PENALE MILITARE DIFFAMAZIONE
Il militare, che commette alcuno dei delitti contro la personalità dello Stato preveduti dagli articoli 241 , 276 , 277 , 283 , 285 , 288 , 289 e 290-bis del codice penale 1 , modificati dal D.Lgs.Lgt. 14 settembre 1944, n. 288 , e dalla L. 11 novembre 1947, numero 1317 , è punito a norma delle corrispondenti disposizioni dello stesso codice, aumentata di un terzo la pena della reclusione. … E’ punito con l’ergastolo il militare che commette alcuno dei delitti preveduti dagli articoli 242 e 284 del codice penale per il solo fatto di essere insorto in armi, o di aver portato le armi contro lo Stato, ovvero di aver partecipato ad una insurrezione armata [c.p.m.p. 75, 100, 102] 2 . …
Art. 227 Codice Penale Militare Pace – Diffamazione.
Il militare, che, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende la reputazione di altro militare, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con la reclusione militare fino a sei mesi.
Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, o è recata per mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione militare da sei mesi a tre anni.
Se l’offesa è recata a un corpo militare, ovvero a un ente amministrativo o giudiziario militare, le pene sono aumentate (1).
(1) La Corte costituzionale, con sentenza 19-29 ottobre 2009, n. 273 (Gazz. Uff. 4 novembre 2009, n. 44 – Prima serie speciale), ha dichiarato: a) l’illegittimità del presente articolo nella parte in cui non prevede l’applicabilità anche al delitto di diffamazione militare dell’art. 596, terzo comma, numero 1), e quarto comma, del codice penale; b) ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità del presente articolo nella parte in cui non prevede l’applicabilità anche al delitto di diffamazione militare dell’art. 596, terzo comma, numero 2), e quarto comma, del codice penale.
la missiva censurata era indirizzata al generale C., che, non poteva esimersi dal trasmetterla personalmente per le vie burocratiche analogamente a quanto si verificava nel caso in esame – ovvero dal farla trasmettere da un suo sottoposto, al quale avrebbe dovuto, a sua volta, indirizzarla. Ne consegue che la prospettazione difensiva trova il limite applicativo dei doveri d’ufficio della persona offesa, dal rispetto dei quali non poteva esimersi, trasmettendo la missiva diffamatoria che gli era stata inviata dall’appuntato M..
Non è, pertanto, possibile ipotizzare che il generale C. abbia violato i divieti prescritti dall’art. 289 c.p.m.p., dovendosi ribadire che la persona offesa non ha svolto alcuna funzione giurisdizionale incompatibile con la sua condizione processuale e che, pur essendo la missiva controversa indirizzata alla sua persona, quale comandante della (OMISSIS), aveva il dovere di trasmetterla per le vie burocratiche, dando origine al presente procedimento penale.
2.3. Le considerazioni esposte impongono di ritenere inammissibile il primo motivo di ricorso.
- Parimenti inammissibili devono ritenersi il secondo e il quinto iniffM1 motivo di ricorso, che appaiono prospettati in termini sovrapponibili dalla difesa del ricorrente, con cui si deduceva la violazione di legge del provvedimento impugnato, conseguente al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto delle ragioni che imponevano di ritenere insussistenti i presupposti per l’esperimento della prova liberatoria richiesta nell’interesse dell’imputato, così come prefigurata dalla sentenza della Corte costituzionale 23 settembre 2009, n. 273, ai cui principi la Corte militare di appello di Roma non si era conformata.
Secondo la difesa del ricorrente, la Corte militare di appello di Roma, a fronte delle specifiche censure difensive, aveva omesso di ricostruire la procedura di trasferimento attivata in conseguenza dell’istanza depositata dal ricorrente il 30/05/2014, la cui illegittimità risultava dimostrata dalle emergenze probatorie. Nel valutare l’istanza di trasferimento dell’imputato, infatti, si era preso in considerazione il solo parametro della data di arrivo del militare nel territorio pugliese, trascurando gli altri indicatori professionali, espressamente previsti dalla normativa di settore, come il grado rivestito, l’anzianità di servizio, l’età anagrafica, le note caratteristiche, il carico familiare e la presenza di eventuali benemerenze professionali.
Non può, invero, non rilevarsi che, nel caso di specie, i contenuti diffamatori della missiva trasmessa dall’imputato alla persona offesa, per i suoi contenuti obiettivamente esorbitanti, non consentivano di ritenere sussistenti le condizioni per l’esperimento della prova liberatoria invocata dal ricorrente, per ammettere la quale occorreva la dimostrazione che la vicenda amministrativa presupposta si fosse conclusa con il riconoscimento delle ragioni giuridiche di M.; dimostrazione che non soltanto non veniva fornita dal ricorrente, ma che non emergeva nemmeno aliunde dagli atti processuali.
Si aggiunga che, come correttamente evidenziato dalla Corte militare di appello di Roma, la condotta del generale C. risultava conforme a una prassi pluriennale consolidatasi in seno alla (OMISSIS), a proposito dei trasferimenti dei militari. Sul punto, si ritiene opportuno citare il passaggio motivazionale esplicitato a pagina 18 della sentenza impugnata, in cui si richiamava “l’esistenza di una prassi ultradecennale instauratasi presso la Regione Puglia, in base alla quale il criterio di preferenza invalso nella procedura di trasferimento dei militari dell’Arma nell’ambito della Regione verso la provincia salentina, fosse proprio quello della data di precedente arrivo nel territorio pugliese, costituendo, quindi, un modus operandi (…) conosciuto, approvato e praticato da lungo tempo”.
Queste ragioni impongono di ribadire l’inammissibilità del secondo e del quinto motivo di ricorso.
- Analogo giudizio di inammissibilità deve essere espresso per il terzo motivo, con cui si deduceva la violazione di legge del provvedimento impugnato, conseguente al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto degli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 227c.p.m.p., la cui insussistenza non consentiva la formulazione del giudizio di responsabilità penale nei confronti di M., che, con la sua missiva, si era limitato a esprimere delle critiche legittime alla violazione delle regole previste dalla L. 7 agosto 1990, n. 241, verificatasi nella sua procedura di trasferimento.
- Non può, in proposito, che ribadirsi la natura palesemente diffamatoria delle frasi contenute nella missiva datata (OMISSIS), con cui l’imputato, nella sua qualità di appuntato scelto, in servizio presso la Stazione dei Carabinieri di (OMISSIS), accusava il generale C.G., quale comandante della (OMISSIS), di “voler raggiungere a tutti i costi un interesse privato e di non perseguire il legittimo interesse della Pubblica Amministrazione (…)”, aggiungendo che la persona offesa “con azioni continuate, artifizi, raggiri e simulazioni, sia prima che dopo, è riuscita a creare nel tempo pregiudizi nei miei confronti all’interno del procedimento amministrativo da me attivato (…)”.
- Le emergenze probatorie, dunque, smentiscono per tabulas l’assunto difensivo, secondo cui M., con la missiva censurata, facendo riferimento a “un interesse privato” della persona offesa, non intendeva diffamarla, atteso che con questa espressione si era limitato a evidenziare la circostanza che, nel suo caso, erano state violate le regole procedurali previste dalla L. n. 241 del 1990, perseguendo obiettivi che apparivano dissonanti rispetto all’impianto normativo di tale disciplina.
- A tali, dirimenti, considerazioni deve aggiungersi che il giudizio di responsabilità espresso dai Giudici militari di merito nei confronti di M. appare rispettoso delle emergenze processuali e conforme alla giurisprudenza di questa Corte, che, in tema di diffamazione, non consente di prefigurare un legittimo diritto di critica, laddove le espressioni utilizzate siano connotate da sovrabbondanza. Sul punto, non si può che richiamare il seguente principio di diritto: “Il diritto di critica si concretizza in un giudizio valutativo che postula l’esistenza del fatto assunto ad oggetto o spunto del discorso critico ed una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere, e, conseguentemente, esclude la punibilità di coloriture ed iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato o gergale, purchè tali modalità espressive siano proporzionate e funzionali all’opinione o alla protesta, in considerazione degli interessi e dei valori che si ritengono compromessi” (Sez. 1, n. 36045 del 13/06/2014, Surano, Rv. 261122-01; si veda, in senso sostanzialmente conforme, anche Sez. 1, n. 40556 del 27/10/2010, Piroddi Lovrai, Rv. 249008-01).
- Le considerazioni esposte impongono di ritenere inammissibile il terzo motivo di ricorso.
- Deve, infine, ritenersi inammissibile il quarto motivo di ricorso, con cui si deduceva la violazione di legge del provvedimento impugnato, conseguente al fatto che la persona offesa non poteva trasmettere la missiva che gli era stata indirizzata da M.G.A. per le vie burocratiche, ma avrebbe dovuto provvedere al suo sequestro, costituendo la comunicazione controversa corpo del reato.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. IASILLO Adriano – Presidente –
Dott. SANDRINI Enrico G. – Consigliere –
Dott. SARACENO Rosanna – Consigliere –
Dott. MAGI Raffaello – Consigliere –
Dott. CENTONZE Alessandro – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
Sul ricorso proposto da:
1) M.G.A., nato a (OMISSIS);
Avverso la sentenza emessa il 15/10/2019 dalla Corte militare di appello di Roma;
Sentita la relazione del Consigliere Dott. Alessandro Centonze;
Sentite le conclusioni del Sostituto Procuratore generale Dott. Flamini Luigi Maria, che ha chiesto l’inammissibilità del ricorso.
Svolgimento del processo
- Con sentenza emessa il 05/07/2018 il Tribunale militare di Napoli condannava M.G.A. alla pena di due mesi di reclusione militare per il reato di cui all’art. 227c.p.m.p., commi 1 e 2, art. 47c.p.m.p., comma 1, n. 2, commesso a (OMISSIS).
- Con sentenza emessa il 29/05/2019 la Corte militare di appello di Roma, decidendo sull’impugnazione proposta dall’imputato, confermava la decisione appellata, condannando l’appellante al pagamento delle ulteriori spese processuali.
- I fatti di reato, nella loro consistenza materiale, devono ritenersi incontroversi, riguardando la diffamazione militare aggravata commessa dall’imputato nei confronti del generale C.G., nel contesto di una missiva indirizzata dal ricorrente alla persona offesa, quale comandante della (OMISSIS), che i Giudici militari di merito ritenevano concordemente connotata da modalità espositive diffamatorie ed esorbitanti dal diritto di critica, pur riconosciuto ai militari.
Tale condotta illecita, in particolare, traeva origine dalla missiva datata (OMISSIS), con cui l’imputato, nella sua qualità di appuntato scelto, in servizio presso la Stazione dei Carabinieri di (OMISSIS), richiamando la procedura di trasferimento che lo riguardava, offendeva la reputazione del generale C.G., che accusava, quale comandante della (OMISSIS), di “voler raggiungere a tutti i costi un interesse privato e di non perseguire il legittimo interesse della Pubblica Amministrazione (…)”, aggiungendo che la persona offesa “con azioni continuate, artifizi, raggiri e simulazioni, sia prima che dopo, è riuscita a creare nel tempo pregiudizi nei miei confronti all’interno del procedimento amministrativo da me attivato (…)”.
Sulla scorta di tale ricostruzione dei fatti di reato, l’imputato M.G.A. veniva condannato alle pene di cui in premessa.
- Avverso tale sentenza l’imputato M.G.A., a mezzo dell’avv. Biagio Palamà, ricorreva per cassazione, deducendo cinque motivi di ricorso.
Con il primo motivo di ricorso si deduceva la violazione di legge del provvedimento impugnato, conseguente al fatto che la decisione in esame risultava pronunciata in violazione degli artt. 260 e 289 c.p.m.p., non chiarendo per quali ragioni il reato contestato a M. era procedibile d’ufficio – in presenza di una richiesta di procedimento formulata tardivamente ex art. 260 c.p.p. – e non tenendo conto del fatto che gli elementi probatori utilizzati per formulare il giudizio di colpevolezza espresso nei confronti dell’imputato erano stati acquisiti in violazione dell’art. 289 c.p.m.p., che non consente alla persona offesa di contribuire all’istruzione del procedimento che lo riguarda, al di fuori dei casi previsti dagli artt. 34 e 35 c.p.m.p. Con il secondo motivo e il quinto motivo di ricorso, che appaiono prospettati in termini sovrapponibili dalla difesa del ricorrente, si deduceva la violazione di legge del provvedimento impugnato, conseguente al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto delle ragioni che imponevano di ritenere insussistenti i presupposti per l’esperimento della prova liberatoria richiesta nell’interesse dell’imputato, così come prefigurata dalla sentenza della Corte costituzionale 23 settembre 2009, n. 273, ai cui principi la Corte militare di appello di Roma non si era conformata.
Con il terzo motivo di ricorso si deduceva la violazione di legge del provvedimento impugnato, conseguente al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto degli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 227 c.p.m.p., la cui insussistenza non consentiva la formulazione del giudizio di responsabilità penale nei confronti di M., che, con la sua missiva, si era limitato a esprimere delle critiche alla violazione delle regole previste dalla L. 7 agosto 1990, n. 241, verificatasi nella sua procedura di trasferimento.
Con il quarto motivo di ricorso si deduceva la violazione di legge del provvedimento impugnato, conseguente al fatto che la persona offesa non poteva trasmettere la missiva che gli era stata indirizzata da M. per le vie burocratiche, ma avrebbe dovuto provvedere al suo sequestro, costituendo la comunicazione controversa corpo del reato.
Le considerazioni esposte imponevano l’annullamento della sentenza impugnata.
Motivi della decisione
- Il ricorso proposto da M.G.A. è inammissibile.
- Deve ritenersi inammissibile il primo motivo di ricorso, con cui si deduceva la violazione di legge del provvedimento impugnato, conseguente al fatto che la decisione in esame risultava pronunciata in violazione degli artt. 260e 289c.p.m.p., non chiarendo per quali ragioni il reato contestato a M. era procedibile d’ufficio – in presenza di una richiesta di procedimento trasmessa il 02/12/2015, senza l’osservanza dei termini prescritti dall’art. 260 c.p.p. – e non tenendo conto del fatto che gli elementi probatori utilizzati per formulare il giudizio di colpevolezza espresso nei confronti dell’imputato erano stati acquisiti in violazione dell’art. 289 c.p.m.p., che non consente alla persona offesa di contribuire all’istruzione del procedimento che lo riguarda, al di fuori dei casi previsti dagli artt. 34 e 35 c.p.m.p. Si tratta di censure difensive che impongono una valutazione separata delle doglianze attraverso cui vengono articolate.
2.1. Deve anzitutto ritenersi inammissibile la doglianza relativa alla violazione dell’art. 260 c.p.m.p., atteso che la Corte militare di appello di Roma riteneva correttamente che, nel caso di specie, ricorreva l’ipotesi aggravata di cui all’art. 227 c.p.m.p., comma 2, concretizzandosi la condotta diffamatoria dell’appuntato M.G.A. nell’attribuzione di un fatto determinato al generale C.G., che comportava l’applicazione della circostanza aggravante a effetto speciale oggetto di contestazione.
Non è, invero, dubitabile che l’imputato intendeva attribuire alla persona offesa un fatto determinato, accusandola di non rispettare le regole procedurali previste per i trasferimenti dei (OMISSIS), arrecando volutamente un nocumento al ricorrente, consistente nel mancato accoglimento della sua istanza, allo scopo di agevolare altri militari, favoriti dal comportamento illegittimo del generale C.. Si tratta, dunque, di una condotta diffamatoria connotata da specificità, certamente rilevante ai sensi dell’art. 227 c.p.m.p., comma 2, rispetto alla quale non assumono un rilievo favorevole a M. le successive giustificazioni, finalizzate ad alleggerire la sua posizione, ma ininfluenti rispetto all’inquadramento del comportamento criminoso in esame.
Nè è possibile dubitare del fatto che tale aggravante rientri nel novero delle circostanze a effetto speciale, atteso che l’art. 227 c.p.m.p., comma 2 comporta l’applicazione “della pena della reclusione militare da sei mesi a tre anni”, in una misura superiore a un terzo della pena prevista per le ipotesi di cui al comma 1 cit. norma, punite “con la reclusione militare fino a quattro mesi”.
Ne discende che la soluzione processuale adottata dalla Corte militare di appello di Roma, ritenuti sussistenti gli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’art. 227 c.p., commi 1 e 2, che comporta l’applicazione di una circostanza aggravante a effetto speciale, appare conforme alla giurisprudenza di questa Corte, risalente ma consolidata, secondo cui: “Per riconoscere se è necessaria la richiesta di procedimento del comandante del corpo prevista dall’art. 260 c.p.m.p. come condizione di procedibilità per taluni reati militari punibili con pena non superiore a sei mesi, occorre aver riguardo al massimo della pena edittale stabilita per il reato. Tuttavia, qualora concorrano circostanze aggravanti che determino la misura massima della pena in modo autonomo e predeterminata per legge (c.d. circostanza aggravanti ad effetto speciale) dovrà tenersi conto di tale pena ai fini di stabilire se sia necessaria o meno la richiesta di procedimento del comandante del corpo” (Sez. 1, n. 10815 del 16/06/1986, Mellace, Rv. 173940-01).
2.2. Parimenti inammissibile deve ritenersi l’ulteriore censura difensiva, attraverso cui si articola la doglianza in esame, relativa alla violazione dell’art. 289 c.p.m.p., dovendosi evidenziare che la persona offesa non compiva alcuna attività indagine nei confronti di M., essendosi limitata, dopo avere ricevuto la missiva sottoscritta dall’imputato a trasmetterla per le vie burocratiche, senza svolgere alcun accertamento relativo al suo contenuto. Ne consegue che nessuna violazione dell’art. 289 c.p.m.p. è riscontrabile nel caso di specie, atteso che tale norma, nel suo comma 1, vieta alla persona offesa di “concorrere alla istruzione di un procedimento, far parte di un tribunale militare o della Corte militare di appello, o esercitarvi le funzioni di pubblico ministero (…)”.
L’art. 289 c.p.m.p., pertanto, non impedisce tout court il coinvolgimento della persona offesa nelle attività d’indagine finalizzate ad accertare la responsabilità dell’imputato, ma gli vieta di svolgere, a qualsiasi titolo, le funzioni ufficiale di polizia giudiziaria militare, di pubblico ministero militare e di giudice militare; condizioni, queste, palesemente insussistenti nel caso in esame, atteso che il generale C. non svolgeva tali funzioni nella vicenda processuale conclusasi con la condanna del ricorrente per il reato di cui all’art. 227 c.p.m.p., commi 1 e 2, art. 47 c.p.m.p., comma 1, n. 2.
Queste conclusioni, del resto, appaiono corroborate dalla collocazione sistematica della norma dell’art. 289 c.p.m.p., che è intitolata “Incompatibilità speciali per i procedimenti militari” ed è inserita in sezione, a sua volta, intitolata “Della incompatibilità, dell’astensione e della ricusazione del giudice”.
D’altra parte, la missiva censurata era indirizzata al generale C., che, non poteva esimersi dal trasmetterla personalmente per le vie burocratiche analogamente a quanto si verificava nel caso in esame – ovvero dal farla trasmettere da un suo sottoposto, al quale avrebbe dovuto, a sua volta, indirizzarla. Ne consegue che la prospettazione difensiva trova il limite applicativo dei doveri d’ufficio della persona offesa, dal rispetto dei quali non poteva esimersi, trasmettendo la missiva diffamatoria che gli era stata inviata dall’appuntato M..
Non è, pertanto, possibile ipotizzare che il generale C. abbia violato i divieti prescritti dall’art. 289 c.p.m.p., dovendosi ribadire che la persona offesa non ha svolto alcuna funzione giurisdizionale incompatibile con la sua condizione processuale e che, pur essendo la missiva controversa indirizzata alla sua persona, quale comandante della (OMISSIS), aveva il dovere di trasmetterla per le vie burocratiche, dando origine al presente procedimento penale.
2.3. Le considerazioni esposte impongono di ritenere inammissibile il primo motivo di ricorso.
- Parimenti inammissibili devono ritenersi il secondo e il quinto iniffM1 motivo di ricorso, che appaiono prospettati in termini sovrapponibili dalla difesa del ricorrente, con cui si deduceva la violazione di legge del provvedimento impugnato, conseguente al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto delle ragioni che imponevano di ritenere insussistenti i presupposti per l’esperimento della prova liberatoria richiesta nell’interesse dell’imputato, così come prefigurata dalla sentenza della Corte costituzionale 23 settembre 2009, n. 273, ai cui principi la Corte militare di appello di Roma non si era conformata.
Secondo la difesa del ricorrente, la Corte militare di appello di Roma, a fronte delle specifiche censure difensive, aveva omesso di ricostruire la procedura di trasferimento attivata in conseguenza dell’istanza depositata dal ricorrente il 30/05/2014, la cui illegittimità risultava dimostrata dalle emergenze probatorie. Nel valutare l’istanza di trasferimento dell’imputato, infatti, si era preso in considerazione il solo parametro della data di arrivo del militare nel territorio pugliese, trascurando gli altri indicatori professionali, espressamente previsti dalla normativa di settore, come il grado rivestito, l’anzianità di servizio, l’età anagrafica, le note caratteristiche, il carico familiare e la presenza di eventuali benemerenze professionali.
Non può, invero, non rilevarsi che, nel caso di specie, i contenuti diffamatori della missiva trasmessa dall’imputato alla persona offesa, per i suoi contenuti obiettivamente esorbitanti, non consentivano di ritenere sussistenti le condizioni per l’esperimento della prova liberatoria invocata dal ricorrente, per ammettere la quale occorreva la dimostrazione che la vicenda amministrativa presupposta si fosse conclusa con il riconoscimento delle ragioni giuridiche di M.; dimostrazione che non soltanto non veniva fornita dal ricorrente, ma che non emergeva nemmeno aliunde dagli atti processuali.
Si aggiunga che, come correttamente evidenziato dalla Corte militare di appello di Roma, la condotta del generale C. risultava conforme a una prassi pluriennale consolidatasi in seno alla (OMISSIS), a proposito dei trasferimenti dei militari. Sul punto, si ritiene opportuno citare il passaggio motivazionale esplicitato a pagina 18 della sentenza impugnata, in cui si richiamava “l’esistenza di una prassi ultradecennale instauratasi presso la Regione Puglia, in base alla quale il criterio di preferenza invalso nella procedura di trasferimento dei militari dell’Arma nell’ambito della Regione verso la provincia salentina, fosse proprio quello della data di precedente arrivo nel territorio pugliese, costituendo, quindi, un modus operandi (…) conosciuto, approvato e praticato da lungo tempo”.
Queste ragioni impongono di ribadire l’inammissibilità del secondo e del quinto motivo di ricorso.
- Analogo giudizio di inammissibilità deve essere espresso per il terzo motivo, con cui si deduceva la violazione di legge del provvedimento impugnato, conseguente al fatto che la decisione in esame risultava sprovvista di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto degli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 227c.p.m.p., la cui insussistenza non consentiva la formulazione del giudizio di responsabilità penale nei confronti di M., che, con la sua missiva, si era limitato a esprimere delle critiche legittime alla violazione delle regole previste dalla L. 7 agosto 1990, n. 241, verificatasi nella sua procedura di trasferimento.
Non può, in proposito, che ribadirsi la natura palesemente diffamatoria delle frasi contenute nella missiva datata (OMISSIS), con cui l’imputato, nella sua qualità di appuntato scelto, in servizio presso la Stazione dei Carabinieri di (OMISSIS), accusava il generale C.G., quale comandante della (OMISSIS), di “voler raggiungere a tutti i costi un interesse privato e di non perseguire il legittimo interesse della Pubblica Amministrazione (…)”, aggiungendo che la persona offesa “con azioni continuate, artifizi, raggiri e simulazioni, sia prima che dopo, è riuscita a creare nel tempo pregiudizi nei miei confronti all’interno del procedimento amministrativo da me attivato (…)”.
Le emergenze probatorie, dunque, smentiscono per tabulas l’assunto difensivo, secondo cui M., con la missiva censurata, facendo riferimento a “un interesse privato” della persona offesa, non intendeva diffamarla, atteso che con questa espressione si era limitato a evidenziare la circostanza che, nel suo caso, erano state violate le regole procedurali previste dalla L. n. 241 del 1990, perseguendo obiettivi che apparivano dissonanti rispetto all’impianto normativo di tale disciplina.
A tali, dirimenti, considerazioni deve aggiungersi che il giudizio di responsabilità espresso dai Giudici militari di merito nei confronti di M. appare rispettoso delle emergenze processuali e conforme alla giurisprudenza di questa Corte, che, in tema di diffamazione, non consente di prefigurare un legittimo diritto di critica, laddove le espressioni utilizzate siano connotate da sovrabbondanza. Sul punto, non si può che richiamare il seguente principio di diritto: “Il diritto di critica si concretizza in un giudizio valutativo che postula l’esistenza del fatto assunto ad oggetto o spunto del discorso critico ed una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere, e, conseguentemente, esclude la punibilità di coloriture ed iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato o gergale, purchè tali modalità espressive siano proporzionate e funzionali all’opinione o alla protesta, in considerazione degli interessi e dei valori che si ritengono compromessi” (Sez. 1, n. 36045 del 13/06/2014, Surano, Rv. 261122-01; si veda, in senso sostanzialmente conforme, anche Sez. 1, n. 40556 del 27/10/2010, Piroddi Lovrai, Rv. 249008-01).
Le considerazioni esposte impongono di ritenere inammissibile il terzo motivo di ricorso.
- Deve, infine, ritenersi inammissibile il quarto motivo di ricorso, con cui si deduceva la violazione di legge del provvedimento impugnato, conseguente al fatto che la persona offesa non poteva trasmettere la missiva che gli era stata indirizzata da M.G.A. per le vie burocratiche, ma avrebbe dovuto provvedere al suo sequestro, costituendo la comunicazione controversa corpo del reato.
Osserva il Collegio che tale censura viene prospettata in termini esclusivamente congetturali dalla difesa del ricorrente – prefigurando un percorso burocratico della missiva in questione alternativo e differente da quello seguito – e si contrappone alla ricostruzione degli accadimenti criminosi effettuata dalla Corte militare di appello di Roma, che appare fondata su elementi probatori che consentivano di escluderne la plausibilità, logica e giuridica. Nel caso in esame, infatti, non era ragionevole attribuire alcun valore processuale alla prospettazione meramente congetturale della difesa di M., in presenza di fonti di prova, univocamente orientate, che imponevano di escludere la plausibilità di una tale ricostruzione della vicenda processuale, alla luce della sequenza procedimentale nella quale andava inserita la missiva in esame, su cui ci si è già soffermati nei paragrafi 2.1, 2.2 e 4.
Invero, un tale percorso valutativo, oltre che illogico e processualmente incongruo, si sarebbe posto in contrasto con la giurisprudenza consolidata di questa Corte, secondo cui: “In tema di valutazione della prova, il ricorso al criterio di verosimiglianza e alle massime d’esperienza conferisce al dato preso in esame valore di prova se può escludersi plausibilmente ogni spiegazione alternativa che invalidi l’ipotesi all’apparenza più verosimile, ponendosi, in caso contrario, tale dato come mero indizio da valutare insieme con gli altri elementi risultanti dagli atti” (Sez. 6, n. 5905 del 29/11/2011, dep. 2012, Brancucci, Rv. 252066-01; si veda, in senso sostanzialmente conforme, anche Sez. 6, n. 15897 del 09/04/2009, Massimino, Rv. 243528-01).
- Per queste ragioni, il ricorso proposto da M.G.A. deve essere dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, non ricorrendo ipotesi di esonero, al versamento di una somma alla Cassa delle Ammende, determinabile in tremila Euro, ai sensi dell’art. 616c.p.p..
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 2 dicembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 8 gennaio 2021