brigadiere capo I. In seguito, mentre la Punto fuggiva, Tizio Bianco fu attinto da uno dei colpi della raffica sparata da C.

Con il quarto motivo d’appello si muovono censure alla pena stabilita per i reati dei capi da A ad H. Si afferma l’insussistenza dell’aggravante del nesso consequenziale (art. 576, n. 1, in rif. all’art. 61, n. 2, c.p.); si chiede la concessione dell’attenuante di cui all’art. 116, comma 2, c.p. (reato diverso da quello voluto); si invoca la concessione delle attenuanti generiche con regime di prevalenza sulle aggravanti.

In ordine al nesso consequenziale, si osserva che l’aggravante di cui all’art. 61, n. 2, c.p. fu introdotta per sanzionare più gravemente chi avesse commesso un delitto allo scopo di eseguirne o di occultarne un altro. A questo comportamento fu equiparato quello del crimine commesso per garantirsi l’impunità da un precedente delitto. Tale ultima ipotesi si riferiva, nell’intenzione del legislatore, a coloro che avessero agito per non essere identificati e per sottrarsi al processo, come nel caso di chi avesse ucciso il testimone che lo aveva riconosciuto o visto bene in volto. Nel nostro caso, invece, Tizio Bianco avrebbe sparato solo per rispondere al fuoco dei carabinieri e proteggere la propria vita. La volontà di sottrarsi all’arresto, nell’immediato, non va confusa con la volontà di sfuggire al processo penale.

Inoltre, l’aggravante in esame attiene ai motivi a delinquere. E’, perciò, un’aggravante soggettiva, che si estende al correo solo se costui abbia voluto e condiviso il fine conseguito dall’autore materiale, al quale abbia delegato la realizzazione dello scopo comune. Per tale motivo, poiché fu Tizio Bianco a sparare ed il suo complice non utilizzò la pistola, quest’ultimo non deve rispondere dell’aggravante.

La circostanza prevista dall’art. 61, n. 2, c.p. è, in ogni caso, incompatibile con l’attenuante di cui all’art. 116, comma 2, c.p., che ricorre nel caso di specie. Viene richiamato l’indirizzo giurisprudenziale per cui il correo di una rapina non può rispondere a titolo di concorso del più grave reato di omicidio. commesso dal complice, sulla base dell’apodittico principio che chi ha voluto una rapina deve aver previsto anche l’uccisione o il ferimento della parte lesa. Egli risponderà di concorso anomalo, ex art. 116 c.p., e solo se in concreto abbia previsto lo sviluppo dell’azione ed il suo tragico epilogo. Quest’indirizzo giurisprudenziale si attaglia al caso di specie. La concessione dell’attenuante in esame esclude in radice l’applicabilità dell’aggravante dell’art. 61, n. 2, c.p., poiché chi non ha voluto il reato più grave a maggior ragione non ne ha condiviso né delegato la finalità.

Le dinamiche della rapina e del conflitto a fuoco, la circostanza che sia stato solo Tizio Bianco a sparare, rendono applicabili all’imputato le circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulle aggravanti contestate (art. 61, n. 2, 6 e 10).

Con il quinto motivo d’appello la difesa impugna le ordinanze emesse dalla prima corte in date 20/12/2001, 15 e 22/4/2002. Con il primo di questi provvedimenti la corte di assise di Reggio Emilia ha risolto le questioni proposte dalla difesa in ordine all’attività di esaltazione e confronto dell’impronta digitale trovata sulla bottiglia d’alcol presente all’interno della Fiat Punto, nonché in ordine ai tabulati telefonici acquisiti agli atti.

Richiamata una memoria depositata all’udienza del 5/12/2001, la difesa eccepisce la inutilizzabilità o, comunque, la nullità dell’attività di esaltazione dell’impronta digitale. Si sostiene, innanzi tutto, che tale attività sarebbe irripetibile, benché differibile. Ciò premesso, si ricorda che la corte reggiana ha respinto le eccezioni difensive sul presupposto che si trattasse di un’attività, volta all’individuazione degli autori del reato ed alla assicurazione delle prove, da annoverarsi tra quelle che, a norma dell’art. 348 c.p.p., la polizia giudiziaria può compiere autonomamente anche dopo l’intervento del pubblico ministero nelle indagini.

La difesa si duole sia in fatto, sia in diritto, di questa prospettazione. In fatto, le date della vicenda vengono così riassunte: il 28/7/98 i carabinieri sequestrano la Fiat Punto e la consegnano ai militari del RIS di Parma che compiono una prima ispezione individuando alcuni oggetti d’interesse investigativo (come dei fazzoletti di carta ed un accendino); il 13/8/98 il pubblico ministero conferisce ai marescialli C. e F., nelle forme dell’art. 360 c.p.p. (accertamenti tecnici non ripetibili), l’incarico di svolgere ogni rilievo biologico comparativo nonché l’esaltazione delle impronte digitali sui reperti nella loro disponibilità: sono presenti all’atto i difensori degli allora indagati (S.M. e M.), i quali formulano riserva d’incidente probatorio, disattesa dal pubblico ministero che riporta a verbale l’affermazione dei consulenti secondo cui il differimento dell’attività potrebbe pregiudicare l’utilità degli accertamenti; il 22/9/98 il pubblico ministero concede ai consulenti una proroga del termine per l’espletamento dell’incarico, la cui scadenza, pertanto, viene rimandata al 14/10/98; il 29/9/98 i carabinieri di Reggio Emilia chiedono ed ottengono dal pubblico ministero un decreto di perquisizione avente ad oggetto la Fiat Punto già sequestrata ed in data 1/10/98 sequestrano, all’interno del bagagliaio dell’auto, una bottiglia di alcol, nonché una confezione di sei bottiglie d’acqua, che consegnano al maresciallo C. per gli ulteriori rilievi tecnici ritenuti utili; un paio di giorni dopo questo sottufficiale dell’Arma sottopone la bottiglia d’alcol ai vapori di cianoacrilato, evidenziando la impronta in questione; il 10/12/98 i consulenti del pubblico ministero depositano la relazione, datata 18/11/98, nella quale si dà atto, tra gli altri rilievi, di quello svolto sulla bottiglia d’alcol e dell’evidenziazione di una “impronta giuridica”; il 12/1 e il 26/1/99, il procuratore della Repubblica acquisisce i cartellini fotosegnaletici di Sempronio ROSSO; il 25/2/99 Sempronio ROSSO è arrestato in esecuzione di un provvedimento di unificazione delle pene emesso nei suoi confronti; il 26/2/99 viene iscritto nel registro degli indagati relativi al presente procedimento; il 14/4/99 gli inquirenti si recano nella casa circondariale di Bologna a prelevare le impronte digitali di Sempronio ROSSO; il 16/4/99 i consulenti depositano al pubblico ministero la relazione in cui si conclude per l’identità tra l’impronta sulla bottiglia e l’impronta prelevata dal dito medio della mano destra di Sempronio ROSSO.

Così riassunte le date significative, la difesa osserva che – di fatto – l’attività di evidenziazione dell’impronta sulla bottiglia è stata svolta nell’ambito degli accertamenti affidati dal pubblico ministero ai consulenti ex art. 360 c.p.p. Infatti, tale attività è avvenuta ben prima che scadesse il termine concesso per l’esecuzione dell’incarico affidato il 13/8/98; prova ne sia che di essa si dà conto nella relazione datata 18/11/98. D’altro canto, la bottiglia era sin dall’inizio nella disponibilità del RIS, che aveva ricevuto un ampio incarico comprensivo di ogni indagine utile sui reperti, sia di carattere biologico, sia di rilevamento delle impronte papillari.

In diritto, le critiche della difesa sono volte a contestare la qualificazione che la prima corte ha dato dell’attività di rilevamento dell’impronta. Se anche si potesse convenire che questa rientra tra le attività di cui all’articolo 348 c.p.p., quest’ultimo prevede una norma generica, che rimanda a quelle degli articoli successivi, in cui le varie attività della polizia giudiziaria sono tipizzate. Di tali articoli vanno osservati i presupposti e le forme. Se la polizia ha timore che si disperdano delle tracce pertinenti al reato, od ai suoi autori, deve farlo rispettando il dettato dell’art. 354 c.p.p. Questo prevede due condizioni per il legittimo intervento della polizia: che sussista il pericolo di dispersione delle tracce che si vogliono evidenziare e che il pubblico ministero non possa intervenire tempestivamente. Infine, dell’attività di rilevamento, la polizia giudiziaria dovrà dare avviso al difensore che ha diritto di assistere ex art. 356 c.p.p. e l’atto dovrà essere verbalizzato ex art. 357, lett. e), c.p.p.

Se, invece, come reputa la difesa con riferimento al caso di specie, esistono già delle indicazioni o delle direttive del pubblico ministero, allora l’attività di rilevamento in esame va inquadrata nell’ambito della previsione degli artt. 359 e 360 c.p.p. e se il pubblico ministero – come qui è accaduto – con una valutazione a priori decide di procedere con le formalità degli accertamenti irripetibili, allora tali formalità vanno seguite sino in fondo. In particolare, dopo che Sempronio ROSSO è diventato indagato, al suo difensore andava depositata la consulenza espletata ex art. 360 c.p.p., mentre nessun avviso di deposito è mai stato effettuato, tanto che la difesa ha conosciuto dell’atto solo con il deposito degli atti a conclusione delle indagini preliminari ex art. 415 bis, c.p.p. Il che configura una nullità di ordine generale di tipo intermedio ex art. 178, lett. c), c.p.p., ritualmente eccepita dalla difesa in sede di udienza preliminare.

L’attività svolta ex art. 360 c.p.p. è altresì nulla perché, delle operazioni di esaltazione dell’impronta sulla bottiglia, non fu dato avviso ai difensori degli allora indagati, S.M. e M., che pure avevano diritto di partecipare all’accertamento. Le risultanze dell’attività in esame sono, infine, nulle a causa della riserva d’incidente probatorio formulata da quei difensori e disattesa dal pubblico ministero immotivatamente, visto che l’accertamento era differibile.

Quanto ai tabulati telefonici, osserva la difesa che i provvedimenti con i quali il pubblico ministero ha disposto la loro acquisizione sono immotivati, ovvero motivati con argomenti solo apparenti; da ciò consegue l’inutilizzabilità del documenti acquisiti. Anche in questo caso la difesa si riporta ad una memoria depositata, i cui estremi, in ogni caso, sintetizza come segue. Il provvedimento di acquisizione dei tabulati telefonici di alcune cabine pubbliche dell’Emilia-Romagna emesso in data 17/12/98 è scarsamente motivato. Esso non spiega il riferimento tra il destinatario della ricerca probatoria ed il reato; per cui si procede. E’ un provvedimento in incertam personam, come tale, inammissibile, perché tutti coloro che hanno composto un qualsiasi numero telefonico da quelle cabine pubbliche dell’Emilia-Romagna sono stati soggetti ad un’indiscriminata violazione della loro libertà di comunicazione. Sono poi forniti di motivazioni semplicemente apparenti i seguenti provvedimenti di acquisizione di documenti: il decreto 23/12/98, relativo ai tabulati dell’utenza di Caio Verde (051-6342386); il decreto 30/12/98, relativo alla cabina di Borgoforte; il decreto 5/1/99 riguardante l’utenza cellulare…; il provvedimento 11/1/99 riferito all’utenza fissa di V.A. (…); il decreto 11/1/99 riferito all’utenza del negozio “xxx” (…); il provvedimento 14/1/99 relativo all’utenza fissa di L.C. (…); il decreto 15/1/99 riguardante, ancora, l’utenza …; il provvedimento 26/1/99 pertinente alle utenze … e … La difesa si riporta alle osservazioni a suo tempo sviluppate nella citata memoria; osservazioni che, in generale, pongono in evidenza l’assenza di una congrua motivazione nei decreti in esame. Nessuno di questi provvedimenti spiega le ragioni per cui appariva opportuno acquisire i tabulati delle menzionate utenze. L’asserita funzionalità della documentazione richiesta alla ricostruzione dei contatti telefonici serviti all’organizzazione della rapina, diventa una vuota clausola di stile, se ripetuta in ogni decreto.

Vengono, altresì, impugnate le due ordinanze in date 15 e 22/4/2002, con le quali la corte reggiana ha respinto la richiesta della difesa di sentire Caio Verde secondo le forme dell’art. 210 c.p.p., quale indagato di reato connesso ex art. 12, lett. c), c.p.p., ovvero probatoriamente collegato ex art. 371, lett. b), c.p.p. La corte ha respinto la richiesta argomentando – in via di fatto – che non c’erano elementi per sostenere che il teste conoscesse la condizione di latitante dell’imputato e lo avesse ospitato cosciente di favorirlo, all’epoca della rapina. La difesa è di tutt’altro avviso ed osserva che lo stesso testimone ha affermato di aver ospitato Sempronio ROSSO per ben due mesi a cavallo del giorno della rapina; che dalle telefonate delle cabine pubbliche emerge che l’imputato chiamava Caio Verde subito prima o subito dopo aver telefonato a Tizio Bianco; che l’abitazione di Caio Verde fu perquisita dagli inquirenti sul presupposto che essa fosse la “base logistica” di Sempronio ROSSO; che – in ipotesi d’accusa – Sempronio ROSSO chiese aiuto a Caio Verde la sera della rapina;. che chi svolgeva le indagini; nel dicembre del ’98, era in possesso di elementi sufficienti per ritenere che il teste fosse complice dell’imputato nella rapina.

Infine, l’appellante si sofferma sull’ordinanza della corte reggiana in data 21/6/2002, che ha qualificato come attività integrativa d’indagine, ex art. 430 c.p.p., la video-ripresa del supposto percorso di fuga del rapinatore sopravvissuto, nonché la ricostruzione multimediale della rapina; attività richieste dal pubblico ministero alla polizia giudiziaria e mai depositate. Si ritiene che quest’omesso deposito comporti la nullità della sentenza di primo grado per violazione del diritto di difesa ex art. 178, lett. c), c.p.p. Non essendo avvenuta una discovery completa degli atti a disposizione del pubblico ministero, si è leso il diritto del difensore alla parità delle armi processuali.

Con il sesto ed ultimo motivo d’appello, la difesa contesta la penale responsabilità dell’imputato in ordine ai capi d’imputazione da I ad O e lamenta l’eccessività della pena inflitta. Si assume che Sempronio ROSSO – all’atto dell’arresto – non dichiarò false generalità e non esibì la carta d’identità falsa; egli, invece, si costituì non appena fermato al posto di blocco. Inoltre, la contestazione di ben tre delitti (artt. 477494 e 496 c.p.) per un’unica condotta dell’imputato, costituisce una superfetazione di accuse. L’uso dell’atto falso, infatti, si configura come un post factum non punibile rispetto al reato di falso. Infine, la detenzione dei moduli di una carta d’identità e di una patente di guida va inquadrata nell’ambito dell’ipotesi lieve della ricettazione (art. 648, capoverso, c.p.).

Motivi della decisione

Le questioni processuali.

Le questioni che vengono affrontate nel quinto motivo dell’atto d’appello sono pregiudiziali alla trattazione degli altri argomenti. La corretta soluzione di tali questioni, infatti, permetterà di selezionare le prove legittimamente acquisite – come tali utilizzabili, ex art. 526 c.p.p., ai fini della decisione -, nonché di comprendere se sussista la dedotta violazione dell’art. 178 lett. c) c.p.p., per l’omesso deposito della video ripresa dei luoghi del delitto e della ricostruzione multimediale del fatto, che comporterebbe la declaratoria di nullità della sentenza di primo grado,. con le conseguenti necessarie statuizioni ex art. 604 c.p.p.

Della nullità o inutilizzabilità dell’attività di esaltazione dell’impronta digitale presente sulla bottiglia d’alcol trovata nella Fiat dei rapinatori.

Questa corte ritiene di condividere la valutazione, già del g.u.p. di Reggio Emilia, secondo cui l’attività di rilevamento dell’impronta digitale in esame sia da annoverare tra gli accertamenti urgenti di cui all’art. 354, comma 2, c.p.p., che la polizia giudiziaria ha la facoltà ed il dovere di compiere in presenza del pericolo di alterazione delle cose pertinenti al reato e dell’impossibilità di un tempestivo intervento del pubblico ministero. Che la prima di queste due condizioni – cioè, il pericolo di alterazione di una cosa pertinente al reato – fosse presente al momento del sequestro della bottiglia, è provato da quanto accadde all’impronta dopo il suo rilevamento. Nonostante la bottiglia fosse stata repertata e presa in custodia dalla p.g., sul suo esterno si produsse, per trasudamento o per altra causa, uno sversamento d’alcol che andò ad appannare lo stesso rilevamento dell’impronta già effettuato. Tanto che, per escludere gli effetti di tale alone e ricostruire la trama originaria dell’impronta, è stata indispensabile la perizia dibattimentale, condotta con tecniche particolari dagli esperti nominati dal giudice; tecniche che, per quanto sofisticate, non sono comunque riuscite a recuperare – come meglio vedremo – alcune zone marginali della traccia, fortunatamente non così estese da impedire che la residua impronta fosse utilmente confrontata con quelle delle dita di Sempronio ROSSO. La dedotta circostanza dimostra, nei fatti, come fosse necessario procedere con urgenza e, possibilmente, sullo stesso luogo del rinvenimento (Parma, dove la bottiglia fu sequestrata l’1/10/1998 dai carabinieri di Reggio Emilia e da questi immediatamente consegnata ai tecnici del RIS) al rilevamento dell’impronta, pena la possibilità di una sua perdita definitiva. Contrariamente all’avviso difensivo, non sarebbe bastato repertare e custodire la bottiglia: le stesse modalità di repertamento o di custodia e, comunque, la variazione delle condizioni ambientali avrebbero potuto alterare irrimediabilmente il reperto, proprio come in seguito rischiò di succedere. In ordine alla seconda condizione cui l’autonoma iniziativa della polizia giudiziaria è subordinata – l’impossibilità di un immediato intervento del pubblico ministero – basti osservare che il sequestro e l’immediata consegna della bottiglia ai tecnici del RIS per il rilevamento, avvenne a Parma, mentre il pubblico ministero si trovava a Reggio Emilia e non poteva certo intervenire con tempestività sul posto. E’, poi, irrilevante che il pubblico ministero avesse già assunto la direzione delle indagini: il “tempestivo intervento” di cui recita la norma è; infatti, da intendersi come intervento in loco del magistrato, in modo da poter apprezzare in concreto e direttamente lo stato dei luoghi e delle cose, e non come intervento nella direzione delle indagini. Va, anzi, osservato che quando queste ultime si svolsero – nel 1998 – il testo, all’epoca vigente, dell’articolo 354 c.p.p. prevedeva solo questa situazione di già avvenuta assunzione della direzione delle indagini da parte del pubblico ministero. L’altra ipotesi, di mancata assunzione delle indagini da parte del magistrato, è stata infatti aggiunta con la legge n. 128/2001; peraltro, in modo alternativo alla prima ipotesi, che resta ancora contemplata.

La giurisprudenza del Supremo collegio si è più volte espressa nel senso che: “L’attività di individuazione e rilevamento delle impronte dattiloscopico-papillari, risolvendosi in operazioni urgenti non ripetibili di natura meramente materiale, rientra nella disciplina di cui all’art. 354, comma 2, cod. proc. pen. e non in quella concernente gli accertamenti tecnici non ripetibili di cui agli artt. 359 e 360 cod. proc. pen., i quali presuppongono attività di carattere valutativo su base tecnico-scientifica ed impongono il rispetto del contraddittorio e delle correlate garanzie difensive” (Così Cass., sez. 2, sent. 05779 del 07/05/1999 (UD. 27/10/1998), RV. 213311, Imp. B.; nello stesso senso, più di recente, Cass., sez. 2, sent. 27311 del 25/06/2003 (UD. 05/06/2003), RV. 225170, Imp. I. Seguono lo stesso indirizzo, anche se riguardo al tema del prelievo del cosiddetto “stub” o “tampone a freddo” per il rilevamento dei residui dello sparo, Cass., Sez. 1, sent. 23156 del 17/06/2002 (UD. 09/05/2002), RV. 221621, Imp. M. e altro; nonché Cass., sez. 5, sent. 09998 del 05/03/2003 (UD. 21/01/2003), RV. 226153, Imp. PG in proc. B.). L’operazione di mero rilevamento materiale dell’impronta – insegna questa giurisprudenza – non costituisce quell’accertamento irripetibile che, dato il suo carattere valutativo e sostanzialmente peritale, deve essere compiuto a norma dell’art. 360 c.p.p. con avviso alle parti e ai difensori del giorno, ora e luogo del conferimento dell’incarico e della facoltà di nomina di consulenti tecnici. Poiché si tratta di attività di mera e obiettiva conservazione di dati materiali diretta ad evitare la dispersione di tracce fisiche del reato, la stessa è priva di contenuto valutativo e, benché irripetibile, può essere compiuta dagli inquirenti in assenza di avvisi alle parti e ai difensori. Salva, ovviamente, la facoltà del legale dell’indagato di assistere all’atto, ex art. 356 c.p.p., senza diritto di essere preventivamente avvisato. Non vi fu, quindi, alcuna nullità nell’attività di rilevamento operata dai carabinieri. Tanto meno è dato parlare di inutilizzabilità degli esiti dell’operazione, non solo perché le condizioni che legittimavano la polizia giudiziaria a procedere ex art. 354, comma 2, erano tutte puntualmente presenti (come s’è visto), ma anche perché quest’ultima norma non detta alcun oggettivo divieto di acquisizione della prova, né riguarda diritti fondamentali della persona tutelati dalla Costituzione la cui violazione sia ugualmente rilevante ai fini di cui all’art. 191 c.p.p. Si tratta, infatti, di una disposizione che riguarda solamente i rapporti tra la polizia giudiziaria ed il p.m. L’inutilizzabilità è, perciò, una categoria di sanzione processuale che non le appartiene.

Ritiene, inoltre, il collegio che le caratteristiche di mera attività materiale del rilevamento dell’impronta non siano mutate solo perché il pubblico ministero di Reggio Emilia, all’epoca procedente, ritenne erroneamente di qualificare l’operazione come “accertamento” ex art. 360 c.p.p. Non è per l’etichetta che la pubblica accusa conferisce loro, che gli atti processuali cambiano natura. Pertanto, anche se si volesse ritenere che l’ordine di procedere al rilevamento dell’impronta digitale in esame fosse già contenuto nell’incarico conferito dal p.m. al RIS il 13/8/1998, cioè prima del sequestro della bottiglia del 1/10/1998, non per questo l’attività di rilevamento doveva sottostare alle regole dettate dall’art. 360 c.p.p. (in particolare, l’avviso alle parti e ai difensori). Come è stato, infatti, spiegato egregiamente: “(…) i semplici rilievi (…) ancorché prodromici alla effettuazione di successivi accertamenti tecnici, richiedenti specifiche competenze, non sono tout court assimilabili a questi ultimi, ai quali soli si riferisce, invece, l’art. 360 c.p.p., il cui richiamo è, non a caso, limitato appunto ai soli “accertamenti previsti dall’art. 359”, con implicita esclusione, quindi, dei “rilievi segnaletici, descrittivi e fotografici” come pure delle altre “operazioni tecniche”, tutti parametri menzionati nel citato art. 359. Solo l’irripetibilità dell'”accertamento” (…) e non quindi del “rilievo” ad esso prodromico impone l’osservanza delle formalità di cui all’art. 360 c.p.p. D’altra parte, se così non fosse ne deriverebbero delle conseguenze irrazionali, dal momento che, mentre la polizia giudiziaria, operando d’iniziativa ai sensi dell’art. 354, potrebbe validamente effettuare “rilievi”, anche personali (3° comma), di carattere irripetibile (i cui risultati potrebbero essere successivamente utilizzati nel procedimento anche ai fini dell’espletamento di “accertamenti tecnici” o vere e proprie perizie), senza dare alcun avviso ai difensori; ma solo limitandosi, quando l’indagato sia presente, all’avvertimento di cui all’art. 114 d. d’att. c.p.p., il Pubblico ministero, invece, volendo effettuare, direttamente o per delega, gli stessi rilievi, dovrebbe osservare le formalità previste dall’art. 360″ (Così, testualmente, Cass., sez. 1, sent. del 6/6/1997, Ric. P., in Giurisprudenza penale, 1997, pt. II, col. 635.).

Si deve concludere che gli avvisi dati dal pubblico ministero ai difensori degli indagati dell’epoca (tra cui non c’era Sempronio ROSSO), per i rilevamenti di cui all’incarico del 13/8/1998, erano un incombente processuale non richiesto e non dovuto, e che la dedotta omissione di analogo avviso per il rilevamento dell’impronta sulla bottiglia non ha violato alcuna norma, non essendo detto avviso previsto, né dovuto. Analogo discorso vale per l’eccepito mancato rispetto della riserva d’incidente probatorio formulata dai difensori degli allora indagati in sede di conferimento dell’incarico ex art. 360 c.p.p.

Tutto ciò, senza mancare di osservare che, avendo Sempronio ROSSO assunto la qualità d’indagato solo nel febbraio 1999, non sembra che il suo difensore possa invocare eventuali nullità verificatesi in precedenza nei confronti di altri indagati. Vale, infatti, il principio che, per eccepire una nullità, bisogna avere interesse all’osservanza della disposizione violata (art. 182, comma 1, c.p.p.).

In ogni caso, si ripete che la corretta qualificazione da attribuirsi all’attività di rilevamento dell’impronta è quella che fa capo all’art. 354, comma 2, c.p.p. Quando, infatti, i carabinieri di Reggio Emilia richiesero al magistrato il decreto di perquisizione che portò al sequestro della bottiglia in data 1°/10/1998, i tecnici del RIS avevano già comunicato di avere concluso i rilievi loro delegati dal p.m. il 13/8/1998, senza avere repertato, né analizzato, la bottiglia, che era stata ritenuta oggetto non interessante per le indagini scientifiche. (Si veda la richiesta di perquisizione del Rep. Op. dei carabinieri di Reggio Emilia datata 29/9/1998, allegata alla memoria difensiva del 10/12/2001. E stato, poi, il maresciallo C. del RIS a spiegare, in udienza, che il 29/9/1998 il RIS aveva chiesto di poter restituire la vettura agli aventi diritto, ritenendo di aver concluso le indagini delegate. Solo l’intervento dei colleghi di Reggio Emilia, con la perquisizione del 1/10/98, sottopose all’attenzione dei tecnici scientifici ed ai loro rilevamenti la bottiglia d’alcol presente nel bagagliaio della Punto (Vol. 2, udienza 10/6/2002, pag. 81, s.).

Fu su questo presupposto che la perquisizione della Fiat Punto venne richiesta dai carabinieri di Reggio Emilia e concessa dal magistrato. Il successivo rilevamento dell’impronta, quindi, avvenne per autonoma iniziativa assunta della polizia giudiziaria che, subito dopo il rinvenimento dell’oggetto nel bagagliaio della vettura, dispose il rilevamento delle impronte sul reperto, in conformità con il dovere-potere alla stessa attribuito dal codice di rito.

Va da sé che, quanto si qui argomentato, riguarda l’attività di rilevamento dell’impronta papillare presente sulla bottiglia; non la successiva attività di comparazione della stessa con le impronte digitali di Sempronio ROSSO. Correttamente gli esiti di quest’ultima attività, costituente accertamento tecnico ripetibile, sono stati espunti dal fascicolo del dibattimento ed altrettanto correttamente i primi giudici hanno disposto, sul punto, la perizia dibattimentale alla quale la difesa ha partecipato.

La nullità del rilevamento dell’impronta viene eccepita dall’appellante anche con riferimento a due ulteriori profili. Il primo attiene alla mancata verbalizzazione dell’attività di rilevamento; il secondo al mancato deposito del verbale. In proposito rileva la corte che non vi è dubbio che dell’attività prevista dal comma 2 dell’art. 354 c.p.p. vada redatto verbale: lo prevede l’art. 357, comma 2, lett. e). Tuttavia, nella specie, l’attività di rilevamento effettuata dai tecnici del RIS fu da questi regolarmente, per quanto succintamente, descritta nella relazione di accertamenti dattiloscopici redatta in data 18/11/1998 e trasmessa al magistrato inquirente il 10/12/1998. In essa si dà precisamente atto del repertamento della bottiglia effettuato insieme ai carabinieri di Reggio Emilia che l’avevano sequestrata e del trattamento del reperto, eseguito in laboratorio, con estere di cianoacrilato. E’ ovvio che la mancanza della parola “verbale”, nell’intestazione del documento, non fa venir meno la reale natura dell’atto; per il resto, esso corrisponde ai requisiti minimi previsti per la validità dei verbali dall’art. 142 c.p.p., essendovi contenuta l’indicazione precisa delle persone che hanno partecipato all’atto – gli estensori marescialli C. e M. -, nonché la loro sottoscrizione. (Si veda il documento allegato alla citata memoria difensiva del 1/12/2001). Sotto questo profilo, pertanto, non si ravvisa alcuna nullità.

Quanto all’eccepito mancato deposito, la corte ritiene che esso non si sia verificato. Quando il rilevamento dell’impronta fu eseguito, Sempronio ROSSO non solo non era indagato, ma non era nemmeno sospettato. Egli fu iscritto nel registro degli indagati solo nel febbraio del 1999, dopo che l’elaborazione dei dati provenienti dai tabulati telefonici aveva portato gli inquirenti sulla sua pista. Come si è detto, l’operazione di rilevamento dell’impronta era già stata conclusa in data 18/11/1998 ed il 10/12 successivo l’atto era stato trasmesso all’autorità giudiziaria procedente. In tale data, Sempronio ROSSO non era ancora indagato ed, ovviamente, non aveva ancora nominato alcun difensore. Non è invocabile, pertanto, l’art. 366 c.p.p., sul deposito degli atti cui i difensori hanno diritto di assistere, il cui dettato pare necessariamente presuppone l’avvenuta iscrizione dell’indagato nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. e la presenza di un difensore di fiducia o di ufficio. (La norma, infatti, dispone il deposito dell’atto entro un breve termine dal suo compimento e, nel caso che il difensore non sia stato previamente avvisato del compimento dell’atto, l’immediato avviso al difensore. Disposizioni che – evidentemente – non appaiono applicabili al caso di persona non ancora indagata, che ovviamente non è ancora assistita da alcun difensore, come nella specie).

In considerazione della non applicabilità, al caso di specie, dell’articolo citato, pare corretta la decisione del p.m. di depositare l’atto ex art. 415 bis c.p.p. alla conclusione delle indagini preliminari, come è pacifico che, nella specie, sia avvenuto. Tale considerazione appare avvalorata dall’impossibilità d’indicare una precisa data – diversa da quella di conclusione delle indagini – alla quale fare riferimento per sostenere la violazione dell’obbligo di deposito: neppure la difesa la indica.

Giova, inoltre, rilevare che dal dedotto – ma inesistente – mancato deposito del rilevamento dell’impronta digitale non sarebbe, in ogni caso, derivata alcuna sostanziale lesione dei diritti della difesa. Si rammenta, infatti, che la difesa – come la stessa ricorda nel proprio atto d’appello – venne a conoscenza dell’atto in esame grazie al deposito ex art. 415 bis c.p.p. (nel luglio del 2000) e che lo stesso fu messo a sua disposizione anche ai sensi dell’art. 310, comma 2, quando il tribunale della libertà fu investito – nell’agosto del 2000 – dell’appello proposto dal procuratore della Repubblica di Reggio Emilia contro il rigetto della propria richiesta di custodia cautelare. L’udienza si tenne il 28/9/1998 e, in tale sede, la difesa di Sempronio ROSSO ebbe ampia facoltà d’interloquire – come interloquì – sull’atto di cui si discute, depositatole insieme agli altri su cui si fondava l’accusa. Dopo la decisione del tribunale della libertà, sfavorevole all’odierno imputato, la difesa ebbe modo di proporre nuovamente le proprie tesi in Cassazione, con ricorso rigettato con ordinanza del 5/3/2001. Solo a questo punto, resasi esecutiva l’ordinanza di custodia cautelare, Sempronio ROSSO, fino allora a piede libero per questo procedimento, fu arrestato. Era l’aprile del 2001. Di talché anche se si potesse parlare – ma così non è – di un’omissione di deposito, sarebbe assai dubbio che ne fosse scaturita la nullità di cui parla la difesa. (Nel senso che la sola omissione del deposito di un atto non sia sufficiente a cagionare la nullità dello stesso, dovendosi verificare anche una sostanziale lesione del diritto di difesa, pare orientata Cass., sez. 5, sent. 8305 del 23/7/1992, RV. 191434, Imp. R. In quel caso, nonostante l’omissione della formalità di cui si tratta, la difesa aveva, comunque, avuto modo di esercitare i propri diritti, essendo venuta a conoscenza dell’atto aliunde).

Si osserva, per finire, che comunque – come giustamente osservato dai primi giudici – il problema della nullità o inutilizzabilità del rilevamento effettuato in sede d’indagini preliminari è radicalmente superato dall’esito della perizia dattiloscopica disposta nel dibattimento di primo grado. Come è dato evincere dall’elaborato del Prof. D. e della Dr.ssa C., l’impronta papillare presente sulla bottiglia di cui si tratta è stata autonomamente esaltata dai periti, con una sofisticata tecnica distinta in due fasi: la prima diretta all’evidenziazione fotografica in bianco e nero – mediante un idoneo apparecchio digitale ed uno speciale tipo di luce radente – della traccia papillare ancora evidente; la seconda attuata attraverso l’iniziale decolorazione della traccia d’alcol che aveva parzialmente coperto l’impronta ed una nuova riproduzione fotografica che ha consentito di evidenziare tutta la traccia ancora esistente. (Si legge a pag. 9 della consulenza depositata il 6/6/2002 che: “L’ottimizzazione delle creste papillari, ottenuta tramite la tecnica fotografica sopra descritta (vale a dire, con apparato digitale con idonea sorgente luminosa radente il substrato, n.d.e.), ha consentito una chiara lettura delle creste papillari, che ha permesso l’individuazione di n. 11 punti caratteristici, insufficienti, però, per poter dare un giudizio di piena utilizzabilità del frammento stesso. Essendo parte del frammento interessato dall’alone causato dalla scolatura del liquido, che potrebbe celare al di sotto ulteriori caratteristiche delle stesse creste papillari, si è reso necessario procedere alla decolorazione dell’alone tramite idoneo solvente organico (alcol etilico). L’esito di tale operazione, la cui stampa è stata elaborata in bianco e nero per una migliore definizione dei particolari, è stata documentata al rilievo fotografico n. 7. Le riproduzioni fotografiche sono state sottoposte all’osservazione del parabletoscopio, allo scopo di individuare le singole caratteristiche tipicizzanti (c.d. “minuzie”) il frammento e stabilirne la sua ulteriore utilizzabilità per gli esami confronti”. Analogamente, nel corso del proprio esame, la Dr.ssa C. ha spiegato: “(…) una parte del liquido della bottiglia è fuoriuscito (id est: era fuoriuscito a seguito dell’operazione di confezionamento del corpo di reato da parte della p.g., n.d.e.) ed ha intaccato proprio alcune parti delle creste papillari che si vedono all’interno di questa fotografia (quella scattata dai periti prima del procedimento per l’eliminazione dell’alone d’alcol, n.d.e.). Esaminandola meglio, facendo appunto la fotografia in bianco e nero, vedendola appunto nel rilievo n. 6 (degli stessi periti, n.d.e.), abbiamo esaltato ed evidenziato soltanto 11 punti caratteristici dell’impronta papillare. Si è proceduto quindi, sempre previa comunicazione (scil., ai consulenti di parte, n.d.e.) all’asportazione con solvente organico … all’asportazione di questo alone rosa di colorante. Dopo di che è stata effettuata un’altra fotografia… e chiaramente c’è una notevole differenza tra la precedente e questa foto, in cui chiaramente manca l’alone rosato e finalmente si evidenziano altre linee papillari… Attraverso questa fotografia … noi possiamo ricavare 16 corrispondenze di dettaglio caratteristiche, quindi sedici punti dattiloscopici” (cfr. Vol. 2, udienza 12/6/2002, pagg. 4-5)).

Su tale ultima riproduzione sono state evidenziate le minuzie che confrontate, in seguito, con l’impronta del dito medio della mano destra dell’imputato hanno dato un risultato di corrispondenza di sedici punti d’identità. Questo nuovo rilevamento, effettuato in sede peritale con la partecipazione della difesa e del suo consulente di parte, esclude ogni questione di nullità o di inutilizzabilità che, qualora esistente, si riferirebbe comunque ad un precedente atto di polizia giudiziaria ininfluente sul successivo rilevamento attuato con pieno rispetto di ogni garanzia difensiva.

Dell’inutilizzabilità dei tabulati telefonici.

Una seconda questione viene posta dalla difesa con riferimento alla mancata, o solo apparente, motivazione dei provvedimenti con i quali il pubblico ministero dispose l’acquisizione di una serie di tabulati telefonici. L’eccezione era stata già proposta davanti alla corte di assise di Reggio Emilia che, rigettandola, aveva osservato: “(…) né può parlarsi di motivazioni di stile apparenti o tautologiche: pur nella (naturale) stringatezza, le motivazioni – che vanno lette in relazione alla richiesta cui si riferiscono e alla esposizione della situazione investigativa da parte della P.G., pur in assenza di esplicito richiamo – lasciano infatti intendere la piena valutazione, da parte del decidente, della necessità dell’acquisizione in relazione alle indagini in corso e ai loro possibili sviluppi: ciò è sufficiente a fondarne la legittimità, laddove le censure mosse dalla difesa peccano di astrattezza, ipotizzando una completezza e ampiezza di motivazione inesigibile in una fase per sua natura fluida, indirizzata alla ricerca di spunti investigativi la cui validità è in quel momento ignota”.

L’ordinanza dei primi giudici è impugnata dalla difesa che, con richiamo alla memoria difensiva presentata in primo grado, ripropone le medesime questioni di allora. Prima di considerarle separatamente, con riferimento a ciascuno dei provvedimenti messi in discussione, giova richiamare – come la stessa difesa ha fatto – l’insegnamento delle Sezioni unite della cassazione (sent. 6/2000, D.) che, nel solco della sentenza della Corte costituzionale n. 281/1998, hanno ritenuto che le intercettazioni telefoniche e l’acquisizione dei tabulati siano “categorie disomogenee”, dato il loro diverso grado di incidenza nella sfera personale dei privati. Le intercettazioni fanno capo alla disciplina degli artt. 266, ss., c.p.p., l’acquisizione dei tabulati alla previsione dell’art. 256 c.p.p., come integrato dal precetto ricavabile dall’art. 15 Cost. Per acquisire i tabulati, è sufficiente il provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria, tale considerandosi anche il pubblico ministero, che deve dare “corretta ragione del privilegio che fa prevalere, sul diritto alla privacy, l’interesse pubblico di perseguire i reati, presidiato dall’art. 122 Cost.”.

Ciò premesso, pare a questo collegio che la motivazione richiesta dalla legge sia presente in tutti i provvedimenti cui fa riferimento la difesa. Si deve iniziare col dire che contro molti di questi decreti viene mossa la censura che essi non farebbero alcun richiamo alle note di polizia giudiziaria che li sollecitarono. Sul punto si osserva, in generale, che tale richiamo più che implicito – come ritenuto dai primi giudici – è in re ipsa, nel senso che ogni decreto di acquisizione è materialmente redatto a lato, ovvero in calce, alla relativa richiesta della polizia giudiziaria; di talché, la valutazione da parte del p.m. della situazione esposta nella nota cui accede il provvedimento ed il riferimento ai dati esposti ed alle ragioni formulate dalla p.g. a sostegno della propria richiesta, emerge, anche visivamente, dalle modalità di stesura del decreto. Passando, poi, all’analisi dei singoli provvedimenti impugnati, si osserva quanto segue. Non si condivide la censura d’inammissibilità del decreto d’acquisizione dei tabulati telefonici di alcune cabine pubbliche dell’Emilia-Romagna datato 17/12/1998, formulata sul rilievo che l’autorità giudiziaria non potrebbe emettere un provvedimento in incertam personam, con violazione del diritto alla riservatezza delle comunicazioni di un numero indeterminato di persone, ovverosia di tutti coloro che abbiano formato un numero, dalle cabine interessate, nelle date contemplate dal provvedimento. In proposito, vale riflettere che persino le intercettazioni telefoniche possono essere disposte, quando ricorrono gravi indizi di reato e la condizione dell’indispensabilità ai fini delle indagini, sulle linee di persone del tutto estranee al reato per cui si procede, così captando necessariamente delle comunicazioni di un numero indeterminato di persone che nulla hanno a che vedere con le indagini e per un periodo di tempo non indifferente. E non c’è dubbio che anche le intercettazioni telefoniche possano essere disposte sulle linee di cabine telefoniche pubbliche. Si tratta del necessario scotto che le esigenze di privacy dei cittadini devono pagare all’interesse pubblico al perseguimento dei reati. Il bilanciamento tra questi due interessi – entrambi costituzionalmente protetti – viene appunto, garantito dalle norme che prevedono regole più severe per la captazione del contenuto delle comunicazioni, e regole più blande per la conoscenza dei dati esteriori delle chiamate (dati questi ultimi non segreti per i gestori dei servizi, né per alcuni altri soggetti). In particolare, per quanto ci interessa, la regola da rispettare fa riferimento all’esigenza di una motivazione correlata alle necessità delle indagini in corso.

Il decreto in esame spiega congruamente che la via investigativa indispensabile per risalire ai complici del rapinatore morto (Tizio Bianco) è l’esame dei contatti intercorsi sulle linee delle predette cabine pubbliche, giacché – come precisa l’acclusa nota di p.g. – è risultato che Tizio Bianco è stato spesso contattato da posti telefonici pubblici dell’Emilia-Romagna. Né si condivide la censura difensiva che l’estensione dell’acquisizione dei tabulati alle telefonate dell’intera giornata nella quale il rapinatore era stato chiamato, anziché a quelle “temporalmente a ridosso” di quelle indirizzate a Tizio Bianco, sarebbe eccessiva. All’epoca del provvedimento, infatti, era ragionevole ritenere che chi si avvaleva di posti pubblici per tenere i contatti con il malvivente deceduto, potesse avere effettuato, nel corso della medesima giornata, da quelle cabine davanti alle quali evidentemente transitava, altri collegamenti ugualmente utili alle indagini. Di talché l’arco di tempo indicato nel provvedimento appare del tutto giustificato.

Il decreto del 23/12/1998, relativo all’acquisizione dei tabulati delle telefonate in entrata sull’utenza in uso a Caio Verde, fa evidente riferimento – in base alle osservazioni sopra svolte – alla nota di p.g. sulla quale risulta redatto. Dalla stessa e dall’espresso richiamo al decreto del giorno precedente (22/12/1998), relativo alla stessa utenza e del quale il nuovo provvedimento costituisce solo un’integrazione – dipesa dal fatto che il gestore non aveva fornito il, pur richiesto, tabulato di tutte le telefonate in entrata -, è chiaro evincere che l’utenza di Caio Verde è rilevante per le indagini perché contattata in più occasioni da colui che, subito prima o subito dopo, aveva telefonato anche a Tizio Bianco. Dunque, il tabulato richiesto poteva dare importanti indicazioni sul complice, o suoi complici, del bandito morto. La motivazione appare adeguata, anche se succinta e anche se va letta nel predetto contesto, peraltro di tutta evidenza. Si evince l’adesione critica del p.m. alle esigenze prospettate dalla polizia giudiziaria e la valutazione di adeguatezza rispetto alle necessità dell’indagine e della correlata compressione del diritto alla privacy degli utenti coinvolti.

Il decreto del 30/12/1998, relativo all’acquisizione dei tabulati delle telefonate in uscita dalla cabina di Borgoforte nei giorni 28 e 29 luglio, è materialmente stilato anch’esso – come gli altri – in calce alla richiesta. In questa si evidenzia l’oggetto dell’indagine, vale a dire la rapina di Luzzara con conseguente omicidio del brigadiere capo I.; si indica la necessità di acquisire i tabulati del numero corrispondente alla cabina, sita a pochi chilometri di distanza da Luzzara; si indicano i giorni di interesse, vale a dire quello dei fatti e quello immediatamente successivo. Non si vede quali altri elementi di fatto dovessero essere richiamati per giustificare il provvedimento necessario per l’individuazione del complice fuggiasco del rapinatore morto. Per quanto la motivazione si riassuma in un “visto si autorizza”, l’evidenza dell’importanza e della indispensabilità dell’acquisizione traspare così lampante dalla nota di polizia da non abbisognare di ulteriori spiegazioni o commenti.

Il decreto del 5/1/1999 relativo all’utenza…, intestata a L.C. (e pacificamente in uso alla figlia L.C., moglie dell’imputato) non possiede affatto una motivazione apparente. E’ stilato, more solito, in calce alla richiesta della p.g. che mette in evidenza che la notte della rapina (28-29/7/1998) dalla cabina di Borgoforte la stessa persona aveva contattato due volte l’utenza di Caio Verde (già risultato in contatto con l’ignoto individuo che chiamava Tizio Bianco) e tre volte, appunto, l’utenza della C.. La motivazione con la quale il p.m. spiega di ritenere che l’acquisizione dei tabulati richiesti “consenta allo stato delle indagini di accertare contatti telefonici tra presunti responsabili della rapina”, appare aver vagliato congruamente quanto esposto dalla polizia giudiziaria, condividendone le ragioni e la valutazione di necessità dell’acquisizione ai fini dell’individuazione dei correi ancora ignoti.

Il provvedimento di acquisizione dell’11/1/1999, relativo all’utenza fissa intestata a V. A., moglie di L.C., è riferito alla richiesta cui risulta accluso. In essa si spiega che il titolare del telefono portatile di cui sopra, contattato ripetutamente dalla cabina di Borgoforte la notte della rapina, s’identifica in L.C., convivente con la moglie, della cui linea telefonica si chiede l’acquisizione dei tabulati. La motivazione con la quale il p.m. spiega che “la lettura dei tabulati consente di individuare piste investigative da seguire”, non è apparente come ritiene la difesa. Essa – letta nell’ambito della nota sulla quale risulta apposta – spiega la necessità, per le indagini, anche dei dati della linea telefonica fissa usata dal titolare del telefono portatile contattato, la notte della rapina, dal presumibile complice di Tizio Bianco.

Il provvedimento di acquisizione dell’11/1/1999, relativo ai tabulati dell’utenza del negozio di L.C., secondo la difesa sarebbe inutilizzabile perché contiene un errore nel numero della linea telefonica che non sarebbe sanato dall’esatta indicazione presente sulla richiesta della p.g., non richiamata nel provvedimento. Per quanto già si è osservato più volte, la redazione del decreto del p.m. a margine della richiesta della p.g., rende palese l’errore materiale presente sul provvedimento e non determina alcuna incertezza sulla reale utenza alla quale l’autorità giudiziaria si riferisce. Sì che non sussiste la dedotta inutilizzabilità.

Il decreto del 14/1/1999, relativo all’utenza fissa della moglie dell’imputato, L.C., è scritto in calce alla nota della polizia giudiziaria del 12/1/1999, che fa espressamente seguito alla precedente del 9/1 nella quale si spiegano i contatti intrattenuti, la notte del delitto, tra la cabina di Borgoforte e il portatile intestato al padre della C.. Si rende, poi, noto il rapporto di coniugio tra la figlia di costui ed il “noto” Sempronio ROSSO; notorietà evidentemente relativa ai precedenti penali dell’imputato. La motivazione con la quale il p.m. osserva la “funzionalità alle indagini” dei documenti richiesti appare sufficiente, senza bisogno che sia ripetuto l’ormai noto rapporto tra chi telefonava da Borgoforte, nel citato frangente, e il malvivente deceduto a Luzzara. Quanto alla mancata indicazione del numero dell’utenza e del periodo cui si riferisce l’acquisizione, essi sono specificati nella nota di p.g. cui il decreto accede.

Il provvedimento del 15/1/1999, attinente, ancora, all’utenza portatile intestata a L.C. (…), non costituisce altro che un’integrazione del decreto rilasciato il 5/1/1999, imposta dalla necessità di rivolgersi ad un altro gestore per ottenere le telefonate in entrata, sulla medesima linea, da utenze fisse. Pertanto il richiamo, in motivazione, alla funzionalità dei dati richiesti alla ricostruzione dei contatti telefonici strumentali all’organizzazione della rapina è ampiamente sufficiente, integrandosi il provvedimento con il precedente – espressamente richiamato nella nota di p.g. – il quale faceva menzione dei contatti intervenuti, la notte della rapina, tra l’ignoto correo fuggitivo e l’utenza intestata a C.

Il decreto del 26/1/1999, di revoca del precedente provvedimento del 25/1/99 e di nuova autorizzazione all’acquisizione dei dati delle utenze… e… per periodi invertiti rispetto a quelli indicati nel decreto revocato, si spiega con un mero errore materiale compiuto dalla p.g. nell’originaria richiesta. In essa venivano indicati, come interessanti per una linea telefonica, i tabulati di un periodo rilevante per l’altra linea, e viceversa. Che il pubblico ministero non si sia accorto dell’errore non significa certo che abbia omesso un'”autonoma rielaborazione critica rispetto alle richieste della p.g.”, come si legge nella memoria difensiva. Non si vede, infatti, cosa abbia a che fare con la verifica critica delle ragioni di una richiesta, la pedissequa operazione di controllo della mancanza di errori materiali nell’indicazione delle date contenute nella stessa. Quanto alla motivazione facente riferimento alla necessità di una “lettura incrociata dei tabulati richiesti”, essa appare sufficiente. Il decreto, infatti, fa riferimento al precedente provvedimento revocato ed in questo – fondato sulle medesime esigenze – si fa espresso richiamo agli assidui contatti intervenuti tra il possessore del primo numero, persona all’epoca sconosciuta che si muoveva allacciando ripetitori differenti (come è proprio di un latitante che cerchi di non farsi localizzare), e l’utenza intestata a L.C. Nello stesso provvedimento si ricorda la condizione (all’epoca) di ricercato di Sempronio ROSSO, genero di C.

L’audizione di Caio Verde come testimone, anziché come imputato in procedimento connesso o collegato.

La difesa ha impugnato le due ordinanze emesse dalla corte di assise di Reggio Emilia in date 15 e 22/4/2002 e ripropone, in questa sede, le eccezioni a suo tempo formulate circa la necessità che Caio Verde fosse sentito non come testimone, bensì come indagato in procedimento connesso o collegato, in considerazione dell’esistenza, a suo carico, di elementi di responsabilità in ordine alla rapina di Luzzara o, quanto meno, in ordine al delitto di favoreggiamento nei confronti di Sempronio ROSSO.

Questo collegio è di diverso avviso e condivide le motivazioni delle ordinanze dei primi giudici, non superate dalle obbiezioni che si leggono nell’atto d’appello. La posizione sostanziale di Caio Verde non è mai stata quella di persona raggiunta da indizi in ordine alla rapina o al delitto di favoreggiamento. Quanto alla prima, giova ricordare che le intercettazioni telefoniche dell’utenza dell’abitazione di Caio Verde furono disposte ritenendo che da esse potessero emergere elementi utili all’individuazione dei complici perché detta utenza risultava chiamata da persona che, in quel periodo, telefonava anche a Tizio Bianco. Se anche il maresciallo G. ebbe dei sospetti sullo stesso Caio Verde, in base ad una caratteristica fisica incerta del complice di Tizio Bianco (Si fa riferimento alla zoppia che uno solo dei dipendenti dell’istituto di credito rapinato aveva attribuito al rapinatore rimasto illeso) ed al fatto che molti anni prima, per uccidere la moglie, Caio Verde aveva usato una pistola dello stesso calibro di quella usata dai rapinatori, si trattava, appunto, di semplici sospetti, talmente labili da non avere alcun franco significato indiziante; tanto che gli stessi carabinieri non li tradussero mai in una denuncia. La casa di Caio Verde, come ricordano i primi giudici, fu perquisita alla ricerca unicamente di “cose pertinenti al reato ed in uso allo Sempronio ROSSO”.

In ordine all’ipotizzato favoreggiamento di Sempronio ROSSO, la sola pur non breve ospitalità offerta a quest’ultimo da Caio Verde, prima e dopo il giorno della rapina (un paio di mesi), è stata spiegata dal teste con i rapporti di vecchia amicizia esistenti tra i due e con le gravi e personali ragioni addotte dall’imputato per farsi ospitare (una crisi coniugale). Di talché il solo dato della coabitazione non vale a fondare un’ipotesi indiziante che riesca a superare il gradino del puro sospetto (Per l’affermazione che, nella valutazione della posizione sostanziale della persona esaminata, si debba fare riferimento a dati indizianti e non a meri sospetti o ad ipotesi astratte, v. Cass., sez. 1, sent. 16146 del 20/04/2001 (CC. 06/02/2001), RV. 218550, Imp. S.; in senso analogo, Cass. sez. 6, sent. 01332 del 11/06/1994 (CC. 25/03/1994), RV. 198532, Imp. P.).

Le telefonate che l’imputato ha fatto a Caio Verde, in quel periodo, sono state spiegate dal primo con il carattere apprensivo del secondo, tale per cui Sempronio ROSSO si sentiva in dovere di rassicurare l’amico del proprio rientro puntuale presso la sua abitazione. In ordine, infine, alla telefonata della sera dell’omicidio, fatta da Sempronio ROSSO a Caio Verde per chiedergli aiuto, vale la risposta che quest’ultimo diede all’amico; vale a dire che non lo sarebbe andato a prendere. Ed è per tutti pacifico che così realmente accadde, poiché quella notte Sempronio ROSSO ritornò presso l’abitazione del proprio ospite con mezzi aliunde reperiti.

Della nullità della sentenza derivante dall’omesso deposito dell’attività integrativa di indagine svolta dal pubblico ministero dopo il decreto di rinvio a giudizio.

La difesa fa riferimento all’incarico conferito alla p.g. dal procuratore della Repubblica, dopo il decreto che disponeva il giudizio, di procedere alla video ripresa del supposto percorso di fuga di Sempronio ROSSO, nonché alla ricostruzione multimediale della rapina; operazioni ricondotte dalla corte d’assise di Reggio Emilia nell’ambito dell’attività integrativa d’indagine di cui all’art. 430 c.p.p. L’omesso deposito dei risultati di tali attività costituirebbe violazione del diritto di difesa ex art. 178, lett. c), c.p.p., con conseguente nullità della sentenza di primo grado.

Ad avviso della corte, l’omesso deposito non assume l’univoco significato – di incompiuta discovery delle prove d’accusa – attribuitogli dalla difesa. In ogni caso, gli effetti che conseguono a tale omesso deposito non sono quelli invocati dall’appellante. In ordine alla ragione del mancato deposito, non può escludersi che esso sia dipeso semplicemente dalla circostanza che l’una o l’altra delle complesse attività ordinate, ovvero entrambe, non siano state condotte a termine. Quanto alla sanzione derivante dall’omesso deposito, essa consiste unicamente nell’inutilizzabilità degli atti non depositati, che non possono essere invocati dalla parte che li ha assunti ai fini delle proprie richieste ex art. 430 c.p.p. e, tanto meno, ad altri fini. Non è prevista alcuna nullità: molto semplicemente, quegli atti non sono utilizzabili e non possono entrare tra quelli del dibattimento; non sono apprezzabili, né valutabili dal giudice. Conseguentemente, non c’è alcuna nullità che possa trasmettersi agli atti del procedimento legittimamente compiuti ed acquisiti, né alla sentenza che solo su questi ultimi si fondi. (Cfr., in tal senso, Cass. sez. 6, sent. 05500 del 11/05/1998 (UD. 30/03/1998), RV. 210523, Imp. P. e altri: “L’inosservanza dell’obbligo del P.M. di depositare tutti gli atti di indagine con la richiesta di rinvio a giudizio comporta la sola conseguenza della inutilizzabilità degli atti non trasmessi tempestivamente, non essendo prevista una sanzione autonoma di nullità degli atti, indipendentemente dalla loro utilizzabilità.” Conf. 9604108 204434; nello stesso senso Cass., sez. 1, sent. 04707 del 14/04/1999 (UD. 26/02/1999), RV. 213025, Imp. M. e altri; ed ancora Cass., sez. 6, sent. 06753 del 08/06/1998 (UD. 04/06/1997), RV. 211000, Imp. F. ed altri).

Nel caso di specie, la pubblica accusa non ha fatto alcun utilizzo degli atti integrativi dell’indagine de quibus, nemmeno ai fini delle proprie richieste al giudice del dibattimento. Ancor meno questi atti sono entrati nella valutazione dei giudici di primo grado. Nessuna violazione può ravvisarsi rispetto al diritto di intervento e di assistenza della difesa. Se poi, quest’ultima, avesse pensato che dagli atti non depositati potessero scaturire degli elementi utili per il proprio assistito, avrebbe sempre potuto chiedere al giudice di espletarli direttamente, magari ai sensi dell’art. 603 c.p.p.

Le ricognizioni di persona.

La difesa sottolinea l’esistenza di importanti riconoscimenti negativi: i tre testimoni che, a differenza degli altri, avrebbero visto bene i rapinatori in volto, non hanno riconosciuto Sempronio ROSSO. Almeno due di loro hanno indicato con sicurezza tale S.M., pregiudicato dell’ambiente dei nomadi giostrai, mostrato loro in fotografia. Al contrario, le ricognizioni personali positive di Sempronio ROSSO sarebbero viziate da una sostanziale inattendibilità dei testimoni che hanno operato le ricognizioni.

La corte è di diverso avviso e ritiene che le ricognizioni personali positive reggano alle critiche difensive e che, pure con l’estrema prudenza con cui queste prove vanno valutate, sia per l’estrema variabilità dei fattori dai quali dipendono, sia per i termini di probabilità e non di certezza con cui i testimoni si sono espressi, esse costituiscano degli elementi indizianti a carico di Sempronio ROSSO. Degli elementi, di per sé, certamente insufficienti ad una dichiarazione di responsabilità, ma che sono, in ogni caso, convergenti con gli altri, assai più consistenti, indizi di cui si parlerà. In ordine alle ricognizioni personali negative, si ritiene invece che, a parte il caso di L. – un teste di cui meglio si dirà e che ha dichiarato che la foto di Sempronio ROSSO da lui vista sul giornale gli sembrava diversa dal rapinatore -, dalle stesse non si possano ricavare indicazioni di estraneità dell’imputato al delitto, ma piuttosto il segno di un’insufficiente fissazione, nella memoria dei testimoni, di un’immagine chiara e precisa del complice di Tizio Bianco.

Passando più al particolare, si osserva quanto segue. G.G. è l’impiegato di banca che fu personalmente preso in ostaggio dal rapinatore con la maglia gialla o, comunque, chiara (il complice di Tizio Bianco). Ha spiegato il testimone di essere stato tenuto stretto dal di dietro dal rapinatore, che lo cingeva col braccio sinistro. Ha affermato che, una volta preso in ostaggio, con la pistola puntata contro, era “un po’ sotto choc” (Cfr. le dichiarazioni rilasciate dal teste all’udienza del 28/11/2002, pag. 11 (Vol.1)); che quando fu trascinato fuori dalla banca, lui e il rapinatore si trovarono di fronte i due carabinieri; che quando i carabinieri intimarono ai banditi di buttare la pistola, il malvivente che lo teneva minacciò di ucciderlo, così da ottenere che fosse il carabiniere C. a deporre l’arma. Poco dopo, recuperata da terra la pistola del militare, i due rapinatori i lasciarono gli ostaggi e si diedero a precipitosa fuga verso Via xxx. Nello stesso momento, l’individuo che si era fatto scudo di G. gli ordinò di andarsene. In questo frangente il teste vide il delinquente, che prima gli era sempre stato alle spalle, con un fazzoletto bianco tenuto all’altezza del viso.

Orbene, osserva la corte che se G. può avere osservato con una certa precisione Tizio Bianco che, avendo sequestrato l’altro ostaggio, non gli stava alle spalle durante il sequestro e gli rimase relativamente vicino, il testimone ebbe, invece, solo un attimo per osservare il viso del secondo rapinatore. L’attimo in cui questi lo lasciò libero intimandogli “vai via!”, per darsi a sua volta ad immediata fuga. Un tempo francamente brevissimo, apprezzabile in frazioni di secondo. Lo stesso G., d’altronde, ha sempre sostenuto di aver visto meno bene questo rapinatore, tanto da averlo riconosciuto (in foto) non con certezza, ma con somiglianza (Cfr. p. 18 deposizione cit.).

E’, poi, certo che il riconoscimento fotografico di S.M. è stato uno sbaglio, non solo perché costui è sensibilmente più alto dell’individuo descritto dal testimone (Sulla esatta misura dell’altezza del rapinatore, G. si è dimostrato incerto, affermando in sede di ricognizione fotografica (28/7/1998) che il rapinatore era alto mt. 1,60-1,65, mentre in sede di ricognizione personale (26/4/1999) che era di mt. 1,70-1,75. Comunque lo definisce basso, secondo la percezione di come gli puntava addosso la pistola (v. dichiarazioni al dibattimento). M.A. risulta alto quasi mt. 1,80 (il cartellino fotosegnaletico reca, per la precisione, l’indicazione di mt. 1,79, v. Vol. 10)), ma anche perché S.M. ha un evidente difetto alla mano destra, il cui pollice è anchilosato e completamente adeso al palmo, così che è impossibile rilevarne l’impronta, come attesta il cartellino fotosegnaletico, privo delle linee papillari di quel dito. Il mignolo e l’anulare della stessa mano di S.M., inoltre, sono parzialmente atrofizzati (Si vedano ancora i dati presenti sul cartellino fotosegnaletico confezionato in data 5/8/1998 (Vol. 10 cit.)).

Difficilmente dei difetti di questo genere sarebbero passati inosservati ai testimoni della rapina. Eppure, nessuno ne ha parlato; nemmeno G. che, pure, afferma che il proprio sequestratore con una mano lo teneva “braccato … quasi immobile” (Cfr. pag. 12 del verbale dell’ud. cit.), mentre con l’altra, evidentemente, teneva la pistola e forse anche la sacca col denaro, il cui possesso è unanimemente attribuito allo stesso individuo. Sempre costui poi, secondo G., avrebbe recuperato da terra la pistola di C. (Ivi, pag. 14); cosicché questo bandito si trovò a tenere immobilizzato l’ostaggio con un arto e, nello stesso tempo, a dover reggere due armi e, in più, la sacca dei soldi. Francamente troppo, per uno con una mano fortemente handicappata come S.M. Senza dimenticare che quest’ultimo presentò agli inquirenti un alibi tempestivo.

Vale, inoltre considerare che le foto di S.M. riconosciute da G. risalgono a svariati anni prima della rapina (quella riconosciuta il 28/7/1998, è del 1989, vale a dire di nove anni prima del delitto) e ritraggono un individuo assai più giovane di quanto non fosse S.M. all’epoca del fatto e con i capelli assai più lunghi di quanto questi non li portasse nell’estate del 1998. (M.A. è ritratto com’era all’epoca del fatto nella foto del cartellino segnaletico citato alle precedenti note. Vi è, inoltre, un’altra foto abbastanza recente che è contraddistinta, sull’album mostrato ai testi nella ricognizione del novembre 1999, dal n. 5).

Infine, non è vero che G. abbia sempre riconosciuto S.M., perché nell’ultima ricognizione fotografica del novembre 1999, pur continuando ad indicare una foto di S.M. (la n. 14, un po’ più recente di quella dell’89, ma anch’essa datata), il teste non ha riconosciuto né la foto individuata il giorno dopo la rapina (che nel nuovo album aveva il n. 3), né una terza foto, sempre di S.M., contraddistinta dal n. 5 e risalente ad epoca prossima alla rapina (V. la ricognizione datata 9/9/1999 e l’allegato album di foto nel Vol. 10. Dal raffronto tra la foto 5 e quella eseguita il 5/8/1999 (di cui al cartellino) si evince la maggior prossimità temporale tra queste due, rispetto alle altre, più antiche, immagini).

Si deve, ancora, ricordare che all’epoca del primo riconoscimento fotografico del 28/7/1998 a G. non fu mostrata alcuna foto di Sempronio ROSSO, essendogli stati posti davanti gli album di foto della questura di Trento, che non comprendevano l’effigie dell’imputato (Si confrontino detti album presenti nel Vol. 5).

Si può concludere che a G., quando aveva ancora il ricordo fresco, Sempronio ROSSO non fu mostrato in foto e che egli riconobbe bene Tizio Bianco, ma certamente male S.M. Del secondo rapinatore gli rimasero impressi, evidentemente, dei particolari simili a quelli della foto di quest’ultimo vecchia di nove anni prima. La sua non sicurezza rispetto alle complessive sembianze del secondo rapinatore sembra ribadita dall’errore commesso, nel settembre 1999, su ben due foto di S.M. mostrategli insieme ad un’altra riconosciuta. Una delle foto su cui cadde l’errore era la stessa che pure il teste, in precedenza, aveva riconosciuto; ma anche l’altra la n. 5 – mostra un S.M. che, benché più attempato e più simile all’epoca del fatto, ha gli stessi occhi e la stessa bocca di sempre: proprio quella bocca che, secondo la difesa, sarebbe così particolare e così diversa da quella di Sempronio ROSSO.

Quanto all’incertezza di G., come di altri testi, in ordine alla circostanza che il rapinatore indossasse una parrucca, si osserva che proprio quest’incertezza e più ancora le franche indicazioni di altri testimoni, nonché le modalità professionali del crimine ed il certo travisamento di Tizio Bianco (che indossava un cappello e degli occhiali scuri), resero concreta l’esigenza, in sede d’incidente probatorio, di far calzare delle parrucche alle persone sottoposte a ricognizione. Non è da quell’incertezza, dunque, che può dedursi l’esclusione della partecipazione alla rapina di Sempronio ROSSO (all’epoca quasi calvo), il quale fu trovato in possesso, all’atto del suo arresto, proprio di una parrucca (Cfr. la perquisizione nella stanza dell’albergo dove S. alloggiava sotto falso nome, aff. 2771, Vol. 10).

Né appare condivisibile la radicale affermazione che i tratti somatici di S.M. e di Sempronio ROSSO siano assolutamente diversi. Se non altro il dato degli occhi spioventi, o all’ingiù, non emerge solo dall’apprezzamento della teste C. (per la difesa, inattendibile): è un elemento oggettivamente valutabile nel confronto tra le foto dei due interessati.

Infine, se è vero che Sempronio ROSSO ha gli occhi azzurri, mentre G. ricordava degli occhi scuri, è anche vero che l’imputato ha gli occhi piccoli ed il dettaglio potrebbe essere sfuggito al testimone.

In definitiva, il mancato riconoscimento personale di Sempronio ROSSO da parte di G. non può costituire, né da solo, né insieme agli altri che esamineremo, la prova dell’estraneità al delitto dell’imputato.

Si deve aggiungere che l’erroneo riconoscimento della foto di S.M. da parte di G., come degli altri testi che hanno riconosciuto la stessa foto, fa perdere ogni consistenza alla pista dei nomadi-giostrai indicata dalla difesa. Che S.M. non abbia partecipato alla rapina, ormai lo abbiamo detto; che il secondo rapinatore potesse essere un suo parente è un’ipotesi astratta, che pare, oltre tutto, concretamente smentita dal fatto che le foto di svariati altri S.M. erano raffigurate in uno degli album mostrati a parecchi dei testimoni della rapina (Precisamente in uno dei due album della questura di Padova (cfr. Vol. 5)), senza che nessuno di costoro li abbia riconosciuti. Pare, poi, difficile attribuire alle foto di S.M. dei lineamenti somatici tipici, tali da potersi riferire al gruppo sociale indicato dalla difesa. Questo è, infatti, assai composito, formato da persone di etnie diverse e con tratti fisici anche assai differenti tra di loro (Basti sfogliare l’album loro dedicato dalla questura di Padova).

E’ un gruppo sociale, appunto, e non un gruppo con una propria identità etnica. Né il solo fatto che Tizio Bianco avesse degli amici tra i nomadi giostrai pregiudicati autorizza a pensare che solo tra costoro egli reclutasse i propri complici. Sono venuti a testimoniare altri pregiudicati suoi amici che a tale mondo non appartengono (ad esempio B. e N.G.).

L.I., il cliente della banca agricola mantovana preso in ostaggio da Tizio Bianco, è indicato dalla difesa come la seconda fonte di prova che smentirebbe la partecipazione di Sempronio ROSSO alla rapina. Anch’egli individuò in foto, il giorno dopo il fatto, S.M. e lo individuò sia nella foto del 1989 riconosciuta anche da G., sia in quella contrassegnata dalla sigla RIP 2574/85, che era ancora più vecchia, vale a dire di tredici anni prima (Gli ultimi due numeri, infatti, si riferiscono all’anno della ripresa fotografica).

Orbene, L. prima che gli venissero mostrate le foto, tenne a precisare: “Anche se li vedessi di persona non sarei in grado di riconoscerli con certezza ma solo in modo indicativo” (Cfr. il verbale del 29/7/1998).

Quando indicò le foto, specificò che vi notava un “certa somiglianza” con il rapinatore dalla maglietta chiara; giudizio ribadito in dibattimento con la precisazione: “non credo di averle riconosciute con certezza, ho lasciato il dubbio” (Cfr. la trascrizione del verbale stenotipico dell’udienza del 28/1/2002, p. 56).

Tra queste foto, come successe con G., non vi era quella di Sempronio ROSSO, essendo stato mostrato al teste l’album della questura di Trento. L., inoltre, ha precisato che quando aprì il portone della banca, al momento dell’uscita, non fece più caso a G. ed al rapinatore con la maglia chiara: “Non si guarda, in quel momento, però erano rimasti lì, sulla mia destra”. Quindi, quando Tizio Bianco lo lasciò libero, lui scappò e non è in grado di dire che cosa abbiano fatto gli altri (Ibidem, p. 52).

E’ vero che L. ha descritto un particolare che sarebbe incompatibile con i dati fisici di Sempronio ROSSO, vale a dire la carnagione scura, ma egli è l’unico tra tutti i testi a riferire questa singolarità. Per tutti gli altri – ad esempio per Gambarati – il rapinatore era di “carnagione chiara” e le foto di S.M. mostrate allo stesso L. sono le foto di una persona con “viso roseo”, come lo definisce il cartellino segnaletico, e non sono scurite da una cattiva qualità della riproduzione. Dunque, si tratta di un particolare soggettivamente percepito, ma erroneo e privo di riscontro nella foto riconosciuta.

In conclusione, l’affermazione di L. secondo cui la foto di Sempronio ROSSO vista su un giornale era di una persona diversa dal rapinatore, non vale ad escludere la partecipazione dell’imputato alla rapina. E’ l’affermazione, infatti, di una persona che fin da subito, a causa delle condizioni oggettive e soggettive nelle quali si era trovata a vivere il momento della rapina, si era dichiarata incapace di procedere ad un riconoscimento attendibile.

Certo, anche L. indicò, dopo il fatto, le foto di S.M. (che in seguito non riconobbe più), e si deve ribadire che, evidentemente, per come si presentava d’aspetto in quel momento, il rapinatore doveva assomigliare al S.M. di una decina d’anni prima, ma sappiamo anche che alcuni particolari del viso di quest’ultimo (come il taglio degli occhi) possono essere confusi con quelli dell’imputato.

Il carabiniere C. è il terzo ricognitore che la difesa ritiene decisamente favorevole al proprio assistito. Poiché vide in faccia il rapinatore con la maglia gialla, quando si puntarono vicendevolmente le pistole contro, egli avrebbe visto bene l’individuo che ci riguarda. Non avendo mai riconosciuto Sempronio ROSSO, anch’egli costituirebbe prova decisiva per escludere la responsabilità dell’imputato. La corte è di diverso avviso. Pur avendo comprensibilmente tentato di tutto per riconoscere il rapinatore superstite, corresponsabile della morte del collega I., ed avendo cercato d’indicare sempre qualcuno tra le persone o le immagini che gli venivano mostrate, C. ha sbagliato la ricognizione personale ed ha indicato, come simili al rapinatore, delle persone con fisionomie anche diverse tra loro. Nella ricognizione personale, ha indicato un collega carabiniere; nella precedente ricognizione fotografica, ha indicato due persone diverse – B. e S.- aventi tratti somatici differenti (basti pensare alla forma del viso, più larga per il primo, più affilata per il secondo, o alla diversa ampiezza della fronte, o alla forma degli occhi), che pure avrebbero dovuto corrispondere allo stesso rapinatore. In caserma, a Reggio Emilia; ha riconosciuto S.M., del quale certamente non si può dire che assomigli a S. (per ragioni analoghe a quelle di B.), mentre – per i motivi sopra esposti – non si può affermare che non abbia alcunché in comune con Sempronio ROSSO. Insomma, nonostante il comprensibile e, in un certo senso, lodevole sforzo di riconoscere chi aveva partecipato alla rapina ed all’uccisione del proprio collega, C. ha dimostrato di avere dei ricordi vaghi e imprecisi. Il che non è difficile da spiegare con lo stress emotivo che il militare dovette subire quando si vide puntare in faccia la pistola del rapinatore, sentì costui intimargli di obbedire, pena la morte dell’ostaggio, e si vide, infine, privare dell’arma d’ordinanza, sulla pubblica via, da coloro che avrebbe dovuto arrestare. Perciò, il mancato riconoscimento di Sempronio ROSSO da parte di questo teste non assume il valore voluto dalla difesa, apparendo, invece, il necessario risultato delle prove effettuate da chi non aveva ritenuto, del fatto, delle immagini sufficientemente attendibili e precise.

Tra tutti i testimoni oculari della rapina che sono stati chiamati ad eseguire la ricognizione personale e che sono stati in grado di esprimere un giudizio di somiglianza tra le persone mostrate ed il complice di Tizio Bianco, a parte C., tutti gli altri – in numero di tre – si sono espressi riconoscendo, se pure con diversa percentuale di conformità, l’imputato Sempronio ROSSO.

R.F. è il cliente che, dovendosi recare in banca nel primo pomeriggio, fu sospinto all’interno dell’istituto, con una pistola, dal complice di Tizio Bianco. Quest’ultimo gli andò dietro e quando tutti e tre furono dentro, il primo rapinatore chiese al teste chi fosse il cassiere e, quindi, si dedicò ad appropriarsi del denaro, mentre Tizio Bianco teneva a bada i presenti, tra cui lo stessi R. Il teste percepì, dunque, l’immagine del primo malvivente con la coda dell’occhio, quando lo ebbe alle proprie spalle prima di entrare. Poi, lo vide operare all’interno, quando l’uomo si teneva un fazzoletto davanti al viso. Anche le immagini percepite dal testimone in esame soffrono, pertanto, dei medesimi limiti alla memorizzazione di tutti i tratti del volto del rapinatore che scontano le altre testimonianze, in particolare per il fazzoletto che il rapinatore teneva accostato al viso. Questa è una delle ragioni per cui, come già anticipato, anche le ricognizioni personali positive vanno valutate con la massima prudenza. Va, peraltro, sottolineato che del comportamento tenuto dal complice di Tizio Bianco all’interno della banca, R. ha dato una descrizione relativamente dettagliata. Ha spiegato che l’uomo si fermò a circa cinque o sei metri dall’entrata dove il teste era rimasto sotto la mira di Tizio Bianco – per parlare con il cassiere G., al quale chiese notizie sul bancomat, poi si spostò con il cassiere in un altro locale, quindi ritornò indietro recando con sé un sacchetto di plastica scuro e, dopo qualche attimo di concitazione, invitò tutti i presenti ad entrare nel bagno. In seguito, il teste sentì urlare “prendiamo gli ostaggi”, la porta del bagno si apri ed i due banditi afferrarono G. e L. Del rapinatore in esame R. ha riferito anche l’incedere, definito normale, agile. (Si vedano, in particolare, le pagg. 45-46, nonché 54-56 della deposizione resa da R. all’udienza del 4/2/2002 (Vol. 1).

Questa descrizione dà conto di come l’attenzione di R. si soffermò soprattutto sul complice di Tizio Bianco e, per quanto lo permettesse la situazione, abbastanza da consentire al teste di seguire tutte le azioni compiute dal malvivente per il tempo che questi gli rimase a portata di vista.

Davanti al g.i.p., in sede di ricognizione personale, R. ha premesso di aver visto, qualche tempo prima, la foto di Sempronio ROSSO pubblicata dal giornale ed ha precisato che la somiglianza dell’imputato con il rapinatore “c’era”, anche se “non eclatante”. Quindi, mostrategli le persone da riconoscere non travisate, ha indicato Sempronio ROSSO, come il più somigliante, “se lo immagino con la parrucca”, per poi indicare una somiglianza del 70-80% quando l’imputato gli è stato mostrato con la parrucca e, sempre nella stessa percentuale, quando gli è stato mostrato con la parrucca e gli occhiali. Ha precisato che il parrucchino “aveva meno capelli” (Cfr. la ricognizione personale del 26/4/1999, Vol. 9, aff. 390 ss.).

In dibattimento il teste ha ribadito il proprio riconoscimento e non si condivide il giudizio difensivo che lo abbia, invece, attenuato. Molto semplicemente e con grande ragionevolezza, R. ha spiegato che la propria valutazione si basava sull’immagine memorizzata del rapinatore nel suo “insieme”, per quello che aveva potuto osservare. Con altrettanta ragionevolezza e con franchezza ha ammesso che la visione della foto di Sempronio ROSSO sul giornale poteva avere avuto una qualche influenza sul proprio giudizio. Peraltro, di quella foto di Sempronio ROSSO, R. aveva fornito, sin da prima del riconoscimento personale, una valutazione di somiglianza “non eclatante” col rapinatore. Quindi, davanti a Sempronio ROSSO, ha espresso il proprio giudizio di somiglianza al 70-80% solo quando lo ha visto travisato. Tali circostanze portano a ritenere che sia stata l’immagine complessiva dell’individuo visto in banca a sorreggere correttamente l’effettivo paragone con l’imputato, quando il teste se lo è visto ;davanti, e non la foto sul giornale (nella quale, ovviamente, Sempronio ROSSO non era travisato). Anzi, dell’individuo visto in banca, R. ha saputo precisare che “aveva un parrucchino con meno capelli” (Cfr. l’incidente probatorio del 26/4/1999, cit., aff. 392), particolare evidentemente non riferibile alla foto del giornale.

Non appare rilevante che R. non ricordi l’esatto colore della maglietta indossata dal rapinatore superstite (giallo, secondo la descrizione di molti testi). Un particolare assai meno significativo dei tratti somatici o dell’incedere di una persona. Il teste, in ogni caso, aveva definito la maglia di colore “chiaro” (Cfr. il verbale di descrizione dell’11/8/1998, aff. 58, Vol. 9).

Il che sarà impreciso, ma non è un errore.

La circostanza che R. non abbia riconosciuto Tizio Bianco in foto, il giorno dopo la rapina, trova ragione nel fatto che questo rapinatore gli puntava contro l’arma, con evidente effetto dissuasivo; inoltre, il centro della scena, che attirò l’attenzione del testimone, era tenuto dall’altro bandito che si spostava all’interno della banca per appropriarsi del denaro. Quanto al mancato riconoscimento della foto di Sempronio ROSSO sull’album della questura di Padova, si osserva che detta foto ritrae un individuo assai più giovane di quanto non fosse l’imputato all’epoca e con un paio di marcati baffi scuri che gli modificano sensibilmente i connotati.

La difesa trova motivi di perplessità nel fatto che del parrucchino R. non fece parola nell’immediatezza del fatto, riferendo il particolare solo in sede d’incidente probatorio (anche se, in seguito, confermandolo sempre). E’, tuttavia, comprensibile che il dato sia stato elaborato dal teste non subito, bensì ripensando all’accaduto e riflettendo che solo un parrucchino poteva avergli dato quella “sensazione di qualcosa di appoggiato” ovverosia di “una cosa un po’ posticcia” (Espressioni usate dal teste in dibattimento, v. pag. 44 del verbale dell’udienza cit.) sulla testa del rapinatore, percepita sul momento.

Infine, si osserva che il giudizio espresso in dibattimento da R., quando la difesa gli ha sottoposto la fotografia di S.M., circa una vaga rassomiglianza anche di quest’ultimo con il complice di Tizio Bianco, non smentisce il riconoscimento personale di Sempronio ROSSO, confermato dal teste nella medesima sede dibattimentale. Esso, anzi, dà conto del perché, in quella foto di S.M., anche altri testi abbiano ravvisato delle somiglianze col rapinatore e di come, per certi tratti, i visi di Sempronio ROSSO e di S.M. possano essere accomunati.

M.S. è un’impiegata dell’istituto di credito rapinato che sedeva al computer quando i due malviventi entrarono spingendo dentro R. Ha descritto la condotta tenuta dai due rapinatori ed in particolare di quello con la maglia gialla, che le passò davanti alcune volte, per controllare le persone presenti nella banca mentre si faceva consegnare il denaro dal cassiere. Ha riferito che, poi, i rapinatori chiusero tutti in bagno, ma poco dopo tornarono a prendere i due ostaggi. Ha parlato di un’età del rapinatore con la maglia gialla tra i 35 e i 50 anni, di una statura di mt. 1,60-1,65, dell’impressione che l’uomo portasse un parrucchino, per com’erano folti i suoi capelli scuri (Cfr. la testimonianza resa dalla donna all’udienza del 28/1/2002, pagg. 98-99 (Vol. 1)).

La teste ha parlato di una zoppia di quest’individuo; particolare che appare francamente erroneo, essendo contraddetto dal ricordo di tutti gli altri testi. Peraltro, poiché il rapinatore si è mosso ripetutamente e rapidamente, come la stessa donna ammette (Cfr. il verbale dell’ud. cit., pag. 115), all’interno dei locali della banca, è probabile che la postura o un qualche movimento del rapinatore abbia dato alla teste la percezione riferita. Non si dimentichi che la teste C. ha affermato che lo stesso individuo più volte si mosse camminando in modo artefatto, tenendo le ginocchia piegate; il che gli dava un’andatura barcollante (Cfr. la testimonianza della C., all’udienza del 4/2/2002, pp. 5 e 15).

Dopo avere riconosciuto in foto S.M., la M., quando si è trovata ad eseguire la ricognizione personale, ha precisato di aver visto circa un mese prima, sul giornale, la foto di Sempronio ROSSO, secondo lei non somigliante. Posta davanti alle persone da riconoscere travisate con una parrucca, ha indicato l’imputato come somigliante al 50%, precisando di non poter esser certa perché il rapinatore si copriva la bocca con un fazzoletto (V. Vol. 9, ricognizione del 26/4/1999, aff. 400).

Lo stesso giudizio ha dato quando le persone sottoposte a ricognizione le sono state mostrate anche con gli occhiali. E’ vero che nel successivo riconoscimento fotografico del settembre 1999 la M. ha di nuovo indicato la foto di S.M., non riconoscendo quella di Sempronio ROSSO, ma ciò conferma che la donna aveva a mente, come termine di paragone, sempre e solo l’immagine del complice di Tizio Bianco da lei osservato in banca. Nella foto (n. 8) di Sempronio ROSSO mostrata alla teste, l’imputato, diversamente da quell’immagine, ha pochi capelli e quasi rasati a zero. In sede dibattimentale la teste ha confermato il riconoscimento personale, nei termini sopra descritti, precisando che era stata la “forma del viso” ad indirizzarla nel riconoscimento (Cfr. il verbale dell’ud. cit., pag. 106).

F.C., impiegata della banca, stava scendendo dal piano superiore dell’istituto lungo la scala che porta a piano terra, quando s’imbatté nel rapinatore con la maglia gialla. Questi, dopo averle chiesto se avesse dei soldi, le disse di stare calma e le ordinò di girarsi contro il muro. La teste ha descritto come il malfattore, dopo aver seguito il cassiere G. nel locale della cassaforte, ritornò alcune volte nella stanza dove ella si trovava con gli altri colleghi, per controllare che non ci fossero imprevisti e scambiare alcune parole con il complice. L’ultima volta tornò portando con sé una borsa marrone e chiuse tutti in bagno, aiutato dal correo. I due, poi, si accorsero dell’arrivo dei carabinieri all’esterno della banca e, ritornati in bagno, presero due ostaggi (Cfr. la testimonianza resa dalla donna all’udienza 4/2/2202, pagg. 2-10 (Vol. 1)).

In udienza, la teste ha ricordato la statura non alta (mt. 1,60-1,70) del rapinatore che qui interessa, il suo viso scarno, il taglio degli occhi all’ingiù, la corporatura minuta, il fazzoletto sul viso, la parrucca e l’abbigliamento (maglia gialla e jeans blu). Ha ricordato che l’individuo spesso aveva uno strano incedere, con le ginocchia leggermente piegate, che gli dava un’andatura “barcollante”: un incedere studiato ad arte, perché la camminata era ugualmente veloce (Si vedano, sul particolare, le pagg. 5, 15 e 16).

La C. ha ripetuto, in questo modo, i particolari già descritti nel corso delle indagini preliminari. Quando le è stato chiesto se fosse vero il particolare del volto “butterato” che aveva indicato alla polizia giudiziaria, ha precisato che aveva inteso parlare di un viso “rovinato”, “molto scarno” (Cfr. pag. 30 del verbale dell’ud. cit.).

Nelle fotografie che le sono state mostrate il giorno dopo il fatto, nelle quali era assente quella di Sempronio ROSSO (Alla teste furono, infatti, mostrati gli album della questura di Trento, dove S. non compariva (cfr. Vol. 5)), la C. ha riconosciuto la solita foto di S.M. come rassomigliante al 50%. Non ha visto altre foto fino alla ricognizione personale nella quale, senza travisamenti, non ha individuato nessuno. Poi, fatte indossare alle persone da riconoscere delle parrucche, la teste ha riconosciuto “per corporatura e il viso scarno” Sempronio ROSSO, anche se non con certezza “perché aveva il fazzoletto” (intendendo, ovviamente, quello che il complice di Tizio Bianco si teneva accostato al volto). Anche quando l’imputato le è stato mostrato con la parrucca e gli occhiali, la C. ha ripetuto il riconoscimento, giustificandolo sempre con l’identità dei medesimi tratti somatici (Cfr. l’incidente probatorio del 26/4/1999, Vol. 9, aff. 358 ss.).

Nella ricognizione fotografica del 9/11/1999, la C. ha riconosciuto la vecchia foto di S.M. già indicata dopo il fatto (la n. 3), ed ha quindi riconosciuto Sempronio ROSSO nella foto 8, precisando che era la persona da lei segnalata in sede d’incidente probatorio e che secondo lei era molto somigliante al rapinatore di cui si discute “considerando inoltre che al momento della rapina indossava una parrucca ed invece in (questa, n.d.e.) foto è quasi pelato” (Cfr. il riconoscimento fotografico cit. Vol. 10).

Infine, in udienza, la teste ha spiegato ancora meglio il senso delle proprie valutazioni, dicendo che nel corso dell’incidente probatorio erano stati la corporatura ed il viso di Sempronio ROSSO a farla decidere, ma la parrucca era stata importante per completare il tutto, cioè per dare un inquadramento preciso alla fisionomia (Cfr. il verbale dell’ud. cit., pag. 32).

Quanto alla foto di S.M., anche questa assomigliava al viso del rapinatore, per la forma degli occhi e per i capelli, ma Sempronio ROSSO (con la parrucca) era ancora più simile al rapinatore, per la forma del viso, la forma degli occhi e per l’età, da lei indicata in 45-50 anni (Cfr., per tale precisa indicazione, il verbale di riconoscimento fotografico del 29/7/1998, Vol. 9, aff. 71. Alla corrispondenza di età tra il rapinatore e S. la teste ha, invece, fatto riferimento in udienza).

Sempronio ROSSO, all’epoca del fatto, ne aveva 52.

In udienza, invitata a descrivere gli occhi del rapinatore, la C. li ha definiti “infossati” ed “all’ingiù”, come sempre li aveva indicati. Solo sul colore si è dimostrata incerta, definendoli prima scuri e subito dopo chiari ed aggiungendo un significativo “penso”. Nel corso della ricognizione fotografica aveva parlato, invece, di occhi scuri. Evidentemente, sul colore degli occhi del rapinatore la teste non aveva un ricordo preciso. Ma non per questo si può dire che si sia fatta influenzare, in udienza, dal colore (azzurro) degli occhi di Sempronio ROSSO. Si è semplicemente trattato di un ricordo incerto, sbiaditosi col tempo, senza che ciò smentisca il riconoscimento. Da un lato, la teste non ha mai detto che il colore degli occhi era uno degli elementi su cui aveva fondato il proprio giudizio; dall’altro, Sempronio ROSSO ha degli occhi piccoli ed al momento della rapina il particolare del loro colore può non essere stato notato, a distanza di alcuni metri, o semplicemente non essere rimasto impresso nella memoria di chi lo vide.

La testimone è stata, infine, invitata a ripetere il riconoscimento anche in udienza ed anche qui, fattole avvicinare Sempronio ROSSO, ella ha confermato il proprio giudizio indicando l’imputato come “il rapinatore di quel giorno”, anche se “adesso è diverso” (Cfr. il verbale dell’udienza 4/2/2002, pagg. 36-37).

Irrilevanti appaiono le indicazioni fornite sul volto del rapinatore da G. Come osserva la stessa difesa, il cassiere della banca ritrasse una percezione di ruvidezza da quel volto, ma non ha saputo indicare se questa dipendesse da acne giovanile, dalla barba incolta di qualche giorno o da irritazione dovuta alla rasatura. Egli si è, inoltre, dichiarato sin dall’inizio non in grado di procedere a delle ricognizioni. Appare teste troppo generico ed impreciso.

L’impiegato C. dopo il riconoscimento della foto di S.M. il giorno dopo il fatto, non ha più riconosciuto nessuno: neppure quella stessa fotografia, nuovamente mostratagli nel 1999. Della somiglianza di quella foto con il rapinatore già sappiamo.

Il riconoscimento fotografico di S.M. eseguito dalla signora B. ed il mancato riconoscimento personale di Sempronio ROSSO da parte della stessa teste, appaiono anch’essi ben poco significativi, posto che la donna non era presente alla rapina e non si riferisce al giorno della commissione di questo crimine, ma parla di un casuale incontro con la persona riconosciuta avvenuto per strada, alcuni giorni prima del fatto.

Singoli particolari somatici indicati solo da un testimone o due – come la zoppia descritta dalla M. (peraltro giustificabile con le ragioni già dette) o come la fossetta sul mento ricordata da C. – ma non dagli altri testi, non possono essere sommati insieme per costruire l’immagine di una persona immaginaria alla quale attribuire caratteristiche fisiche incompatibili con l’imputato. Si tratta di un artificio logico privo di validità processuale.

Il fatto che Tizio Bianco conoscesse S.M., come altri individui del mondo dei nomadi giostrai, è certo, ma non autorizza, di per sé, ad attribuire loro la partecipazione alla rapina. Dei motivi che portano ad escludere la complicità di S.M. si è già detto: sono riconducibili alle caratteristiche fisiche del pregiudicato ed all’alibi da questi presentato. Quanto agli altri, si osserva quanto segue. S.S. avrebbe visto, la mattina della rapina, transitare lungo la strada che percorre l’argine del Po – ideale via di fuga di un’ipotetica auto d’appoggio – una Punto rossa con tre persone a bordo ed, alcuni giorni prima, una Volkswagen Golf con a bordo Tizio Bianco insieme a dei soggetti di estrazione nomade. In dibattimento la teste ha riferito di avere visto, la mattina del 28 luglio 1998, una Fiat Punto rossa transitare a forte velocità sulla strada che percorre l’argine del fiume. Non ha visto la targa, né ha riconosciuto alcuno dei tre occupanti della vettura. Ha, poi, decisamente smentito l’affermazione, da lei fatta in sede d’indagini, che la Punto rossa fosse seguita da una BMW a bordo della quale aveva riconosciuto – sempre durante le indagini – tale M. (intestatario della scheda telefonica utilizzata da S.M.) (Cfr. la deposizione della S. a pag. 17-18 della trascrizione del verbale stenotipico dell’udienza dell’11/4/2002).

Costui sarebbe stato da lei visto – a bordo di detta auto – alcuni giorni prima. Cade, così, il collegamento tra un’auto del tipo e del colore di quella usata dai rapinatori (la Punto rossa) ed il giro delle amicizie di S.M. E cade, altresì, ogni serio collegamento tra la BMW, che in ipotesi difensiva sarebbe quella appartenuta a tale M. – altro indagato prosciolto del quale non si conoscono i rapporti con M. e, tanto meno, con S.M. -, e la rapina. E’ certo, infatti, che il semplice transito dell’auto appartenente a M. (sempre che si trattasse di quella) sull’argine del Po, alcuni giorni prima della rapina, con a bordo due persone, di cui una sconosciuta e l’altra di cui si ignorano i rapporti con il proprietario del mezzo, non è in grado d’istituire alcun legame tra l’auto (e chi l’occupava) ed il delitto. Si noti, tra l’altro, che non si tratta di piste inesplorate: S.M. e M. sono stati a lungo indagati nel corso delle indagini preliminari e prosciolti solo quando per Sempronio ROSSO è stato chiesto il rinvio a giudizio.

La stessa Fiat Punto rossa, senza vetture al seguito ed isolata dal contesto inizialmente riferito dalla teste, perde ogni serio significato: resta solo una vettura, come tante altre dello stesso tipo e colore, che viaggiava con tre sconosciuti a bordo, sull’argine del Po, il giorno del delitto.

Della Golf a bordo della quale la S. avrebbe visto Tizio Bianco insieme a due persone che ha riconosciuto nelle foto di S.M.M. e S.M.G., va detto che tale automobile sarebbe stata vista dalla testimone, sempre sull’argine del Po, una ventina di giorni prima della rapina (Cfr. la contestazione della difesa nel verbale dell’ud. cit., pag. 30 dove si parla di un giorno della “prima decade di luglio”).

Già questa distanza temporale attenua drasticamente l’efficacia dell’indizio, che da solo non è né grave, né univoco. Ma l’attendibilità della testimone è stata, in generale, incrinata da due risposte che la donna ha fornito su questa vettura. La prima riguarda il colore dell’auto, che nel corso delle indagini era sempre stata scura, ma in udienza è diventata bianca: la teste ha tenuto a precisare che, sul punto, non aveva mai affermato nulla di diverso (Cfr. il verbale cit., pag. 25); la seconda riguarda la frequenza degli avvistamenti di tale auto che, in un primo tempo, sarebbe stata “frequente negli ultimi tempi precedenti la rapina” ed accompagnata da analoghi avvistamenti da parte dei vicini di casa della donna, poi – però – si è diluita in avvistamenti “da lontano” (Ivi, pag. 27) (a parte quello di venti giorni prima) non confermabili dai vicini di casa perché la teste, pur dispiacendosene, ha affermato di non volerne fare i nomi (Ivi, pag. 24).

Di talché non resta che un avvistamento temporalmente lontano dalla rapina, effettuato da una teste che si è dimostrata reticente e scarsamente affidabile.

Z., che vende prodotti fotografici, ha riconosciuto Tizio Bianco in foto, dicendo che questi si presentò da lui in compagnia di un giovane e di due zingare che avevano con sé i propri bambini. Questo, una quindicina di giorni prima della rapina. Ha aggiunto il teste che riconobbe il rapinatore deceduto quando i giornali ne pubblicarono la foto, subito dopo la rapina, e che è sicuro del riconoscimento perché aveva già visto lo stesso individuo lavorare come giostraio tre o quattro anni prima. Osserva la corte che non risulta che Tizio Bianco, per quanto amico di alcuni nomadi e frequentatore dei loro campi, abbia mai gestito giostre o attività del genere; né che abbia mai collaborato ad esse esibendosi come addetto all’autoscontro, come lo ricorda Z. (Cfr. la testimonianza resa da Z. all’udienza del 22/4/2002, pag. 93).

Il che getta seri dubbi sulla bontà del riconoscimento. Appare, inoltre, inverosimile che un “professionista” come Tizio Bianco, entrato in un negozio per comperare una semplice pellicola fotografica in un momento certamente delicato – perché si ipotizza che fosse sul posto per eseguire un sopralluogo -, abbia fatto di tutto per rimanere impresso nella memoria del commerciante, invadendone il negozio in compagnia di un giovane dall’aria sospetta e di due zingare con i rispettivi pargoli – ai quali Z. regalò mille Lire (Cfr. il verbale dell’udienza dei 22/4/2002, pagg. 91 e 95) -, nonché dilungandosi in una non richiesta spiegazione dei motivi per cui gli serviva la pellicola. L’argomento logico alimenta la consistenza del dubbio circa il riconoscimento compiuto da Z. Ma se anche l’individuo notato dal teste fosse stato Tizio Bianco, resterebbe da dimostrare il coinvolgimento, nelle attività preliminari alla rapina, delle persone che erano con lui. Difficilmente potevano avere qualcosa a che fare col delitto le due zingare ed i rispettivi fanciulli. Tizio Bianco potrebbe anche essersi recato sul posto con persone estranee ai propri progetti per eseguire attività di rilievo personalmente.

La pista dei nomadi giostrai non riesce ad elevarsi dal livello delle mere ipotesi astratte per attingere un significato indiziante dotato di un minimo di concretezza.

Le modalità di fuga del rapinatore superstite.

L’esistenza di ulteriori complici rispetto ai due esecutori materiali della rapina e la presenza di un’auto d’appoggio che il rapinatore superstite sarebbe riuscito a raggiungere, sono dedotte dalla difesa – oltre che dagli argomenti che sono stati ora criticati – da alcuni dati processuali che vengono esaminati qui di seguito. Iniziando da un’operazione di cambio di alcune banconote in moneta effettuata, la mattina della rapina, da due giovani che non si erano mai visti prima in banca, si osserva che la circostanza è del tutto neutra. Essa può essere sembrata strana, ma non è un elemento grave, né univoco. Se è compatibile con un ultimo sopralluogo di ignoti complici, essa è anche compatibile con qualsiasi altra ipotesi plausibile, come la necessità per due persone, magari non del posto, di procurarsi della moneta per effettuare una telefonata o servirsi di un qualsiasi apparecchio funzionante a monete.

Dell’impossibilità di ricavare altre piste o complici, o la presenza di un’auto d’appoggio, dalle testimonianze della S. e di Z. si è già detto. Basti ricordare che, sciolto il legame tra la Punto rossa vista dalla donna e la BMW simile a quella di M., non si può nemmeno affermare con margini ragionevoli di attendibilità che la Punto rossa vista dalla S. fosse quella utilizzata dai rapinatori (la donna non ne prese la targa e non vide gli occupanti in modo da saperli descrivere e, tanto meno, riconoscere).

La presenza di almeno un terzo complice e di un’auto pulita per il cambio con la Punto, non ricavabile da alcuno degli elementi sin qui criticati, resta tuttavia un’ipotesi plausibile, ricavabile da regole di comune esperienza e dall’osservazione del concreto grado di professionalità dimostrato dai rapinatori che svaligiarono la banca. Detto questo, altra cosa è affermare che il rapinatore superstite sia riuscito a raggiungere l’eventuale terzo complice e l’auto che avrebbe dovuto servire per il prosieguo della fuga. Di ciò non vi è la benché minima prova.

La difesa ipotizza che l’auto “pulita” sarebbe stata ad attendere i rapinatori col bottino nello stesso punto dove fu abbandonata la Fiat rossa. E’ un’ipotesi infondata. I carabinieri, quando scoprirono l’auto parcheggiata nella zona golenale, effettuarono un sopralluogo completo, esteso in un raggio assai ampio, tanto che furono sequestrati oggetti ritenuti d’interesse fino a due chilometri di distanza dalla vettura (Si tratta della maglietta di cui al processo verbale del 28/7/1998, ore 22,15, in Vol. 10. Ma ci furono anche altri oggetti trovati lontano dalla Punto, come dei fazzoletti di carta sequestrati a 500 metri dalla vettura).

L’ipotesi che, nelle vicinanze, potesse esserci stata un’altra macchina ad attendere i rapinatori doveva essere ben presente agli inquirenti, se essi istituirono dei posti di blocco lungo la statale, come ha ricordato, tra gli altri, il carabiniere A.R. (Cfr. la deposizione resa dal militare all’udienza del 4/4/2002, pag. 24).

Pertanto, se nella zona della Punto fossero state presenti delle impronte di un’altra autovettura, le stesse non sarebbero sfuggite ai rilevamenti. La corretta e prudente risposta che il carabiniere S. ha dato alla difesa, nel corso del controesame, secondo cui le impronte di una seconda vettura non furono “rilevate” non significa, come vorrebbe l’appellante, che non furono cercate. I rilevamenti furono scrupolosi e se quelle tracce non furono “rilevate” non fu per negligenza degli inquirenti, ma perché non erano presenti sul posto.

La difesa ritiene che dal pioppeto di Riva di Suzzara, dove fu rinvenuta la Punto rossa, non ci sarebbe stata la possibilità, per il rapinatore fuggiasco, di raggiungere a piedi il paese di Borgoforte, da dove furono effettuate le telefonate a Caio Verde ed al cellulare in uso alla moglie di Sempronio ROSSO, la notte del delitto. La corte è di contrario avviso. Premesso che il percorso più lungo, che passa lungo la riva del Po, per poi attraversare un ponte, è in tutto di una quindicina di chilometri, si osserva che la Fiat Uno servita per la fuga fu trovata dagli inquirenti solo alle 17,40, vale a dire circa tre ore dopo la rapina. E’ pacifico anche per la difesa che nella zona vi sono estese aree di coltivazioni ad alto fusto. A parte i pioppeti, vi sono coltivazioni di granturco, che alla fine di luglio erano alte e rigogliose. Lungo l’argine del fiume, inoltre, vi sono abbondanti zone fitte di rovi ed arbusti (Si vedano le deposizioni dei marescialli F. e A. e del brigadiere F. citate anche dalla difesa. Sul punto dell’altezza del granturco e della rigogliosità della vegetazione v., tra gli altri, la deposizione del carabiniere A.R. a pag. 8 dell’udienza 4/4/2002 (Vol. 1)).

Il primo arrivo degli elicotteri è collocabile tra le 16 e le 16,30, dunque dopo un’ora abbondante dal termine della rapina; e, di certo, prima del ritrovamento dell’auto nel pioppeto, la ricerca con questi mezzi aerei non ebbe alcun punto preciso di riferimento. Né si può evitare di sottolineare che gli elicotteri avevano molte difficoltà a scorgere ciò che era presente al di sotto della vegetazione. Tanto che non furono loro a trovare la Fiat Punto rossa, bensì i carabinieri automontati; e tanto che, mentre il carabiniere Alfonso Rosario stava viaggiando con un collega a bordo di una macchina – anch’essa rossa – nel pioppeto, un elicottero che, pure li sovrastava, non si accorse di loro. Solo quando l’auto dei due militi uscì dal pioppeto i colleghi del mezzo aereo si avvidero della sua presenza (Cfr. pag. 9 della deposizione del carabiniere).

E’ vero che giunsero delle unità cinofile, ma anch’esse non ebbero un punto di partenza concreto, prima del ritrovamento della Punto. La zona, in estensione quadrata, è ampia e non necessariamente chi si fosse trovato a fuggire a piedi, avrebbe dovuto farlo senza soluzione di continuità, correndo il rischio di trovarsi allo scoperto, nelle zone a vegetazione più bassa. E’ verosimile, al contrario, che egli abbia aspettato nascondendosi nei punti dove la vegetazione era più alta e più fitta, o comunque di difficile accesso ed idonea ad impedire l’avvistamento, attendendo che le ricerche andassero scemando. Di carabinieri a cavallo se ne vide uno solo, il carabiniere A.R., che – dopo essere sceso dalla vettura in dotazione – “prese un cavallo” (Tra virgolette le testuali parole del carabiniere, pag. 22 del verbale dell’ud. cit.) e con esso si aggirò per la zona golenale.

Nessuno dei testi sentiti in primo grado ha concretamente ricordato che fossero stati disposti posti di blocco sul ponte che dalla riva destra del Po conduce alla sinistra e consente di raggiungere Borgoforte, Il Ten. Col. B., comandante provinciale dei carabinieri di Mantova, competente per zona, ha affermato di non averli disposti, come ricorda anche l’appellante; il Ten. Col. M., comandante provinciale dei carabinieri di Reggio Emilia ha escluso di aver dato un simile ordine, perché riguardante un territorio che si trova interamente nel mantovano (Cfr. la deposizione del Col. M., all’udienza del 12/7/2002, pag. 42).

Sappiamo che colui che la notte del 28/7/1998 telefonò per due volte a Caio Verde e per tre al portatile della moglie dell’imputato, lo fece a partire dalle 22,54. A quell’ora, col favore della notte e quando ormai i controlli dei carabinieri si erano allentati, Borgoforte poteva essere stato tranquillamente raggiunto a piedi dal rapinatore fuggitivo, in precedenza occultatosi nel fitto della vegetazione.

I tabulati telefonici.

L’esame di questi documenti è stato molto utile in sede d’indagini preliminari. Attraverso di esso, gli inquirenti sono giunti all’identificazione dell’imputato Sempronio ROSSO. Si iniziò con l’acquisizione del tabulato dell’utenza mobile in uso a Tizio Bianco, dal quale emersero due elementi importanti: il primo fu che, a parte qualche telefonata dei figli e di alcuni conoscenti del tutto estranei al processo, il rapinatore deceduto era stato chiamato da cabine telefoniche in prevalenza situate in Emilia-Romagna; il secondo fu che spesso, subito prima o subito dopo la telefonata a Tizio Bianco, dalle stesse cabine telefoniche partivano delle chiamate dirette all’abitazione di Caio Verde. Diverse di queste coppie di telefonate, fatte evidentemente dalla stessa persona data l’immediatezza con la quale i due numeri venivano composti l’uno dopo l’altro, erano, ad esempio, effettuate da posti pubblici situati in Via xxx, a Castelmaggiore (BO), o in Via xxx, a Bologna. Come si ricava dall’avvicendamento delle acquisizioni dei tabulati, dopo aver avuto la disponibilità dell’elenco delle chiamate in entrata sull’utenza di Caio Verde, gli inquirenti giunsero all’individuazione della cabina di Borgoforte dalla quale, la notte del delitto, erano state fatte due telefonate all’amico dell’imputato. Di qui, si risalì alle utenze dei C. ed in particolare a quella del cellulare intestato al suocero, ma in uso alla moglie dell’imputato utenza chiamata tre volte da Borgoforte, la notte della rapina. Infine si arrivò al numero del cellulare (…) che risultò in possesso di Sempronio ROSSO al momento del suo arresto; apparecchio che si accertò aver effettuato anche una telefonata a Caio Verde nell’agosto 1998 (In particolare alle 10,51 del 14/8/1998: si vedano i tabulati).

La ricostruzione pazientemente eseguita dagli inquirenti attraverso l’analisi dei tabulati telefonici ha ricevuto un’ampia conferma dibattimentale dalle dichiarazioni dell’imputato, che nel corso del proprio esame ha ammesso di essere stato effettivamente lui a fare “la gran parte” delle telefonate provenienti da posti pubblici di cui si discute. Ad esempio, ha affermato Sempronio ROSSO di essere stato lui ad eseguire le telefonate dell’8/6/1998 a Tizio Bianco da una cabina di San pietro in Casale, del 13/6 sempre a Tizio Bianco da Via xxx a Bologna, del 16/6 da un posto pubblico di Castelmaggiore (da dove furono eseguite, in stretta successione, una telefonata a Tizio Bianco e poi una a Caio Verde), del 23/6 a Tizio Bianco da Castelmaggiore e, quindi, a Caio Verde da Bologna, del 24/6 dall’autogrill di Ferrara (una telefonata a Tizio Bianco e una a Caio Verde), del 29/6 a Tizio Bianco da Argelato, del 15/7 a Caio Verde da Argelato e a Tizio Bianco da Pieve di Cento, del 25/7 a Tizio Bianco da Bologna e del 27/7 a Tizio Bianco da Castelmaggiore (Cfr. le dichiarazioni di S. all’udienza del 17/6/2002, pag. 105 ss. (Vol. 3)).

Il 27/7/1998 è il giorno precedente la rapina. La telefonata che Sempronio ROSSO afferma di aver fatto a Tizio Bianco in tale data, da Castelmaggiore, è delle 8,59. La sera dello stesso giorno, certamente riferibili all’imputato per i destinatari e per la cabina utilizzata (Castelmaggiore, Via xxx, la stessa usata la mattina per chiamare Tizio Bianco), ci sono due telefonate in stretta successione: alle 17,25 a Caio Verde; alle 17,26 al portatile in uso alla moglie di Sempronio ROSSO.

Dall’esame dei tabulati telefonici emergono due dati di rilievo. Il primo è afferente all’insistenza con la quale Sempronio ROSSO chiamava Tizio Bianco nei giorni precedenti la rapina. L’imputato, dopo aver spiegato di aver utilizzato il metodo delle telefonate dai posti pubblici perché più sicuro – essendo lui all’epoca latitante -, ha sostenuto di aver telefonato a Tizio Bianco, in quel periodo, perché aveva bisogno di trovare un nuovo alloggio – avendogli Caio Verde chiesto di andarsene -, e di procurarsi dei documenti falsi (Ivi, pag. 109. S. afferma che inizialmente egli si era rivolto a C. anche con la richiesta di fornirgli una vettura rubata, ma tale richiesta era stata soddisfatta sin dall’inizio-metà di giugno e, pertanto, da allora non era più attuale (cfr. l’esame di S. all’udienza del 17/6/2002, pag. 60)).

Queste motivazioni appaiono entrambe deboli. Quella relativa ai documenti falsi, perché Sempronio ROSSO, in agosto, riuscì a reperirli in soli due giorni e, per quanti dubbi potesse avere sulla permanenza di buoni rapporti col falsario – come dichiarato dall’imputato in udienza -, egli avrebbe ugualmente potuto tentare questa via, specie dopo che Tizio Bianco si era dimostrato non all’altezza della richiesta. Tanto più che gli asseriti dubbi sul falsario si rivelarono totalmente errati, vista la velocità con la quale i documenti furono forniti. La motivazione relativa all’alloggio è debole, perché dopo agosto, con i documenti falsi, Sempronio ROSSO non ebbe difficoltà a trovare alloggio in alberghi ed a pranzare in ristoranti dimostrando una buona disponibilità di denaro. Una disponibilità tale per cui, se fosse stata in possesso di Sempronio ROSSO prima della rapina di Luzzara, l’imputato non avrebbe avuto alcun bisogno di rivolgersi a Tizio Bianco. Caio Verde, poi, non ha mai detto di aver invitato Sempronio ROSSO ad andarsene da casa sua e le parole dell’imputato restano, sul punto, prive di conferma. In definitiva, le giustificazioni di Sempronio ROSSO in ordine ai motivi per cui, in prossimità del 28 luglio, egli chiamava Tizio Bianco così di sovente, non sono convincenti.

Il secondo dato di rilievo che emerge dalle telefonate è quello relativo alla serie di chiamate fatte dalla cabina di Borgoforte, la notte del delitto, tra le 22,54 e le 0,07. Come ormai sappiamo, sono cinque telefonate, tutte dirette, nel breve spazio di poco più di un’ora, alle stesse persone: due a Caio Verde; tre al telefono portatile in uso a L.C. Chi chiamava era, dunque, una persona che molto verosimilmente conosceva sia Caio Verde, sia la moglie dell’imputato e di quest’ultima, in particolare, conosceva il numero segreto acquistato dai coniugi Sempronio ROSSO solo per le loro comunicazioni personali. Queste caratteristiche si ravvisano tutte nell’imputato, mentre l’unica altra persona che, a dire di Sempronio ROSSO, era a conoscenza di quei due numeri – Tizio Bianco – a quell’ora era già morta. Resta relegato ad un’ipotesi difensiva indimostrata ed assai improbabile (come meglio vedremo), che Tizio Bianco potesse avere fornito quei numeri ad una terza persona. Data l’insistenza di quelle cinque chiamate, si deduce inoltre che il telefonista aveva urgenza. E’ certo che a non più di quindici chilometri di distanza da quella cabina, nella stessa giornata e diverse ore prima, il complice di Tizio Bianco aveva abbandonato l’auto della fuga e con ogni verosimiglianza, come sopra osservato, non era riuscito ad allontanarsi dalla zona. Di talché, con elevato grado di probabilità, il telefonista era il complice di Tizio Bianco in cerca di aiuto.

La testimonianza di Caio Verde.

Caio Verde conobbe Sempronio ROSSO in carcere, nel corso degli anni ’80, quando stava scontando la pena per l’omicidio della propria consorte. Nell’estate del 1998 il teste accolse in casa propria il vecchio amico di detenzione che si presentò da lui chiedendogli ospitalità in un momento di crisi del proprio rapporto coniugale. Secondo la difesa, Caio Verde è stato usato dagli inquirenti come “grimaldello” dell’accusa; ciò nonostante, in dibattimento, egli ha riferito due cose che conforterebbero l’alibi di Sempronio ROSSO per il 28/7/1998. La prima è che, quella notte, Sempronio ROSSO gli telefonò una sola volta e potrebbe essere stato lui il primo a chiamare, anziché l’ignoto interlocutore che cercava Sempronio ROSSO. La seconda è che Sempronio ROSSO rincasò verso l’una – l’una e trenta di notte.

La corte osserva, innanzi tutto, che Caio Verde, in dibattimento, non ha mostrato alcun timore, né alcuna reticenza, nel riferire i fatti e non ha esitato a chiarire che il periodo di ospitalità offerto all’amico era stato di circa due mesi, vale a dire più lungo di quello risultante dalle dichiarazioni rese in sede d’indagini preliminari. La spontaneità e la tranquillità di questa dichiarazione contrasta con il timore di essere accusato di complicità nella rapina o di favoreggiamento personale, che la difesa attribuisce a Caio Verde, sostenendo che questo sarebbe il motivo per cui il teste ha rilasciato dichiarazioni sfavorevoli all’imputato. Se il teste avesse davvero avuto paura di accuse del genere non avrebbe avuto senso, da parte sua, sottolineare una maggiore durata della condotta (di ospitalità) che, nell’ipotesi difensiva, integrerebbe gli estremi materiali del comportamento antigiuridico a lui addebitabile. Né si vede perché quella paura, che si ipotizza esserci stata davanti agli inquirenti, avrebbe dovuto svanire davanti al giudice del dibattimento: quando Caio Verde ha reso le proprie dichiarazioni alla corte di assise di Reggio Emilia non era certo trascorso il termine di prescrizione dei reati ai quali la difesa fa riferimento. D’altro canto, l’appellante non spiega – nell’interpretazione offerta della testimonianza di Caio Verde – perché mai il teste, in udienza, avrebbe dovuto trovare il coraggio di rivelare solo certe verità e non altre. Se davvero, in sede d’indagini, Caio Verde fosse stato costretto a dichiarare il falso dalle minacce o dalla paura degli inquirenti ed, in udienza, resosi conto di dover rivelare la verità in precedenza negata, avesse trovato il coraggio di ritrattare alcune bugie, non si vede perché non ritrattarle tutte. A quel punto, per tutte le bugie sarebbe, infatti, valsa la scriminante di cui all’art. 384 c.p. Il favoreggiamento non sarebbe stato punibile e non ci sarebbe stato motivo di aver timore di ritrattare.

Le osservazioni dell’appellante si rivelano mere congetture, prive di ogni aggancio processuale. Non c’è alcun elemento che autorizzi a pensare che Caio Verde sia stato minacciato dagli inquirenti, né che abbia avuto paura di loro. Al contrario, il testimone ha precisato in udienza – con un’affermazione che non trova smentita in alcun atto processuale – che quando fu sentito dai carabinieri, nel marzo del 1999, non gli fu riferito il motivo per cui veniva interrogato, né quali indagini fossero in corso. Tale affermazione corrobora la genuinità e la spontaneità delle sue dichiarazioni ed è un’affermazione che appare in tanto più veritiera, in quanto seguita dalla spontanea osservazione – fatta dal teste in udienza, dopo aver udito le parti interloquire sulla posizione processuale da attribuirgli – : “Mi hanno fatto (scil.: i carabinieri, n.d.e.) domande così, che io prima sentivo parlare (scil.: una delle parti, n.d.e.), ha detto che si trattava di rapina, vero? Ecco, io non sapevo niente” (Cfr. pag. 58 del verbale dell’udienza del 22/4/2002).

In secondo luogo, osserva la corte che, nel corso della propria deposizione, Caio Verde non si è mai sottratto ad alcuna domanda, né ha mostrato alcun risentimento o anche semplice contrarietà verso l’imputato, dando sempre risposte ragionevoli, pacate e mai acrimoniose. Il teste ha, inoltre, dimostrato di seguire la logica delle domande difensive alle quali – come non manca di sottolineare l’appellante – ha fornito talora risposte francamente favorevoli all’imputato. Come quando ha affermato di non potere escludere che, la sera del 28/7/1998, la telefonata di Sempronio ROSSO avesse preceduto quella del suo ignoto amico, anziché seguirla come sostiene l’accusa.

In ordine ai farmaci depressivi che assumeva nel marzo del 1999, quando fu interrogato dai carabinieri presso una clinica specializzata, Caio Verde ha riferito di non aver avuto la percezione che scemassero le sue capacità d’attenzione. Una percezione corretta, che è confermata dalla circostanza che il teste assumeva gli stessi farmaci anche quando è stato sentito in dibattimento (Cfr. per queste risultanze pagg. 56-57, deposizione cit.), dove ha dimostrato una memoria normale ed una buona capacità di seguire senza distrarsi il complesso esame cui è stato sottoposto, rispondendo sempre a tono alle domande rivoltegli. L’attendibilità personale di Caio Verde è, dunque, fuori discussione.

Passando all’esame dei fatti ricordati dal testimone, la corte osserva che risponde al vero che Caio Verde, dopo aver dichiarato per due volte che la prima telefonata (quella delle 20,50 da San Donà di Piave, n.d.e.) era stata fatta da uno sconosciuto presentatosi come amico di Sempronio ROSSO e che la seconda (quella delle 22,54 da Borgoforte, n.d.e.) proveniva dall’imputato, ha affermato, in sede di controesame, di non essere in grado di escludere che l’ordine delle telefonate fosse invertito. Ed è, altresì, vero che in dibattimento egli non ha riferito che, quando telefonò l’anonimo, c’era ancora luce: circostanza che permetterebbe di ancorare questa telefonata alla comune nozione che d’estate, alle 20,50, fa ancora luce. Tale circostanza, che evidentemente compariva nelle dichiarazioni rese dal teste alla p.g., non è stata contestata dal pubblico ministero d’udienza, che si è accontentato della comprensibile (Comprensibile, visto il tempo trascorso dall’episodio) risposta “non ricordo” fornita dal testimone (V. la deposizione del 22/4/2002, pag. 35).

Ciò premesso, secondo la corte esiste un dato processuale certo che è in grado di fornire, al di là di ogni altra considerazione e al di là di ogni ragionevole dubbio, l’ordine delle due chiamate: il contenuto della telefonata fatta da Sempronio ROSSO. In proposito, la difesa sostiene che l’imputato avrebbe telefonato per rassicurarsi, come al solito, delle condizioni di salute di Caio Verde e confermargli il proprio rientro presso di lui, essendo l’amico una persona molto apprensiva. Caio Verde ha riferito, invece, un contenuto della telefonata assai diverso. Ha detto inizialmente, su domanda del pubblico ministero, che Sempronio ROSSO gli aveva comunicato di avere avuto un incidente (Ivi, pag. 33).

Poi ha precisato – in sede di controesame della difesa – che Sempronio ROSSO gli aveva anche chiesto di andarlo a prendere e che lui gli aveva risposto di no; infatti, era da un po’ di tempo che, pur possedendo una vettura e la patente, non guidava (Ivi, pag. 60).

Questo contenuto della telefonata porta ad escludere che essa sia quella delle 20,50, fatta da San Donà di Piave. Sempronio ROSSO, infatti, sostiene che effettuò la telefonata immediatamente prima di rientrare da Caio Verde, dopo il pranzo con i parenti, e solo per avvertirlo del suo arrivo. Implicitamente afferma che la vettura funzionava perfettamente, perché sostiene di essere rientrato a notte fonda, a casa dell’amico, solo perché egli circolava a velocità moderata e per strade secondarie per non farsi notare dalla forze dell’ordine. Non ha mai parlato d’infortuni o di avarie. Di talché, la notizia di un incidente e la richiesta rivolta a Caio Verde di soccorso e di andarlo a prendere in auto, sono del tutto incompatibili con la versione di fornita dall’imputato. Al contrario, quella notizia e quella richiesta si combinano perfettamente con la chiamata delle 22,54 dalla cabina di Borgoforte, fatta certamente da un individuo che cercava aiuto, se è vero che, nel breve spazio di poco più di un’ora, effettuò ben cinque telefonate agli stessi due numeri telefonici – quello dell’abitazione dove Sempronio ROSSO si nascondeva e quello della moglie dell’imputato -, in orario notturno, da un piccolo paese in riva al Po, a poca distanza dal luogo della rapina e dell’omicidio.

La difesa sostiene che il teste mescola la menzogna alla verità: vera la telefonata, falso il contenuto. Per paura d’incriminazioni, Caio Verde avrebbe “scaricato” l’amico, inventando la storia dell’incidente e la richiesta di aiuto di Sempronio ROSSO. In dibattimento, poi, il teste non avrebbe avuto il coraggio di ritrattare questa seconda parte delle proprie dichiarazioni. Sono illazioni: come abbiamo visto, Caio Verde in maniera attendibile ha spiegato che quando fu interrogato dai carabinieri non sapeva il motivo delle domande. Ha corroborato questa spiegazione riferendo che, quando l’aveva ospitato, Sempronio ROSSO stava fuori di giorno e rincasava di sera; mangiavano insieme e quindi l’amico restava da lui a dormire. Parlavano poco e lui non sapeva quali fossero gl’interessi e le attività di Sempronio ROSSO, il quale ricambiava l’ospitalità facendo la spesa per entrambi. Tali affermazioni non hanno ricevuto smentita da alcuno, nemmeno dall’imputato, ed è verosimile che tra due vecchi compagni di detenzione le domande non fossero molte. Bastava la solidarietà. Ma se anche Caio Verde avesse sospettato o intuito qualcosa, non si vede perché, davanti ai carabinieri, dopo avere ammesso di avere ospitato l’amico, ed avere spiegato che questi era solito telefonargli per annunciare il proprio rientro a casa, invece, per quell’unica telefonata, avrebbe dovuto dire cose diverse e, per di più, false. Sempre che il teste avesse compreso l’importanza della domanda su quella specifica telefonata – il che non emerge da alcun dato processuale – gli sarebbe bastato rispondere che essa aveva avuto il medesimo contenuto di tutte le altre, per salvare non solo sé stesso, ma anche l’amico. Perché non farlo? La difesa ipotizza risentimenti d’animo, per il pericolo che Sempronio ROSSO avrebbe fatto passare all’amico ottenendo da lui ospitalità. Lo si è già detto, sono astratte congetture: anche in dibattimento Caio Verde, con il proprio atteggiamento e le proprie oneste risposte, ha dimostrato di essere lungi da sentimenti di malanimo nei confronti del vecchio compagno di detenzione. Così pure sono astratte congetture quelle della mancanza, da parte del testimone, del coraggio di ritrattare sino in fondo. In realtà, Caio Verde non è apparso preoccupato proprio di nulla e, se fosse vero che era stato costretto dalle pressioni degli inquirenti ad inventarsi il falso, ciò sarebbe emerso nel corso del lungo e serrato esame incrociato.

La difesa ulteriormente obietta che non avrebbe avuto senso che Sempronio ROSSO chiedesse a Caio Verde di andarlo a prendere in auto: costui all’epoca non guidava. Sennonché, così si dimentica che Caio Verde all’epoca possedeva una vettura ed aveva la patente; e se era da qualche tempo che non guidava, questo accadeva non per i suoi malanni fisici (in passato aveva sofferto di poliomielite), ma per dei problemi di carattere psicologico legati ad una forte forma depressiva (Cfr. la deposizione di M., all’udienza 22/4 cit., pag. 35). Ebbene, quando il difensore ha posto a Caio Verde la specifica domanda, il teste ha risposto che Sempronio ROSSO non sapeva che lui in quel momento non guidava, perché tra di loro si scambiavano poche parole, così che l’argomento non era stato affrontato (Ibidem, pag. 60).

Sempronio ROSSO, dal canto suo, ha ammesso di essere stato al corrente che Caio Verde aveva la patente (Cfr. il verbale d’udienza del 17/6/2002, pag. 203) e, per comune esperienza, chi ha la patente ha anche la disponibilità di una vettura. E’ vero che l’imputato sostiene che Caio Verde, in quel periodo, era in precarie condizioni di salute, ma non avendo Sempronio ROSSO le competenze specifiche per comprendere l’esatta gravità dei problemi psicologici che affliggevano l’amico, può avere pensato che questi, con un po’ di sforzo, potesse fargli il favore di mettersi alla guida per andarlo a prendere. Dunque, anche l’attendibilità obiettiva delle dichiarazioni del testimone risulta provata.

Ancora, la difesa osserva che la sentenza di primo grado ha omesso qualsiasi valutazione sulla compatibilità tra l’orario dell’ultima telefonata da Borgoforte (telefonata fatta al portatile di L.C., alle 0,07) ed il rientro di Sempronio ROSSO a Bologna, a casa di Caio Verde, alle 1-1,30 di notte. Sul punto si osserva che tra Borgoforte e Bologna intercorre la distanza di circa un centinaio di chilometri. Perciò, anche considerando che più della metà dell’intero percorso (da Reggio Emilia a Bologna) è tutta autostrada e che vi sono ulteriori tratti di strada a scorrimento veloce, percorrendo con una vettura di media potenza tale distanza, l’arco di tempo di un’ora – un’ora e mezza, circa, è più che sufficiente per compiere l’intero tragitto. Tanto più pensando che era di notte e, quindi, con traffico limitato (Più esattamente, l’itinerario più rapido tra Borgoforte e Bologna è lungo 99 Km., di cui un’ottantina per autostrada o, comunque, per strade a scorrimento veloce. E, perciò, facile comprendere che di notte, con poco traffico, anche un’auto di media cilindrata è in grado di compiere l’intera tratta nel tempo precisato in motivazione).

Sostiene la difesa che la prova che la prima telefonata, da San Donà di Piave, fu effettuata da Sempronio ROSSO e non da altri, si ricaverebbe anche dal fatto che Caio Verde ricorda una telefonata sola dell’amico. Poiché le telefonate dirette al teste dalla cabina di Borgoforte furono due, ciò dimostrerebbe che non era l’imputato a telefonare da questo paese. Il ragionamento potrebbe essere corretto se Caio Verde ricordasse tutte e tre le telefonate pervenutegli quella sera, attribuendone due alla persona non conosciuta e una sola all’imputato, ma il fatto è che Caio Verde ne ricorda due in tutto, di telefonate: una di Sempronio ROSSO e una di colui che lo cercava. In ogni caso, dunque, Caio Verde non ricorda la seconda telefonata da Borgoforte (Cfr. l’esame del teste: pag. 48 del verbale dell’ud. cit.: “D. E poi, lei riceve una telefonata anche alle 23,16, si ricorda da chi? R. No, sempre lo stesso giorno? D. Sì. R. No, non mi ricordo”. Dove è chiaro che il teste non ricorda la telefonata. D’altronde, anche per il resto del suo esame il teste parla sempre e solo di due, non di tre telefonate: cfr. pag. 33 ss; pag. 62-63) – chiunque l’abbia fatta – e l’argomento difensivo non può trovare conforto in una dimenticanza del testimone. Dimenticanza che non ha nulla di strano. Non erano mutati, per Caio Verde, i termini della questione: anche dopo la prima chiamata, egli continuava a non potersi e volersi spostare per andare a soccorrere l’amico.

Ciò che non è dato sapere è come i C. abbiano provveduto a soccorrere Sempronio ROSSO, facendogli giungere il mezzo che lo conducesse a Bologna da Caio Verde. Ma questo non inficia la valenza dell’indizio in esame. Sempronio ROSSO sapeva benissimo com’era delicato ogni tipo di comunicazione telefonica (era latitante ed era solito usare per le sue comunicazioni le cabine telefoniche pubbliche). Altrettanto sapevano i suo familiari: la figlia L.R. ha spiegato che per telefonare al padre sapeva di doverlo fare da un posto pubblico (Cfr. le affermazioni della giovane, a pag. 180 del verbale dell’udienza in cui è stata sentita (ud. 20/6/2002). Lo stesso S. ha confermato che i propri familiari, per chiamarlo, si recavano a telefonare presso una cabina pubblica (cfr. il verbale dell’udienza del 17/6/2002, pag. 259)).

Pertanto, se non furono direttamente i familiari dell’imputato a soccorrerlo, essi erano al corrente di dover usare, per organizzare il soccorso senza correre il rischio d’essere intercettati, dei telefoni (pubblici o di amici) diversi dai loro telefoni fissi. Con questi mezzi possono essersi messi in contatto con persone in grado di raggiungere il loro congiunto a Borgoforte per la mezzanotte. L’unico dato che sarebbe davvero incompatibile con la presenza di Sempronio ROSSO a Borgoforte il 28/7/1998, sarebbe l’impossibilità di percorrere la tratta Borgoforte-Bologna in un’ora e mezza. Ma ciò, come osservato, è tranquillamente possibile anche con una vettura di medie prestazioni.

Detto questo, il problema di chi abbia effettuato la telefonata delle 20,50 da San Donà di Piave la notte del delitto, diventa un problema secondario. Si può condividere, come vedremo, l’opinione dei primi giudici che sia stato L.C. a farla. Ma è un’opinione che – come tale – nulla aggiunge e nulla toglie al dato indiziario sin qui esaminato. Resta comunque assodato, in base al contenuto della telefonata di Sempronio ROSSO riferito da Caio Verde ed in base all’inconciliabilità di tale contenuto con la telefonata delle 20,50 da San Donà di Piave, che l’imputato, tra le 22,54 del giorno della rapina e le 0,07 successive, si trovava in un paesino distante solo quindici chilometri dal luogo del ritrovamento dell’auto dei rapinatori e stava cercando qualcuno che lo andasse a togliere dagli impicci.

L’ipotesi formulata dal primo giudice su L.C. – si diceva – sembra avvalorata dalle tre chiamate che intercorsero tra i telefoni fissi di L.C. e della figlia L.C. tra le 20,18 e le 20,25 di quella sera. Il telegiornale delle 20 aveva dato, tra i titoli, la notizia della rapina e della sparatoria con due morti avvenuta a Luzzara; il servizio venne mandato in onda alle 20,24. Dunque è plausibile che le prime due telefonate (delle 20,18 e delle 20,21) fossero per commentare i titoli, per accertarsi che il servizio non fosse stato ancora mandato in onda e che il congiunto non avesse ancora dato segni di sé. Alle 20,25 era già tempo per un breve commento del servizio. L.C. è l’unico maschio della famiglia e Caio Verde ricorda una voce maschile, al telefono, alle ore 20,50.

Si ripete, però, che queste sono spiegazioni che rimangono sul piano della mera plausibilità e che non hanno un loro valore indiziante, perché non certe. Da esse non si ricava nulla di preciso a supporto del dato indiziante – questo sì certo, grave e preciso – che esce dalla testimonianza di Caio Verde e dalla certezza che se ne ricava circa il luogo dal quale l’imputato telefonò. Per tali motivi non appare il caso di rispondere specificamente a tutte le, pur intelligenti, obiezioni che la difesa oppone all’ipotesi che sia stato L.C. a telefonare a Caio Verde alle 20,50 dalla cabina di San Donà di Piave. Si può solo accennare che il fatto che non siano più intercorse telefonate tra i telefoni fissi di padre e figlia C. dopo le 20,50 (a parte quella delle 21,52), può anche essere dipeso dal fatto che i due nuclei familiari abitano a pochi chilometri di distanza e che, per comunicare, non necessariamente padre e figlia devono averlo fatto tramite telefono. In particolare, dopo la telefonata a Caio Verde delle 20,50, L.C. si trovava – o, meglio, si sarebbe trovato – già fuori di casa, per cui avrebbe ben potuto andare a riferire direttamente di persona, alla propria figlia, il contenuto della comunicazione, così come ogni altra considerazione propria sul da farsi.

Qualche parola va spesa, invece, per l’ipotesi alternativa offerta dalla difesa a proposito dell’ignoto telefonista di Borgoforte. La debolezza, infatti, di quest’ipotesi funge da prova di resistenza per la serietà e la precisione dell’elemento indiziante di cui si discute. Si sarebbe trattato di un ignoto amico di Tizio Bianco, molto probabilmente il complice di costui nella rapina, visto che telefonava da Borgoforte. Tizio Bianco gli avrebbe fornito i numeri di telefono di Caio Verde e della moglie dell’imputato, per chiamarli in caso di necessità. L’ipotesi pecca di verosimiglianza, per una serie di motivi. Innanzi tutto, per la scelta di Tizio Bianco di affidare ad una persona, sconosciuta all’imputato, i numeri riservati di costui, che all’epoca era latitante: il numero del rifugio del latitante (casa Caio Verde) e quello riservato della moglie del latitante, destinato alle sole comunicazioni tra la donna e quest’ultimo (Ha spiegato la signora Maritan, a proposito del numero di questo telefono portatile, che: “(…) era assolutamente nostro (vale a dire suo e del marito, n. d. e. ), per sapere appunto se stava bene e se stava male. Essendo latitante, ci tenevo.” (Cfr. il verbale dell’udienza 6/6/2002, pag. 104)).

Tutto ciò senza dire nulla a Sempronio ROSSO. Un comportamento francamente sconsiderato, da parte di un amico come Tizio Bianco, che avrebbe lasciato nelle mani di una persona molto probabilmente pregiudicata, o che comunque doveva compiere dei gravi delitti insieme a lui, i numeri telefonici che potevano tradire la latitanza del suo vecchio amico Sempronio ROSSO, per di più senza chiedergli il permesso e senza avvisarlo. In secondo luogo, Tizio Bianco, come abbiamo visto, aveva molti amici nel mondo dei pregiudicati (nomadi e non nomadi); pare, perciò, inverosimile che – per aiutare qualcuno in caso di necessità – gli suggerisse di rivolgersi proprio ad uno come Sempronio ROSSO che, da latitante, aveva già dei grossi problemi per se stesso, sia per nascondersi, sia per sbarcare il lunario. Non si comprende, poi, perché Sempronio ROSSO – una volta decisosi a fornire a Tizio Bianco i propri numeri di telefono – gli avrebbe fornito, oltre a quello di Caio Verde, quello della propria consorte. A quel punto, rotto ogni problema di sicurezza, Sempronio ROSSO avrebbe potuto fornire all’amico direttamente il numero del proprio cellulare. Per finire, si rileva che l’ignoto amico di Tizio Bianco, dopo aver cercato affannosamente per tutta una notte Sempronio ROSSO, si sarebbe completamente dimenticato di lui, smettendo di cercarlo e non facendosi più sentire. L’ipotesi formulata dalla difesa, dunque, oltre che fondarsi su una mera congettura, suscita più di una perplessità sul piano logico. Il che conforta ulteriormente la forza dimostrativa dell’indizio di cui si discute, non essendo l’imputato riuscito a fornire una adeguata e convincente spiegazione alternativa degli elementi che attestano che fu lui a telefonare a Caio Verde da Borgoforte, la notte della rapina, chiedendo aiuto.

L’impronta digitale.

La difesa ritiene “non chiare” o “atipiche” le circostanze del ritrovamento della bottiglia sulla quale fu evidenziata l’impronta digitale poi confrontata con quelle dell’imputato. La corte conviene che l’elenco degli oggetti contenuti nella Fiat Punto dei rapinatori non fu eseguito con prontezza e che il RIS dei carabinieri di Parma, in questo caso, non prestò a tali oggetti, sin dall’inizio, la dovuta attenzione. I tecnici di quel centro, infatti, concentrarono in un primo tempo la loro attività solo su alcune cose presenti nell’abitacolo – ovverosia un accendino, dei fazzoletti, un proiettile, tre frammenti di tessuto organico ed otto mozziconi di sigaretta -, tralasciando l’esame della bottiglia d’alcol in questione e di una confezione di sei bottiglie d’acqua (peraltro, ricordate tutte bene dal personale operante), giudicate non interessanti per le indagini. Quei tecnici certamente commisero un errore, peraltro spiegabile con l’enorme mole di lavoro di quel centro, la cui competenza scientifica viene utilizzata per le indagini giudiziarie dell’intero Paese. Solo l’attenzione e il commendevole scrupolo dei carabinieri di Reggio Emilia, che richiesero un nuovo decreto di perquisizione all’autorità giudiziaria quando il RIS aveva comunicato di aver terminato i rilevamenti e stava disponendo la restituzione della vettura ai proprietari, consentì di sottoporre anche la bottiglia d’alcol in esame ai rilevamenti dei tecnici di quel centro scientifico.

Detto questo, rileva la corte che correttamente la difesa, dopo aver evidenziato le menzionate incongruenze, non ne trae alcuna conseguenza sul piano della genuinità della prova. A voler contestare la quale occorrerebbe spingersi in impossibili, più che ardue, congetture su un inspiegabile e fantomatico inquinamento del materiale processuale e del suo autore. Una cosa, infatti, è certa: quell’impronta non si trova sulla bottiglia casualmente.

Passando alle critiche di merito che la difesa muove alla perizia o, meglio, all’esame dibattimentale dei periti, si osserva che la censura mossa al prof. D. perché, in udienza, non sarebbe riuscito a ricostruire quali fossero le undici minuzie individuate prima dell’asportazione dell’alone d’alcol dall’impronta e quali le cinque individuate dopo, è una censura fuori luogo. Giustamente il prof. D. ha replicato, all’insolita richiesta difensiva, che gli si chiedeva di ripetere lì per lì, ad occhio nudo, un’operazione che, di solito, impiega diverso tempo in laboratorio, con l’ausilio degli idonei strumenti tecnici. Altrettanto correttamente il professore ha rilevato che il consulente di parte era stato invitato a partecipare a tutte le attività peritali e in tale sede avrebbe potuto muovere gli opportuni rilievi, se non fosse stato d’accordo con l’evidenziazione delle minuzie operata dai periti. Va anche osservato che il comprensibile imbarazzo del perito di fronte all’inusuale domanda rivoltagli dalla difesa è dipeso unicamente dal fatto che – come ha spiegato il prof. D. – l’evidenziazione delle prime undici minuzie servì ai periti solo per valutare l’opportunità di procedere all’ulteriore fase di decolorazione dell’alone d’alcol, per cui sulla foto iniziale tali minuzie non furono numerate. Quando. anche la seconda operazione (la decolorazione) fu eseguita, la prima foto dell’impronta, priva di numeri, venne “archiviata” e si procedette alla numerazione delle sedici minuzie individuate solo sull’impronta definitiva, ottenuta con una nuova fotografia (Cfr. le dichiarazioni del prof. D. all’udienza del 12/6/2002, pag. 15).

D’altronde, basta osservare – avendo la necessaria calma e il tempo a disposizione – le fotografie riportate nell’elaborato peritale rispettivamente ai n. 6 ed 8 (altra copia di quest’ultima si trova al n. 14, che reca la numerazione delle minuzie), per avvedersi di quali furono le minuzie esaltate prima e quali quelle esaltate dopo l’eliminazione dell’alone d’alcol; e per rendersi conto che, nella foto usata per il confronto con le impronte di Sempronio ROSSO – la 14 – sono riportate esattamente tutte le undici minuzie di cui alla foto 6, più altre cinque rese visibili solo dalla decolorazione, presenti nella foto 8. Se – in udienza – senza gli strumenti, il tempo e la calma dovuti, il prof. D. ha sbagliato nell’individuazione delle due diverse serie di minuzie, ciò non inficia la validità delle sue considerazioni, né dei rilievi e delle conclusioni che si leggono nell’elaborato peritale, idoneamente illustrato in udienza dal perito nelle sue linee e nei suoi concetti fondamentali e regolarmente acquisito agli atti.

Non si condivide neppure la censura secondo cui alcune minuzie, in particolare le n. 1, 6 e 7, sarebbero solo intuite. La numero 1, addirittura – secondo la difesa – sarebbe stata evidenziata solo in seguito al confronto con l’impronta di Sempronio ROSSO e non prima. Quest’ultima affermazione non corrisponde al vero. In dibattimento è stato, infatti, chiarito che tutti i sedici punti – o minuzie – tipici dell’impronta presente sulla bottiglia furono rilevati prima di procedere al confronto con le impronte dell’imputato (Si veda la precisa dichiarazione, sul punto, del prof. D. alle pagg. 45-46. Precisazione di fronte alla quale la difesa aveva osservato: “Non lo metto in dubbio”).

Il punto 1, poi, corrisponde ad un inizio di “biforcazione”, con “i rami dell’impronta che scendono verso giù, con il punto d’incrocio al vertice” (Così il perito a pag. 56 del suo esame).

Per il resto, si osserva che i punti 6 e 7 delimitano quello che il perito ha definito tecnicamente un “ponte”, vale a dire un’interruzione tra due linee interdigitali che vengono ad unirsi creando una sorta di ponte tra l’una e l’altra (Cfr. la spiegazione fornita dal perito a pag. 16 del suo esame).

I due punti ed il ponte sono chiaramente evidenziati nei fotogrammi 8 e 14 (in quest’ultima con la specifica numerazione dei punti che delimitano il ponte). Nessuna intuizione, dunque, ma minuzie bene evidenziate e certe.

In ordine all’osservazione difensiva per cui non si giustificherebbero le differenze tra i punti evidenziati dai periti e quelli evidenziati, in precedenza, dai tecnici del RIS, si osserva quanto segue. I tecnici del RIS hanno spiegato che avevano già evidenziato 18 coincidenze con l’impronta di Sempronio ROSSO, per cui non ritennero necessario evidenziare due minuzie, ritenute, minori; che invece sono state utilizzate dai periti. L’obiezione difensiva secondo cui i tecnici dell’accusa avrebbero avuto tutto l’interesse ad evidenziare il maggior numero possibile di coincidenze, cosicché la giustificazione da loro fornita sarebbe inadeguata, resta nell’ambito di un mero apprezzamento difensivo che, evidentemente, non coincide con l’opinione che i tecnici del RIS hanno delle finalità del proprio lavoro. Il numero di minuzie in più rilevato – a suo tempo – dal RIS si spiega, invece, con l’effetto parzialmente distruttivo dovuto all’alcol fuoriuscito dalla bottiglia dopo il primo rilevamento. Se si leggono correttamente i passi citati dalla difesa delle dichiarazioni del prof. D. e dei tecnici del RIS (Ci si riferisce ai passi riportati tra virgolette a pag. 108 dell’atto d’appello), si evince quanto segue. Il prof D., parlando d’integrità del disegno e dell’andamento delle linee papillari, si riferisce solo a quelli evidenziati in sede peritale, senza con ciò voler instaurare alcun paragone con la completezza dell’impronta originaria (che i tecnici del RIS ebbero, invece, modo di osservare). I tecnici del RIS, parlando di disegno morfologico dell’impronta rimasto intatto “soprattutto per quanto riguarda il centro della figura”, non si sono contraddetti. Al contrario, sono stati pienamente coerenti con le affermazioni fatte quando hanno detto che le minuzie non rilevate dai periti sono nella parte sinistra e nella zona superiore dell’impronta da loro esaminata: vale a dire, nelle zone marginali, non centrali, della traccia originaria, che sono rimaste definitivamente distrutte dall’alcol (Cfr. la dichiarazione del maresciallo C. all’udienza del 12/6/2002, pag. 65).

Dato il numero di coincidenze – sedici – rinvenuto in sede di confronto con le impronte dell’imputato, è certo che la traccia papillare lasciata sulla bottiglia appartenga a Sempronio ROSSO (Cfr. in tal senso, tra le altre, Cass.. sez. 4, sent. 4254de1 22/3/1989, RV. 180856, Imp. P.; Cass., sez. 2, sent. 6769 del 1/7/1986, RV. 173281; Imp. F.; Cass., sez. 2, sent. 11410 del 23/10/1986, RV. 174046, Imp. F.).

Di quest’impronta Sempronio ROSSO ha fornito ai giudici una spiegazione alternativa a quella dell’accusa, affermando che, probabilmente, essa fu lasciata da lui sulla bottiglia nel corso dell’ultimo incontro avuto con Tizio Bianco in data 18/7/1998. L’amico si presentò all’appuntamento con la propria BMW stipata di merce, asseritamene rubata in un supermercato, ed egli, per sedersi in auto, fu costretto a spostare molte cose sui sedili posteriori. Tra queste cose, forse anche la bottiglia in esame.

Offerta questa versione, la difesa sostiene ,che l’impronta è un indizio che difetta del sufficiente grado di gravità e di precisione, perché apposta su una cosa non prossima al delitto (come sarebbe, invece, una pistola), per di più trovata su un’auto diversa da quella dove l’imputato l’avrebbe toccata. Poiché l’impronta sulla bottiglia fu apposta in un giorno precedente la rapina ed in luogo diverso da quello in cui fu trovata, essa consente un collegamento solo con Tizio Bianco e non con l’auto della rapina, né con l’esecuzione del delitto.

Il pregevole argomento difensivo tralascia, però, alcuni particolari. Nel baule della Punto rossa, rinvenuta con accanto il cadavere di Tizio Bianco, erano contenuti solo due oggetti non appartenenti al proprietario dell’auto (La circostanza emerge sia dal verbale di sequestro dell’1/10/1998, in cui si dà atto della presenza del sig. C.C., proprietario dell’auto, e si dice che costui non riconosce come propri solo la bottiglia d’alcol e quelle d’acqua (cfr. il verbale di sequestro dell’1/10/1998, Vol. 10); sia dalle dichiarazioni rese dal maresciallo G. all’udienza del 24/1/2002, pag. 57; sia infine dalla testimonianza del maresciallo C. V. verbale udienza 10/6/2002, pag. 76): il cartone con le sei bottiglie d’acqua e la bottiglia d’alcol. Sono oggetti, questi ultimi, che servono per pulire e cancellare tracce. Oggetti di cui un professionista del crimine apprezza la funzionalità ai fini di una rapina, essendo per lui facilmente prevedibile – dato il tipo di azione – di doversi pulire, dopo il delitto, o di dover cancellare delle impronte lasciate inavvertitamente all’interno di una vettura, o di avere bisogno di eliminare dalle mani e dalle braccia eventuali tracce di sparo, o dal viso i segni di travisamenti posticci. Tizio Bianco ed il complice erano due professionisti della rapina, come dimostrano le concrete, e ormai note, modalità d’esecuzione del delitto di Luzzara. Nel baule della Punto, dunque, la bottiglia d’alcol c’è finita solo per mano di Tizio Bianco o del complice; la stessa difesa non intravede strade diverse. D’altronde nessuno di coloro che precedettero i rapinatori nel possesso illegittimo dell’auto poteva avere avuto la disponibilità di una bottiglia con l’impronta di Sempronio ROSSO: nessun dato autorizza a pensarlo e l’imputato li avrebbe, quanto meno, conosciuti, circostanza da lui mai nemmeno prospettata. Non essendo, quegli oggetti, appartenuti ad altri ed essendo essi utili nella fase immediatamente successiva alla rapina, si tratta di cose scelte e messe nella Punto dai rapinatori.

Alla luce delle esposte considerazioni, il senso dell’impronta di Sempronio ROSSO sulla bottiglia appare assai meno anonimo di come lo vorrebbe la difesa. L’ipotesi difensiva di una mera casualità del contatto della mano dell’imputato con la bottiglia, infatti, per essere vera, dovrebbe scontare non solo la – già di per sé – sfortunata coincidenza che la bottiglia finisse dalla BMW di Tizio Bianco nell’auto servita per la rapina, ma anche l’altrettanto, se non maggiormente, sfortunata coincidenza che, tra tutte le merci sottratte da Tizio Bianco al famoso supermercato, che stipavano letteralmente il baule e l’abitacolo della BMW nell’incontro del 18/7/1998 (Si vedano le dichiarazioni dell’imputato a pag. 255 dell’esame del 17/6/2002. Dichiarazioni riprese nell’udienza del 20/6/2002, quando l’imputato ha precisato che c’erano generi alimentari di vario tipo, camicie nuove, un prosciutto, bottiglie varie. Tutta questa merce era “sui sedili ed anche per terra” (pag. 46); alcune cose vennero messe nel portabagagli, altre nei sedili di dietro, “ma era tutto pieno” (p. 77). Anche prima dello spostamento nel bagagliaio di parte degli oggetti che stavano davanti, il baule posteriore era già “parzialmente pieno” (p. 137), ovvero “pieno” (secondo l’indicazione offerta dall’imputato nell’udienza del 17/6/2002, p. 255). Ed ancora, quando C. arrivò con la BMW e prima che l’imputato l’aiutasse a spostare la merce che era davanti, c’era già merce “da una parte e dall’altra: sia anteriore, cioè quello di fianco alla guida (…) e poi dietro” (p. 142)), Sempronio ROSSO dovesse spostare, per sedersi, proprio uno dei due soli oggetti che i banditi avrebbero scelto per l’esecuzione della rapina. Il che, francamente, sembra assai poco verosimile.

Per concludere, l’indizio certo costituito dall’impronta di Sempronio ROSSO sulla bottiglia d’alcol, pare alla corte possedere anche i requisiti della gravità e della precisione. Esso cade, infatti, non solo su un oggetto che fu trovato sull’auto usata dai rapinatori per la fuga, ma su un oggetto che fu appositamente scelto dai malfattori per il delitto e che fu impresso su di esso in stretta contiguità temporale con la rapina. A quest’ultimo proposito, si osserva che è giusta l’osservazione che è inverosimile che i rapinatori abbiano usato l’auto per molto tempo, prima d’impiegarla nella rapina (La perspicua osservazione è contenuta nell’atto d’appello, a pag. 112).

La stessa alternativa proposta dall’appellante data l’impronta al 18/7/1998: vale a dire, a soli dieci giorni prima del delitto. A tutto questo, va aggiunto che l’unica spiegazione dell’impronta offerta dell’appellante, incentrata sulla casualità della traccia, è decisamente priva di verosimiglianza; così confortando la valenza dell’indizio d’accusa.

L ‘alibi.

Come è noto, la tesi difensiva è che Sempronio ROSSO abbia trascorso in compagnia dei propri familiari, fin verso sera, tutta la giornata del 28/7/1998, quando si tenne un pranzo per festeggiare l’anniversario dell’apertura del negozio della moglie dell’imputato, la cui ricorrenza era stata il 25/7 precedente. Verso sera, poi, Sempronio ROSSO sarebbe ripartito ancora con la luce per Bologna, per raggiungere la casa di Caio Verde. Il suocero lo avrebbe accompagnato a prendere la propria vettura. Prima di partire per il capoluogo emiliano, alle 20,50, da una cabina di San Donà di Piave, Sempronio ROSSO avrebbe telefonato all’amico Caio Verde che lo attendeva.

L’alibi è stato confermato da tre congiunti prossimi dell’imputato: il suocero, la moglie e la figlia. Essi hanno affermato di essere riusciti a ricostruire la data del pranzo in questione faticosamente, a distanza di tempo, ed avvalendosi dell’ausilio dei registri I.V.A. del negozio di L.C., perché prima non ci sarebbe stato motivo di preoccuparsi, in quanto le uniche prove a carico di Sempronio ROSSO erano costituite dalle ricognizioni personali dell’aprile 1999, giudicate favorevoli alla difesa.

L’alibi è stato presentato solo all’udienza dibattimentale del 16/5/2002: quasi quattro anni dopo i fatti. L’unico testimone indifferente invitato al pranzo di cui si parla, il vetrinista M., pur confermando di aver partecipato al pranzo e che ad esso era presente anche l’imputato, non è stato in grado d’indicare la data del festeggiamento. Ha ricordato che il pranzo si tenne d’estate, in epoca prossima all’anniversario dell’apertura del negozio, ma ha negato di essere in grado di riferire in che giorno e persino in che mese esso si sia tenuto (Cfr. le dichiarazioni del teste M. all’udienza del 20/6/2002, pag. 189).

Le parti hanno molto insistito per richiamare la memoria del teste ad un ricordo migliore, ma questi ha ribadito la propria amnesia. Il ricordo è stato un poco risvegliato solo sulla circostanza relativa al giorno della settimana per il quale M. era stato inizialmente invitato dalla C., che – secondo M. – sarebbe stato un giorno infrasettimanale e non una domenica come ricordato dalla signora. Questa divergenza tra i due testi ha suscitato un gran dibattito tra le parti, sul quale la difesa ritorna lungamente nel proprio atto d’appello. L’unico particolare sul quale M. ha espresso un ricordo preciso è che egli arrivò a casa della C. verso le 13,15 e si congedò dagli ospiti alle 15,30 circa (Ivi, pag. 192).

La difesa censura il giudizio di tardività dell’alibi espresso dai giudici di primo grado. La scelta del momento in cui proporre tale mezzo di discolpa appartiene ad un’intangibile valutazione tecnica della parte. Inoltre l’imputato e i familiari iniziarono a preoccuparsi solo dopo il marzo del 2001, quando seppero della decisione della Corte di cassazione che rigettava il ricorso contro l’ordinanza di custodia cautelare emessa dal tribunale di Bologna.

Questa corte condivide l’opinione che la decisione circa il momento in cui presentare l’alibi appartiene alle scelte tecniche insindacabili della difesa. Peraltro, non si può fare a meno di rilevare che – secondo nozioni di comune esperienza – più il tempo passa e più il ricordo svanisce: questo diventa impreciso ed aumenta il rischio di errori nella ricostruzione dei fatti. Né si può fare a meno di rilevare che Sempronio ROSSO, per sua ammissione, seppe di essere indagato per la rapina e l’omicidio di Luzzara sin dal momento del suo arresto, nel febbraio del 1999. I carabinieri che lo arrestarono glielo fecero, infatti, capire ed il magistrato che indagava si presentò da lui, per interrogarlo, il 2/3/1999 (Si veda l’esame dell’imputato del 17/6/2002, pagg. 246-247. D’altronde anche in uno dei verbali di perquisizione del febbraio 1999, eseguiti a carico di S. e poi depositati alla difesa, si faceva espressa menzione delle accuse di rapina e di omicidio del brigadiere I.).

Erano passati meno di otto mesi dal tragico episodio criminoso: certo non un periodo irrisorio, ma pur sempre di gran lunga inferiore a quei tre anni di distanza dall’evento che separarono i fatti di causa dal momento in cui si afferma essere stato ricostruito l’alibi. La memoria era di certo più fresca. L’accusa, inoltre, era delle più pesanti. L’imputato avrà anche valutato labili gl’indizi, ma è certo che c’era materia di che preoccuparsi: una lucrosa rapina a mano armata e l’omicidio di un carabiniere. Nell’aprile, poi, si svolsero delle ricognizioni personali che, per quanto abbiamo visto sopra, non furono così favorevoli alla difesa: delle quattro persone in grado d’indicare qualcuno tra i sottoposti a ricognizione, ben tre riconobbero Sempronio ROSSO. Inoltre l’imputato, ex ore suo, spiega che lui – sin dall’inizio – avrebbe voluto fare presente al magistrato la propria estraneità all’episodio criminoso (Cfr. l’esame dell’imputato cit., pag. 247); il che significa che non era rimasto del tutto indifferente alle accuse. Pertanto, se la scelta di rivelare l’alibi a distanza di tempo è terreno difensivo insindacabile, nel frattempo – per l’imputato – c’era pur sempre la possibilità di mettersi a riflettere su com’erano andati i fatti, senza lasciare trascorrere altri tre anni prima di sollecitare la memoria propria e dei familiari. Tra l’altro, Sempronio ROSSO aveva una ragione che poteva averlo colpito, tale da sollecitare il ricordo suo e dei suoi circa quanto accaduto il 28/7/1998. Egli sostiene che apprese della morte di Tizio Bianco il 29 o il 30 luglio (Ivi, pag. 248), mentre già il 29 aveva imparato dalla moglie che sul telefonino di costei erano arrivate ben tre telefonate di uno sconosciuto che lo aveva cercato; cosicché, trattandosi del numero segreto della moglie, da lui fornito solo a Tizio Bianco, egli aveva pensato che fosse stato quest’ultimo a telefonare. Morto Tizio Bianco, Sempronio ROSSO aveva certamente capito che non era stato l’amico a telefonare. La cosa non poteva non averlo colpito e fatto pensare. Alcuni mesi dopo, dunque, c’era ancora un qualche aggancio su cui ragionare per ricordare. Infine, l’imputato apprese della propria impronta digitale trovata sulla bottiglia d’alcol nel luglio del 2000 (come ricorda la difesa nell’atto d’appello). Ciò nonostante, secondo ciò che affermano lui e i suoi familiari, essi lasciarono trascorrere almeno altri otto o nove mesi prima di preoccuparsi e mettersi a pensare a un alibi. E questo, francamente, è assai difficile da credere: a nessuno quell’impronta poteva sembrare un’inezia processuale.

Sta di fatto che, a distanza di quattro anni dagli eventi, quando l’alibi è stato presentato per la prima volta, M. – l’unico estraneo alla famiglia – non è stato in grado di confermare nulla della ricostruzione difensiva. Non il giorno, non il mese del pranzo, e neppure se si trattasse del giorno di chiusura infrasettimanale del negozio (Cfr. la test. di M., cit., pag. 190).

A quest’ultimo proposito, inoltre, si osserva che il ricordo del teste di essersi recato a pranzo verso le 13,15, per rialzarsi ed andarsene alle 15,30, è pienamente compatibile con l’eventualità che il festeggiamento sia avvenuto in un normale giorno lavorativo, durante la pausa di lavoro tra la mattina e il pomeriggio. Vale, altresì, ricordare che il negozio chiuse la propria attività, per ferie, pochissimi giorni dopo il 28 luglio: ovverosia il 31. La chiusura estiva si protrasse dal 1° al 31 agosto. Cosicché uno qualsiasi dei primi giorni di questo mese aveva le caratteristiche che i testi d’alibi hanno riferito di avere ricordato prima ancora di consultare, per aiuto, il registro I.V.A. del negozio. Vale a dire, che fosse un giorno prossimo all’anniversario dell’apertura dell’attività e che fosse una giornata non lavorativa.

La difesa si lamenta delle critiche rivolte dai primi giudici all’attendibilità dei familiari di Sempronio ROSSO. In proposito, si osserva che sono proprio costoro ad ammettere di avere avuto delle serie difficoltà, a distanza di tanto tempo, a ricostruire i fatti e che lo hanno fatto giovandosi dell’aiuto del libro I.V.A. La moglie dell’imputato ha, inoltre, aggiunto che aiutati da questo registro, nonché dalla regola di opportunità secondo cui è meglio avere del tempo a disposizione per preparare un pranzo, piuttosto che non averne (Cfr. le dichiarazioni della signora alle pagg. 112, 114 e 129 dell’esame testimoniale del 6/6/2002), capirono che quest’ultima situazione si era presentata nel giorno di chiusura infrasettimanale del negozio, il quale corrispondeva, per l’appunto, al martedì della rapina. La domenica, infatti, era stata scartata per impegni vari. Il ricordo, dunque, non è stato ricostruito attraverso una memoria diretta della data o di qualcosa capitato durante il pranzo, o la giornata, che a quella data potesse ricondurre, ma sulla base di un confronto tra il giorno della rapina ed il registro del negozio, nonché di una regola di opportunità che potrebbe benissimo non essere stata rispettata. Nessuno dei testi, infatti, ha ricordato un menù particolare, mentre sia M., sia L.R., sia lo stesso imputato ricordano che si trattò, comunque, di un pranzo “veloce” (Testuale espressione usata da S.A. (v. verbale dell’udienza 6/6/2002, pag. 157)).

La ragazza, alle 15 era già fuori di casa, M. se ne andò alle 15,30 e l’imputato afferma che il pranzo terminò alle 14,30, massimo 15 (Cfr. l’esame reso il 17/6/2002, pag. 183).

Di talché il festeggiamento potrebbe essersi tranquillamente verificato anche in un giorno non di chiusura settimanale del negozio ed essere errato il ricordo contrario.

Non si tratta, tuttavia, solo di questo. Non è solo un alibi fallito. Se la prima parte della ricostruzione dei fatti eseguita da Sempronio ROSSO e dai suoi familiari fino alle 15,30 del 28/7/1998 non è confermata dall’unico teste indifferente, la seconda parte contiene dei dati obbiettivamente falsi. Ciò, nella parte in cui i familiari hanno ricostruito, questa volta esaminando a distanza di anni i tabulati delle telefonate intercorse sui telefoni fissi delle loro abitazioni (Cfr. quanto affermato da M.L. a pag. 33 dell’udienza del 6/6/2002, in cui è stato sentito), le comunicazioni avvenute tra queste ultime verso le 20,15 del 28/7/1998. Qualcuna di queste telefonate sarebbe stata fatta – secondo la prospettazione difensiva – perché L.C. doveva andare a prendere l’imputato a casa della figlia per accompagnarlo all’autovettura con la quale sarebbe ritornato a Bologna. Smontato dall’auto del suocero e subito prima di partire per Bologna, Sempronio ROSSO avrebbe telefonato a Caio Verde da una cabina pubblica di San Donà di Piave, alle ore 20,50.

Orbene, per quanto si è detto quando è stata esaminata la testimonianza di Caio Verde, la telefonata delle 20,50 da San Donà di Piave non può essere stata fatta da Sempronio ROSSO. Il contenuto della telefonata – come si è argomentato – è incompatibile con l’ipotesi difensiva. Esso, invece, dimostra che l’imputato era colui che telefonò più tardi, alle 22,54, sempre a Caio Verde, ma dalla cabina di Borgoforte. L’inconciliabilità di queste due telefonate è logica, più che cronologica, ma è processualmente certa: la prima costituisce l’alibi della seconda; esse non possono essere state fatte dalla stessa persona. In altri termini, Sempronio ROSSO non ha telefonato prima da San Donà di Piave e, poi, da Borgoforte; nessuno lo sostiene, nessun dato processuale autorizza a pensarlo. E’, perciò, evidente che nel momento in cui le telefonate attorno alle 20,15 tra i familiari di Sempronio ROSSO, sono state da costoro ricostruite per avvalorare la partenza del congiunto da un punto prossimo alla cabina telefonica di San Donà di Piave e, quindi, si legano strettamente alla telefonata che Sempronio ROSSO non può avere fatto, sono false come questa telefonata.

Se la prima parte dell’alibi, fino alle 15,30, fallisce, non essendo confermata dall’unico teste indifferente, la seconda parte è francamente falsa, essendo smentita da una testimonianza certa ed affidabile.

Le dichiarazioni di G.N.

In ordine alla deposizione della ex convivente di Tizio Bianco, la corte condivide l’opinione del a difesa appellante, ma anche del procuratore generale di udienza, secondo cui la percezione che la donna ritenne dal colloquio con Berti – che fosse Sempronio ROSSO il complice di Tizio Bianco – fu frutto di un equivoco. Leggendo con attenzione le dichiarazioni rese dalla donna e dalla figlia, si capisce che la signora G.N. cercava di ricordare chi potesse essere il Sempronio ROSSO che rammentava di aver visto, diverso tempo prima dei fatti, insieme a Tizio Bianco e che le aveva fatto un attiva impressione. B. rispose che con quel nome conosceva un tale S., in passato conosciuto anche da Tizio Bianco a causa di un periodo di detenzione trascorso nello stesso carcere. Poi, essendosi il discorso incentrato sulla tragica rapina ed essendosi, verosimilmente, insospettito per le domande della donna, B. se ne uscì con la famosa frase: “Se sapevo che era Sempronio ROSSO ci sarei andata anch’io”. A quel punto la donna, equivocando il senso frase, trovò conferma ai propri sospetti e pensò che B. sapesse per certo che a partecipare alla rapina cui Tizio Bianco fosse stato l’imputato. Che ci sia stato un equivoco, del resto, lo dimostra lo stesso tenore letterale della frase pronunciata da B., dalla quale si desume con chiarezza che il teste non sapeva chi fosse il complice di S.: “Se sapevo, ecc…”. Un “se” che presuppone l’ignoranza.

Nessun valore indiziante a carico dell’imputato può, dunque, evincersi da questa testimonianza.

La valutazione complessiva degli indizi.

Traendo le conclusioni di quanto sinora esposto, vi sono tre indizi che, ad avviso della corte, nella loro gravità, precisione e convergenza dimostrano – di per sé – la colpevolezza dell’imputato. Essi sono: la testimonianza di Caio Verde in ordine al contenuto della telefonata ricevuta da Sempronio ROSSO la sera del 28/7/1998; l’esame elle telefonate dalla cabina di Borgoforte; l’impronta digitale trovata sopra la bottiglia d’alcol rinvenuta all’interno della Punto servita per la fuga. La valenza indiziante di questi tre elementi è già stata esaminata sopra, con riferimento a ciascuno di essi. Si può, brevemente, ricordare che la testimonianza di Caio Verde dà conto di come la notte della rapina Sempronio ROSSO avesse bisogno di aiuto perché era rimasto privo di autovettura; le telefonate da Borgoforte attestano che un individuo che si trovava a pochi chilometri dal luogo della rapina e ancora meno da quello dove i rapinatori avevano abbandonato l’auto, quella stessa notte stesse cercando aiuto – data l’insistenza delle telefonate in ora notturna – da chi faceva capo ai numeri segreti del rifugio di Sempronio ROSSO e della consorte di costui; l’impronta sulla bottiglia d’alcol attesta che Sempronio ROSSO aveva toccato un oggetto presente sulla vettura dei rapinatori e funzionale alla commissione del crimine. Ognuno di questi è un indizio grave e preciso, perché Sempronio ROSSO non sa spiegare perché fosse restato senz’auto ed avesse bisogno di qualcuno che lo andasse a prendere, quella sera; perché il rapinatore fuggiasco aveva abbandonato l’auto in piena zona golenale, inseguito dai carabinieri, a pochi chilometri da Borgoforte, paese dal quale, la notte del delitto, un individuo cercò aiuto componendo i numeri delle utenze segrete di Sempronio ROSSO e della moglie; perché la bottiglia con l’impronta di Sempronio ROSSO, non appartenuta al proprietario dell’auto e molto utile nella fase immediatamente successiva alla rapina, è un oggetto strettamente attinente ai crimini consumati a Luzzara.

Tutti questi indizi conducono direttamente a Sempronio ROSSO, quanto a precisione, e la loro gravità è offerta dalla prova di resistenza che hanno dimostrato di sostenere di fronte alle ipotesi alternative prospettate dalla difesa. Non c’è alcuna alternativa, come abbiamo visto, per il contenuto della telefonata ricordato da Caio Verde: l’imputato si limita ad affermare che il teste mente. Le telefonate da Borgoforte, per essere spiegate diversamente che con la loro effettuazione da parte dell’imputato, devono fare riferimento ad un inverosimile individuo sconosciuto, amico del rapinatore morto a Luzzara, al quale sconsideratamente quest’ultimo avrebbe fornito i numeri segreti dell’imputato latitante. L’ipotesi dell’accidentalità dell’impronta di Sempronio ROSSO sulla bottiglia deve passare per una così lunga serie di coincidenze negative da rendersi assolutamente incredibile. In particolare, Sempronio ROSSO avrebbe dovuto incontrarsi con Tizio Bianco proprio il giorno dell'”acquisto” del prodotto; avrebbe, poi, dovuto avere la sfortuna che Tizio Bianco scegliesse proprio quella bottiglia d’alcol per la rapina e infine sarebbe dovuto incorrere nell’ulteriore infortunio di toccare, tra tutti i prodotti che ostruivano la BMW di Tizio Bianco, proprio uno dei soli due articoli che sarebbero finiti nella Punto dei rapinatori.

Tali indizi gravi e precisi nel ricondurre tutti a Sempronio ROSSO, convergono in un’unica direzione e dimostrano che l’imputato era il complice del rapinatore morto. Sempronio ROSSO, bisognoso d’aiuto, si trovava la notte del delitto a Borgoforte, poco distante da Luzzara e dal luogo dove i banditi avevano abbandonato un’auto con dentro una bottiglia, portata da loro per la rapina, sulla quale c’era l’impronta del dito medio della mano destra dell’imputato.

A questi indizi se ne aggiungono altri, meno gravi, ma essi pure consistenti e concordanti con quelli testé esaminati. Si può iniziare con i numerosi contatti telefonici che Sempronio ROSSO ebbe in quel periodo con Tizio Bianco, l’ultimo certo dei quali avvenuto il giorno prima della rapina. Le spiegazioni alternative all’ipotesi accusatoria offerte da Sempronio ROSSO circa questi contatti non sono convincenti, come sopra osservato. Altro indizio è costituito dall’assenza, sul luogo del rinvenimento della Fiat Punto, di tracce di pneumatici di altre vetture; elemento che, attestando l’assenza in loco di vetture d’appoggio, corrobora l’indizio costituito dalle richieste di soccorso partite, la notte del delitto, da Borgoforte. Ancora, si ricorda la presenza, tra il denaro trovato in possesso di Sempronio ROSSO al momento del suo arresto, nel febbraio del 1999, di alcune banconote in valuta estera, genere di valuta sottratto alla banca di Luzzara (Cfr. il verbale di sequestro a carico di S. in data 25/2/1999 ore 21,30 (Vol. 10, aff. 2578) e la denuncia della rapina in data 4/8/1998 della Banca A. (ivi)).

Inoltre, dall’inizio di agosto del 1998 Sempronio ROSSO dimostrò delle disponibilità finanziarie a lui in precedenza sconosciute, permettendosi una vacanza di una dozzina di giorni in alberghi, con la moglie, e di alloggiare in seguito personalmente sempre in hotel e di pranzare in ristoranti. Infine, tra gli oggetti sequestrati all’imputato al momento dell’arresto, nel febbraio del 1999, c’erano dei guanti in lattice ed una parrucca coi capelli di media lunghezza, di colore castano scuro (V. il verbale di perquisizione e sequestro eseguiti nella stanza dell’imputato presso l’albergo “xxx” a Paderno del Grappa, in data 27/2/1999 (Vol. 10, aff. 2771)): degli attrezzi simili a quelli usati a Luzzara.

Ad avviso della corte, la colpevolezza di Sempronio ROSSO emerge dall’esame degli indizi sin qui esposti in modo serio ed univoco, tale da vincere ogni ragionevole dubbio. Oltre a questi elementi, si ricorda l’esito delle ricognizioni personali. Delle quattro persone che sono risultate in grado di esprimere un giudizio di somiglianza tra il rapinatore dalla maglia chiara e le persone a loro mostrate, tre hanno indicato Sempronio ROSSO con percentuali di probabilità fino al 70-80%, una – il carabiniere C. – ha sbagliato riconoscendo un collega, ma, per quanto sopra esposto, quest’ultimo è un testimone che non ha serbato un ricordo preciso ed affidabile del rapinatore. Degli altri due testimoni, oltre C., che – secondo la difesa – avrebbero visto bene in viso il rapinatore, si da rendere decisivo il loro mancato riconoscimento dell’imputato, uno (L.) si era detto, sin da subito, non in grado di riconoscere i rapinatori, l’altro (G.) si trovò, come C., in condizioni di tale stress emotivo da indurre a dubitare fortemente della sua possibilità di compiere un riconoscimento preciso ed ha, peraltro, indicato la foto di una persona, da un lato certamente estranea al delitto (e prosciolta in istruttoria), dall’altro simile per certi versi alle sembianze di Sempronio ROSSO. E’, infine, indubbio che le ricognizioni personali – anche se nell’ambito di un genere di prova assai delicato – siano però più affidabili delle ricognizioni fotografiche, essendo nozione di comune esperienza che l’immagine dal vero di una persona è maggiormente in grado di risvegliare il ricordo di qualcuno osservato de visu, che non la semplice rappresentazione fotografica del solo volto della persona da riconoscere. Le ricognizioni personali, in definitiva, pur non costituendo indizi da soli sufficientemente gravi e precisi, non assumono il significato favorevole all’imputato voluto dalla difesa, e si dimostrano invece pienamente compatibili con gli altri indizi di colpevolezza sin qui trattati.

A fronte degli elementi esistenti a suo carico, l’imputato ha presentato un alibi in parte fallito, perché non confermato dall’unico testimone indifferente, in parte certamente falso, perché smentito dalla testimonianza certa, precisa ed attendibile di Caio Verde.

Il concorso nell’omicidio. L’aggravante del nesso consequenziale. Le attenuanti generiche.

Nel terzo motivo d’appello la difesa ricostruisce la fuga dei rapinatori e la sparatoria, deducendone che fu solo Tizio Bianco a sparare e fu, dunque, solo costui a compiere l’omicidio del brigadiere capo I. Da questa ricostruzione il quarto motivo d’appello ricava due conseguenze principali: 1) che all’imputato – in ipotesi di colpevolezza – sia applicabile l’attenuante del concorso anomalo di cui all’art. 116 c.p., non essendo stato Sempronio ROSSO a sparare ed avendo precisato, la giurisprudenza della Corte di cassazione, che l’agente non può rispondere ex art. 110 c.p. del più grave delitto di omicidio commesso dal complice in base all'”erroneo e apodittico rilievo che chi ha voluto una rapina a mano armata deve avere ragionevolmente previsto l’uccisione e il ferimento” di chi reagisca all’azione criminosa; 2) che non sia applicabile l’aggravante di cui all’art. 576, n. 1, in rif. all’art. 61, n. 2, c.p., perché trattandosi di circostanza aggravante di carattere soggettivo, essa non si estende ai correi stando al dettato dell’art. 118 c.p. Tanto più se si ritiene che ricorra la diminuente del concorso anomalo, che è incompatibile con l’aggravante del nesso teleologico o consequenziale.

La corte ritiene che la complessiva ricostruzione della dinamica dell’omicidio fatta dalla difesa sia verosimile, quando attribuisce a Tizio Bianco i colpi che uccisero il brigadiere I.; altrettanto verosimile, quando sostiene che sarebbe stato C. ad uccidere Tizio Bianco; certamente sbagliata, quando afferma che l’omicidio del militare sarebbe stato involontario.

Tra i pochi dati certi della dinamica del conflitto a fuoco, ci sono i seguenti. Il brigadiere capo I. iniziò a sparare quand’era in Via yyy, sede della banca, ancora prima di voltare per Via xxx all’inseguimento dei banditi: lo dimostra il bossolo dell’arma del militare trovato nella griglia del parabrezza di un’auto posteggiata fuori dall’istituto di credito. I rapinatori fecero fuoco contro i carabinieri con una sola arma, una cal. 7,65: infatti, a parte i bossoli ed i proiettili riferibili alle armi dei militari, le altre parti di munizioni repertate provengono tutte dalla stessa pistola cal. 7,65. Nonostante Tizio Bianco indossasse dei guanti di lattice, sulla mano destra del suo cadavere furono rinvenute delle particelle di piombo, bario e antimonio, tipiche dello sparo e, dentro la Fiat Punto, la concentrazione di tali particelle era, in prevalenza, nella parte del passeggero davanti, dove Tizio Bianco era verosimilmente seduto quando fu attinto dal proiettile che lo uccise. Infine, il colpo che uccise Tizio Bianco, trapassandone il cranio, fu immediatamente mortale ed il colpo che attinse I. alla testa cagionò, anch’esso, una morte pressoché immediata.

Su questi dati, l’ipotesi difensiva che attribuisce a Tizio Bianco la morte di I. ed a C. l’uccisione di Tizio Bianco, è verosimile. Nel senso che le particelle di piombo, bario e antimonio presenti sulla mano destra del rapinatore ucciso dimostrano che questi impugnò la pistola che assassinò il brigadiere e, con essa, fece fuoco; morto il militare, ad uccidere Tizio Bianco può essere stato il carabiniere C., nel frattempo sopraggiunto in Via xxx, con la mitraglietta.

Non è, però, meno verosimile che ad uccidere I. sia stato il complice di Tizio Bianco, cioè Sempronio ROSSO. E’ certo, infatti, che almeno uno dei colpi sparati dalla pistola del brigadiere entrò nell’abitacolo della Punto (Si veda la consulenza tecnica dei carabinieri del RIS, aff. 36 (Vol. 9). Il dato è stato ricordato anche dal consulente tecnico della difesa Soldati nell’udienza del 12/6/2002 in cui è stato sentito).

Esso fu trovato sul tappetino posteriore sinistro della vettura, sotto il sedile del guidatore. Dai fori che Tizio Bianco aveva in testa, non si può dedurre da quale arma proveniva il proiettile che l’ha ucciso. Nessuno dei colpi sparati da C. si può dire con certezza che abbia raggiunto l’auto. Dunque, proprio uno dei proiettili di I. potrebbe essere stato responsabile del decesso di Tizio Bianco. L’ipotesi è tanto verosimile, che tale l’ha giudicata anche il consulente della difesa, il quale ha osservato che proprio il proiettile della pistola di I. trovato dentro la Punto potrebbe essere il responsabile della morte del rapinatore; dopo averne trapassato il cranio, il proiettile sarebbe poi rimbalzato contro una superficie dura dell’auto e, da qui, sotto il sedile dove è stato trovato (Cfr. S., all’udienza cit., pag. 114).

A questo punto, Sempronio ROSSO, la cui posizione in quel momento non è nota, può avere impugnato l’arma di Tizio Bianco (forse perché in quel momento al lui più vicina) ed aver fatto fuoco contro il brigadiere I. uccidendolo. Poi, avviata la macchina, l’imputato sarebbe scappato, con il compagno morto al suo fianco, mentre il carabiniere C. iniziava ad esplodere i colpi di mitraglietta.

In mancanza di dati balistici più precisi, quest’ipotesi non è meno valida di quella difensiva.

Dove l’appellante certamente sbaglia è nell’affermazione che il brigadiere I. sarebbe stato ucciso involontariamente. L’appellante sostiene che, poiché non è nota la posizione rispettivamente assunta, durante il conflitto a fuoco, dai protagonisti della vicenda, non si può desumere dai punti del corpo della vittima attinti dai proiettili se l’omicida avesse la precisa intenzione di provocare la morte del militare. A tale osservazione si deve obiettare che la volontà omicida si desume dall’analisi delle seguenti circostanze. I colpi sparati dalla 7,65 dei rapinatori furono in tutto cinque (Cfr., in proposito, il verbale dei carabinieri di Reggio Emilia 29/7/1998, che dà atto dei bossoli di tale calibro repertati (aff. 92 rosso, Vol. 10), e cfr. l’elaborato dei consulenti tecnici balistici del pubblico ministero (Vol. 9)).

I due che attinsero il corpo del brigadiere furono entrambi mortali: il primo colpì il capo, provocando una lesione “certamente e rapidamente mortale”; il secondo l’addome, cagionando la “lesione di un importante vaso venoso (la vena renale sinistra, n.d.e.) e quindi una profusa emorragia interna” (Cfr. la consulenza tecnica medico legale della Dr.ssa F., pag. 42).

Il militare fu inoltre “del tutto verosimilmente” attinto da un terzo proiettile che “nel suo passaggio ha determinato un tramite a semicanale al labbro superiore” (Ibidem, pag. 40; v. anche la deposizione della stessa F., all’udienza del 31/5/2002, pagg. 4-5): un terzo colpo in zone vitali, dunque. Si consideri, poi, che il brigadiere I. si trovava in una situazione di uso legittimo delle armi davanti a dei rapinatori che stavano per sfuggirgli definitivamente con il denaro della banca e con la pistola sottratta al collega carabiniere. E’, perciò, altamente probabile che – vedendo i rapinatori salire sulla Punto – I. abbia sparato per colpire i malviventi e non semplicemente per intimorirli (assai difficilmente, in quest’ultimo caso, un suo proiettile sarebbe finito, come finì, dentro l’abitacolo dell’auto dei rapinatori).

Essendo questi i dati circostanziali noti, anche se è vero che non conosciamo le esatte posizioni dei rapinatori da una parte e di I. dall’altra, è però chiaro che i due colpi, su cinque, andati a segno in zone vitali ed un terzo che, colpendo un labbro, è anch’esso indice di una direzione verso la testa della vittima, non consentono dubbi circa la volontà omicida di chi li esplose. Tre colpi su cinque in zone vitali, non possono costituire una percentuale dovuta al caso. I rapinatori, inoltre, non volevano desistere dall’azione con la resa – come dimostra la loro fuga incurante delle intimazioni e degli spari del brigadiere

perciò avevano un’unica alternativa: quella di far fuoco per fermare l’azione del militare che, autorizzato dalla legge, stava sparando contro di loro. La volontà omicida è, infine, ribadita dalla micidialità dell’arma cal. 7,65 utilizzata e dal fatto che i malviventi erano stati immediatamente inseguiti da I., cosicché il militare era certamente dietro di loro di poche decine di metri. D’altronde, un semplice ferimento del brigadiere non sarebbe bastato ed, anzi, sarebbe stato pericolosissimo per i rapinatori, potendo il militare – in una simile eventualità – continuare il tiro contro i banditi.

Poiché – come si è visto – l’ipotesi difensiva che ad uccidere il brigadiere I. sia stato Tizio Bianco e non Sempronio ROSSO è verosimile né più né meno di quella contraria, la corte deve affrontare espressamente il tema dell’attenuante del concorso anomalo di cui all’articolo 116 c.p. La norma prevede un’attenuazione di pena per chi ha voluto un reato ma, per iniziativa di un concorrente, si trova coinvolto in un reato diverso e più grave. La Corte costituzionale, con una nota sentenza del 1965, ha precisato che, per essere chiamato a rispondere del più grave reato commesso dal concorrente, non basta il semplice nesso di causalità materiale, essendo richiesta, da una lettura costituzionalmente orientata della norma, anche la presenza del necessario nesso psicologico. Tale nesso consiste nel fatto che l’evento diverso e più grave di quello voluto, commesso dal complice, deve pur sempre “rappresentarsi nella psiche dell’agente, nell’ordinario svolgersi e concatenarsi dei fatti umani, come uno sviluppo logicamente prevedibile”. A seguito di tale sentenza, la giurisprudenza della Corte di cassazione pare concorde nell’individuare il punto di discrimine tra concorso nel reato ex art. 110 c.p. e concorso anomalo ex art. 116 c.p., nella differenza che passa tra previsione dell’evento con accettazione del rischio che questo si verifichi, da un lato, e prevedibilità in concreto dell’evento, senza accettazione del rischio, dall’altro (Cfr. Cass., Sez. 1, Sentenza n. 5188 del 25/05/1996 (Ud. 14/03/1996 n.00310 ) Rv. 204665, Imputato: C. ed altri: “In tema di concorso di persone nel reato, la responsabilità del compartecipe ai sensi dell’art. 116 cod. pen. (concorso “anomalo”) richiede, anzitutto, l’adesione di tutti ad un reato concorsualmente voluto ad un evento diverso che costituisce un altro reato, voluto e cagionato da uno, soltanto, dei concorrenti nel reato voluto da tutti; richiede, poi, un rapporto di causalità materiale tra i due reati ed, infine, un nesso di causalità psichica tra la condotta dei compartecipi che hanno voluto solo il reato concordato e l’evento diverso voluto e cagionato da altro concorrente, nel senso che il reato diverso deve potersi rappresentare, nei suoi elementi essenziali, alla psiche del concorrente come sviluppo logicamente prevedibile del reato concordato e voluto. Ne consegue che qualora l’evento diverso materialmente cagionato da uno dei concorrenti, non sia rimasto nella sola prevedibilità, ma sia stato non solo previsto concretamente, ma anche accettato come rischio pur di realizzare l’obiettivo concordato da tutti, si versa non nell’ipotesi del concorso anomalo, bensì in quella del concorso pieno. (Nella specie la Suprema Corte ha ritenuto correttamente configurato il concorso ordinario, e non quello anomalo, anche per i reati di omicidio e tentato omicidio commessi in occasione di una rapina a mano armata)”. Nello stesso senso, Cass., Sez. 1, Sentenza n. 10795 del 22/09/1999 (Ud. 25/06/1999 n.00679) Rv. 214113, Imp. G. e altri; Cass., Sez. I, 10 aprite 1996, Angeloni, m.204639; Cass., Sez. I, 20 dicembre 1996, S., m. 207474.

Più di recente, Cass., Sez. 1, Sentenza n. 30262 del 18/07/2003 (Ud. 16/05/2003 n.00567 ) Rv. 225850, Imp. P., ha affermato che: “In tema di concorso di persone nel reato, tutte le volte che il soggetto non soltanto si rappresenta l’evento, ma lo vuole, sia sotto il profilo del dolo diretto che del dolo indiretto (in tutte le sue accezioni), non ricorre l’ipotesi di cui all’art. 116 cod. pen., ma quella del concorso di cui all’art. 110 cod. pen., essendo presenti entrambi gli elementi che caratterizzano il concorso di persone nel reato e cioè il nesso causale e la volontà di commettere il reato”).

Se questo è il quadro normativo al quale fare riferimento per comprendere, nello specifico, quale tipo di concorso nel reato attribuire a Sempronio ROSSO, in linea di fatto si ricorda quanto segue.

Le modalità della rapina dimostrano che il delitto era stato preparato fin nei minimi dettagli. I due malviventi entrarono in banca prima dell’orario di apertura pomeridiana dall’entrata destinata ai dipendenti della banca, approfittando dell’ingresso del teste R. A sfruttare l’occasione di questa entrata, fu proprio il rapinatore con la maglia chiara, ormai identificato con Sempronio ROSSO, che spinse R. all’interno dell’istituto con un gesto autorevole e deciso. Entrambi i rapinatori erano travisati, Sempronio ROSSO con una parrucca, Tizio Bianco con degli occhiali scuri ed un berretto calato sugli occhi. Entrambi calzavano guanti in lattice ed erano dotati di armi vere; di talché era stata certamente studiata l’assenza di metal detector in corrispondenza della porta da cui i due entrarono. All’interno della banca i correi si divisero i ruoli con precisione e mentre Tizio Bianco teneva a bada i presenti, Sempronio ROSSO attese il cassiere, gli fece aprire la cassaforte e si dedicò alla sottrazione del denaro. Finito questo, entrambi i malviventi spinsero tutti i presenti in bagno dove li rinchiusero, senza mancare di sfilare ad uno dei sequestrati un orologio. Appena si avvidero della presenza dei carabinieri, i due delinquenti tornarono indietro e con autorità presero con loro due ostaggi. Usciti dalla banca e trovatisi di fronte i carabinieri, non si lasciarono intimorire dall’ordine di deporre le armi; al contrario, Sempronio ROSSO puntò la pistola in faccia al carabiniere C. e quindi al collo dell’ostaggio, intimando al militare di abbandonare l’arma, altrimenti avrebbe ammazzato chi gli faceva da scudo. Agendo, poi, sempre all’unisono, i due rapinatori recuperarono da terra la pistola di C. e quindi si diedero alla fuga. A questo punto il brigadiere I. iniziò a sparare, ma i malviventi continuarono a scappare, anche quando – arrivato anche lui in Via xxx – il militare esplose dei colpi di arma da fuoco verso i fuggitivi. Dei cinque colpi sparati da questi ultimi contro il brigadiere I., ben due centrarono il bersaglio e un terzo lo lambì.

Si osserva, ancora, che se il certificato penale di Tizio Bianco non denota una specifica propensione di costui per le rapine (bensì per i furti), quello di Sempronio ROSSO costituisce un pedigree di razza. Né si dimentichi che lo stesso imputato, come da lui pacificamente ammesso, in un altro procedimento penale ha confessato decine di rapine. Per lo studio di quella di Luzzara, Sempronio ROSSO e Tizio Bianco si erano incontrati e messi in contatto numerose volte. Vanno ricordate le telefonate del 15/7, del 25/7 e del 27/7, giorno precedente il delitto. Il 18/7, poi, i due si incontrarono personalmente, come confermato dallo stesso Sempronio ROSSO.

Giustamente i giudici di primo grado osservano che la caserma dei carabinieri di Luzzara non è distante dalla banca rapinata, cosicché era facilmente prevedibile, date anche le piccole dimensioni del centro urbano, che qualcuno presente in banca, o magari dall’esterno – come in effetti accadde – notasse quanto stava capitando ed allertasse le forze dell’ordine e che queste intervenissero sul posto in breve tempo. La concreta previsione di questa eventualità da parte dei banditi e la loro accettazione del rischio dello scontro a fuoco con i militari è dimostrata dalla prontezza con la quale – come già visto – i malviventi ritornarono sui propri passi e prelevarono due ostaggi, nonché dalla sicurezza e decisione con la quale essi affrontarono i carabinieri fuori dalla banca, riuscendo a disarmarne uno, senza farsi impressionare dalle intimazioni di resa. Fu proprio Sempronio ROSSO a dimostrarsi il più deciso (Così come ricordano, in genere, i testimoni a proposito del rapinatore con la maglia chiara); fu lui ad affrontare C. intimidendolo fino a fargli deporre l’arma d’ordinanza per poi sottrargliela. Né si può fare a meno di ricordare che l’imputato ha un precedente del 1979 per resistenza e tentato omicidio in danno di un pubblico ufficiale, compiuto proprio mentre stava uscendo da una banca che aveva appena rapinato (Si tratta della sentenza di condanna della corte d’assise d’appello di Bologna in data 24/4/1985, irrevocabile il 3/10/1988 (v. il certificato del casellario giudiziale)): quella del conflitto a fuoco era, dunque, una modalità della rapina a lui ben nota e certamente valutata. Fu ancora l’imputato a scappare con i soldi, seguito da Tizio Bianco, mentre il brigadiere I. esplodeva colpi di pistola al loro indirizzo. Fu Sempronio ROSSO a scappare con grande abilità e freddezza con un’auto dai vetri infranti, il complice morto alla sua destra, e i colpi di mitraglietta che lo inseguivano.

L’accurato studio della rapina, la presenza della caserma dei carabinieri a poca distanza dall’obiettivo prescelto, la sicurezza e la perfetta sincronia dimostrata dai due rapinatori all’interno ed all’esterno della banca, la prontezza con la quale prelevarono gli ostaggi non appena videro i carabinieri, l’abilità e la freddezza con la quale disarmarono C. e quindi si diedero alla fuga nonostante i colpi che venivano esplosi contro di loro, la micidialità delle armi che avevano con sé e la destrezza con la quale ne usarono una ammazzando con pochi colpi I., la stessa pregressa esperienza di Sempronio ROSSO, sono tutti elementi che danno conto di come i due banditi avessero preventivamente previsto e concordato ogni modalità della rapina, mettendo in conto anche il conflitto a fuoco con i carabinieri e decidendo di non desistere dalla loro azione, di difenderne il risultato e di garantire la propria impunità, anche a costo di sopprimere, nel conflitto, la vita dei militari.

Essendo questa la comune volontà dei banditi, anche quello dei due che non sparò materialmente, condivise pienamente ed accettò il rischio dell’uccisione del brigadiere I. Non c’è spazio per l’attenuante dell’art. 116 c.p.; la complicità è piena, ai sensi dell’art. 110 c.p.

L’aggravante prevista dall’art. 576, n. 1, c.p., relativa al nesso consequenziale – vale a dire all’avere agito al fine di conseguire l’impunità per i delitti di rapina e di sequestro di persona -, si applica all’imputato anche nell’ipotesi che non sia stato lui a sparare materialmente al brigadiere I. E’ vero che l’art. 118 c.p., come novellato dalla legge 7/2/1990, n. 19, prevede che certe circostanze aggravanti soggettive, come quelle attinenti ai motivi a delinquere – ed è questo il caso di specie -, “sono valutate soltanto riguardo alla persona cui si riferiscono”. Tuttavia, quest’ultima dizione non esclude dal novero di coloro cui l’aggravante va applicata, i complici dell’esecutore materiale che abbiano preventivamente voluto, accettato e concordato la progressione criminosa: vale a dire coloro che, nell’ottica di difendere la propria impunità dal delitto-scopo, hanno condiviso ed accettato l’eventualità di compierne un altro. Anche a questi compartecipi morali la norma va applicata: anche ad essi, infatti, in forza della condivisione dell’unitario progetto criminoso, deve intendersi “riferita” la circostanza aggravante del nesso consequenziale (Cfr. in tal senso, in materia di nesso teleologico, Cass., sez. 1, sent. 10795, del 22/9/1999, Imp. G. e altri, che ha considerato “indubbia” la “legittimità della estensione della aggravante in questione anche nei confronti (dei partecipi che, n.d.e.) materialmente non agirono, ma che, al pari degli altri, dovettero antivedere e volere quanto si sarebbe con molta probabilità verificato” (in un passo della sentenza non massimato). Nello stesso senso, peraltro, si pronuncia implicitamente la sentenza della Cass., sez. 1, n. 12584 del 21/10/1994, Imp. R., RV. 200071, laddove afferma che: “l’aggravante del nesso teleologico ex art. 576 n. 1, cod. proc. pen. (…) per essere estesa ai concorrenti, è necessario che costoro abbiano voluto la finalità conseguita dall’agente materiale ed abbiano con cosciente volontà a tal uopo delegato l’esecutore del reato”. Né si può pensare che, ai fini dell’estensione dell’aggravante, possa farsi differenza tra nesso teleologico e nesso consequenziale, entrambi attenendo ai motivi a delinquere).

Nel caso di specie, come sopra osservato, si è verificato proprio questo: entrambi gli esecutori della rapina preventivarono e misero in conto l’eventualità che per assicurarsi, oltre al bottino, l’impunità per la rapina, si dovessero fronteggiare i carabinieri, anche attentando alla loro incolumità. Anche al correo che non sparò va, pertanto, riferita l’aggravante contestata.

E’ stato anche osservato, per confermare l’estensione dell’aggravante di cui all’art. 576, n. 1, c.p., ai correi consapevoli, che analoga estensione – anche dopo la novella dell’art. 118 c.p. – viene fatta per l’aggravante della premeditazione. Pur non concernendo, quest’ultima circostanza, i motivi a delinquere, bensì riguardando l’intensità del dolo, essa condivide con la circostanza qui in esame il regime della comunicabilità ai complici (Cfr. sempre la sentenza G. e altri, citata alle note precedenti).

Anche la premeditazione si estende al coimputato, se da lui conosciuta prima del contributo fornito al reato e se da lui condivisa (Cfr. Cass., sez. 1, sent. 06182 del 25/06/1997 (UD. 28/04/1997), RV. 207997, Imp. M. ed altri, secondo cui: “In tema di valutazione delle circostanze nell’ipotesi di concorso di persone nel reato – anche dopo la modifica dell’art. 118 cod. pen., introdotta con la legge 7 febbraio 1990 n. 19 – deve ritenersi che, pur se non è sufficiente, perché l’aggravante della premeditazione possa comunicarsi al concorrente nel reato, la mera conoscibilità da parte di costui, la conoscenza effettiva legittimi l’estensione dell’aggravante stessa: ed invero, se il concorrente, pur non avendo direttamente premeditato l’omicidio, tuttavia ad esso partecipa nella piena consapevolezza, maturata prima dell’esaurirsi del proprio volontario apporto alla realizzazione dell’evento criminoso, dell’altrui premeditazione, la sua volontà adesiva al progetto investe e fa propria la particolare intensità dell’altrui dolo, talché la relativa aggravante non può non essere riferita anche a lui”. Nello stesso senso, Cass., sez. 5, sent. 08346 del 13/09/1997 (UD. 26/06/1997), RV. 208704, Imp. M. ed altri).

Nel quarto motivo di appello si legge l’affermazione che dal caso di colui che uccide per procurarsi l’impunità rispetto ad un precedente reato, divergerebbe il caso di chi “uccide per paura di essere sopraffatto dalla violenta reazione dell’inseguitore ovvero di colui che uccide per difendersi” (Cfr. l’atto d’appello, pag. 123); ipotesi – queste ultime due – che sarebbero applicabili al caso di specie. La corte ritiene che tali affermazioni non siano adeguate alla fattispecie concreta. Si evoca una situazione che richiama o si sovrappone alla legittima difesa, in un palese caso di rapina a mano armata, nel quale gli agenti – con la propria condotta – hanno dato causa all’uso legittimo delle armi da parte di due pubblici ufficiali. Di talché non si vede dove andrebbe individuato il requisito della necessità della asserita reazione di difesa dei rapinatori. A questi sarebbe bastato un semplice gesto di resa e tutto sarebbe finito lì. Se, poi, l’appellante, con le espressioni riportate sopra tra virgolette, vuole semplicemente affermare che il fine di difendersi è diverso dal fine di uccidere, sbaglia palesemente. In certe situazioni, come quella in esame, il fine di difendersi coincide con il fine – o con l’alternativa accettata – di uccidere. Ciò che cambia la qualità della reazione è semplicemente la legittimità o l’illiceità della stessa, secondo lo schema del vim vi repellere licet. Tanto meno si può affermare, in casi come questo, che il fine di difendersi (anche uccidendo), si distingua da quello di procurarsi l’impunità per il precedente delitto commesso: nella specie la rapina. I due fini, infatti, finiscono per sovrapporsi (Si veda, in proposito, la giurisprudenza secondo la quale: “Non è possibile distinguere, nell’ambito dell’azione di chi spara per vincere la reazione della vittima di una rapina, il momento psicologico dell’autotutela fisica da quello dell’autotutela dalle possibili conseguenze giuridiche dell’azione, in termini di impunità e di realizzazione del profitto, essendo i due momenti indissolubilmente legati tra loro da un rapporto di continenza. Ne consegue che, in una situazione siffatta, l’aggravante del nesso teleologico non è eliminabile sul solo rilievo del fine perseguito dall’agente di proteggere se stesso ed i propri complici dagli effetti della reazione della vittima”. Così, Cass., Sez. 1, sent. 07397 del 19/05/1989 (UD. 13/02/1989), RV. 181365, Imp. M.).

Infine, la corte ammette di non essere riuscita a comprendere l’argomento difensivo secondo cui “il fine di garantirsi l’impunità è assai diverso dal fine di sottrarsi all’arresto”. Aggiunge la difesa che “sottrarsi all’arresto significa cercare di sfuggire nell’immediatezza alle conseguenze del proprio agire, ma non certo all’instaurazione di un processo penale a proprio carico” (V. l’atto d’appello, pag. 124).

Osserva il collegio che l’arresto in flagranza normalmente prelude all’instaurazione di un procedimento penale ed alla punizione del colpevole, cosicché non si riesce a percepire la sottigliezza della distinzione operata dall’appellante. D’altronde, in giurisprudenza non pare in discussione il principio per cui “”il fine di procurarsi l’impunità” comprende non soltanto quello di evitare il riconoscimento ma anche il fine di sottrarsi a tutte le conseguenze penali e processuali del reato commesso, incluse la denuncia e l’arresto” (Così, Cass., Sez. 6, sent. 02410 del 21/07/1999 (CC. 25/06/1999), RV. 214926, Imp. PG in proc. C. Conf. 199103721 186764. Sentenze, queste, pronunciate in tema di rapina impropria, dove peraltro il concetto d’impunità non diverge da quello previsto dall’art. 61, n. 2, c.p. Con espresso riferimento a tale ultima norma, invece, Cass., sez. 1, sent. 05004 del 16/04/1977 (UD. 29/11/1976), RV. 136962, si è pronunciata nel senso, non divergente, per cui: “Il concetto d’impunita, cui fa riferimento l’art 61 n. 2 cod. pen. (nonché gli artt. 628 e 629 stesso codice) deve intendersi nel significato più ampio, comprendente anche le premesse processuali della condanna e cioè il procedimento penale cui è collegato il pericolo della restrizione della libertà personale”.

La terza e minore conseguenza che l’appellante, nel suo quarto motivo d’appello, trae dalla ricostruzione della dinamica del delitto, è la richiesta di concessione delle circostanze attenuanti generiche, da valutarsi con giudizio di prevalenza sulle aggravanti contestate (art. 61, n. 2, 6 e 10, c.p.). A tale concessione dovrebbero indurre la dinamica della rapina, il fatto che ad uccidere I. sia stato Tizio Bianco e non Sempronio ROSSO ed, infine, la complessiva dinamica del conflitto a fuoco.

La richiesta non merita accoglimento. La dinamica della rapina e quella del conflitto a fuoco, sopra esaminate ampiamente, danno conto dell’estrema professionalità di entrambi i rapinatori. Fu, poi, Sempronio ROSSO, tra i due, a svolgere il ruolo principale e a dimostrare una maggiore determinazione. Fu sempre lui a fronteggiare direttamente i carabinieri, fuori dalla banca. Fu lui ad intimidirli ed a sfidarli, arrivando a disarmarne uno. Se, poi, Sempronio ROSSO non uccise personalmente I. – circostanza non certa -, ciò non toglie che egli preventivò e concordò con il complice di sparare contro chi avesse ostacolato la loro azione mettendo in pericolo la buona riuscita del colpo e la loro impunità. La sua responsabilità è, dunque, piena ed altrettanto grave di quella di chi eseguì materialmente l’omicidio del brigadiere.

A ciò si aggiungono i pessimi e specifici precedenti penali dell’imputato ed il suo stato di latitanza, quando commise i fatti. Oltre a quella ricordata più sopra, Sempronio ROSSO annovera anche un’altra condanna per tentato omicidio, sempre in danno di un pubblico ufficiale, per un fatto risalente al 1991 (Si tratta della sentenza della Corte d’appello di Trieste in data 9/3/1998, irrevocabile il 4/1/1999).

Non si ravvisano, perciò, elementi capaci di meritare all’imputato le circostanze attenuanti generiche.

I capi da I ad O.

Con il sesto motivo d’appello, la difesa muove censure in ordine alla declaratoria di responsabilità ed al trattamento sanzionatorio riservato a Sempronio ROSSO per i delitti emersi a suo carico al momento dell’arresto, in data 25/2/1999. In tale frangente, l’imputato fu trovato in possesso di un’auto e di documenti rubati, dei quali si accertò la falsificazione e l’esibizione ad alcuni albergatori per trovare alloggio, nonché alla polizia giudiziaria per giustificare le proprie generalità.

In fatto, la corte osserva che non trova corrispondenza negli atti processuali l’affermazione dell’appellante secondo cui, all’atto dell’arresto, Sempronio ROSSO si sarebbe costituito non appena fermato al posto di blocco istituito dai carabinieri all’uscita del casello autostradale di Parma. Al contrario, risulta dal verbale di perquisizione e sequestro eseguito contestualmente all’arresto ed acquisito agli atti, che l’imputato – fermato per un controllo della sua persona – “esibiva documenti di riconoscimento intestati a tale C.G., nato a Vicenza, ivi res.”. Solo dopo l’accompagnamento dell’imputato in caserma, se ne accertarono le vere generalità (Cfr. il verbale di perquisizione personale e veicolare in data 25/2/1998, Vol. 10, aff. 2578).

Non c’è motivo di revocare in dubbio la precisa affermazione dei verbalizzanti.

Essendo questo il fatto, in diritto si osserva che l’esibizione ad un pubblico ufficiale di un documento falsificato, da parte di chi sia stato richiesto delle proprie generalità, costituisce condotta che integra il delitto di false dichiarazioni sulla propria identità ex art. 496 c.p. (Cfr. in tal senso, Cass., sez. 5, sent. 04576 del 10/04/1976 (UD. 16/12/1975), RV. 133211, Imp. M.: “Le “mendaci dichiarazioni” di cui all’art. 496 cod. pen. comprendono non solo le dichiarazioni rese mediante pronuncia di parole o frasi, ma anche qualsiasi atto che comporti e configuri in se una risposta al pubblico ufficiale, quale la esibizione di un documento d’identità”).

Per giurisprudenza consolidata, poi, il delitto previsto da quest’ultima norma concorre con il falso in autorizzazione amministrativa di cui agli artt. 477 e 482 c.p., contestato all’imputato in relazione ai documenti d’identità esibiti (Si trattava della carta d’identità e della patente di cui ai capi I) ed L)).

Le due condotte materiali, infatti, sono diverse e sono state commesse in tempi diversi, così come sono diversi i beni giuridici offesi dai comportamenti incriminati (Cfr. in tal senso, Cass., sez. 5, sent. 07934 del 06/10/1983 (UD. 04/07/1983), RV. 160451, Imp. R.: “Risponde del reato previsto dall’art. 496 cod. pen. nonché di falsità materiale in certificazione amministrativa colui che, dopo avere alterato o contraffatto una patente di guida, la esibisca ad un pubblico ufficiale, al quale declini false generalità. In tal caso si realizza un’ipotesi di concorso di reato, perché commessi in tempi diversi, sia pure con la stessa finalità; ma con diverse violazioni di norme giuridiche, delle quali una protegge la pubblica fede documentale e l’altra la pubblica fede personale”. Nello stesso senso, Cass., sez. 6, sent. 12942 del 19/11/1986 (UD. 05/06/1986), RV. 174327, Imp. B.; Cass., Sez. 2, sent. 13447 del 12/10/1989 (UD. 27/04/1989), RV. 182234, Imp. C. Conf. mass. n. 099285; Conf. mass. n. 103325)).

Pertanto, non si può parlare di post factum non punibile in relazione alla esibizione dei documenti falsi ai carabinieri, come vorrebbe la difesa.

Ugualmente, non costituisce post factum non punibile, rispetto alla contraffazione dei documenti ricettati, il delitto di sostituzione di persona, contestato al capo M), per avere l’imputato indotto in errore sulla propria identità due albergatori, grazie all’esibizione dei documenti falsi, al fine di trovare alloggio presso di loro. Anche in questo caso, giurisprudenza costante insegna che l’assorbimento del delitto di cui all’art. 494 c.p. in quello di cui agli artt. 477 e 482 si verifica solo se i due reati sono consumati con un’unica contestuale condotta (Cass., Sez. 5, sent. 04981 del 27/04/1998 (UD.27/01/1998), RV. 210600, Imp. L.: “Il delitto di sostituzione di persona (art. 494 cod. pen.) è sussidiario rispetto ad ogni altro reato contro la fede pubblica, come si evince dall’inciso “se il fatto non costituisce altro delitto contro la fede pubblica” contenuto nella norma incriminatrice; esso, tuttavia, in tanto può ritenersi assorbito in altra figura criminosa in quanto ci si trovi in presenza di un fatto unico, riconducibile contemporaneamente sia alla previsione dell’art. 494 cod. pen. sia a quella di altra norma posta a tutela della fede pubblica; viceversa, quando ci si trovi in presenza di una pluralità di fatti e quindi di azioni diverse e separate, si ha concorso materiale di reati. (In applicazione di tale principio la Corte ha ritenuto la sussistenza in concorso dei delitti di falso materiale e sostituzione di persona nella condotta di un soggetto che, contraffatto un documento di identità, se ne era servito per trarre i terzi in errore sulla sua identità)”.

Nello stesso senso, proprio in materia di esibizione di un documento falso ad un albergatore, Cass., sez. 5, sent. 12246 del 21/11/1980 (UD.29/10/1980), RV. 146730, Imp. B., secondo cui: “Perché si applichi la deroga al concorso di reati di cui all’art. 494 cosiddetto pen., occorre che si tratti di unico fatto che violi, oltre la disposizione dello stesso art. 494, altra disposizione di legge, dettata a tutela della pubblica fede. (Nella specie l’imputato, oltre ad ingannare l’obbligatore (rectius: albergatore, n.d.e.) attribuendo a se stesso un falso nome, concorse anche nella falsificazione del documento d’identità. In applicazione del principio di cui sopra, la Cassazione ha escluso la deroga osservando che non vi era unicità di fatti, intesa come unicità di azione o di omissione, ma che si trattava di azioni diverse e distinte)”. Conf. 7601894 132279; Conf. 7712655 137048).

Il che nella specie non è avvenuto, essendo certo che Sempronio ROSSO era già in possesso dei documenti contraffatti prima del ferragosto 1998, mentre le condotte di sostituzione di persona sono avvenute dopo.

In ordine all’ultima censura difensiva, relativa alla mancata concessione dell’attenuante del fatto di particolare tenuità con riferimento alla ricettazione dei documenti d’identità (art. 648, comma 2, c.p.), si osserva quanto segue. Nella valutazione dell’ipotesi lieve del delitto contestato, per concorde insegnamento della Corte di cassazione, devono essere tenute presenti tutte le componenti oggettive e soggettive del commesso reato, secondo i criteri dettati dall’art. 133 c.p. Cosicché, se anche il valore del bene ricettato è di per sé modesto, questo non basta per ritenere integrata l’ipotesi di cui si discute. Il giudice deve vagliare il fatto nel suo complesso, comprese le note soggettive del reato, tra cui la personalità dell’agente (Cfr., tra le tante, Cass., Sez. 2, sent. 05813 del 26/01/2000 (CC. 29/11/1999), RV. 216520, Imp. PM in proc. P., secondo la quale: “In tema di ricettazione, al fine di stabilire la sussistenza dell’ipotesi di particolare tenuità di cui al capoverso dell’art. 648 cod. pen., non è sufficiente di per sé l’irrilevanza o la scarsa rilevanza economica della cosa oggetto di ricettazione, ma occorre avere riguardo al fatto nella sua globalità storico-giuridica apprezzandone l’incidenza antigiuridica sulla base di tutti gli elementi che, a parte il valore economico dell’oggetto ricettato, entrano nella componente dell’azione delittuosa, ivi compresa la personalità dell’agente. (In applicazione del principio di cui in massima la S.C. ha annullato l’ordinanza del G.I.P. che aveva rigettato la richiesta di applicazione della misura cautelare ritenendo che il possesso di un passaporto di provenienza delittuosa configurasse l’ipotesi di particolare tenuità prevista dall’art. 648 cpv)”. Conf. 199110944 188488; Conf. 199103731 186765; Conf. 198900590 180207.

Nello stesso senso, ancora, Cass., Sez. 2, sent. 11113 del 21/12/1996, RV. 206502, Imp. W., che afferma: “In tema di ricettazione, perché possa trovare applicazione l’ipotesi prevista dal capoverso dell’art. 648 cod. pen., è necessario che la cosa ricettata sia di valore economico particolarmente tenue, restando comunque impregiudicata la facoltà del giudice, pur in presenza di un valore modesto, di escludere il “fatto di particolare tenuità” prendendo in esame gli ulteriori elementi di valutazione della vicenda, ed in particolare ogni altra circostanza idonea a delineare la gravità del reato e la capacità a delinquere del colpevole; tale ulteriore operazione, tuttavia, deve essere compiuta secondo i criteri di cui all’art. 133 cod. proc. pen. e con riferimento al comportamento concreto dell’agente, con esclusione di qualsiasi valutazione inerente alla gravità in astratto del reato, la quale compete al legislatore ai fini della previsione delle relative sanzioni (…)”).

Essendo questi i criteri di valutazione da applicare al caso concreto, osserva la corte che la ricettazione dei documenti in esame fu compiuta da Sempronio ROSSO per protrarre la propria latitanza iniziata con l’evasione dagli arresti domiciliari dell’aprile del 1998 ed, altresì, per sfuggire alle indagini della polizia giudiziaria in ordine alla vicenda che ci occupa e che è bene rappresentata dall’elenco di gravissimi reati che precedono, nella rubrica, il capo relativo alla ricettazione. I precedenti penali dell’imputato sono pessimi, come sopra parzialmente ricordato e come emerge dalla lettura del certificato del casellario giudiziale. Le finalità per le quali la ricettazione fu compiuta e la personalità dell’imputato impediscono pertanto, nel caso di specie, nonostante lo scarso valore economico dei moduli di documenti ricettati, di considerare il caso di particolare tenuità.

Per i motivi esposti, la sentenza della corte di assise di Reggio Emilia merita conferma, con conseguente condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali del grado (art. 592 c.p.p.).

Per la complessità della motivazione, dovuta alla gravità ed al numero delle imputazioni, si indica per il deposito – a mente dell’art. 544, comma 3, c.p.p. – il termine di novanta giorni.

P.Q.M.

Visti gli artt. 592 e 605 c.p.p., conferma la sentenza della Corte di Assise di Reggio Emilia in data 24 ottobre 2002 appellata dall’imputato Sempronio ROSSO, che condanna al pagamento delle ulteriori spese di questo grado del giudizio.

Visto l’art. 544 CPP, indica in giorni novanta il termine per il deposito della motivazione.

Così deciso in Bologna il 7 maggio 2004.

Depositata in Cancelleria il 20 settembre 2004.

Originally posted 2021-08-08 16:31:09.