padova BANCAROTTA FRAUDOLENTA mancata tenuta contabilità

PADOVA BANCAROTTA FRAUDOLENTA

I FATTI

Unitamente a V.K., giudicata separatamente

delitto p. e p. dall’art. 216 R.D. n. 267 del 1942, perché, V.K. e P.G. in qualità di amministratori della società N.T.A. srl, dichiarata fallita dal Tribunale di Padova con sentenza del 05/12/2003, V.M. quale amministratore di fatto della stessa società:

– sottraevano il libro giornale relativo al 2003, le schede contabili 2002 e 2003 e i libri sociali e comunque, allo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, tenevano i libri e le altre scritture contabili non consentendo la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari;

– distraevano numerosi beni (stampi, macchine da cucire, mobili, computer, attrezzature, ect., come da elenco predisposto dalla curatela e allegato al presente atto), del valore complessivo di circa 430 milioni di lire;

– distraevano la somma di 100.560,61 Euro effettuando, nei due anni precedenti il fallimento, pagamenti a favore del socio K.F., come restituzioni di finanziamenti infruttiferi.

Con l’aggravante di aver commesso più fatti di bancarotta.

IMPOSSIBILITA’ RICOTRUZIONE PATRIMONIO SOCIETA’

L’impossibilità di ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari così come testimoniata dal curatore – impossibilità che per costante giurisprudenza va intesa come grave difficoltà, nel senso di un’incertezza insuperabile nei risultati – fa dunque ritenere pienamente integrata la fattispecie contestata, anche con riguardo al dolo, che in tale fattispecie è richiesto solo come generico.

Chi era legalmente responsabile della tenuta della contabilità, come P., e chi di fatto se ne occupava avendo in mano l’intera gestione dell’azienda, come V., di cui si dirà infra, era ben consapevole che una siffatta tenuta incompleta e una mancata sua corretta conservazione avrebbero impedito la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari.

 

Uniformandosi all’orientamento espresso ormai dalla Suprema Corte a Sezioni Unite, si ritiene che i singoli fatti di bancarotta, pur nella loro autonomia, vadano riuniti ai sensi dell’art. 219 II comma legge fallimentare che costituisce specifica deroga al regime ordinario della continuazione (v. Cass. SS. UU. n. 21029/11).

Una delle caratteristiche derogatorie di tale disciplina consiste proprio nel limitare al massimo a un terzo l’aumento e nel consentire, in ragione della veste formale di circostanza di tale previsione legislativa, il suo assoggettamento al bilanciamento, che resta pertanto possibile nonostante la natura sostanziale di reato continuato, come ulteriormente chiarito anche di recente dalla Suprema Corte (v. Cass. V Sez., n. 21036/2013).

Le circostanze attenuanti vanno pertanto giudicate per P. prevalenti all’aggravante contestata, tenuto conto che si tratta di persona ultraottantenne.

 

DECISIONE

 

dichiara P.G. e V.M. responsabili del reato ad essi ascritto e, per l’effetto, disapplicata la recidiva contestata nei confronti di V.M., concesse le attenuanti generiche al solo P.G. in misura prevalente alla contestata aggravante, condanna:

V.M. alla pena di anni 3 e mesi 6 di reclusione;

P.G. alla pena di anni 2 di reclusione.

Pena sospesa nei confronti di P.G.. Condanna entrambi al pagamento delle spese processuali.

V.o l’art. 216 ult. comma R.D. n. 267 del 1942 e l’art. 29 c.p.,

dichiara V.M. interdetto dai pubblici uffici per anni 5, nonché inabilitato all’esercizio di un’impresa commerciale ed incapace ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per anni 10.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI PADOVA – Sezione penale

COMPOSIZIONE COLLEGIALE

composta da:

Dott. Claudio Marassi – Presidente

Dott. ssa Marina Ventura – Giudice

Dott. ssa Chiara Ilaria Bitozzi – Giudice

alla pubblica udienza del 7 gennaio 2015 ha pronunciato e pubblicato mediante lettura del dispositivo la seguente

SENTENZA

nei confronti di:

P.G. nato il (…) a U. e residente a C. sul S. (T.) in via B. n. 37 dom. dich- difeso dall’avv.to Francesca Guolo del foro di Padova d’ufficio – libero presente

V.M. nato il (…) a P. di S. e residente a C. (P.) in via S.A. n. 38- difeso dall’avv.to Michele Pergola del foro di Padova, di fiducia – libero presente

IMPUTATI

Unitamente a V.K., giudicata separatamente

delitto p. e p. dall’art. 216 R.D. n. 267 del 1942, perché, V.K. e P.G. in qualità di amministratori della società N.T.A. srl, dichiarata fallita dal Tribunale di Padova con sentenza del 05/12/2003, V.M. quale amministratore di fatto della stessa società:

– sottraevano il libro giornale relativo al 2003, le schede contabili 2002 e 2003 e i libri sociali e comunque, allo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, tenevano i libri e le altre scritture contabili non consentendo la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari;

– distraevano numerosi beni (stampi, macchine da cucire, mobili, computer, attrezzature, ect., come da elenco predisposto dalla curatela e allegato al presente atto), del valore complessivo di circa 430 milioni di lire;

– distraevano la somma di 100.560,61 Euro effettuando, nei due anni precedenti il fallimento, pagamenti a favore del socio K.F., come restituzioni di finanziamenti infruttiferi.

Con l’aggravante di aver commesso più fatti di bancarotta.

In Padova, il 5 dicembre 2003.

Con recidiva reiterata ed infraquinquennale per V.M..

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

V.M. e P.G. venivano rinviati a giudizio per rispondere di più fatti di bancarotta fraudolenta commessi il primo quale amministratore di fatto ed il secondo quale amministratore di diritto della società N.T. s.r.l. (“N.T.), società che operava nel campo delle nuove teconologie per il mantenimento e il risanamento dell’ambiente, con esecuzione di opere anche a carattere idraulico, società dichiarata fallita con sentenza del Tribunale di Padova del 5.12.03.

Venivano sentiti i testi del P.M. e della difesa e acquisita ampia documentazione prodotta da entrambe le parti

  1. si sottoponeva ad esame mentre P. rendeva spontanee dichiarazioni e al’udienza del 7.1.15 le parti concludevano come da verbale.

Occorre innanzi tutto premettere una breve storia della compagine sociale della N.T..

Come risulta dalla relazione del curatore e dai documenti ad essa allegati, la società, costituita nel 1989, nel 1998 spostava la sua sede da Ferrara a Padova e contestualmente il 99 % del capitale sociale veniva trasferito alla “K.F. s.a.”, società con sede a San Marino e dietro alla quale, come si dirà oltre, vi è P..

Il restante 1 % rimaneva nella titolarità di tale Masiero, fino all’1.3.99 amministratore unico della N.T.. Dal 3.9.99 amministratore unico della società veniva nominata K.V., all’epoca appena venticinquenne e nipote dell’imputato M.V.. La V., che usciva da questo processo patteggiando la pena, acquisiva il 9.12.99 anche la titolarità della quota pari all’1 % fino ad allora rimasta in capo al Masiero.

Il 20.3.03 V.K. cessa dalla carica di amministratore unico e le succede P.G.. Il 31.3.03 V.K. cede il suo 1 % a P. e parimenti la K. cede al medesimo P. il suo 99 %.

Dal 31.3.03, pertanto, P. assomma le qualifiche di proprietario e amministratore unico della N.T. e resta amministratore della società fino a un mese prima del fallimento, dichiarato il 5.12.03, quando nella carica di amministratore gli subentra un mese prima del fallimento, tale S., che risulterà irrperibile per il curatore.

Vanno esaminate le singole fattispecie di bancarotta fraudolenta qui contestate.

Bancarotta fraudolenta documentale

Il curatore, d.ssa M., non ha rinvenuto il libro giornale relativo al 2003, così come le schede contabili relative agli anni 2002-2003. Mancano, inoltre, completamente i libri sociali, mancanza che ha compromesso la possibilità di ricostruire appieno le vicende societarie e le delibere degli organi assembleari.

Il curatore non ha potuto ricostruire con esattezza nemmeno la consistenza patrimoniale della società alla data del fallimento, essendo insufficiente a tal fine il ritrovamento di un bilancio interno di verifica aggiornato al 31.7.03: in mancanza, appunto, di ogni possibilità di un riscontro della sua correttezza attraverso l’esame di una contabilità correttamente tenuta e aggiornata, lo stesso non ha alcun valore (v. pp. 20 e 21 relazione ex art. 33 legge fallimentare del curatore).

L’impossibilità di ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari così come testimoniata dal curatore – impossibilità che per costante giurisprudenza va intesa come grave difficoltà, nel senso di un’incertezza insuperabile nei risultati – fa dunque ritenere pienamente integrata la fattispecie contestata, anche con riguardo al dolo, che in tale fattispecie è richiesto solo come generico.

Chi era legalmente responsabile della tenuta della contabilità, come P., e chi di fatto se ne occupava avendo in mano l’intera gestione dell’azienda, come V., di cui si dirà infra, era ben consapevole che una siffatta tenuta incompleta e una mancata sua corretta conservazione avrebbero impedito la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari.

Le relazioni del c.t. della difesa, Giacomazzi, nulla spostano sul punto.

Come ha esattamente rimarcato la curatrice nel corso del suo esame, e come ha ammesso anche il ct in sede di controesame, tali relazioni sono state stese sul presupposto che i dati risultanti dai bilanci fossero corretti, mentre è proprio tale correttezza che è impossibile riscontrare per la difettosa tenuta della contabilità.

Poco importa che vi sia un’apparenza di correttezza data dalla semplice congruenza fra dati astratti che si riscontrano fra di loro ma che potrebbero essere del tutto avulsi dalla realtà aziendale (v. pp. 13 e 20-21 deposizione curatrice del 19.9.14).

Il c.t., per sua stessa dichiarazione, si è limitato ad analizzare i bilanci scaricati dal Registro Imprese e non ha verificato se i dati espressi in bilancio fossero adeguatamente supportati dalle relativa scritture contabili, di cui non ha verificato attendibilità e completezza perché ha ritenuto che non fosse quello il compito che gli era stato affidato (v. pp. 15-19 verbale stenotipico del 17.10.14).

Bancarotta per distrazione di beni strumentali

In sede di inventario fallimentare la curatrice rilevava la mancanza di numerosi beni che ala data del fallimento risultavano in carico alla società.

L’elenco dettagliato di tali beni, allegato con il n. 21 alla relazione ex art. 33 l. f. della curatrice, è stato redatto dalla stessa sulla base del registro dei beni ammortizzabili, seppur non aggiornato al 2003, nonché dall’analisi delle fatture di acquisto e di vendita rinvenute relativamente all’anno 2003 ( pp. 25, 26 relazione curatrice).

Dall’analisi di queste ultime, in particolare, la curatrice ha potuto rilevare che nel 2003 la N.T., nonostante la situazione di difficoltà in cui versava e che la porterà in dicembre di quell’anno alla dichiarazione di fallimento, acquista numerosi e costosi beni, di cui la curatrice non rileverà alcuna traccia fisica: per dare un’idea della rilevanza di tali beni e dell’intento distrattivo che animava già il loro acquisto, si tratta di una cisterna, due gruppi elettrogeni, alcune caldaie industriali, nove cellulari e un computer dotato di accessori.

Spariti sono anche i numerosissimi beni risultanti dal libro cespiti e riportati nell’elenco citato, fra cui spiccano una casa prefabbricata vari carrelli, PC, caldaia, macchinari da lavorazione, mobili e vari macchinari da ufficio. Il valore di tali beni è stato indicato in circa 430 milioni di lire, che è la somma del loro valore di acquisto.

A fronte di quanto avrebbe dovuto trovare il curatore nei locali della N.T., la stessa non ha ritrovato alcuna attrezzatura inerente alle lavorazioni oggetto dell’attività di impresa, ma solo pochi arredi e beni merci in materiale plastico stimati solamente 2.180 Euro !

Non è vero quanto ha affermato il difensore di V., e cioè che la prova che i beni fino al fallimento fossero in azienda discenderebbe proprio dalle testimonianze delle dipendenti, da cui risulterebbe che il lavoro fino all’ultimo era proseguito regolarmente, utilizzando dunque le necessarie attrezzature.

Dalle testimonianze delle dipendenti C. e F. è emerso, al contrario, che nella primavera-estate 2003 l’azienda era stata già spogliata e lasciata qualche mese, fino al fallimento di dicembre, come un involucro vuoto a fingere di operare. In particolare la C., che avrebbe dovuto svolgere compiti impiegatizi relativi all’amministrazione, ha riferito che c’era ben poco lavoro e che solo in un’occasione aveva redatto qualche fattura dietro specifiche istruzioni di P. che le aveva detto cosa scrivere.

Non si ritiene, pertanto, che la difesa abbia documentato una diversa destinazione dei beni della cui esistenza il curatore ha trovato documentazione.

L’imprenditore è posto, nel nostro ordinamento, in posizione di garanzia nei confronti dei creditori, i quali ripongono la garanzia dell’adempimento delle obbligazioni dell’impresa sul patrimonio di quest’ultima, donde la diretta responsabilità di chi dalla legge è individuato come legale rappresentante per la conservazione di esso in ragione dell’integrità della garanzia (v. Cass. n. 7588/11).

Mancando la prova di una diversa destinazione dei beni, se ne deve ritenere la distrazione, senza che ciò costituisca inversione dell’onere della prova, trattandosi di diretta applicazione dei principi di valutazione della prova dettati dall’art. 192 c.p. (così Cass. n. 7403/08).

A ciò si aggiunga che non solo il legale rappresentante, ma anche l’amministratore di fatto, colui che gestiva l’azienda uti dominus, non può essere rimasto estraneo a fronte di un tale massiccio saccheggio di tutti i beni che ne consentivano l’attività, saccheggio che non può pertanto che essere avvenuto con il suo avallo.

Di più: proprio nel 2003, il 7.3.03 (v. visura f. 78 e ss, allegata a relazione curatore) V. costituisce la “T. s.r.l.”, con lo stesso oggetto sociale della N.T. e che fin dall’inizio risulta già pienamente operativa, tanto da proporsi per lavori che richiedono l’impiego di macchinari costosi e particolari: guarda caso, proprio quelli che non verranno più trovati alla N.T., nemmeno quelli che in quello stesso anno 2003, nonostante lo stato di quasi insolvenza, l’ N.T. inspiegabilmente procedeva ad acquistare.

È palese, pertanto, che si è trattato di un’operazione distrattiva, volta a svuotare la N.T., trasferendo i beni strumentali e di valore a un’altra società, riconducibile al medesimo amministratore di fatto V.M., che infatti nel biglietto da visita di cui al f. 156 – allegato alla relazione del curatore – si presentava come direttore generale della T..

Dai documenti allegati alla relazione del curatore (ff. 140,150-157), fra cui depliant della stessa T. e preventivi di lavoro, risulta che la T. si presentava con un logo assai simile alla N.T. ed atto a trarre in inganno, svolgeva effettivamente gli stessi lavori della N.T., ed anzi inserisce nel curriculum della nuova ditta i lavori in realtà fatti dalla N.T. ( v. pp. 15,16 relazione curatore).

Il teste T. riferirà che proprio V. prima delle ferie estive del 2003 lo aveva invitato a visitare la T..

In una seconda occasione, successivamente, T. si presentava alla T. proprio per cercare di recuperare da V. i soldi della fattura emessa a carico della N.T. e mai più a lui saldata. Un suo conoscente, che lavorava vicino alla sede della T., sapendo della vicenda lo aveva avvisato che quel giorno c’era V. in sede. T. si recava sul posto e vedeva fuori effettivamente parcheggiata l’auto BMW di V., ma nessuno gli apriva e se ne andava scornato.

Bancarotta per distrazione di somme

Nel 2002 e perfino nel 2003 la N.T. procede al versamento ai soci di notevoli somme indicandole come restituzione di finanziamenti infruttiferi.

Come accertato dal curatore (v. all. 16 alla relazione ex art. 33 l. f.), nel 2002 la N.T. corrisponde a tale titolo a V.K. 990,61 Euro ed alla K. ulteriori somme, ripartite in oltre 30 distinti pagamenti, per un totale complessivo di 100.560,61 Euro.

Perfino nel 2003, anno del fallimento, la N.T. corrisponderà alla K. ulteriori 5.000 Euro, nonostante fra l’altro nemmeno nel bilancio reperito fra i documenti – bilancio come già esposto non attendibile -risultasse più alcuna voce di debito verso i soci.

Dunque abbiamo una società che, nei due anni antecedenti al fallimento, trasferisce a chi detiene sostanzialmente la proprietà della società cioè alla K., socia al 99 % della N.T., oltre 100.000 Euro: si noti che all’epoca la K. è di fatto di P., il quale dal marzo 2003 assumerà anche la rappresentanza legale della N.T.: difatti le c.d. ricevute di restituzione vengono firmate da P. quale rappresentante della K. e da V.K. per la N.T..

V.K., a sua volta, in qualità di amministratore della N.T. – e nipote dell’amministratore di fatto V.M. – trasferisce a se stessa, in qualità di socio di minoranza della N.T., la somma, certo ben più ridotta, di poco meno di 1.000 Euro.

La responsabilità di tali indebiti versamenti non può essere addebitata alla sola V.K. e, per i pagamenti effettuati nel periodo in cui le subentra, a Piovesan Mirko in quanto amministratori della N.T..

Si tratta di pagamenti effettuati in pretesa restituzione di finanziamenti che non vi è prova siano stati realmente versati, e temporalmente collocati quando ormai la società si trovava in una situazione di insolvenza, di crisi finanziaria, come riferito anche dal curatore.

Preso atto che la società si trovava in cattive acque, V. come amministratore di fatto, zio della prima giovane amministratrice K. nonché sodale del successivo amministratore e già allora sostanzialmente unico proprietario della N.T., P., unitamente a quest’ultimo procedevano non solo – come sopra già esposto – a svuotare la società dei suoi beni, ma anche delle sue risorse finanziarie, trasferendone una piccola parte a V.K. e la maggior parte a P. attraverso la K..

Si ritiene provata, pertanto, la sussistenza di tutti i fatti contestati e la responsabilità in ordine agli stessi di entrambi gli imputati.

A P. vengono correttamente contestati i reati di cui al decreto di rinvio a giudizio in quanto risulta documentalmente la sua qualifica di legale rappresentante della società fino a un mese prima del fallimento, dichiarato il 5.12.03, e dunque nel periodo della loro commissione.

Anche in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, in caso di concorso ex art. 40, comma secondo, cod. pen., dell’amministratore formale nel reato commesso dall’amministratore di fatto, il dolo del primo può configurarsi anche come eventuale ed essere integrato dall’omesso controllo sulla tenuta delle scritture che dimostra la rinuncia a porre in essere quelle attività idonee a prevenire il pericolo di distrazioni e, di conseguenza, l’accettazione del rischio che esse possano verificarsi, (v. sul punto Cass. Sez. 5, n. 37305 del 14/05/2013)

A ciò si aggiunga che P. lungi dall’essere, come sostenuto dalla difesa, una mera testa di legno, era in realtà anche il proprietario della società di cui, prima, fin dal 1998, attraverso la K. (dietro il cui schermo operava, come esposto sopra) poi, dal 20.3.03, direttamente deteneva la quasi totalità (99 %) e poi la totalità delle quote.

Si osserva, infine, che dall’istruttoria è risultata anche una sua diretta partecipazione alla gestione della società.

La stessa sentenza del Tribunale di Salerno prodotta dalla difesa e relativa a una truffa contrattuale commessa attraverso la N.T. e nell’ambito di lavori appaltati dall’Autorità Portuale di Salerno, condanna P. sia per il ruolo formale da lui svolto nella N.T., e per il quale ha sottoscritto tutti gli atti della NT A relativi a tale fattispecie, ma anche per aver personalmente partecipato a incontri e riunioni organizzative anche in Campania (v. p. 10 della sentenza emessa dal Tribunale Monocratico di Salerno il 9.7.10).

  1. non era per la N.T. un fantasma, bensì qualcuno che da più di un teste (F., oltre a quelli menzionati oltre) è stato visto nella sede della società e che ha avuto a che fare con tipiche attività gestorie: dare indicazioni su cosa scrivere in fattura (C.), trattare con i fornitori delle dilazioni di pagamento (F., T.).

Quanto a V., pur non avendo egli mai rivestito alcuna carica sociale nella N.T., di cui risultava formalmente solo direttore tecnico, risulta accertato dall’istruttoria che in realtà ne fosse il dominus, che vi abbia esercitato un ruolo di amministratore di fatto, gestendone l’attività in modo continuativo e significativo.

Tutte le decisioni relative alla N.T. ed alla sua gestione commerciale venivano assunte da lui, e ciò risulta di particolare significato anche in relazione alle dimensioni relativamente modeste dell’impresa.

Si aggiunga che il consolidato orientamento giurisprudenziale della Suprema Corte per riconoscere la qualifica di amministratore di fatto a un soggetto non richiede l’esercizio da parte sua di tutti i poteri di gestione, ma solo di una parte significative degli stessi.

Quel che va accertato nella fattispecie concreta è se vi siano indici sintomatici di funzioni gerarchiche e direttive in qualsiasi momento dell’iter di organizzazione, produzione e commercializzazione di beni e servizi.

Nel caso di specie, la funzione direttiva di V. si ravvisa sia nei rapporti con i dipendenti, da lui assunti e da lui diretti nelle loro attività, che in quelli con i fornitori così come in quelli con i clienti.

Cominciando dai rapporti con i clienti, si segnala che la sentenza del Tribunale Monocratico di Salerno del 9.7.10, pur prodotta dalla difesa di V., e riguardante delle truffe contrattuali che hanno visto coinvolte la N.T. e, in veste di cliente, l’Autorità Portuale di Salerno, non è affatto favorevole alla tesi difensiva dello stesso secondo cui egli si sarebbe limitato a lavorare per la società come dipendente.

In tale pronuncia, infatti, che peraltro non risulta passata in giudicato, è vero che V. è stato assolto dal reato di truffa, ma non perché il Tribunale non abbia riconosciuto il suo ruolo di amministratore di fatto.

Al contrario, nella sentenza è detto espressamente che V. era l’amministratore di fatto della N.T., tanto da essere l’interlocutore per la N.T. “nella fase iniziale e centrale delle trattative, presentandosi e comportandosi come amministratore di fatto della società” Egli, però, scompare nella fase finale delle trattative relative all’appalto dell’Autorità Portuale di Salerno, cioè a maggio del 2003, ed è solo questa la ragione della sua assoluzione.

Sulla veste di amministratore di fatto del V. numerose sono state le testimonianze sia dei titolari di società fornitrici della N.T. sia dei dipendenti della società medesima.

Quanto al primo gruppo, si segnala ad es. la testimonianza di F., legale rappresentante della “F. s.p.a.”, industria plastica e di impermeabilizzazioni.

Egli ha, infatti, riferito che V. si è presentato a lui come il titolare, il responsabile della N.T.. E’ con V. che si è incontrato per trattare l’ordine, è con V. che ne ha contrattato le condizioni, ed è sempre lui che gli ha fatto l’ordine.

Sempre a V., poi, F. si è rivolto quando la relativa fattura è rimasta insoluta. Egli si è anche recato personalmente preso la sede della N.T. e lì ha parlato proprio con V. il quale gli ha detto, parlando significativamente alla prima persona plurale: “Ci siamo fusi con la società di P.” – che era in quel momento con lui in sede e che gli presenta – “Vedrai che in qualche modo risolviamo”.

Tutto ciò avveniva nel 2003, in epoca successiva all’uscita dalla società della nipote di V., K., evento che invece non viene affatto menzionato da V.M., il quale continua a essere parimenti coinvolto nella società, a dimostrazione ulteriore che era lui e non la giovane K. il reale amministratore della N.T..

Nello stesso senso anche la deposizione di F., legale rappresentante della “IEF s.r.l.”, produttrice di cinghie, il quale anzi ha effettuato forniture “per qualche anno” alla N.T., e per gli ordini ha parlato sempre esclusivamente con V..

Quando l’ultima fattura è rimasta insoluta, dopo una serie di telefonate in cui trovava come contatto P. che prendeva tempo, F. si recava alla N.T. dove parlava con P. il quale gli diceva che “V. non era più l’amministratore”: segno dunque che V., unico referente per anni di Fedrigotto, dallo stesso P. era considerato fino a poco prima del fallimento l’effettivo amministratore della società.

Uguale la vicenda vissuta da T., legale rappresentante della “T.T.”.

Anche a lui V. aveva detto che era lui che comandava, che gestiva tutto.

Nel 2003 è lui che gli fa l’ultimo ordine e che, come sempre, si accorda con T. per le condizioni dello stesso. Quando poi, però, è pronta la fornitura, 2-3 mesi dopo, gli dice che lo pagherà P., perché è lui “il responsabile nuovo”, che avrà a che fare con lui “perché io ho ceduto” (p. 63 verbale stenotipico), rivelando così, ancora una volta, la totale indifferenza per quella che era stata fino ad allora la situazione di diritto della società – con l’amministrazione alla nipote K. e la proprietà in capo a lei e a P. – proprio perché scollegata da quella che era la realtà di fatto, in cui lui stesso, V., si considerava a pieno titolo l’amministratore e anche il titolare della società.

A sua volta Rover a, amministratore della “Oriontech”, pensava che avesse V. il ruolo di amministratore. Ha riferito anche di aver concordato prima tutto il contenuto del contratto con V., e di aver poi constatato che quando tutto era ormai stabilito V. aveva chiamato P. per firmare (p. 13 verbale stenotipico del 17.10.14).

Anche dalle testimonianze dei dipendenti sentiti risulta il pieno ruolo gestorio di V..

Sia la C. che la F. hanno riferito di essere state assunte da V. dopo aver avuto un colloquio con lui.

Entrambe hanno poi detto che facevano riferimento a V..

La C., che ha lavorato nel periodo giugno-luglio 2003, ha dichiarato che non c’era nessun altro di rilievo in azienda oltre a V..

Solo nell’ultimo mese, e siamo dunque a luglio 2003, V. unitamente a P. le disse che sarebbe stato sostituito da quest’ultimo (p. 47 verbale stenotipico del 19.9.14).

La F., che ha svolto sostanzialmente lavoro di receptionist da metà aprile a fine luglio 2003, rispondendo al telefono e aprendo la sbarra, ha confermato che per lei il capo era M.V., e che era lui che “si sedeva nella stanza del capo” per tutto il periodo in cui lei stessa è rimasta presso la N.T., e che P. l’aveva visto poche volte (pp. 81 e 83 verbale stenotipico del 19.9.14).

Si osserva, poi, che la stessa F. riferisce che la C. era stata assunta per sostituire V.K.. Tenuto conto che il ruolo della F. era un ruolo impiegatizio di modesto livello, tanto che la sua attività è consistita solamente in qualche scrittura di prima nota e nella redazione di poche fatture, ciò conferma una volta di più che quel che la nipote di M.V. faceva alla N.T. non era affatto amministrarla, ma svolgervi un ruolo impiegatizio alle effettive dipendenze dello zio che ne era il reale amministratore.

Si noti, infine, la singolarità dell’operazione segnalata dalla curatrice nella sua relazione ed illustrata anche in sede di testimonianza (pp. 16,17 verbale stenotipico udienza 19.9.14).

La N.T. acquista una casa di proprietà di V.M. già gravata da ben due ipoteche e da un pignoramento immobiliare. Non solo: corrisponde per tale immobile ben 200.000,000 di lire e ciò nonostante lascia che V. continui ad abitarvi senza nemmeno corrispondere alcunché.

Sempre la curatrice segnalerà di aver trovato fra la documentazione della N.T. delle fatture rilasciate dall’avv. Pergola, difensore di V. nel presente procedimento, alla N.T. e relative a delle difese penali effettuate a favore personalmente di V., e che non si vede pertanto a che titolo la società avrebbe dovuto accollarsi.

Possono essere riconosciute al solo P. le circostanze attenuanti generiche, in ragione dell’incensuratezza e dell’età assai avanzata essendo nato nel 1932.

Vanno, invece, negate a V., gravato da precedenti anche specifici, del non essendovi altre circostanze positive da valorizzare.

Uniformandosi all’orientamento espresso ormai dalla Suprema Corte a Sezioni Unite, si ritiene che i singoli fatti di bancarotta, pur nella loro autonomia, vadano riuniti ai sensi dell’art. 219 II comma legge fallimentare che costituisce specifica deroga al regime ordinario della continuazione (v. Cass. SS. UU. n. 21029/11).

Una delle caratteristiche derogatorie di tale disciplina consiste proprio nel limitare al massimo a un terzo l’aumento e nel consentire, in ragione della veste formale di circostanza di tale previsione legislativa, il suo assoggettamento al bilanciamento, che resta pertanto possibile nonostante la natura sostanziale di reato continuato, come ulteriormente chiarito anche di recente dalla Suprema Corte (v. Cass. V Sez., n. 21036/2013).

Le circostanze attenuanti vanno pertanto giudicate per P. prevalenti all’aggravante contestata, tenuto conto che si tratta di persona ultraottantenne.

Tenuto conto dei criteri di cui all’art. 133 c.p. pena congrua per il reato contestato si ritiene quella di anni 3 di reclusione.

Tale pena va diminuita ad anni 2 per P. data la prevalenza delle attenuanti generiche sull’aggravante. Per V., invece, la pena di anni 3 va aumentata ad anni 3 mesi 6 di reclusione per l’applicazione dell’aggravante contestata, in considerazione della gravità dei fatti in esame.

L’entità della pena irrogata e la presenza di precedenti penali ostano al riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale della pena per V., mentre per P. la pena può essere sospesa trattandosi di persona che a 82 anni d’età risulta ancora incensurata e potendo pertanto effettuarsi una prognosi favorevole.

Seguono per legge l’applicazione delle pene accessorie specificate in dispositivo e la condanna degli imputati al pagamento delle spese processuali, correggendo così sul punto anche il dispositivo letto in udienza.

La motivazione è stata riservata al 60 giorno.

P.Q.M.

V.i gli artt. 533535 c.p.p.,

dichiara P.G. e V.M. responsabili del reato ad essi ascritto e, per l’effetto, disapplicata la recidiva contestata nei confronti di V.M., concesse le attenuanti generiche al solo P.G. in misura prevalente alla contestata aggravante, condanna:

V.M. alla pena di anni 3 e mesi 6 di reclusione;

P.G. alla pena di anni 2 di reclusione.

Pena sospesa nei confronti di P.G.. Condanna entrambi al pagamento delle spese processuali.

V.o l’art. 216 ult. comma R.D. n. 267 del 1942 e l’art. 29 c.p.,

dichiara V.M. interdetto dai pubblici uffici per anni 5, nonché inabilitato all’esercizio di un’impresa commerciale ed incapace ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per anni 10.

Motivazione riservata in giorni 60.

Conclusione

Così deciso in Padova, il 7 gennaio 2015.

Depositata in Cancelleria il 11 febbraio 2015.

 

 

Originally posted 2021-08-11 07:22:03.