Morte di sei operai all’interno di un impianto di depurazione!!!!

Morte di sei operai all’interno di un impianto di depurazione!!!!

 

il principio di separazione tra politica ed amministrazione delineato dall’art. 107 d. Lgs. 18 agosto 2000, n.267 (T.U. Ordinamento Enti Locali, in precedenza art.51 legge 8 giugno 1990, n.142 e per tutte le Amministrazioni pubbliche art.3 d. Lgs. 3 febbraio 1993, n.29) implica una fondamentale distinzione tra le funzioni di indirizzo politico-amministrativo e quelle di amministrazione.

  • Le prime competono agli organi di governo, i quali le esercitano definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento delle predette funzioni, con verifica della rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti; le seconde rientrano nella sfera di competenza dei dirigenti, ai quali spetta l’adozione degli atti e dei provvedimenti amministrativi, compresi tutti quelli che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. I dirigenti sono responsabili in via esclusiva dell’attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati.
  • Da tale assetto deriva che gli obblighi di controllo sulla fonte del rischio spettano al dirigente responsabile del corrispondente servizio tecnico; l’organo politico risponde, per tale profilo, di atti o condotte omissive che abbiano privato il dirigente della reale autonomia di spesa, funzionale agli interventi necessari per neutralizzare il rischio. Rispetto alla tutela dei lavoratori da rischi derivanti dall’ambiente di lavoro, la posizione di garanzia spetta, dunque, negli Enti pubblici al dirigente individuato come datore di lavoro ed al preposto.

L’impianto normativo del T.U.E.L.

 

 riserva, in sostanza, all’autonomia autoorganizzatoria degli enti locali, mediante l’adozione di specifiche norme di rango regolamentare, in conformità alle norme statuarie, l’organizzazione degli uffici e dei servizi, nonché l’attribuzione delle facoltà gestionali ai dirigenti.

È pertanto in tale ambito che occorre provvedere all’individuazione del dirigente o del funzionario responsabile delle procedure stabilite in materia di sicurezza; spetta, in altre parole, al regolamento dell’Ente, in raccordo con lo Statuto, provvedere all’organizzazione degli uffici e dei servizi, ricercando i dipendenti dirigenti, o non dirigenti, in relazione alla tipologia dell’Ente, cui attribuire le responsabilità connesse al procedimento, anche in materia di sicurezza sul lavoro (e di ambiente), in relazione alle specifiche professionalità possedute dai medesimi.

  1. Da tale assetto normativo deriva la necessità di delineare con chiarezza, e con differenziazione rispetto ai doveri datoriali, quale sia l’ambito entro il quale si manifesta in capo all’organo di vertice dell’Ente, o all’assessore delegato, l’obbligo di gestire il rischio derivante ai lavoratori dalle mansioni svolte presso strutture ed impianti pubblici. Per il Sindaco, la norma di riferimento è l’art. 50 T.U.E.L., che definisce il primo cittadino come organo responsabile dell’amministrazione del Comune.
  2. Sebbene la disposizione faccia esplicito riferimento alla delimitazione dei poteri del Sindaco con quanto previsto dall’art.107 (Funzioni e responsabilità dei dirigenti) e quindi ad una distinzione tra poteri di indirizzo e poteri di concreta gestione, ciò non esclude che il primo cittadino debba svolgere un ruolo di controllo sull’operato dei suoi dirigenti e che analogo controllo siano tenuti a svolgere gli assessori con riguardo ai dirigenti che operano nei settori di loro competenza. Peraltro tale potere-dovere trova riconoscimento nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, laddove è stato 
    affermato, in tema di reati ambientali, che
  3. «La distinzione operata dall’art. 107 del Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali fra i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, demandati agli organi di governo, e i compiti di gestione attribuiti ai dirigenti, non esclude, in materia di rifiuti, il dovere di attivazione del Sindaco allorché gli siano note situazioni, non derivanti da contingenti ed occasionali emergenze tecnico-operative, che pongano in pericolo la salute delle persone o l’integrità dell’ambiente» (Sez. 3, n. 37544 del 27/06/2013, Rv. 256638). Con riguardo alla messa in sicurezza degli impianti di proprietà dell’Ente, la posizione di garanzia dell’organo politico non è, in particolare, esclusa dall’attribuzione dei compiti di gestione ai dirigenti amministrativi perché si versa in un’area di rischio che può derivare anche da scelte di indirizzo politico dell’Ente. Onde evitare ogni forma di automatismo tra posizioni apicali e responsabilità omissive è, in ogni caso, necessario verificare la concreta conoscenza o conoscibilità della situazione di pericolo.
  4. Le inammissibilità
    7.1. Non è impugnabile con ricorso per cassazione la statuizione pronunciata in sede penale e relativa alla concessione e quantificazione di una provvisionale, trattandosi di decisione di natura discrezionale, meramente delibativa e non necessariamente motivata (Sez. 3, n. 18663 del 27/01/2015, D. G., Rv. 263486).
  5. Non sono ammissibili le censure alla valutazione della prova,

 che contrappongano a quella dei giudici una diversa valutazione, senza neppure denunciare un travisamento del significante. Giova ricordare che il vizio di travisamento della prova, nel caso in cui i giudici delle due fasi di merito siano pervenuti a decisione conforme, può essere dedotto solo nel caso in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice (Sez. 4, n. 5615 del 13/11/2013, dep.2014, Nicoli, Rv. 258432; Sez. 4, n. 19710 del 03/02/2009 Buraschi, Rv. 243636; Sez. 1, n. 24667 del 15/06/2007, Musumeci, Rv. 237207; Sez. 2, n. 5223 del 24/01/2007, Medina, Rv. 236130) ovvero qualora entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forme di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili (ossia in assenza di alcun discrezionale apprezzamento di merito), il riscontro della persistente infedeltà delle motivazioni dettate in entrambe le decisioni di merito (Sez. 4, n. 44765 del 22/10/2013, Buonfine, Rv. 256837).

Vale, poi, ricordare che compito della Corte di Cassazione non è quello di ripetere l’esperienza conoscitiva del Giudice di merito, anche con riferimento 
alla valutazione dei dati tecnici sottoposti al suo giudizio, bensì quello di verificare se il ricorrente sia riuscito a dimostrare, in sede di legittimità, l’incompiutezza strutturale della motivazione della Corte di merito; incompiutezza che derivi dalla presenza di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica, o fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli appartenenti alla collettività, o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro ovvero dal non aver il decidente tenuto presenti fatti decisivi, di rilievo dirompente dell’equilibrio della decisione impugnata, oppure dall’aver assunto dati inconciliabili con atti del processo, specificamente indicati dal ricorrente e che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità cosi da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione (Sez. 2, n. 13994 del 23/03/2006, Napoli, Rv. 233460; Sez. 1, n. 20370 del 20/04/2006, Simonetti, Rv. 233778).

Principi applicabili

  • Data la sostanziale conformità del procedimento logico seguito e dei dati istruttori esaminati nelle sentenze dei due gradi di merito con riguardo alla posizione degli imputati Z.M., C.A. e G.S.M., trova applicazione il principio consolidato nella giurisprudenza della Corte di legittimità a mente del quale, in presenza di una doppia conforme affermazione di responsabilità, è ammissibile la motivazione della sentenza d’appello per reìationem a quella della decisione di primo grado, sempre che le censure formulate contro la prima sentenza non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi, in quanto il giudice di appello, nel controllare la fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non è tenuto a riesaminare questioni sommariamente riferite dall’appellante nei motivi di gravame, sulle quali si sia soffermato il primo giudice, con argomentazioni ritenute esatte e prive di vizi logici, non specificamente e criticamente censurate (Sez.6, n. 28411 del 13/11/2012, dep. 2013, Santapaola, Rv. 256435; Sez. 3, n. 13926 del 10/12/2011, dep. 2012, Valerio, Rv. 252615; Sez. 2, n. 1309 del 22/11/1993, dep. 1994, Albergamo, Rv. 197250).
  • Nel caso in esame, la Corte territoriale non ha, peraltro, proceduto ad un mero rinvio per reìationem alla motivazione della sentenza di primo grado ma, valutando il materiale istruttorio, ha esaminato gli specifici rilievi sollevati con i motivi d’impugnazione contro la sentenza medesima.
  • Con riguardo alle posizioni degli imputati CA. e S.LC. rispetto al capo H) e dell’imputato G.V. rispetto al capo B) dell’imputazione, invece, la sentenza impugnata ha ribaltato il giudizio assolutorio del Tribunale e deve, pertanto, essere valutata alla luce del seguente principio espresso dalla giurisprudenza di legittimità: in tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679).
  • Non basta, peraltro, in mancanza di elementi sopravvenuti, una mera e diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito in primo grado ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, né che tale valutazione sia caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, occorrendo, invece, una forza persuasiva superiore, tale da far venir meno ogni ragionevole dubbio (Sez.6, n.45203 del 22/10/2013, Paparo, Rv. 256869; Sez. 6, n.8705 del 24/01/2013, Farre, Rv. 254113; Sez.2, n.11883 del 08/11/2012, dep. 2013, Berlingeri, Rv. 254725; Sez.6, n.34487 del 13/06/2012, Gobbi, Rv. 253434).
  • Estinzione per prescrizione 
    9. Esaminando, preliminarmente, il tempo necessario a prescrivere relativo ai reati per i quali è intervenuta condanna il Collegio rileva l’intervenuto decorso del termine massimo di prescrizione per i reati ascritti a CA. al capo F) (art.484 cod. pen.) ed a CA. e S.LC. al capo G) (art.260 d. Lgs. 3 aprile 2006, n.152, imputazione inerente alla gestione clandestina di rifiuti illecitamente sversati presso l’impianto di depurazione in questione e in altri scarichi non autorizzati). Si tratta di reati ai quali si applica, a norma dell’art. 157 cod. pen., il termine di prescrizione di sei anni, prorogato in virtù di atto interruttivo a sette anni e sei mesi. Le condotte di cui al capo F) risultano contestate, quanto al tempus commissi delieti, in data successiva e prossima al 10 giugno 2008 e le condotte contestate al capo G) risultano contestate fino al giorno 11 giugno 2008 e successivamente, ma con riguardo al capo F) non risultano condotte successive all’esecuzione dei sequestri dell’autocisterna e dei documenti eseguiti tra il 7 ed il 10 giugno 2008, né possono incidere sul tempus commissi delicti per il capo G) le attività intercettate in epoca conseguente al sopralluogo ed ai sequestri effettuati in data 15 luglio 2008 dalla Polizia Giudiziaria, in presenza di una generica indicazione (pag.215) di contratti stipulati dall’impresa CA. successivamente ai fatti di causa proprio in relazione all’attività di smaltimento dei rifiuTI.
  • Va, quindi, osservato che è venuto a maturare il termine massimo di prescrizione previsto dalla legge per i reati contestati ai capi F) e G), compiutosi, computando i periodi di sospensione alla luce della recente pronuncia delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 4909 del 18/12/2014, dep.2015, Torchio, Rv. 262913), in data successiva alla pronuncia della sentenza di appello.
    9.2. La delibazione dei motivi sopra indicati fa escludere, per altro verso, l’emergere di un quadro dal quale possa trarsi ragionevole convincimento dell’evidente innocenza dei ricorrenti. Sul punto, l’orientamento della Corte di legittimità è univoco. In presenza di una causa di estinzione del reato il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’art. 129, comma 2, cod.proc.pen. soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell’imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, cosi che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di constatazione, ossia di percezioni ictu oculi, che a quello di apprezzamento e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (Sez. U, n.35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244275). Nel caso di specie, restando al vaglio previsto dall’art. 129, comma 2, cod.proc.pen., l’assenza di elementi univoci dai quali possa trarsi, senza necessità di approfondimento critico, il convincimento di innocenza degli imputati impone l’applicazione della causa estintiva.
  • La regola dettata dall’art.578 cod.proc.pen. prevede che, ancorché venga dichiarata l’estinzione del reato, il giudice di appello deve decidere sull’impugnazione ai soli effetti civili qualora vi sia stata condanna in primo grado alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato.
  • Ma tale regola non è applicabile nel caso concreto in quanto, secondo quanto si evince chiaramente dal testo della sentenza impugnata, le pronunce di condanna al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili sono state emesse in relazione alle imputazioni di omicidio colposo e non concernono, pertanto, i reati per i quali è intervenuta prescrizione. La condotta di sversamento di rifiuti pericolosi nell’impianto di depurazione del Comune di Mineo, d’altro canto, seppure individuata quale concausa incidente sul rischio interferenziale dal quale è derivato l’evento morte, non costituisce che un segmento della più articolata attività di gestione di rifiuti in cui si sostanzia la condotta tipica del reato contestato al capo G); non può, dunque, individuarsi sotto tale profilo alcuna correlazione tra la pronuncia di condanna al risarcimento del danno e quest’ultimo reato. Giova, altresì, anticipare, quale ulteriore argomento a sostegno dell’assenza di correlazione tra i reati prescritti e la pronuncia di condanna al risarcimento del danno, che in relazione al reato contestato al capo H), concernente la morte quale conseguenza non voluta dello sversamento doloso di rifiuti speciali pericolosi, è rilevabile un errore di diritto meglio descritto al par. 13. Consegue la mera pronuncia di annullamento senza rinvio perché i reati in esame sono estinti per prescrizione.
  • Il ricorso di Z.M.
    10. Il primo motivo è infondato.

Nella sentenza di primo grado si rinviene sia l’affermazione che idrocarburi pesanti ed oli esausti normalmente non si trovano in un impianto di depurazione sia che anni prima dell’evento l’A.R.P.A. li aveva rilevati in acque in ingresso; ma si legge anche che non solo idrocarburi pesanti ma anche solfuri erano in concentrazione tale da escludere che il ciclo delle acque fosse coinvolto prima della loro immissione, desumendosi da tali elementi che l’immissione di solfuri ed idrocarburi fosse partita dal P.R.R.F. Il Tribunale aveva ritenuto provato che nel P.R.R.F. si fossero trovati idrocarburi che avevano le medesime caratteristiche, molto particolari e specifiche, degli idrocarburi che erano all’interno dell’autospurgo. La concentrazione più alta si era rinvenuta nell’autocisterna.

Non era spiegabile come mai il fango che partiva da un sedimentatore ed andava verso il pozzetto potesse contenere un quantitativo di oli minerali inferiore (56 mg/kg) a quello che era nel pozzetto (275 mg/kg).
Il Tribunale aveva, quindi, analizzato la tesi del consulente della difesa, ing. S., a sostegno del buon funzionamento dell’impianto, ritenendo tuttavia che tale tesi fosse inidonea a confutare l’altra tesi per cui la produzione della quantità letale di acido solfidrico fosse avvenuta all’interno del depuratore e sottolineando che il buon funzionamento del depuratore avesse valore di condizione necessaria ma non sufficiente ad escludere la provenienza dall’impianto di acido solfidrico, dunque l’evento.
Altra condizione evidenziata dal Tribunale era l’assenza di tracce di solfuri nell’autocisterna; non ritenendo provata la concausa dello sversamento nel pozzetto di sostanze tossiche provenienti dall’autocisterna, il giudice di primo grado aveva considerato che la causa sufficiente dell’evento fosse la massa di fanghi non smaltiti nel quinquennio presente nel depuratore e, in particolare, nel SEDI.

La Corte di Appello, ripercorsa analiticamente la tesi dei consulenti tecnici del pubblico ministero, ha replicato all’osservazione critica relativa all’assenza di metano ed alla tesi difensiva circa l’inversione termica quale spiegazione della mancata rilevazione di metano, confutando la tesi difensiva secondo la quale la presenza di lemna minor fosse indicativa dell’ottimale funzionamento dell’impianto. Ha, quindi, replicato alla tesi difensiva concernente gli interventi sul biorotore. Non si ravvisano, in definitiva, lacune o vizi nella motivazione sui punti indicati nel motivo di ricorso.
10.1. Il secondo motivo di ricorso è infondato. Secondo quanto si legge nella sentenza impugnata, l’incarico di consulenza affidato al dott. P., esterno al Comune di Mineo, non aveva ad oggetto la gestione del depuratore ma soltanto delle analisi periodiche con cadenza quadrimestrale. L’unico addetto al depuratore, P.S., non aveva conoscenze adeguate sui processi biochimici in corso nel depuratore, né risultavano corsi di formazione che lo riguardassero; la culpa in eligendo del datore di lavoro è stata, pertanto, congruamente fondata sulla scelta di adibire all’impianto di depurazione operatori non dotati di competenze relative ai processi chimici, fisici e biologici che ivi si verificano in quanto tale impianto necessita di personale in grado di svolgere un’attività complessa che richiede competenze specialistiche.

Il terzo motivo di ricorso è infondato. L’accesso al pozzetto, secondo quanto accertato dai giudici di merito, non era considerato evento di carattere eccezionale o riservato agli interventi di manutenzione straordinaria e, ciononostante, nessuna cautela era stata adottata dal datore di lavoro per impedire l’accesso al P.R.R.F. La saldatura dei grigliati di copertura era saltata da tempo, né era stato rinvenuto alcun elemento che indicasse l’esistenza di una chiusura fissa del grigliato.
Quanto all’imposizione di un «visto» preventivo del datore di lavoro sugli ordini di servizio è stata ritenuta misura inidonea; correttamente la Corte territoriale ha ritenuto che la culpa in vigilando si sostanzi, secondo la normativa, nella garanzia di una corretta procedimentalizzazione delle decisioni a rischio. Ciò comporta che, affinchè il datore di lavoro possa ritenersi esente da colpa, deve essere accertato che abbia posto in essere tutti gli accorgimenti precauzionali indispensabili al fine. Deriva da tale considerazione che la misura adottata, ossia quella di pretendere che gli ordini di servizio venissero sottoposti al suo preventivo controllo, perché in ciò si sostanzia il predetto «visto», non possa qualificarsi come misura sufficiente qualora, come nel caso concreto, sia stata omessa la redazione di idoneo D.V.R. e di D.U.V.R.I. ed il datore di lavoro sia venuto meno al compito non delegabile di valutare il rischio da gestire. Nella sentenza impugnata si sono analizzate le caratteristiche e le fonti dei rischi correlati ad un impianto di depurazione e si è sottolineato come il rischio chimico sia connaturato a tale genere di impianti, connotati da zone simili ad «ambienti confinati», per cui l’omessa valutazione del rischio chimico ha impedito di prevedere i presidi idonei a neutralizzarlo.
Ma anche le omesse informazione e formazione dei lavoratori circa la conduzione dell’impianto in modo idoneo e sicuro rappresentava un obbligo la cui omissione è stata ritenuta determinante quale causa dell’evento. La Corte di Appello ha richiamato l’esito della prova dichiarativa per ricordare come non fosse stata prevista né attuata una formazione specifica dei lavoratori, che non avevano partecipato ad alcun corso di formazione, né erano informati dei rischi connaturati all’ambiente di lavoro del depuratore.

 

TESTO INTEGRALE SENTENZA

Presidente: D’ISA CLAUDIO Relatore: SERRAO EUGENIA Data Udienza: 07/06/2016

Fatto

  1. Il fatto
    La sentenza in esame riguarda un evento verificatosi il giorno 11 giugno 2008 all’interno dell’impianto di depurazione del Comune di Mineo, dove morirono sei operai rinvenuti all’interno del pozzetto di ricircolo dei fanghi, Z.G., P.S., P.G., S.N., operai del Comune di Mineo, S.G. e T.S., operai della ditta CA. di Ragusa.
    Secondo i dati emergenti all’esito dell’istruttoria in primo grado, il 6 giugno 2008 l’impresa CA. Servizi Ecologici s.r.l., la cui principale attività è il risanamento di condotte, aveva effettuato, su richiesta del Comune di Mineo, un intervento presso il depuratore avente ad oggetto l’espurgo della condotta di collegamento tra la vasca del biorotore (ossia la vasca in cui avviene il nucleo del trattamento depurativo mediante un processo di rimozione e trasformazione delle sostanze inquinanti) e la vasca di sedimentazione finale (ossia la vasca in cui si raccolgono i fanghi successivamente al processo di sedimentazione primaria); contestualmente il Comune aveva emesso un ordine di servizio perché i dipendenti S.N. e P.G. svolgessero attività presso il depuratore, dove lavorava stabilmente P.S. in qualità di addetto all’impianto, senza tuttavia indicare correttamente il tratto di impianto oggetto d’intervento; tale tratto avrebbe dovuto piuttosto essere descritto quale tubazione fra il pozzetto ripartitore ed il sedimentatore ovvero tubazione fra il biorotore ed il pozzetto ripartitore. Quel giorno si erano tentati due interventi di spurgo: un primo intervento, presso un pozzetto rettangolare interrato in cui si vedevano dei dischetti neri che intasavano il circuito, non era andato a buon fine. Si era, poi, tentato un altro intervento di stasatura al lato opposto della prima vasca di collegamento inserendo il naspo dal bordo del pozzetto con un’asta, ma l’ogiva dell’ugello non entrava ed appena la pompa partiva con un minimo di pressione il naspo fuoriusciva. Si era ritenuto inopportuno e pericoloso scendere nel pozzetto.
    Il 9 giugno il Comune di Mineo aveva dato ulteriore incarico all’impresa CA. di intervenire; nell’ordine di servizio era prevista la stasatura del tubo che dal biorotore va alla prima vasca di sedimentazione e dove vi è un pozzetto (P.R.L.) che non ha alcun collegamento idraulico con il pozzetto P.R.R.F., in cui è avvenuto l’incidente.
    L’11 giugno, su richiesta degli operai della CA., il SED2 era stato parzialmente svuotato per favorire le operazioni; si trattava di lavoro urgente ed importante, dimostrato dall’anticipato rientro dalle ferie di Z.G. e di P.G. e dal temporeggiare di P.S. nella fruizione di ferie residue dell’anno precedente. Gli operai del Comune avevano comprato, alle ore 9:19, una scala in alluminio lunga m.3,90. Alle ore 15:40 circa un impiegato del Comune, MA’., allertato dai familiari degli operai e dal collega Ca., si era recato al depuratore ed ivi aveva trovato i cadaveri nel pozzetto.
    La ricostruzione del fatto ritenuta probabile era, secondo il Tribunale, la seguente: l’11 giugno la discesa nel pozzetto di ricircolo era stata preceduta dalla ultimazione dell’intervento già tentato il 6 giugno, tanto che il SED2 era stato nuovamente alimentato dalla condotta che lo collega al pozzetto ripartitore, evidentemente sturata; l’acquisto della scala utilizzata per scendere nel pozzetto lo stesso giorno dell’incidente indicava che quel giorno si era deciso di effettuare un intervento che riguardava qualcosa da manipolare dentro il pozzetto; la discesa nel pozzetto di ricircolo (P.R.R.F.) andava collegata all’intervento con il naspo dell’autospurgo della CA. sulla valvola del SEDI, verosimilmente per disotturarla; non si trattò di operazione repentina perché fu preceduta dalla decisione di sollevare la grata che ricopriva il pozzetto e di collocarvi la scala in alluminio appositamente acquistata; la discesa della prima persona (P.S.) nel pozzetto era avvenuta quando questo non era occupato da fanghi o da altra sostanza dannosa; l’intervento per sturare la tubazione non era iniziato da molto, visto che l’acqua di servizio dell’autocisterna non era esaurita, quando si era verificato lo stasamento repentino ed incontrollabile della valvola del SEDI, che aveva impedito di risalire a chi era sceso e a chi lo accompagnava o intendeva soccorrerlo, in quanto ne erano fuoriusciti i fanghi più ricchi di acido solfidrico, saturandone in pochi secondi il pozzetto. In particolare, P.S. era impegnato al fondo del pozzetto di ricircolo a inserire il naspo sturatore all’interno della tubazione di estrazione dei fanghi connessa al SEDI; T.S. era sulla scala e forniva indicazioni utilizzando il telecomando dell’autospurgo; sia P.S. che T.S. erano deceduti per avvelenamento acuto causato dalle elevate concentrazioni di acido solfidrico all’interno del pozzetto; S.G., P.G., S.N. e Z.G. avevano soccorso i primi due ed erano svenuti per la presenza di idrogeno solforato, morendo per asfissia mentre il pozzetto si allagava; uno di coloro che erano all’esterno del pozzetto, accortosi dell’accaduto, aveva chiuso la valvola ed attivato la pompa di ricircolo prima di scendere a soccorrere gli altri; tale ultima operazione poteva, tuttavia, essere opera di una settima persona rimasta ignota.
  2. Le imputazioni
    In relazione a tali accadimenti è stata esercitata l’azione penale in ordine a diversi illeciti, qui indicata nei limiti d’interesse, nei confronti di: 
    Z.M., nella qualità di responsabile Area Servizi Tecnologici e del Territorio del Comune di Mineo, dirigente dell’Ufficio Tecnico Comunale avente autonomia gestionale e datore di lavoro ai sensi dell’art. 30 d.lgs. 19 marzo 1996, n. 242, dell’art. 2, comma 1, lett.b) d. lgs. n. 81/2008e dell’art. 2 d. lgs. 19 settembre 1994, n. 626;
    C.A., quale Responsabile del Servizio Lavori Pubblici, manutenzioni e sicurezza sul lavoro nonché quale subentrante nelle competenze di responsabilità dell’Area in caso di assenza temporanea del Responsabile Z.M. e, nello specifico, nel periodo di assenza per congedo ordinario di Z.M. dal 9 al 13 giugno 2008;
    G.S.M., quale Assessore con delega ai Lavori Pubblici, al Servizio Idrico integrato, all’Ecologia, ai Servizi Tecnologici;
    S.CA., nella qualità di legale rappresentante e Presidente del Consiglio d’Amministrazione dell’impresa CA. Servizi Ecologici s.r.l. e datore di lavoro;
    G.V., quale Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione della CA. s.r.l.;
    S.LC., quale preposto con qualifica di capo cantiere presso la CA. s.r.l.
    Le accuse erano le seguenti:
    A Z.M. si contestava: l’omicidio colposo dei sei operai per colpa generica nella gestione dell’impianto di depurazione del Comune di Mineo, per culpa in eligendo, con riferimento al personale non qualificato addetto al depuratore, e per culpa in vigilando, con riguardo alla verifica di funzionamento dell’impianto, nonché per violazione di specifiche norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro (capo A, artt. 113,589, commi 1,2 e 3, 40, secondo comma, cod. pen.); l’omessa redazione del documento di valutazione dei rischi per la sicurezza (capo I, artt. 4, commi 2 e 89, d. Lgs. n.626/94); l’omessa formazione dei lavoratori Z.G. e S.N. al fine di consentire la conduzione dell’impianto di depurazione in modo idoneo e sicuro (capo L, artt. 18, comma 1, lett.l e 55, comma 4, lett.e d. lgs. n. 81/2008); l’omessa apposizione di cartelli di avviso in prossimità dei luoghi possibile oggetto di esalazione di sostanze tossiche (capo M, artt.163, comma 1, e 165, comma 1, lett.a d. lgs. n. 81/2008); di aver omesso di promuovere e coordinare la cooperazione con il datore di lavoro della società CA. non elaborando il D.U.V.R.I. finalizzato alla eliminazione o alla riduzione al minimo dei rischi di natura interferenziale (capo N, artt.26, commi 2 e 3, e 55, comma 4, lett.d d. lgs. n. 81/2008); di non aver fornito ai lavoratori i necessari D.P.I. e le attrezzature di lavoro, con particolare riferimento alle attrezzature per lavori in ambienti sospetti di inquinamento (capo O, artt.18, comma 1, lett.d, e 55, comma 4, lett.b d. lgs. n. 81/2008); di aver omesso atti del proprio ufficio e precisamente di predisporre gli atti necessari e lo schema di delibera da presentare alla Giunta Municipale affinchè il Sindaco fosse autorizzato alla stipula di un contratto di servizio con una ditta di manutenzione specializzata al fine di assicurare il corretto funzionamento del depuratore (capo P, artt.110 e 328 cod. pen.); di aver omesso atti del proprio ufficio e precisamente gli atti di impulso, di indirizzo politico-amministrativo, proposta e decisionali per la formazione del bilancio di previsione inerente agli anni antecedenti il 2008 al fine di assicurare il finanziamento del contratto di servizi per la migliore manutenzione del depuratore comunale (capo Q, artt.110, 81, secondo comma, e 328 cod. pen.).
    Ad C.A. si contestava: l’omicidio colposo dei sei operai per colpa generica nella gestione dell’impianto di depurazione del Comune di Mineo, per culpa in eligendo, con riferimento al personale non qualificato addetto al depuratore, e per culpa in vigilando, con riguardo alla verifica di funzionamento dell’impianto, nonché per violazione di specifiche norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro (capo A, arti. 113,589, commi 1,2 e 3, 40, secondo comma, cod. pen.); di aver omesso di promuovere e coordinare la cooperazione con il datore di lavoro della società CA. non elaborando il D.U.V.R.I. finalizzato alla eliminazione o alla riduzione al minimo dei rischi di natura interferenziale (capo N, artt.26, commi 2 e 3, e 55, comma 4, lett.d d. lgs. n. 81/2008); di non aver fornito ai lavoratori i necessari D.P.I. e le attrezzature di lavoro per svolgere in sicurezza l’attività di conduzione e manutenzione del depuratore comunale (capo
    O, artt.18, comma 1, lett.d, e 55, comma 4, lett.b d. lgs. n. 81/2008).
    A G.S.M. si contestava: l’omicidio colposo dei sei operai per colpa generica nella gestione dell’impianto di depurazione del Comune di Mineo, per culpa in eligendo, con riferimento al personale non qualificato addetto al depuratore, e per culpa In vigilando, con riguardo alla verifica di funzionamento dell’impianto, nonché per violazione di specifiche norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro (capo A, artt. 113,589, commi 1,2 e 3, 40, secondo comma, cod. pen.); di aver omesso atti del proprio ufficio e precisamente di predisporre gli atti necessari e lo schema di delibera da presentare alla Giunta Municipale affinchè il Sindaco fosse autorizzato alla stipula di un contratto di servizio con una ditta di manutenzione specializzata al fine di assicurare il corretto funzionamento del depuratore (capo P, artt.110 e 328 cod. pen.).
    A S.CA. si contestava: l’omicidio colposo dei sei operai per colpa generica nonché per violazione di specifiche norme per la prevenzione degli I infortuni sul lavoro e, in particolare, di aver omesso di promuovere e coordinare la cooperazione con il datore di lavoro del Comune di Mineo non elaborando il D.U.V.R.I., di non aver fornito ai lavoratori dipendenti i necessari dispositivi di protezione individuale e le attrezzature di lavoro; l’omessa formazione adeguata e specifica dei lavoratori T.S. e S.G. (capo B artt.113,589, commi 1,2 e 3, 40, secondo comma, cod. pen., artt.26 e 18, comma 1, lett.d d. lgs. n. 81/2008); di avere attestato falsamente l’avvenuta formazione e informazione dei nuovi assunti, la consegna del materiale antinfortunistico e d’impiego, nonché di avere registrato la dichiarazione sulle procedure di sicurezza con firma non autografa del dipendente S.G. , al fine di occultare il reato di cui al capo B) (capo F, artt.61 n.2, 81, secondo comma, e 484 cod. pen.); di aver ceduto, ricevuto, trasportato e comunque gestito clandestinamente ingenti quantità di rifiuti costituiti principalmente da fanghi di fosse settiche, reflui industriali originati dalle operazioni di bonifica dei mezzi e amianto, sversati illecitamente presso l’impianto di depurazione del Comune di Mineo e in altri scarichi non autorizzati (capo G, art.81, secondo comma, 110 cod. pen. e art.260 d. Lgs. n.152/2006); di avere cagionato, quale conseguenza non voluta del reato di cui al capo G), la morte dei sei operai conseguente allo scarico illecito effettuato presso il pozzetto di ricircolo del depuratore di Mineo, precisamente facendo scaricare in tale pozzetto solfuri e idrocarburi, oli minerali qualificabili come rifiuti speciali pericolosi, con il mezzo ADR tg. CW206AT (capo H, artt.110 e 586 cod. pen. con riferimento al disposto di cui all’art. 260 d. Lgs. n.152/2006).
    A G.V. si contestava: l’omicidio colposo dei sei operai per colpa generica nonché per violazione di specifiche norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e, in particolare, di aver omesso di promuovere e coordinare la cooperazione con il datore di lavoro del Comune di Mineo non elaborando il D.U.V.R.I., di non aver fornito ai lavoratori dipendenti impegnati nei lavori per il depuratore i necessari dispositivi di protezione individuale e le attrezzature di lavoro; l’omessa formazione adeguata e specifica dei lavoratori T.S. e S.G. (capo B artt.113,589, commi 1,2 e 3, 40, secondo comma, cod. pen., artt.26 e 18, comma 1, lett.d d. Lgs. n.81/2008).
    A S.LC. si contestava: l’omicidio colposo dei sei operai per colpa generica nonché per violazione di specifiche norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro (capo B, artt.113,589, commi 1,2 e 3, 40, secondo comma, cod. pen.); l’omessa vigilanza, quale capocantiere della società CA., sull’osservanza da parte dei lavoratori T.S. e S.G. dei loro obblighi di legge nonché delle disposizioni aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro e di uso di mezzi di protezione collettivi e di D.P.I. (capo C, artt.19 lett.a e 56 d. lgs. n. 81/2008); di avere omesso di richiedere l’osservanza delle misure per il controllo delle situazioni di rischio in casi di emergenza e di non avere impartito le istruzioni perché, in caso di pericolo grave, immediato ed inevitabile, i lavoratori abbandonassero il posto o la zona pericolosi (capo D, artt.19 lett.c e 56 d. Lgs. n.81/2008); di avere omesso di informare i lavoratori T.S. e S.G. circa il rischio di un pericolo grave ed immediato quale quello connesso all’esecuzione di interventi di manutenzione presso gli impianti di depurazione (capo E, artt.19 lett.c e 56 d. Lgs. n.81/2008); di aver ceduto, ricevuto, trasportato e comunque gestito clandestinamente ingenti quantità di rifiuti costituiti principalmente da fanghi di fosse settiche, reflui industriali originati dalle operazioni di bonifica dei mezzi e amianto, sversati illecitamente presso l’impianto di depurazione del Comune di Mineo e in altri scarichi non autorizzati (capo G, art.260 d. Lgs. n. 152/2006); di avere cagionato, quale conseguenza non voluta del reato di cui al capo G), la morte dei sei operai conseguente allo scarico illecito effettuato presso il pozzetto di ricircolo del depuratore di Mineo, precisamente facendo scaricare in tale pozzetto solfuri e idrocarburi, oli minerali qualificabili come rifiuti speciali pericolosi, con il mezzo ADR tg. CW206AT (capo H, artt.110 e 586 cod. pen. con riferimento al disposto di cui all’art.260 d. Lgs. n.152/2006).
  3. La prima sentenza
    Il Tribunale di Caltagirone, con sentenza del 26/11/2012, aveva assolto Z.M. dai reati ascrittigli ai capi P) e Q) perché il fatto non sussiste, lo aveva dichiarato responsabile dei reati ascrittigli ai capi A) (esclusa la responsabilità riguardo ai nn. 2 e 3 della seconda parte del capo di imputazione) e ai capi I), L), M), N) e O) delle imputazioni, questi ultimi riuniti sotto il vincolo della continuazione, e, concesse le attenuanti generiche, lo aveva condannato alla pena di 2 anni 8 mesi di reclusione ed 8 mesi di arresto nonché al pagamento delle spese processuali; aveva dichiarato C.A. colpevole dei reati ascrittigli ai capi A), INI) ed O) e, concesse le attenuanti generiche, lo aveva condannato alla pena di 2 anni e 8 mesi di reclusione e 5 mesi di arresto; aveva assolto G.S.M. dal reato ascrittogli al capo P) perché il fatto non sussiste e lo aveva dichiarato colpevole del reato ascrittogli al capo A), e, concesse le attenuanti generiche, lo aveva condannato alla pena di 2 anni e 8 mesi di reclusione; aveva assolto S.CA. dal reato ascrittogli al capo H) perché il fatto non sussiste e lo aveva dichiarato colpevole dei reati ascrittigli ai capi B), F) e G) e, concesse le attenuanti generiche per il capo B), lo aveva condannato alla pena di 4 anni e 2 mesi di reclusione; aveva assolto G.V. dal reato ascrittogli per non aver commesso il fatto; aveva assolto S.LC. dal reato ascrittogli al capo H) perché il fatto non sussiste e lo aveva dichiarato colpevole dei reati ascrittigli ai capi B), G), C),D) ed E) e, concesse le attenuanti generiche, lo aveva condannato alla pena di 3 anni e 4 mesi di reclusione e 3 mesi di arresto. Aveva condannato in solido gli imputati ed i responsabili civili CA. Servizi Ecologici s.r.l. e Comune di Mineo al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, rimettendone la liquidazione al giudice civile, nonché al pagamento di una provvisionale per ognuna di esse come specificato in sentenza, oltre alla refusione delle spese processuali in favore delle parti civili.
    Sostanzialmente incontroverso era che, all’origine della morte dei lavoratori, vi fosse stato il repentino svilupparsi di una elevata concentrazione di acido solfidrico. Il Tribunale aveva descritto l’inefficienza del sistema di dissabbiatura e disoleatura, le conseguenze dei periodi di fermo dell’impianto, la mancata utilizzazione della nastropressa, le conseguenze del mancato smaltimento dei fanghi accumulatisi, la disfunzione del sistema dei dischi biologici, il malfunzionamento di pompe del depuratore, l’inattendibilità dei campionamenti quali indici del buon funzionamento dell’impianto, ritenendo indimostrato che gli oli contenuti nell’autocisterna dell’impresa CA. fossero stati sversati in quantità tale da concorrere alla produzione dell’evento letale.
  4. La sentenza di appello
    La pronuncia di primo grado è stata parzialmente riformata dalla Corte di Appello di Catania, che ha condannato gli imputati C.A. e Z.M. per il capo A) delle imputazioni, concesse le circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alla contestata aggravante, alla pena di anni 3 e mesi 6 di reclusione e all’interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque; l’imputato G.S.M. per il capo A) delle imputazioni, concesse le circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alla contestata aggravante, alla pena di anni 3 di reclusione e all’interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque; gli imputati CA. e S.LC. per il reato di cui al capo H), rideterminando la pena complessivamente inflitta per i reati di cui ai capi B), G), H) ed F), ad anni 5 di reclusione ed all’interdizione perpetua dai pubblici uffici; l’imputato G.V. per il reato di cui al capo B) alla pena di anni 3 di reclusione e all’interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque; in solido gli imputati ed i responsabili civili al pagamento delle spese sostenute dalle costituite parti civili. Ha confermato nel resto le statuizioni civili fissate dalla sentenza di primo grado; ha condannato tutti gli imputati al pagamento delle ulteriori spese processuali; ha dichiarato non doversi procedere in ordine ai reati contravvenzionali di cui ai capi C), D), E), I), L), M), INI), ed O) dell’imputazione perché estinti per intervenuta prescrizione. 
  5. I ricorsi
    Hanno proposto ricorso per cassazione tutti gli imputati, il Comune di Mineo quale responsabile civile e le parti civili familiari di Z.G.. L’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (INAIL) ha depositato memoria. Nel corso dell’udienza pubblica le parti civili familiari delle altre vittime hanno depositato comparsa conclusionale e nota spese.
    6. Z.M. ricorre per cassazione per i seguenti motivi:
    a) con un primo motivo deduce vizio di motivazione in relazione all’art.192 e all’art.546, comma 1, lett.e) cod.proc.pen.; si duole del fatto che la Corte territoriale abbia sposato la prospettazione dei consulenti del pubblico ministero, a proposito delle cause del rilascio di acido solfidrico, omettendo di confrontare le ipotesi ricostruttive offerte dai consulenti di parte e di spiegare per quali ragioni gli elementi conoscitivi esclusi, dimostrativi del corretto funzionamento dell’impianto di depurazione di Mineo, non potessero essere posti a base della decisione. In base alle valutazioni dei consulenti della difesa, risultando provato che nell’impianto non fosse stata riscontrata presenza di metano, l’impianto non poteva considerarsi in condizioni anaerobiche tali da giustificare il fenomeno di acidogenesi e putrefazione dei fanghi dal quale sarebbe derivata l’emissione dei gas letali. Essendo certo, come rilevato dai consulenti sia del pubblico ministero sia della difesa Z.M., che all’interno del P.R.R.F. vi fossero fanghi con maggior concentrazione di solfuri ed oli minerali, rispetto ai normali fanghi di depurazione civile che si trovano normalmente all’Interno del P.R.R.F., si sarebbe dovuta riconoscere l’introduzione nell’impianto di una miscela di fanghi di origine esterna ed industriale che ne aveva alterato, come evento imprevisto e imprevedibile, il corretto funzionamento. I giudici di merito non hanno dato conto dell’esistenza delle prove offerte dalla difesa, a partire dalla più significativa, che è la consulenza tecnica, per arrivare ai documenti ed alle testimonianze; né hanno dato conto delle ragioni per cui hanno ritenuto tali prove non convincenti, omettendo di indicare le ragioni che hanno portato a ritenere non attendibili le prove addotte a sostegno dell’ipotesi secondo la quale l’acido solfidrico non era stato prodotto dai fanghi dell’impianto;

    b) con un secondo motivo deduce manifesta illogicità della motivazione nonché contraddittorietà processuale o extratestuale. Essendo la responsabilità del ricorrente fondata sulla culpa in eligendo per avere designato P.S., sostanzialmente, come unico addetto al depuratore nonostante lo stesso non possedesse la necessaria competenza tecnica, si deduce che allorché l’imputato era stato assunto con contratto del 17 aprile 2005 alle dipendenze del Comune aveva preso cognizione della delibera di Giunta n.59 del 10 marzo 2005 avente ad oggetto la «Rideterminazione Dotazione Organica» e la Determina Dirigenziale Segretario Comunale n. 356 del 24 marzo 2005 avente ad oggetto l’«Assegnazione del personale alle aree di cui alla dotazione organica approvata con deliberazione G.M.59/2005». Il P.S., si assume, era stato addetto fin dal 2003 al depuratore dopo essere stato formato dall’impresa costruttrice dell’impianto Ga., con la quale, per circa 1 anno e mezzo per formazione e 6 mesi per gestione, aveva avuto rapporti diretti. Contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di Appello, per le mansioni assegnategli, il dipendente P.S. non doveva possedere competenze tecniche sui processi biochimici in un depuratore di acque reflue completamente automatizzato, nè doveva possedere attestati di partecipazione a corsi di formazione specifici in tal senso, anche perché il Comune aveva nominato con delibera di Giunta Municipale n.217/2004 il dr. Carmelo P. consulente tecnico per il controllo delle acque potabili e reflue del Comune di Mineo;
    c) con un terzo motivo deduce contraddittorietà della motivazione sotto forma di travisamento per omissione degli atti processuali. La responsabilità per culpa in vigilando sul corretto funzionamento del depuratore è contraddetta, secondo il ricorrente, dal conferimento all’istruttore direttivo Z.G. Agrippino di compiti di gestione, con autonomia di spesa, della sicurezza del depuratore. Nella sentenza impugnata non si è, in particolare, chiarito in quale condotta si sarebbe dovuta sostanziare la supervisione spettante all’Ufficio Tecnico Comunale sull’operato di Z.G., tanto più che nella qualità di datore di lavoro e di A.S.T.T., con due disposizioni di servizio del 23 agosto 2007 e del 29 gennaio 2008, l’imputato aveva diffidato gli esecutori tecnici, tra cui Z.G., dall’impartire disposizioni senza il preventivo visto del Dirigente dell’Area (Z.M.). Il responsabile del depuratore, Z.G., che per i lavori al depuratore aveva contattato la ditta CA., non aveva informato l’Ufficio Tecnico ed il dirigente Z.M. dei lavori che si sarebbero svolti al depuratore. In relazione alla conformazione della griglia sovrastante il pozzetto P.R.R.F. ed all’ordine di servizio del giorno, l’intervento all’interno del pozzetto poteva definirsi operazione anomala. Il ricorrente lamenta l’omessa valutazione della prova documentale offerta dalla difesa al fine di dimostrare il difetto di comunicazione dell’intervento previsto per il giorno 11 giugno 2008 all’Ufficio Tecnico, in violazione di due disposizioni di servizio in precedenza impartite dallo stesso Z.M.. Da tale documentazione risultava che il datore di lavoro non fosse a conoscenza dei lavori che dovevano essere effettuati al depuratore nei giorni 6 giugno 2008 e 11 giugno 2008, non essendone stato informato da chi avrebbe dovuto farlo, e precisamente da Z.G. in qualità di R.U.P. 
    Gli ordini di servizio del 6 giugno 2008 e dell’11 giugno 2008 non indicavano lavori all’interno del pozzetto di ricircolo fanghi (P.R.R.F.);
    d) con un quarto motivo deduce violazione dell’art. 606 lett. b) cod.proc.pen. in relazione all’art. 26, comma 3, d.lgs n.81/08, per essergli stato addebitato di avere omesso di redigere il Documento Unico di Valutazione Rischi Interferenziali (D.U.V.R.I.), nonostante l’evento non fosse relativo a tali rischi ma a rischio specifico proprio dell’impresa appaltatrice; il teste L.R. aveva riferito trattarsi di un’attività specialistica che comporta l’utilizzo esclusivo di personale specializzato della ditta, attrezzature adeguate e specifiche;
    e) con un quinto motivo deduce violazione dell’art. 606 lett. b) cod.proc.pen. in relazione all’art.28 d.lgs. n.81/08, per essergli stato addebitato di avere omesso di redigere il Documento di Valutazione Rischi (D.V.R.), nonché violazione dell’art. 606 lett. e) cod.proc.pen. per contraddittorietà processuale o extratestuale della motivazione. I giudici di merito non hanno fatto corretta applicazione dell’art. 306 d. lgs. n. 81/2008secondo il quale «le disposizioni di cui all’art. 17, comma 1, lett. a) e 28, nonché le altre disposizioni in tema di valutazione dei rischi che ad esse rinviano, ivi comprese le relative disposizioni sanzionatorie previste dai presente decreto, diventano efficaci a decorrere dai 01/01/2009» dovendosi applicare fino a tale data le disposizioni previgenti. Il ricorrente desume la contraddittorietà della motivazione dall’inesistenza del rischio chimico quale rischio tipico di un impianto di depurazione ed elenca le emergenze istruttorie comprovanti la regolare redazione del D.V.R.;
    f) con un sesto motivo deduce violazione dell’art. 606 lett. b) cod.proc.pen.
    in relazione all’art.18 d.lgs. n.81/08, per essergli stato addebitato di non avere fornito ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale e di non avere predisposto adeguata cartellonistica all’interno del depuratore di Mineo senza la corretta indicazione di quali fossero i rischi di mestiere dell’addetto a un depuratore del tipo di quello di Mineo, tenendo conto dell’epoca in cui si erano verificati i fatti; circostanza rilevante in quanto, fino al giugno del 2008, la guida I.N.A.I.L. non considerava il rischio chimico in un depuratore civile. Il lavoratore P.S. addetto al depuratore, non svolgeva un’attività pericolosa e non correva rischi tipici da attività pericolosa; in ragione di ciò non andavano forniti D.P.I. da rischio o agente chimico quali maschere antigas o rilevatori di gas. L’attività di manutenzione tanto ordinaria quanto straordinaria veniva affidata, di volta in volta, a ditte specializzate a seconda del lavoro da fare (attività terziarizzata), circostanza comprovata dal fatto che Z.G., per i lavori del giugno 2008, si era rivolto alla ditta CA., specializzata anche in lavori presso depuratori per stasature di condotte ed in lavori in spazi confinati; 
    g) con un settimo motivo deduce illogicità e contraddittorietà della motivazione richiamando tutte le allegazioni svolte nei precedenti motivi onde desumerne il vizio connaturato all’assunto conclusivo della Corte di merito circa la sussistenza del nesso causale; se fossero stati vagliati gli elementi addotti dalla difesa, le conclusioni sarebbero state diverse e, segnatamente, non si sarebbe potuto parlare di connessione tra omissioni del datore di lavoro (insussistenti per la difesa) ed infortunio. Difetta una chiara spiegazione dell’iter logico seguito dai giudici del merito per giungere alla conclusione che l’accesso al pozzetto fosse un fatto usuale e reiterato; quanto asserito nella sentenza contrasta con le testimonianze di Omissis, con le disposizioni di servizio di Z.M. n.1533 del 23 agosto 2007 e n.212 del 29 gennaio 2008 indirizzate agli istruttori tecnici, tra cui Z.G., ossia con prove documentali disattese senza alcuna motivazione;
    h) con un ottavo motivo deduce violazione dell’art. 606 lett. b), c) ed e) cod.proc.pen. in relazione all’art.41, commi 1 e 2, cod.pen. e 192 cod.proc.pen., nonché illogicità e contraddittorietà della motivazione nella parte in cui è stata esclusa l’abnormità della condotta dei lavoratori del Comune in relazione ad un’attività che era stata commissionata alla ditta CA.. Gli operai del Comune deceduti al depuratore, intervenendo nei lavori al P.R.R.F., sono andati oltre le proprie mansioni, con condotta abnorme idonea ad interrompere il nesso causale tra la condotta ascrivibile al datore di lavoro e l’evento dannoso; trascurando la decisiva testimonianza di L.R., la Corte di Appello ha omesso di valutare che i lavori dell’11 giugno 2008 al depuratore dovevano essere fatti esclusivamente dagli operai della ditta CA. ed erano un lavoro specialistico in relazione al quale gli operai sono formati sulle modalità di esecuzione e sull’utilizzo di strumenti e attrezzature particolari. Il lavoro di stasatura di una linea all’interno del pozzetto (P.R.R.F.), in altre parole, non rientrava tra le mansioni di P.S. e degli altri operai del Comune, nè rientrava nel processo lavorativo riguardante la competenza degli operai del Comune nella gestione del depuratore;
    i) con un nono motivo deduce violazione dell’art. 606 lett. d) ed e) cod.proc.pen. in relazione alla mancata assunzione di una prova decisiva nonché per mancanza, carenza ed illogicità della motivazione, lamentando l’immotivato rigetto dell’istanza di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale mediante svolgimento di perizia;
    I) con un decimo motivo deduce violazione di legge ex art. 606 lett. b) cod.proc.pen. con riferimento agli artt. 69, 589 e 62 bis cod. pen., ritenendo che i giudici del merito, riconosciuta l’equivalenza ai sensi dell’art. 69, terzo comma, cod. pen. tra l’aggravante di cui all’art.589, secondo comma, cod. pen. e le riconosciute circostanze attenuanti generiche, avrebbero dovuto determinare la pena tenendo conto della sanzione edittale prevista dall’art.589, primo comma, cod. pen., mentre hanno parametrato la sanzione facendo riferimento al minimo edittale previsto dall’art.589, secondo comma, cod. pen.;
    m) con un undicesimo motivo deduce violazione degli arti. 29 e 33 cod. pen. con riferimento alla pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici, non applicabile in caso di condanna per delitto colposo;
    n) con un dodicesimo motivo deduce violazione degli artt. 31, 33 e 37 cod.pen. in quanto la durata della pena accessoria dell’interdizione temporanea avrebbe dovuto essere determinata in misura pari a quella della pena principale.
    7. C.A. ricorre per cassazione per i seguenti motivi:
    a) con un primo motivo deduce che la Corte d’Appello di Catania ha omesso di motivare in merito alle seguenti carenze investigative: il giorno dell’incidente non era stato fatto alcun prelievo dei fanghi contenuti nell’autospurgo e di quelli presenti nel pozzetto P.R.R.F.; i prelievi dei campioni di fango erano stati fatti solo il 13 e il 23 giugno 2008 e non furono mai eseguiti rilievi con strumenti portatili per valutare e quantificare la presenza di condizioni anaerobiche nelle varie unità dell’impianto di depurazione; in date diverse erano stati campionati, dalla medesima unità di trattamento, una volta campioni di fango – prelevati con un campionatore non idoneo – e una volta campioni di liquame; non era stata svolta alcuna indagine scientifica in merito alla presenza o meno della pellicola biologica sui biodischi: i consulenti del pubblico ministero si erano limitati, errando, ad un’osservazione visiva degli stessi e del fango; non era stata rilevata ed analizzata la sostanza sversata vicino all’ADR, che aveva imbibito il terreno circostante; l’impianto era stato alimentato da liquame nei giorni successivi all’evento con le apparecchiature elettromeccaniche disattivate, tanto che il sedimentatore secondario SED2, che l’il giugno 2008 era stato trovato semi-vuoto con un battente idrico al di sotto del diffusore centrale, il 13 giugno era completamente pieno; non era stato predisposto uno schema dello stato d’apertura e di chiusura delle valvole d’intercettazione delle diverse unità dell’impianto, così da non permettere la ricostruzione dello stato dell’impianto al momento dei fatti; non era stato eseguito alcun rilievo di dettaglio per calcolare i volumi delle varie unità dell’impianto ed in particolare dei sedimentatori primari e secondari; non era stato prelevato alcun campione, ai fini delle analisi, della sostanza oleosa contenuta nei tubi che servono per lo scarico dell’autocisterna ADR; i consulenti del pubblico ministero non avevano svolto alcuna prova di funzionamento delle apparecchiature di cui è dotato l’autospurgo ADR (sistemi di aspirazione, di scarico e di sturo), dello stato delle valvole di sfiato gas e scarico liquidi, della tenuta idraulica dei raccordi e delle tubazioni;
    b) con un secondo motivo deduce inosservanza o erronea applicazione della legge e vizio di motivazione in relazione agli artt.533, comma 1, 546, comma 1, lett.e) cod.proc.pen. sul punto inerente alla presunta mala gestio del depuratore. Il ricorrente contesta il dato di partenza della consulenza tecnica sulla quale si fonda la sentenza, relativo alla portata media di ingresso dell’impianto e richiama, a tal fine, l’autorizzazione allo scarico dell’impianto di depurazione di Mineo rilasciata dall’Assessorato Regionale dell’Energia e dei Servizi di Pubblica Utilità – Dipartimento Regionale dell’Acqua e dei Rifiuti con D.D.G. n.595 del 9 agosto 2010, acquisito al Prot. n. 12203 del Comune di Mineo in data 13 settembre 2010, in cui si autorizza lo scarico nel Vallone Zuffunato con una «….portata nera media non superiore a 21.25 m3/h corrispondente al carico organico attuale dell’I.D. di 3.000 A.E.». Tale dato è rilevante ai fini della quantificazione del volume dei fanghi di depurazione e del carico di sostanze inquinanti immesso all’interno dell’impianto di depurazione con le acque reflue provenienti dalla fognatura; si contesta, altresì, l’indice di produzione del fango negli impianti a biodischi utilizzato nelle consulenze, che invece sarebbe pari a 0,3 – 0,5 kg SS/ kg BOD5 rimosso secondo la migliore letteratura in argomento, dunque inferiore del 50% rispetto a quello indicato. Il ricorrente ritiene che i calcoli dei consulenti siano basati sull’inesatta stima di cinque anni di continuo funzionamento dell’impianto e che il frequente intasamento della grigliatura in ingresso tendesse a diminuire l’alimentazione idrica, concludendo per l’impossibilità di valutare il carico idraulico dell’impianto durante il suo periodo di esercizio e tanto meno il volume dei fanghi potenzialmente prodotti, peraltro mai misurati nel corso delle indagini. L’affermazione secondo la quale le vasche erano colme di fanghi sarebbe smentita dal volume dei fanghi smaltiti dal SEDI, pari a 60/100 m3 a fronte di una capienza di 233 m3, e dal riversamento di tali fanghi nella vasca Imhoff 1 senza che fosse stata rilevata alcuna fuoriuscita. Su tali argomentazioni la motivazione offerta dalla Corte di Appello sarebbe assente. La motivazione sarebbe, invece, manifestamente illogica laddove, pur partendo da un presupposto esatto, e cioè che occorre misurare il volume delle vasche e la portata d’ingresso del liquame al fine di valutare il giusto tempo di detenzione idraulica, i giudici hanno omesso di considerare che tali dati non sono stati accertati; nè erano state censite le abitazioni effettivamente allacciate alla rete fognaria, dato fondamentale ai fini del calcolo della portata di liquame in ingresso dell’impianto. Il ricorrente ritiene vi sia contraddittorietà fra quanto affermato nella sentenza a proposito del fatto che non tutto il contenuto del sedimentatore secondario fosse costituito da fango, posto che soltanto nella parte finale era stato rinvenuto il fango, nell’ordine di una ventina di metri cubi (pag.58), immesso nella strettoia della vasca Imhoff, quindi nel comparto di digestione e ciò che, invece, è riferito in altro punto, in cui si afferma che «la quantità del fango ispessito veniva misurata al momento dello svuotamento del SEDI, mediante 5/10 autospurghi da sei metri cubi per complessivi 30/70 metri cubi di fango» (pagg.71 e 177). Nessuna valida argomentazione sarebbe stata sviluppata per confutare la tesi difensiva per cui la presenza di ragnatele nell’unità di stacciatura dei fanghi non fosse indicativa del non uso della stessa. Nessuna motivazione sarebbe stata offerta per replicare al rilievo difensivo secondo il quale la presenza di bollicine si verifica in ambienti aerobici per il rilascio di 02 e C02 ed il mero rilievo visivo di bollicine in risalita sul pelo del liquido non è, dunque, sufficiente a dimostrare la situazione anaerobica di un ambiente. Altrettanto carente risulterebbe l’analisi del rilievo difensivo inerente all’inattendibilità della mera osservazione visiva per accertare l’assenza di pellicola biologica sui biodischi. Il ricorrente contesta, altresì, il dato della sostituzione di uno dei biorotori sostenendo che le dichiarazioni del teste Omissis, alle quali si riferisce la Corte, non appaiono attendibili in quanto non suffragate da adeguati riscontri documentali. In merito all’attendibilità delle analisi svolte nel tempo dall’A.R.P.A. e dal dott. P., soggetti terzi rispetto al Comune di Mineo, il ricorrente ritiene illogico ed immotivato che la Corte abbia ritenuto non corretta l’esecuzione dei campionamenti, oltre che contrastante con quanto asserito dal Tribunale a pag.91 della sentenza di primo grado, omettendo di spiegare come fosse possibile che l’impianto fosse in situazione di anossia quando sulla base delle analisi svolte dall’A.R.P.A. su campioni di liquami prelevati dal SEDI il 13 giugno 2008 (due giorni dopo l’incidente), i valori di BOD erano di 44 e 37 mg/L rispettivamente nel SEDI e nel SED2 mentre l’analisi svolta dal dott. P. il 7 maggio 2008 (acquisita al Prot. n. 16045 del Comune di Mineo in data 11 luglio 2008), circa un mese prima dell’incidente, su acque reflue prelevate all’uscita dell’impianto evidenziava che tutti i parametri erano nella norma ed in particolare i valori di BOD e COD in uscita erano rispettivamente di 22.9 e 112.1 mg/L . Il dubbio non risolto in merito all’assenza di metano avrebbe dovuto condurre alla pronuncia assolutoria. Nel ricorso vengono, quindi, indicati gli elementi istruttori contrari all’ipotesi dell’anossia dell’impianto, segnatamente la presenza di lemna minor o lenticchia d’acqua, pianta acquatica galleggiante, tipica degli ambienti lacustri naturali, quale indicatore della mancanza di sostanze fitotossiche (come idrocarburi e idrogeno solforato), e la scelta fatta dai consulenti del pubblico ministero di scaricare direttamente nel corpo idrico, appena 12 giorni dopo l’incidente, i liquami- prelevati dal SEDI (da 100 a 170 m3). 
    L’oggetto degli ordini di servizio predisposti da Z.G. come richieste di intervento del 6 e dell’11 giugno 2008 (espurgo condotta di collegamento tra vasca biorotore e vasca di sedimentazione finale) dimostrava che l’intervento nel pozzetto in cui si sono verificate le morti non era programmato;
    c) con un terzo motivo deduce inosservanza o erronea applicazione della legge e vizio di motivazione sul punto relativo al nesso di causalità. Il nesso causale tra le condotte colpose addebitate all’imputato C.A. e gli eventi sarebbe stato reciso, ai sensi ed in applicazione del comma secondo dell’art. 41 cod. pen., dall’intervento successivo di una causa anomala ed imprevedibile, ossia lo sversamento all’interno del pozzetto P.R.R.F. del contenuto petrolifero dell’autocisterna ADR della ditta CA., da ritenersi causa sopravvenuta, da sola sufficiente a determinare l’evento. Sulla base dei dati oggettivi della mancanza di una scala a muro per la discesa del personale nel P.R.R.F. e dell’esistenza di un sistema di catene per la risalita delle pompe di ricircolo che ne consentiva la riparazione dall’esterno, risulta contraddittoria l’affermazione dei giudici di merito secondo la quale, per la manutenzione straordinaria delle pompe, sarebbe stato necessario l’accesso diretto al pozzetto. Il pozzetto era, inoltre, chiuso da pesanti griglie saldate e prive di maniglie, sicché la discesa all’interno di esso si sarebbe dovuta ritenere atto abnorme ed imprevedibile dei lavoratori. Il ricorrente deduce l’erronea applicazione del principio di diritto enunciato dall’art.41, secondo comma, cod. pen. affermando che, in presenza di una causa eccezionale sopravvenuta, non trova applicazione il principio di equivalenza delle cause. Considerato che lo sversamento illecito accertato dalla Corte era un evento abnorme rispetto al trattamento ordinario dei reflui effettuato in un depuratore comunale, quantomeno si sarebbe dovuto assolvere l’imputato nel dubbio, di difficile risoluzione, che detta condotta avesse interrotto il nesso causale;
    d) con un quarto motivo deduce inosservanza o erronea applicazione della legge e vizio di motivazione in riferimento agli artt.42 e 43 cod. pen. I giudici di merito avrebbero dovuto pronunciare sentenza assolutoria perché il fatto non sussiste anche per il capo A) delle imputazioni, relativo all’omicidio per violazione della normativa sulla sicurezza dei lavoratori nei posti di lavoro, in quanto le norme a contenuto precauzionale che si presume siano state violate dai dipendenti del Comune di Mineo sono norme che sono state poste per prevenire il concretizzarsi di un rischio specifico (rischio biologico dovuto alle sostanze immesse nel ciclo di depurazione, rischio elettrico dovuto alla presenza di macchinari elettrici, ecc.) diverso da quello in concreto realizzatosi. Nell’impianto di depurazione del Comune di Mineo non erano presenti né il rischio di annegamento, né il rischio di lavorare in ambienti confinati, né il rischio chimico, perché nel pozzetto P.R.R.F. non era prevista la discesa di lavoratori. Indica a sostegno i testi normativi che, solo in epoca successiva ai fatti per cui è processo, sono stati emanati per regolare i rischi in ambienti sospetti di inquinamento o confinati (d.P.R. 14 settembre 2011 n.177, Guida Operativa ISPESL – Rischi specifici nell’accesso a silos, vasche e fosse biologiche, collettori fognari, depuratori e serbatoi utilizzati per lo stoccaggio e il trasporto di sostanze pericolose, Circolari del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali 9 dicembre 2010, n. 42, e 19 aprile 2011, n. 13);
    e) con un quinto motivo deduce vizio di motivazione per insussistenza di violazioni delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro ed insussistenza di culpa in eligendo e di culpa in vigilando. Premessa l’insussistenza di rischi interferenziali, nel ricorso si sostiene che non fosse onere del Comune redigere il D.U.V.R.I., che non vi fossero rischi da lavoro in ambienti confinati e che, pertanto, non fosse necessario dotare i lavoratori dei relativi D.P.I. Sottolinea, inoltre, che l’Ufficio Tecnico, nella persona del suo dirigente arch. Z.M. o dell’Istruttore Tecnico Direttivo geom. C.A., non era a conoscenza dei lavori al depuratore dell’11 giugno 2008, nonché dei sopralluoghi effettuati qualche giorno prima, in quanto gli ordini di servizio redatti da Z.G. non erano stati sottoposti al visto dei superiori;
    f) con un sesto motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt.69 e 133 cod. pen. La Corte ha effettuato una non corretta determinazione della pena, reiterando l’errore commesso dai giudici di primo grado; in dettaglio, riducendo la pena di un terzo in applicazione dell’art. 62 bis cod.pen., la Corte avrebbe implicitamente posto in prevalenza dette circostanze attenuanti, pur dichiarate equivalenti, rispetto alla contestata aggravante di cui all’art. 589, secondo comma, cod.pen., non applicando, senza alcun riferimento ai criteri di cui all’art.133 cod. pen., la pena minima edittale stabilita dall’art.589, primo comma, cod.pen.;
    g) con un settimo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque, che non può essere irrogata per reati puniti a titolo di colpa.
    8. G.S.M. ricorre per cassazione per i seguenti motivi:
    a) con un primo motivo deduce inosservanza o erronea applicazione dell’art.178 lett.c) cod. proc. pen. con riferimento alle attività compiute in data 7 agosto 2008 ed all’incidenza di tali attività sulle conclusioni dei consulenti tecnici, nonché inosservanza o erronea applicazione dell’art.360 cod. proc. pen. e manifesta illogicità della motivazione sul punto, con riferimento alla ripetibilità o meno degli accertamenti compiuti in quella data. Il ricorrente sostiene di aver chiesto in primo grado l’esclusione dal fascicolo del dibattimento della consulenza tecnica del pubblico ministero perché affetta da nullità in quanto delle operazioni compiute dai consulenti in data 7 agosto 2008, i cui risultati sono stati determinanti per le conclusioni alle quali i tecnici sono giunti, non era stato dato avviso alle parti; si trattava di atti irripetibili in quanto i consulenti avevano immesso una considerevole quantità di acqua potabile nell’impianto di depurazione ed avevano nuovamente messo in moto tutte le parti meccaniche ed elettriche, mutando lo stato di fatto e le condizioni del depuratore. La Corte di Appello ha negato rilievo a tale omissione, pur trattandosi di atto non riproducibile in dibattimento, ed ha giustificato l’omessa redazione del verbale ai sensi dell’art.261 cod. proc. pen. in virtù di una pseudo-autorizzazione contenuta nel verbale di conferimento dell’incarico;
    b) con un secondo motivo deduce inosservanza o erronea applicazione dell’art.192 cod. proc. pen. e vizio di motivazione sulla ricostruzione dei fatti oggetto d’imputazione, inosservanza degli artt.40 e 41 cod. pen. e travisamento dei fatti in ordine all’individuazione della causa dell’evento. La Corte territoriale non ha spiegato per quale ragione la tesi portata avanti dai consulenti del pubblico ministero in ordine alle cause dell’evento fosse da privilegiare rispetto alle spiegazioni logiche ed alternative proposte dai consulenti di parte e sostenute da principi scientifici universalmente riconosciuti; si allude, in particolare, all’irrisolto dubbio circa l’ora e l’ordine del decesso delle sei vittime ed alla illogicità della ricostruzione secondo la quale il P.S. fosse sceso nel pozzetto ad inserire il naspo nella condotta da disostruire, sebbene fosse attività tipica e propria della ditta CA.; si evidenzia la mancata collocazione nel tempo e nello spazio dell’asserito sversamento all’interno del depuratore di sostanze provenienti dall’ADR e l’incongruenza dell’affermazione secondo la quale le analisi delle acque reflue effettuate dal dott. P. non fossero corrette, sebbene sovrapponibili a quelle effettuate dall’A.R.P.A. e dal dipendente P.S., senza indicazione dei parametri ai quali l’amministrazione comunale si sarebbe dovuta attenere. Si rimarca l’illogicità della consulenza tecnica laddove ritiene che nel depuratore fosse immessa acqua potabile per diluire i reflui, essendo la portata del rubinetto ivi presente del tutto inadeguata (1.2 m3/h) a diluire i 36 m3/h del refluo. La motivazione della sentenza è illogica laddove ha sostenuto il mancato funzionamento dell’impianto per l’inefficienza del sistema di grigliatura manuale. Le analisi furono eseguite due giorni dopo gli eventi con mezzi di fortuna ed in nessuna altra parte dell’impianto erano state rinvenute quantità letali di H2S se non nel pozzetto, laddove, se i fanghi killer fossero stati prodotti dal depuratore, le analisi avrebbero rivelato una maggiore quantità di solfuri disciolti nel fango del sedimentatore. E’ scientificamente inverosimile che la mancata estrazione dei fanghi nel comparto inferiore delle Imhoff in condizioni, anaerobiche abbia consentito la produzione di biogas, pur in assenza di processi di riscaldamento indotto nel depuratore in questione e in assenza di metano. Sono inaccettabili tanto l’assunto in base al quale l’assenza di metano non fosse indicativa del corretto funzionamento del depuratore quanto la teoria che il sedimentatore secondario funzionasse come un digestore anaerobico aperto, posto che i fanghi venivano rimestati di continuo dal raschiatore ed i primi ad uscire erano quelli posti nella tramoggia di fondo; se vi fosse stata fermentazione anaerobica dei fanghi, questi sarebbero usciti dalla parte superiore del sedimentatore, del diametro di 10 metri, piuttosto che incanalarsi nella tubazione posta in controtendenza, rispetto al P.R.R.F., di 15 centimetri di diametro. La mancanza di sorgenti di zolfo all’interno dell’impianto di depurazione impediva che venissero generate nei fanghi dei SED 1 e 2 concentrazioni letali di H2S. Si contestano le valutazioni dei consulenti del pubblico ministero in quanto fondate non su dati ma su semplici impressioni visive e si svolgono alcune considerazioni di natura tecnica atte a dimostrare l’inidoneità dell’esperimento di Kage in presenza di quantitativi di H2S nell’aria inferiori a quelli rilevati nei fanghi. Si contesta, quindi, l’assunto secondo il quale l’amministrazione comunale fosse a conoscenza dell’inefficienza dell’impianto di depurazione e volontariamente avesse omesso di investire denaro per il suo ottimale funzionamento, a fronte della presenza di prove documentali dalle quali emergeva l’avanzo di bilancio nel 2007;
    c) con un terzo motivo deduce vizio di motivazione ed inosservanza o erronea applicazione di legge in relazione agli artt.113 cod. pen., 53, comma 23, legge 23 dicembre 2000, n. 388, 107 d. Lgs. 18 agosto 2000, n.267, 113 Ord. Enti Locali, 33,43 e 48 Statuto del Comune di Mineo. Secondo le norme che ne delineano i compiti, l’assessore è tenuto a fornire direttive di carattere generale con la finalità di mantenere validi livelli di efficienza, efficacia ed economicità di tutti i servizi da rendere al cittadino; in particolare, nel caso concreto non erano stati attribuiti poteri di natura gestionale nell’ambito della delega assessoriale, né erano state fatte segnalazioni, osservazioni o richieste dal responsabile dell’area titolare di posizione organizzativa con autonomia di spesa (arch. Z.M.). Avendo la Corte territoriale dato atto dell’autonomia e del potere di spesa per Z.M. e C.A., ed avendo contestato a questi ultimi di non essersi attivati adeguatamente presso gli organi amministrativi dotati di poteri di spesa diretti, non avrebbe potuto attribuire al G.S.M., estraneo per legge a tali doveri ed alla gestione del rischio relativo, la responsabilità per il reato di cui al capo A) a titolo di cooperazione colposa. Se l’organo politico non è posto nella condizione di conoscere o di sospettare l’inadempienza altrui, si assume, non è chiaro quale sia l’effettivo potere di impedire il reato altrui, neppure competendo all’assessore 
    la scelta del personale da assegnare alle varie aree di gestione ed ai relativi servizi. Al contrario, il ricorrente ha sempre portato all’esame della Giunta le proposte di delibera inerenti alla gestione ed alla manutenzione del depuratore provenienti dall’area tecnica. La posizione di garanzia del ricorrente è subordinata e residuale rispetto a quella dei tecnici dell’A.R.P.A., che avevano il compito di segnalare eventuali difformità dei risultati delle analisi rispetto agli standards previsti dalla normativa vigente;
    d) con un quarto motivo deduce inosservanza o erronea applicazione degli artt.29,69 e 133 cod. pen. in quanto, a seguito del giudizio di equivalenza delle circostanze attenuanti generiche rispetto all’aggravante di cui all’art.589, comma 2, cod. pen., la Corte avrebbe dovuto applicare la pena prevista dall’art.589, comma 1, cod. pen. e non applicare la riduzione di 1/3 per le attenuanti generiche; in ogni caso, il calcolo della pena sarebbe errato e la pena definitiva avrebbe dovuto essere determinata in anni due e mesi sette di reclusione, con conseguente esclusione della pena accessoria ai sensi dell’art. 29 cod. pen.
    9. S.CA. e S.LC. ricorrono per cassazione per i seguenti motivi:
    a) con un primo motivo deducono erronea applicazione degli artt.40 e 41 cod. pen., nullità della sentenza in relazione agli artt. 546, comma 3,125, comma 3, e 533 cod. proc. pen. nonché vizio di motivazione con riferimento al reato ascritto al capo H) dell’imputazione. Nonostante il Tribunale, con scrupolosa motivazione, avesse escluso che l’evento morte derivasse direttamente da uno sversamento di oli minerali all’interno del pozzetto di ricircolo fanghi (P.R.R.F.), la Corte di Appello è pervenuta a diversa conclusione con un ragionamento in tema di rapporto di causalità fallace. Il processo non ha consentito di raggiungere la prova della minima incidenza causale dell’ipotetico sversamento nella produzione dell’evento lesivo, anche in termini di mera accelerazione di esso e, nonostante ciò, la Corte, con motivazione carente, ha affermato la certa incidenza causale di siffatto sversamento senza interrogarsi sulla qualità e quantità della sostanza ipoteticamente sversata. Nel ricorso vengono riprodotte le argomentazioni difensive già sottoposte al giudice di appello; si tratta, in particolare, dei seguenti argomenti: la presenza nel pozzetto di solfuri non presenti all’interno dell’autobotte; la presenza, già rilevata in passato, nel depuratore di Mineo di idrocarburi, che avevano comportato l’emissione di una apposita Ordinanza sindacale; l’accurata pulizia dell’autocisterna, seppure non bonificata, dopo l’operazione di aggottamento del 5 giugno 2008 presso il Centro Oli di Gela; la scarsa significatività delle macchie sui tubi di raccordo, peraltro mai analizzate; la fallacia dell’argomento della progressiva diluizione dal P.R.R.F. alle altre parti dell’Impianto dell’idrogeno solforato e delle quantità di idrocarburi, contraddetto dal valore dei fanghi rinvenuto nei pioli della scala; la posizione dell’autocisterna su un piano sottostante rispetto al P.R.R.F., che non avrebbe consentito lo scarico per gravità. La Corte di Appello ha omesso di confutare gli argomenti della difesa, ripetendo senza rivalutazione critica i risultati scientifici raggiunti dai consulenti del pubblico ministero nella prima fase delle indagini. La motivazione è priva del necessario esame analitico e completo del materiale probatorio acquisito nel giudizio di primo grado e della indispensabile evidenziazione di oggettive carenze o insufficienze della decisione assolutoria;

    b) con un secondo motivo deducono erronea applicazione degli artt.41 cod. pen., 26 e 55 d. lgs. n. 81/2008con riferimento al capo B) dell’imputazione in relazione al quale, essendo intervenuta condanna in primo grado, gli appellanti avevano evidenziato quanto segue:
    1) non era stato accertato che il luogo di verificazione dell’evento coincidesse con il luogo dell’Intervento programmato, ossia quello di sturo della condotta nel pozzetto da effettuarsi dall’esterno; sebbene il precedente 6 giugno fosse stato ritenuto inopportuno e pericoloso scendere nel pozzetto e la scarsa potenza dell’autobotte impiegata non avesse consentito di sturare la condotta, qualora il successivo 11 giugno si fosse deciso di lavorare all’interno del pozzetto non si sarebbe spiegato l’utilizzo di un mezzo diverso e più potente con il quale gli operai si erano recati al depuratore, senza una scala, senza stivali e senza una tuta;
    2) l’intervento programmato era a carattere routinario e non si doveva svolgere in «ambiente confinato», per cui la violazione delle regole cautelari descritte nel capo d’imputazione avrebbe dovuto essere valutata alla luce del carattere non pericoloso dei lavori richiesti dal Comune alla ditta CA., a prescindere dal luogo dove l’evento si è concretamente verificato;
    3) la ditta CA. si era ampiamente coordinata con il Comune di Mineo per il migliore svolgimento del lavoro, con abbattimento dei rischi; dalla mancata redazione del D.U.V.R.I. si è desunta la mancata adozione in fatto delle misure idonee a scongiurare l’evento, nonostante il giorno 8 giugno fosse stato effettuato un sopralluogo al quale avevano partecipato l’operaio esperto T.S., che avrebbe dovuto eseguire il lavoro, il preposto S.LC. ed i dipendenti del Comune proprio al fine della migliore esecuzione dell’intervento;
    4) si era contestato di non aver fornito ai lavoratori dipendenti i dispositivi di protezione individuale e le attrezzature di lavoro, ma la corretta contestazione si sarebbe dovuta basare sulla certa individuazione del tipo di lavori da effettuare. I giudici di merito hanno dato per scontato che i lavori programmati si sarebbero dovuti svolgere in ambiente confinato; trattasi di un ragionamento circolare che dalla mancata adozione delle cautele antinfortunistiche genera la deduzione circa l’omessa informazione e formazione dei lavoratori laddove, invece, la certezza processuale che il lavoro programmato non potesse svolgersi in ambiente confinato avrebbe imposto di investigare esclusivamente se i lavoratori fossero stati adeguatamente informati o formati e se, dunque, avessero tenuto comportamenti eccentrici idonei ad interrompere il nesso di causalità tra la condotta omissiva addebitata agli imputati e l’evento;
    5) nel giudizio di primo grado erano emersi elementi probatori a proposito della partecipazione del lavoratore T.S. ai corsi di formazione, della completezza del D.V.R. e della partecipazione dell’operaio S.G. ad una fase di addestramento sotto la costante guida dell’operaio più esperto della ditta (T.S.), rilevandosi l’errore commesso dalla Corte nell’addebitare agli imputati un’omissione non prevista dalla legge, ossia l’omessa formazione dei nuovi assunti in fase antecedente l’assunzione;
    c) con un terzo motivo deducono erronea applicazione dell’art.260 d.lgs. 3 aprile 2006, n.152, nullità della sentenza e vizio di motivazione in relazione al capo G) dell’imputazione inerente alla gestione clandestina di rifiuti illecitamente sversati presso l’impianto di depurazione in questione e in altri scarichi non autorizzati. La Corte ha commesso un errore ricostruttivo-probatorio nella parte in cui ha affermato che l’attività di indagine finalizzata a verificare quanto accaduto prima dell’11 giugno fosse stata realizzata in epoca antecedente a tale data, trattandosi di un’indagine successiva. Le violazioni in materia di gestione dei rifiuti provenienti dalle operazioni di lavaggio dei mezzi della ditta CA., non sono ascrivibili a quest’ultima ma dovrebbero addebitarsi alla società proprietaria dell’impianto di lavaggio e, in ogni caso, si ritiene non approfondita la questione emersa nel processo che i residui del lavaggio delle autocisterne della ditta fossero temporaneamente depositati, dunque non ancora gestiti, presso il piazzale del medesimo impianto di lavaggio, dovendosi qualificare il deposito temporaneo come forma di stoccaggio che non rientra nella nozione di gestione. Con riferimento agli illeciti sversamenti di reflui civili provenienti da fosse settiche nelle fogne di Ragusa, la Corte di Appello ha trascurato quanto emerso in sede dibattimentale attraverso la prova testimoniale, di cui vengono riportati stralci;
    d) con un quarto motivo deducono violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art.484 cod. pen. con riguardo al capo F) dell’imputazione, contestato al solo CA.; per tale imputazione l’appellante aveva contestato il criterio probatorio fondato sulla regola del vantaggio ma, si assume, la Corte ha ignorato la censura difensiva ritenendo, peraltro, tale capo d’imputazione non oggetto di impugnazione e svolgendo argomentazioni apodittiche sul punto; 
    e) con un quinto motivo deducono violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo alla determinazione del trattamento sanzionatorio. La Corte non ha spiegato perché fosse considerata violazione più grave quella riferibile alla morte di P.S., dipendente del Comune, nè perché fosse stata irrogata una pena base così severa. La gravità del fatto è stata valutata due volte, sia per commisurare la pena che per negare la prevalenza delle circostanze attenuanti generiche.
    10. G.V. ricorre per cassazione per i seguenti motivi:
    a) con un primo motivo deduce vizio di motivazione perchè il giudice di appello, ribaltando la pronuncia assolutoria emessa dal Tribunale, ha trascurato di valutare, secondo il pregnante onere di motivazione che grava sul giudice di appello in tali casi, gli elementi probatori emersi nel giudizio di primo grado. In particolare, imputandosi a G.V. di non avere curato la formazione e la vigilanza dei lavoratori, gli si sono attribuiti compiti di vigilanza espressamente contemplati dagli artt.31,33 e 36 d. lgs. n. 81/2008 con riferimento ad altre figure aziendali, soprattutto interne all’azienda, ossia datore di lavoro e preposto. Nel ricorso si analizzano dettagliatamente gli elementi probatori acquisiti nel corso del giudizio di primo grado idonei a dimostrare che i lavoratori fossero stati adeguatamente formati e si sottolinea l’erroneità in diritto dell’affermazione secondo la quale la formazione dei nuovi assunti (S.G.) dovesse avvenire prima dell’assunzione;

    b) con un secondo motivo deduce l’omessa valutazione del nesso di causalità tra la condotta omissiva dell’imputato e l’evento morte dei lavoratori e richiama i dati probatori emersi nel giudizio di primo grado e accertati dal Tribunale, indicativi dell’insussistenza di tale nesso. In particolare, tra gli altri: il preposto alla sicurezza, S.LC., ed il lavoratore T.S. avevano fatto un sopralluogo al depuratore la domenica precedente l’infortunio ed il preposto non aveva informato il geom. G.V. dell’intervento richiesto dal Comune; al lavoratore T.S. era stati consegnati i mezzi di protezione individuali necessari, che egli non indossava allorché era stato trovato deceduto nel pozzetto; il D.V.R. redatto da G.V. non prevedeva la discesa dei lavoratori nel pozzetto; l’assenza di infortuni sul lavoro da quando il geom. G.V. era RSPP (2003); l’attestazione rilasciata dalla Esso Italia alla ditta in merito all’applicazione di elevati standards di sicurezza. Mancano nella sentenza argomentazioni idonee a resistere alle obiezioni emergenti dagli atti processuali; egli è responsabile esterno della ditta, che ha un proprio responsabile per la sicurezza dei lavoratori, L.R., ed un preposto, S.LC.. La Corte ha omesso di esaminare la possibile evitabilità dell’evento ad opera del datore di lavoro e del preposto, ove i medesimi avessero informato G.V. delle difficoltà dell’intervento, essendo stato affermato, contraddittoriamente, che si trattasse di un intervento routinario nonostante il preposto alla sicurezza ed il capocantiere avessero riscontrato alcune difficoltà nell’eseguire il lavoro come previsto nel D.V.R. Si è contestata al RSPP una cooperazione colposa non contestuale all’accadimento dei fatti, per cui l’accertamento del nesso di causalità si sarebbe reso tanto più necessario. La Corte non ha indicato alcuna massima di esperienza o legge scientifica in grado di spiegare con un giudizio di probabilità prossimo alla certezza che T.S., se avesse partecipato a tutti i corsi di formazione del 2007 e 2008, avrebbe conseguito una preparazione idonea ad evitargli il decesso. In definitiva, mancano le seguenti prove: che l’evento si sia verificato perchè l’intervento non è stato eseguito correttamente da parte dei due dipendenti della ditta CA.; che i due dipendenti non fossero adeguatamente informati e formati per colpa dell’imputato G.V.; che l’evento non si sarebbe verificato se i due dipendenti fossero stati debitamente informati e formati;
    c) con un terzo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione sulla sussistenza della consapevolezza di G.V. di contribuire alla condotta altrui, trattandosi di un caso in cui sono coinvolte più persone per esigenze organizzative relative alla gestione del rischio la cui fonte è normativa per il datore di lavoro, per il preposto e per il committente, mentre è negoziale per il ricorrente. Sarebbe stato indispensabile fornire motivazione sul legame intercorrente tra le condotte dei partecipi in termini di prevedibilità o di rappresentabilità ed evitabilità della condotta altrui; la condotta addebitata all’imputato non si coordina con quella degli altri, se si considera la parte della decisione in cui si è accertato che la ditta CA. non aveva dato alcuna comunicazione in merito all’intervento dell’ll giugno, individuando gli operai da mandare per eseguire l’intervento senza coinvolgere l’imputato. Nella motivazione, si rimarca, nessuna contestazione viene mossa all’imputato in merito alla correttezza del D.V.R. e alla programmazione dei corsi di formazione annuali, nonché in merito al sistema di sicurezza adottato dalla ditta (S.I.A.);
    d) con un quarto motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione sul punto concernente la posizione di garanzia dell’imputato, al quale è stata attribuita una colpa generica nonostante in materia di sicurezza la disciplina che individua i soggetti responsabili della sicurezza e i loro compiti, nonché la condotta da seguire, sia specifica; anche l’individuazione della figura e dei compiti del responsabile del servizio di prevenzione e protezione prevede un soggetto esterno all’azienda, che assume un obbligo negoziale esclusivamente nei confronti del datore di lavoro. La Corte ha individuato una posizione di garanzia in capo all’imputato senza indicare una posizione di potere o di delega all’interno della ditta, affermando un generico dovere di diligenza senza collegarne la violazione all’evento contestato secondo i canoni della prevedibilità ed evitabilità dell’evento e secondo un giudizio ex ante, individuando un obbligo di vigilanza privo di fonte normativa o negoziale. Non è indicato se l’imputato in base al contratto ed alla legge avesse un qualsivoglia potere nei confronti dei dipendenti della ditta CA., né se avesse o meno la possibilità di obbligarli a presenziare ai corsi di formazione, o se avesse la possibilità di impedire che gli stessi lavorassero senza avervi partecipato. La sentenza è manifestamente illogica nella parte in cui ha addebitato a G.V. una condotta per omessa vigilanza già addebitata ad altro coimputato quale preposto alla sicurezza, dovendo in tal caso la Corte motivare sulla cooperazione colposa dell’imputato con il preposto alla sicurezza;
    e) con un quinto motivo deduce violazione dell’art.522, comma 2, cod. proc. pen. in relazione alla individuazione della condotta omissiva dell’imputato e comunque vizio di motivazione posto che, confrontando il capo di imputazione con la decisione, si riscontra l’attribuzione all’imputato di un’omissione non prevista per legge nè per contratto e mai contestata, segnatamente l’omessa verifica e l’omesso controllo della formazione adeguata ai lavoratori;
    f) con un sesto motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione per non avere la Corte spiegato perché fosse considerata violazione più grave quella riferibile alla morte di P.S., dipendente del Comune, perché fosse stata irrogata una pena base severa di 2 anni e 5 mesi di reclusione e la gravità del fatto fosse stata valutata due volte, sia per commisurare la pena che per negare la prevalenza delle circostanze attenuanti generiche;
    g) con un settimo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione per avere la Corte erroneamente applicato all’imputato una pena accessoria non prevista dalla legge, posto che a norma dell’art.33 comma 1, cod. pen. l’interdizione dai pubblici uffici non si applica in caso di condanna per delitto colposo.
    11. Il Comune di Mineo ricorre per cassazione per i seguenti motivi:
    a) con un primo motivo deduce che la Corte d’Appello di Catania ha omesso di motivare in merito alle seguenti carenze investigative: il giorno dell’incidente non era stato fatto alcun prelievo dei fanghi contenuti nell’autospurgo e di quelli presenti nel pozzetto P.R.R.F.; i prelievi dei campioni di fango erano stati fatti solo il 13 e il 23 giugno 2008 e non furono mai eseguiti rilievi con strumenti portatili per valutare e quantificare la presenza di condizioni anaerobiche nelle varie unità dell’impianto di depurazione; in date diverse erano stati campionati, dalla medesima unità di trattamento, una volta campioni di fango – prelevati con un campionatore non idoneo – e una volta campioni di liquame; non era stata svolta alcuna indagine scientifica in merito alla presenza o meno della pellicola biologica sui biodischi: i consulenti del pubblico ministero si erano limitati, errando, ad un’osservazione visiva degli stessi e del fango; non era stata rilevata ed analizzata la sostanza sversata vicino all’ADR, che aveva imbibito il terreno circostante; l’impianto era stato alimentato da liquame nei giorni successivi all’evento con le apparecchiature elettromeccaniche disattivate, tanto che il sedimentatore secondario SED2, che l’il giugno 2008 era stato trovato semi-vuoto con un battente idrico al di sotto del diffusore centrale, il 13 giugno era completamente pieno; non era stato predisposto uno schema dello stato d’apertura e di chiusura delle valvole d’intercettazione delle diverse unità dell’impianto, così da non permettere la ricostruzione dello stato dell’impianto al momento dei fatti; non era stato eseguito alcun rilievo di dettaglio per calcolare i volumi delle varie unità dell’impianto ed in particolare dei sedimentatori primari e secondari; non era stato prelevato alcun campione, ai fini delle analisi, della sostanza oleosa contenuta nei tubi che servono per lo scarico dell’autocisterna ADR; i consulenti del pubblico ministero non avevano svolto alcuna prova di funzionamento delle apparecchiature di cui è dotato l’autospurgo ADR (sistemi di aspirazione, di scarico e di sturo), dello stato delle valvole di sfiato gas e scarico liquidi, della tenuta idraulica dei raccordi e delle tubazioni;

    b) con un secondo motivo deduce inosservanza o erronea applicazione della legge e vizio di motivazione in relazione agli artt.533, comma 1, 546, comma 1, lett.e) cod.proc.pen. sul punto inerente alla presunta mala gestio del depuratore.
    Il ricorrente contesta il dato di partenza della consulenza tecnica sulla quale si fonda la sentenza, relativo alla portata media di ingresso dell’impianto e richiama, a tal fine, l’autorizzazione allo scarico dell’impianto di depurazione di Mineo rilasciata dall’Assessorato Regionale dell’Energia e dei Servizi di Pubblica Utilità – Dipartimento Regionale dell’Acqua e dei Rifiuti con D.D.G. n.595 del 9 agosto 2010, acquisito al Prot. n.12203 del Comune di Mineo in data 13 settembre 2010, in cui si autorizza lo scarico nel Vallone Zuffunato con una «….portata nera media non superiore a 21.25 m3/h corrispondente al carico organico attuale dell’I.D. di 3.000 A.E.». Tale dato è rilevante ai fini della quantificazione del volume dei fanghi di depurazione e del carico di sostanze inquinanti immesso all’interno dell’impianto di depurazione con le acque reflue provenienti dalla fognatura; si contesta, altresì, l’indice di produzione del fango negli impianti a biodischi utilizzato nelle consulenze, che invece sarebbe pari a 0,3 – 0,5 kg SS/ kg BOD5 rimosso secondo la migliore letteratura in argomento, dunque inferiore del 50% rispetto a quello indicato. Il ricorrente ritiene che i calcoli dei consulenti siano basati sull’inesatta stima di cinque anni di continuo funzionamento dell’impianto e che il frequente intasamento della grigliatura in ingresso tendesse a diminuire l’alimentazione idrica, concludendo per l’impossibilità di valutare il carico idraulico dell’impianto durante il suo periodo di esercizio e tanto meno il volume dei fanghi potenzialmente prodotti, peraltro mai misurati nel corso delle indagini. L’affermazione secondo la quale le vasche erano colme di fanghi sarebbe smentita dal volume dei fanghi smaltiti dal SEDI, pari a 60/100 m3 a fronte di una capienza di 233 m3, e dal riversamento di tali fanghi nella vasca Imhoff senza che fosse stata rilevata alcuna fuoriuscita. Su tali argomentazioni la motivazione offerta dalla Corte di Appello sarebbe assente. La motivazione sarebbe, invece, manifestamente illogica laddove, pur partendo da un presupposto esatto, e cioè che occorre misurare il volume delle vasche e la portata d’ingresso del liquame al fine di valutare il giusto tempo di detenzione idraulica, i giudici hanno omesso di considerare che tali dati non sono stati accertati; nè erano state censite le abitazioni effettivamente allacciate alla rete fognaria, dato fondamentale ai fini del calcolo della portata di liquame in ingresso dell’impianto. Il ricorrente ritiene vi sia contraddittorietà fra quanto affermato nella sentenza a proposito del fatto che non tutto il contenuto del sedimentatore secondario fosse costituito da fango, posto che soltanto nella parte finale era stato rinvenuto il fango, nell’ordine di una ventina di metri cubi (pag.58), immesso nella strettoia della vasca Imhoff, quindi nel comparto di digestione e ciò che, invece, è riferito in altro punto, in cui si afferma che «la quantità del fango ispessito veniva misurata al momento dello svuotamento del SEDI, mediante 5/10 autospurghi da sei metri cubi per complessivi 30/70 metri cubi di fango» (pagg.71 e 177). Nessuna valida argomentazione sarebbe stata sviluppata per confutare la tesi difensiva per cui la presenza di ragnatele nell’unità di stacciatura dei fanghi non fosse indicativa del non uso della stessa. Nessuna motivazione sarebbe stata offerta per replicare al rilievo difensivo secondo il quale la presenza di bollicine si verifica in ambienti aerobici per il rilascio di 02 e C02 ed il mero rilievo visivo di bollicine in risalita sul pelo del liquido non è, dunque, sufficiente a dimostrare la situazione anaerobica di un ambiente. Altrettanto carente risulterebbe l’analisi del rilievo difensivo inerente all’inattendibilità della mera osservazione visiva per accertare l’assenza di pellicola biologica sui biodischi. Il ricorrente contesta, altresì, il dato della sostituzione di uno dei biorotori sostenendo che le dichiarazioni del teste Omissis, alle quali si riferisce la Corte, non appaiono attendibili in quanto non suffragate da adeguati riscontri documentali. In merito all’attendibilità delle analisi svolte nel tempo dall’A.R.P.A. e dal dott. P., soggetti terzi rispetto al Comune di Mineo, il ricorrente ritiene illogico ed immotivato che la Corte abbia ritenuto non corretta l’esecuzione dei campionamenti, oltre che contrastante con quanto asserito dal Tribunale a pag.91 della sentenza di primo grado, omettendo di spiegare come fosse possibile che l’impianto fosse in situazione di anossia quando sulla base delle analisi svolte dall’A.R.P.A. su campioni di liquami prelevati dal SEDI il 13 giugno 2008 (due giorni dopo l’incidente), i valori di BOD erano di 44 e 37 mg/L rispettivamente nel SEDI e nel SED2 mentre l’analisi svolta dal dott. P. il 7 maggio 2008 (acquisita al Prot. n. 16045 del Comune di Mineo in data 11 luglio 2008), circa un mese prima dell’incidente, su acque reflue prelevate all’uscita dell’impianto evidenziava che tutti i parametri erano nella norma ed in particolare i valori di BOD e COD in uscita erano rispettivamente di 22.9 e 112.1 mg/L . Il dubbio non risolto in merito all’assenza di metano avrebbe dovuto condurre alla pronuncia assolutoria. Nel ricorso vengono, quindi, indicati gli elementi istruttori contrari all’ipotesi dell’anossia dell’impianto, segnatamente la presenza di lemna minor o lenticchia d’acqua, pianta acquatica galleggiante, tipica degli ambienti lacustri naturali, quale indicatore della mancanza di sostanze fitotossiche (come idrocarburi e idrogeno solforato), e la scelta fatta dai consulenti del pubblico ministero di scaricare direttamente nel corpo idrico, appena 12 giorni dopo l’incidente, i liquami prelevati dal SEDI (da 100 a 170 m3).
    L’oggetto degli ordini di servizio predisposti da Z.G. come richieste di intervento del 6 e dell’ll giugno 2008 (espurgo condotta di collegamento tra vasca biorotore e vasca di sedimentazione finale) dimostrava che l’intervento nel pozzetto in cui si erano verificate le morti non era programmato;
    c) con un terzo motivo deduce inosservanza o erronea applicazione della legge e vizio di motivazione sul punto relativo al nesso di causalità. Il nesso causale tra le condotte colpose addebitate all’imputato C.A. e gli eventi sarebbe stato reciso, ai sensi ed in applicazione del comma secondo dell’art. 41 cod. pen., dall’intervento successivo di una causa anomala ed imprevedibile, ossia lo sversamento all’interno del pozzetto P.R.R.F. del contenuto petrolifero dell’autocisterna ADR della ditta CA., da ritenersi causa sopravvenuta, da sola sufficiente a determinare l’evento. Sulla base dei dati oggettivi della mancanza di una scala a muro per la discesa del personale nel P.R.R.F. e dell’esistenza di un sistema di catene per la risalita delle pompe di ricircolo che ne consentiva la riparazione dall’esterno, risulta contraddittoria l’affermazione dei giudici di merito secondo la quale, per la manutenzione straordinaria delle pompe, sarebbe stato necessario l’accesso diretto al pozzetto. Il pozzetto era, inoltre, chiuso da pesanti griglie saldate e prive di maniglie, sicché la discesa all’interno di esso si sarebbe dovuta ritenere atto abnorme ed imprevedibile dei lavoratori. Il ricorrente deduce l’erronea applicazione del principio di diritto enunciato dall’art.41, secondo comma, cod. pen. affermando che, in presenza di una causa eccezionale sopravvenuta, non trova applicazione il principio di equivalenza delle cause. 
    Considerato che lo sversamento illecito accertato dalla Corte era un evento abnorme rispetto al trattamento ordinario dei reflui effettuato in un depuratore comunale, quantomeno si sarebbe dovuto assolvere l’imputato nel dubbio, di difficile risoluzione, che detta condotta avesse interrotto il nesso causale;
    d) con un quarto motivo deduce inosservanza o erronea applicazione della legge e vizio di motivazione in riferimento agli artt.42 e 43 cod. pen. I giudici di merito avrebbero dovuto pronunciare sentenza assolutoria perché il fatto non sussiste anche per il capo A) delle imputazioni, relativo all’omicidio per violazione della normativa sulla sicurezza dei lavoratori nei posti di lavoro, in quanto le norme a contenuto precauzionale che si presume siano state violate dai dipendenti del Comune di Mineo sono norme che sono state poste per prevenire il concretizzarsi di un rischio specifico (rischio biologico dovuto alle sostanze immesse nel ciclo di depurazione, rischio elettrico dovuto alla presenza di macchinari elettrici, ecc.) diverso da quello in concreto realizzatosi. nell’impianto di depurazione del Comune di Mineo non erano presenti né il rischio di annegamento, né il rischio di lavorare in ambienti confinati, né il rischio chimico, perché nel pozzetto P.R.R.F. non era prevista la discesa di lavoratori. Indica a sostegno i testi normativi che, solo in epoca successiva ai fatti per cui è processo, sono stati emanati per regolare i rischi in ambienti sospetti di inquinamento o confinati (d.P.R. 14 settembre 2011 n.177, Guida Operativa ISPESL – Rischi specifici nell’accesso a silos, vasche e fosse biologiche, collettori fognari, depuratori e serbatoi utilizzati per lo stoccaggio e il trasporto di sostanze pericolose, Circolari del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali 9 dicembre 2010, n. 42, e 19 aprile 2011, n. 13);
    e) con un quinto motivo deduce vizio di motivazione per insussistenza di violazioni delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro ed insussistenza di culpa in eligendo e di culpa in vigilando. Contrariamente a quanto affermato nella sentenza impugnata a pag.132, è stata acquisita agli atti certificazione attestante la specifica formazione del dipendente Pu. effettuata dall’impresa Ga., costruttrice del depuratore, per la conduzione di depuratori fognari dal luglio 2002 al gennaio 2003, consistente nella gestione direttivo-esecutiva dell’impianto e nella conduzione operativa del laboratorio chimico preposto alle analisi dei reflui e delle acque depurate; la prova dichiarativa ha, inoltre, dimostrato che anche gli altri dipendenti comunali avevano seguito corsi di formazione. Premessa l’insussistenza di rischi interferenziali, non era onere del Comune redigere il D.U.V.R.I. e la prova dell’avvenuta redazione del D.V.R. era rinvenibile nel verbale della riunione periodica del 10 dicembre 2007, nel quale, così come indicato nella sentenza a pag.145, si faceva riferimento a «una rivisitazione del documento» stesso; la motivazione è illogica laddove pretende che nel D.V.R. fossero previste situazioni anormali, in quanto tali imprevedibili. Il documento è stato prodotto in data 9 luglio 2008, reca la data «dicembre 2007» ed è sottoscritto dall’architetto Z.M. (datore di lavoro) e dalla dott.ssa S. (SPP del Comune), così come richiesto dalla normativa ai tempi in vigore, posto che le disposizioni del d. lgs. n. 81/2008 relative al documento di valutazione dei rischi, che prevedono che il documento venga firmato anche dal medico competente e dal rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, sono entrate in vigore, per espressa disposizione di legge, dal 1 gennaio 2009. Non vi erano rischi da lavoro in ambienti confinati e, pertanto, non era necessario dotare i lavoratori dei relativi D.P.I.; l’arch. Z.M., impegnato quel giorno presso il Comune di Riesi a seguito del commissariamento, non era a conoscenza che l’11 giugno 2008 si dovesse effettuare un intervento al depuratore, non essendone stato informato da chi avrebbe dovuto farlo, e precisamente dallo Z.G. in qualità di R.U.P., giusta Determina Dirigenziale n. 599 del 2008. L’onere di apporre idonea cartellonistica, la cui violazione è stata contestata ai dipendenti del Comune, gravava sul costruttore dell’impianto e non sull’utilizzatore; della presenza di tale cartellonistica si era, peraltro, dato atto nei sopralluoghi periodici;
    f) con un sesto motivo deduce vizio di motivazione con riferimento all’art.539, comma 2, cod. proc. pen. sulle statuizioni civili, deducendo che la Corte di Appello ha omesso di replicare alla doglianza svolta nell’appello in merito alla liquidazione di somme a titolo di provvisionale nei confronti delle parti civili senza che le stesse avessero fornito alcuna prova dell’ammontare del danno.
    12. M.MA’., S.Z. e P.S., quali parti civili, a mezzo di procuratore speciale, ricorrono per cassazione con unico motivo per omessa motivazione in merito alle censure dai medesimi svolte con l’atto di appello, sia a proposito della quantificazione delle somme riconosciute a titolo di provvisionale in primo grado, sia in relazione ai parametri di determinazione delle spese processuali.
    13. Con memoria depositata il 10 maggio 2016 l’I.N.A.I.L. ha dedotto l’inammissibilità di quelle doglianze con le quali i ricorrenti hanno fornito una versione alternativa dei fatti senza indicare il punto della motivazione asseritamente viziato. Ha, quindi, chiesto che i ricorsi vengano rigettati per l’infondatezza dell’assunto che l’infortunio si sarebbe verificato per il comportamento abnorme o esorbitante dei lavoratori, avendo gli stessi programmato la discesa nel pozzetto al termine del primo accesso avvenuto il 6 giugno, ed essendo, in ogni caso, provata la violazione della normativa antinfortunistica da parte del committente e dell’appaltatore.

Diritto

  1. Alcune considerazioni tratte dalla sentenza impugnata si rendono necessarie per inquadrare il contesto in cui è maturata la decisione. Tali considerazioni costituiscono la premessa delle ragioni giustificative della presente pronuncia con specifico riguardo ai motivi di ricorso con i quali si sono dedotti il buon funzionamento dell’impianto di depurazione, l’assenza di conoscenze circa il rischio chimico negli impianti di depurazione all’epoca dei fatti, l’erronea ricostruzione del decorso causale degli eventi.
    1.1. Il luogo dell’infortunio è l’impianto di depurazione comunale dei reflui urbani, attivato nel primo semestre 2003, in cui si è adottato il metodo del trattamento biologico secondario a biomasse adese su biodischi. Il nucleo del trattamento depurativo mira ad abbattere la sostanza organica disciolta alimentando dei microorganismi che si sviluppano attecchendo sulla superficie dei cosiddetti dischi biologici; il continuo movimento di questi dischi, in parte sommersi nel liquame contenente sostanza organica ed in parte esposti all’aria, determina che la sostanza organica sciolta in biomasse vada a nutrire i microorganismi che formano la pellicola biologica che cresce sui biodischi. I dischi sono posizionati su biorotori che, ruotando, consentono di rifornire di ossigeno i batteri; girando i rotori, periodicamente i dischi vengono immersi nel liquame, poi ne fuoriescono venendo a contatto con l’ossigeno dell’atmosfera formandosi gradualmente una pellicola biologica che rappresenta l’effetto della rimozione e della trasformazione delle sostanze organiche disciolte in acqua. Il prodotto del lavoro dei batteri è una biomassa con strutture chimiche più semplici che si stacca dai dischi e si deposita in forma di fango. Dopo l’ossidazione biologica, i liquami vanno verso il pozzetto di ricircolo del liquame, in cui vi sono tre pompe, che alimentano le unità di sedimentazione primaria (vasche Imhoff) divise in comparto di sedimentazione e comparto di digestione, per subire uno o più passaggi attraverso i biorotori fin quando giungono in un pozzetto ripartitore che alimenta due sedimentatori secondari. I fanghi che si raccolgono sul fondo delle vasche di sedimentazione secondaria devono essere periodicamente spurgati aprendo una valvola che si trova sul fondo e che li porta nel pozzetto di ricircolo dei fanghi (P.R.R.F.), all’interno del quale si è verificato l’infortunio. Il P.R.R.F. è dotato di due pompe sommerse alimentate da una linea elettrica, azionabili dall’esterno, che sollevano la miscela di fanghi da questo pozzetto per buttarla in un altro pozzetto (P.R.R.). La linea-fanghi si conclude con il condizionamento chimico e la disidratazione tramite una nastropressa.
    1.2. Con note del 4 luglio 2006 e del 28 febbraio 2007 l’Assessorato Regionale Territorio ed Ambiente aveva chiesto al Comune di Mineo informazioni sulla produzione di fanghi di depurazione e loro eventuale utilizzo in agricoltura, evidenziando che tale attività doveva essere eseguita entro il 31 marzo di ciascun anno. Il 31 luglio 2006 ed il 7 marzo 2007 il Comune aveva risposto che i fanghi erano ancora accumulati all’interno dell’impianto e che, tenuto conto del breve periodo di tempo trascorso, non si era provveduto alla loro eliminazione; era imminente la messa in azione del sistema di essiccamento dei fanghi mediante nastropressa.
    1.3. Sebbene la corretta gestione dell’unità di ricircolo dei fanghi, in impianti del genere, preveda l’apertura delle valvole e l’accensione delle pompe saltuariamente, in modo da aumentare il residuo secco dei fanghi estratti ed evitare l’innescarsi di condizioni settiche con formazione di gas, nel caso concreto l’impianto veniva gestito con un sistema continuo di estrazione dei fanghi, lasciando parzialmente aperte le valvole di fondo ed accesa la pompa di ricircolo. Tale metodo, per un impianto a fanghi attivi, è corretto ma non lo è in un impianto in cui il ricircolo dei fanghi ha la sola funzione di inviare i fanghi secondari alla vasca Imhoff dove, sedimentando, raggiungono il comparto inferiore di digestione.
    1.4. Per la gestione dell’impianto di depurazione alcune imprese specializzate avevano presentato le loro offerte, non inferiori ad euro 60.000,00 annui, indicative del tipo di onere oggettivo che presenta la gestione di un depuratore, ma il Comune aveva optato per una gestione in proprio onde risparmiare sulla spesa. Erano stati eseguiti, negli anni, alcuni interventi studiati da operai tecnici del Comune, come ad esempio la realizzazione dell’impianto di clorazione previo distacco di una delle pompe presenti nel pozzetto di ricircolo; alcune parti dell’impianto, in particolare la nastropressa destinata alla disidratazione dei fanghi, erano rimaste inutilizzate perché non se ne conosceva il funzionamento.
    1.5. La fase di smaltimento dei fanghi, per cinque anni di attività, non era mai stata, volutamente, avviata; si tratta di una delle attività più onerose tra quelle inerenti alla gestione di un impianto di depurazione. L’omesso smaltimento dei fanghi aveva compromesso l’intero funzionamento dell’impianto, evidenziando come il criterio di economicità, l’unico al quale il Comune si era informato, senza tenere conto di quelli dell’efficacia e dell’efficienza, si fosse rivelato del tutto fallace. I quantitativi di fango prodotto quotidianamente dal depuratore, pur tenendo conto dei periodi di fermo dell’impianto, si erano via via accumulati al fondo dei due sedimentatori e dei due grandi digestori anaerobia (vasche Imhoff) in testa all’impianto portando il sistema, dopo cinque anni, ad una situazione critica. Fin quando il digestore riusciva ad accumulare il fango, il sistema aveva retto, malgrado la mancata estrazione; poi il fango era uscito dal digestore ed aveva invaso i sedimentatori primari fino a raggiungere i biodischi, andando in anossia. L’alta densità raggiunta dal fango, assieme alla presenza di occasionali corpi solidi, del tipo materiali cellulosi, aveva provocato anche quell’occlusione della tubazione di collegamento fra il pozzetto partitore PR ed il SED2 che era alla base della richiesta d’intervento dell’impresa CA..
    1.6. Nella fase delle indagini, l’attività dei consulenti tecnici era parallela a quella dei medici legali. Questi ultimi, unitamente al tossicologo, avevano individuato l’idrogeno solforato come gas killer, contemporaneamente il consulente chimico, sulla scorta di letteratura scientifica sorta (soprattutto in Giappone) in occasione di morti assai rapide verificatesi in ambienti di lavoro, aveva orientato le indagini alla ricerca di solfuri in quanto la morte in ambienti confinati può essere facilmente causata da sacche di idrogeno solforato accumulatosi verso il basso in ragione del suo peso molecolare.
    1.7. Per un impianto di depurazione, il rischio chimico è connesso e fisiologico, come si desume anche da manuali per la gestione e manutenzione dei depuratori risalenti al 1999. Si può trattare di rischio chimico diretto, perché si usano materiali chimici per il trattamento dei fanghi che possono liberare qualche gas tossico se non sono opportunamente mescolati, oppure di rischio chimico relativo, che consegue alla disfunzione dell’impianto quando quest’ultimo va in ipossia producendo azoto, ammoniaca, idrogeno solforato e foschina.
    1.8. Nel caso in esame, per agire in condizioni di sicurezza, i lavoratori avrebbero dovuto calare dall’esterno, mediante un’asta rigida o altro strumento, il tubo di sturo ad alta pressione ponendo la testa del naspo davanti al lume del tubo da sturare e guidando il naspo sino ad inserirlo nella tubazione, oppure avrebbero dovuto fare i necessari accertamenti adoperando un rilevatore di idrogeno solforato e di ossigeno ed entrare nel pozzetto con gli autorespiratori e con l’imbracatura collegata ad un cavo, onde tirare su il lavoratore in caso di malore o di incidenti. E’ buona norma cautelare che lo sturo di una tubazione intasata che si trovi al fondo di uno spazio confinato non sia effettuato contando sulla velocità di fuga dell’operatore perché le sue capacità di reazione, operando in un ambiente che può saturarsi di sostanze tossiche, possono venire alterate; per questa ragione è sempre necessaria la presenza di un altro operatore all’esterno dello spazio confinato. 
    1.9. In relazione alle complesse deduzioni difensive in materia occorre dar conto, sia pure sinteticamente, delle molte pagine che la sentenza dedica all’analisi dei profili di colpa eziologicamente rilevanti emersi nel corso del processo. Si assume che è agevole riscontrare l’esistenza del nesso di causalità tra il non agire contestato agli imputati e gli eventi, secondo lo standard consolidato nella giurisprudenza di legittimità, dell’alto grado di credibilità razionale. Queste, in sintesi, le principali carenze cautelari contestate, in relazione alle distinte posizioni di garanzia: omessa manutenzione in condizioni di efficienza dell’impianto di depurazione comunale ed omessa attivazione della fase di estrazione dei fanghi da smaltire; omessa redazione del documento di valutazione dei rischi da parte del datore di lavoro dei dipendenti del Comune; omessa elaborazione del documento di valutazione del rischio interferenziale ed omesso coordinamento tra i datori di lavoro; omessa fornitura ai lavoratori dei dispositivi di protezione individuale e delle attrezzature di lavoro per l’esercizio in sicurezza dell’attività di conduzione e manutenzione del depuratore comunale avuto riguardo ad attività in ambienti sospetti di inquinamento; omessa somministrazione ai lavoratori di formazione adeguata e specifica; omessa apposizione di idonea cartellonistica; omessa vigilanza sull’osservanza da parte dei lavoratori dell’impresa appaltatrice delle disposizioni aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro e di uso dei mezzi di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuale; omissioni concernenti il controllo delle situazioni di rischio e le istruzioni utili a gestire tali situazioni da parte dei lavoratori, nonché l’informazione dei lavoratori in merito al rischio di un pericolo grave ed immediato connesso agli interventi di manutenzione presso gli impianti di depurazione, segnatamente il rischio chimico. Va ricordato che la verifica del nesso causale potrà ritenersi raggiunta anche sulla base della prova di apprezzabili, significative probabilità che le condotte doverose avrebbero avuto di scongiurare il danno.
    Le questioni poste dai ricorrenti impongono l’enunciazione di alcuni principi interpretativi in materia di responsabilità per violazione di norme sugli infortuni sul lavoro.

Il nesso di condizionamento
2. Le doglianze svolte con riguardo alla ricostruzione del nesso di causalità tra le condotte contestate e l’evento devono essere vagliate tenendo conto di un aspetto centrale che caratterizza la vicenda in esame e cioè che la descrizione del succedersi degli eventi fa emergere un comportamento di natura precipuamente commissiva del datore di lavoro dei dipendenti del Comune di Mineo. Il punto va rimarcato per evitare di perdere di vista il nucleo centrale della pronuncia di condanna, che ha esaminato la scelta del datore di lavoro di adibire i lavoratori deceduti alle mansioni nell’espletamento delle quali avrebbero dovuto essere adottate le cautele antinfortunistiche omesse. E’ in quest’ottica che deve valutarsi l’affermazione della certa sussistenza del nesso di causalità materiale tra le condotte di tale datore di lavoro e l’evento, sebbene in presenza di una congerie di omissioni di cautele antinfortunistiche alle quali si è accompagnata la scelta di base di adibire le vittime ad un’attività funzionale alla manutenzione dell’impianto di depurazione. Tanto premesso, il giudizio sul nesso di condizionamento è stato vagliato alla luce dei principi che seguono.
2.1. In linea di principio, l’ordinamento accoglie la concezione condizionalistica della causalità per cui il nesso di condizionamento è escluso solo se, eliminando dalla somma degli antecedenti la condotta umana, si constata che l’evento si sarebbe verificato comunque; nei reati omissivi impropri il meccanismo controfattuale viene posto in opera immaginando la condotta mancata e verificando se la sua adozione avrebbe impedito la produzione dell’evento. Nei reati omissivi, dal punto di vista naturalistico, si è in presenza di un nulla, di un non tacere. La condotta doverosa che avrebbe potuto in ipotesi impedire l’evento deve essere rigorosamente descritta, definita con un atto immaginativo, ipotetico, fondato precipuamente su ciò che accade solitamente in situazioni consimili, ma considerando anche le specificità del caso concreto. Alla stregua di tale base ricostruttiva occorre determinare se l’azione doverosa avrebbe avuto concrete chances di salvare il bene protetto o di annullare il rischio (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, in motivazione).
2.2. Rivelatosi inadeguato un metodo di indagine fondato su strumenti di tipo deterministico e nomologico-deduttivo, si è detto che il giudice deve confrontare, avendo chiara l’irripetibilità di ciascun caso concreto, le generalizzazioni approssimate ed incerte, che a volte sono necessariamente connesse all’indagine causale, con le prove disponibili; ciò al fine di verificare, altrettanto concretamente, se in quello specifico caso esse possano costituire un’attendibile chiave di spiegazione dell’evento o se, invece, l’impianto probatorio mostri elementi che pongono in crisi la spiegazione probabile. Si deve adottare, dunque, un metodo induttivo che tragga spunto dal fatto storico nel suo concreto verificarsi e dalla più probabile ricostruzione di esso secondo lo schema argomentativo dell’abduzione. La probabilità logica sulla quale si viene a fondare l’accertamento del nesso di condizionamento non riguarda la legge esplicativa utilizzata, bensì i profili inferenziali della verifica probatoria di quel nesso rispetto all’evidenza disponibile ed alle circostanze del caso concreto. Questo è un passaggio fondamentale della nota sentenza Franzese (Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002), che, per evitare fraintendimenti, sarà meglio definire in termini di «forte corroborazione dell’ipotesi». Il modello normativo del procedimento logico di cui si parla si trova nella sequenza del ragionamento dettato in tema di prova indiziaria dall’art. 192, comma 2, cod.proc.pen., dall’art. 191, comma 1, cod.proc.pen. per quanto attiene alla valutazione della prova in generale e dall’art. 546, comma 1 lett.e), cod.proc.pen. per quanto attiene alla valutazione di quelle che possiamo chiamare le «falsificazioni», ossia le evidenze che devono essere vagliate per escludere che vi siano risultanze istruttorie che mettono in crisi l’ipotesi stessa.
2.3. Ma bisogna prestare attenzione al significato del termine induzione nella scienza giuridica; l’induzione può, infatti, fornire anche la spiegazione causale retrospettiva di un accadimento e la sentenza Franzese ne parla in termini di «copiosa caratterizzazione del fatto storico nel suo concreto verificarsi». Si tratta di una valutazione, ossia di un apprezzamento essenzialmente discrezionale che il giudice compie in sede di decisione, in base al grado di conferma che le prove acquisite conferiscono all’ipotesi sul fatto. Essa sfugge ad ogni rigida determinazione quantitativa: si tratta del momento principale in cui trova manifestazione il prudente apprezzamento o il libero convincimento del giudice. Né la deduzione né l’induzione producono leggi, ma semplicemente ne traggono le conseguenze e le generalizzano. L’unico argomento che produce informazione è l’abduzione.
2.4. Appurato il metodo d’indagine, occorre chiarire come si procede nel processo all’accertamento del nesso di condizionamento. Lungo l’itinerario che conduce dal probabilismo dello scenario causale (la causalità generale) alla certezza del nesso causale nel caso storico si colloca infatti un tema impegnativo, quello dei modelli di ragionamento probatorio. È in primo luogo essenziale esser certi che il coefficiente probabilistico esprima effettivamente una relazione causale. Appurato in termini generali il rapporto causa-effetto sulla base di un coefficiente probabilistico, le informazioni generalizzanti dovranno confrontarsi in chiave congetturale con emergenze di carattere specifico. Infatti, la causalità cui si interessa il diritto penale è sempre quella di eventi singoli. Le informazioni causali possono essere probabilistiche; ma non può esserlo il giudizio finale inerente al caso oggetto del giudizio, che deve attingere il livello della ragionevole certezza. D’altra parte, in presenza di una generalizzazione probabilistica sicuramente causale il coefficiente probabilistico non è sempre importante: ciò che è veramente cruciale è che non sussista una diversa, plausibile ipotesi eziologica. Il cuore problematico della causalità è sempre quello della pluralità delle cause.
2.5. La più recente giurisprudenza delle Sezioni Unite ha chiarito la distinzione tra indagine esplicativa ed indagine predittiva; si tratta di svolgere un ragionamento predittivo, anche se rivolto al passato, quando il giudice deve rispondere alla domanda sulla evitabilità di un evento. Nella prima, si possono utilizzare generalizzazioni probabilistiche purché conducano ad una spiegazione dei fatti non insidiata da alternative ipotesi causali; nella seconda, invece, il coefficiente probabilistico che contrassegna ciascuna generalizzazione inerente a casi simili assume maggiore peso ai fini del giudizio prognostico richiesto al giudice. Pare corretto affermare che, nell’ambito di un’inferenza di tipo deduttivo, dal generale al particolare, è di essenziale rilievo il grado di certezza o di probabilità della premessa maggiore, che si trasmette tal quale alla conclusione del ragionamento. Il problema davvero cruciale è, tuttavia, che il ragionamento causale, nell’ambito delle scienze storiche, non è quasi mai di tipo deduttivo; e che in realtà i ragionamenti causali sono di due ben distinte categorie. Da un lato abbiamo i ragionamenti esplicativi, che guardano al passato. Di fronte ad un accadimento ci si occupa di spiegarne le ragioni, di individuare i fattori che lo hanno generato. Lo storico e l’investigatore sono professionisti che regolarmente compiono questo genere di ragionamenti. Il giudice, a sua volta, sviluppa un ragionamento esplicativo quando si chiede quali siano state le ragioni dello sviluppo di una situazione che ha condotto all’evento illecito oggetto del processo. Dall’altro lato si collocano i ragionamenti predittivi, che riguardano la previsione, appunto, di eventi futuri. Tali ragionamenti sono frequenti nell’ambito scientifico: sia in quello sperimentale che in quello applicativo. Infatti la predittività costituisce il fondamentale connotato che caratterizza una legge scientifica e tale attitudine viene quindi sperimentalmente controllata proprio producendo e controllando previsioni. D’altra parte, l’utilizzazione delle leggi scientifiche avviene in campo pratico producendo previsioni, con ragionamento deduttivo che proietta sui casi concreti le informazioni causali che la legge stessa esprime. Tale genere di ragionamento compie, ad esempio, il medico che formula la prognosi di una malattia. Anche il giudice articola particolari previsioni quando si trova a chiedersi cosa sarebbe accaduto se un’azione fosse mancata o se, al contrario, fosse stato tenuto un comportamento richiesto dall’ordinamento: si tratta di ragionamenti controfattuali che riguardano, ad esempio, la causalità, o la cosiddetta causalità della colpa (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, in motivazione).
2.6. Occorre considerare che, assai spesso, un evento può trovare la sua causa, alternativamente, in diversi fattori. In tale frequente situazione, le generalizzazioni che enunciano le diverse categorie di relazioni causali costituiscono solo delle ipotesi causali alternative. Emerge, cosi, che il problema dell’indagine causale è, nella maggior parte dei casi, quello della pluralità delle cause. Esso può essere plausibilmente risolto solo cercando sul terreno, cioè nell’ambito delle prove disponibili, i segni, i fatti, che solitamente si accompagnano a ciascun ipotizzabile fattore causale e la cui presenza o assenza può quindi accreditare o confutare le diverse ipotesi prospettate. Il ragionamento probatorio è dunque di tipo ipotetico, congetturale: ciascuna ipotesi causale viene messa a confronto, in chiave critica, con le particolarità del caso concreto che potranno corroborarla o falsificarla. Sono le contingenze concrete del fatto storico, i segni che noi vi scorgiamo, che possono in alcuni casi consentire di risolvere il dubbio e di selezionare una accreditata ipotesi eziologica; a meno che dai reperti fattuali tragga alimento un’alternativa, plausibile ipotesi esplicativa. L’affidabilità di un assunto è temprata, come detto, non solo e non tanto dalle conferme che esso riceve, quanto dalla ricerca disinteressata e strenua di fatti che la mettano in crisi, che la falsifichino ((Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, in motivazione).
2.7. Nel caso dell’omissione la condotta rilevante per il diritto, cioè la mancata condotta impeditiva, non essendo né reale né certa, non può far parte della spiegazione dell’evento, ma risulta anzi bisognosa a sua volta di essere spiegata cioè descritta. All’interprete incombe quindi l’onere di ricostruire dettagliatamente, descrivendola, l’azione impeditiva, di cui vanno accertate le concrete chances di salvezza del bene o di annullamento del rischio. Non si ha allora più una prognosi postuma (che essendo appunto postuma non è affatto una prognosi ma una ricostruzione del passato) bensì una prognosi in senso proprio. Così nell’emissione la spiegazione ha struttura, e non solo fonte, probabilistica, trasformandosi invero in una prognosi. Tale dimensione probabilistica apre la strada ad una possibile valorizzazione del paradigma della diminuzione del rischio che, in astratto, potrebbe sostituire, almeno per la fattispecie omissiva, la formula condizionalistica: il paradigma non spiegherebbe più l’evento, che assurgerebbe al ruolo di mera condizione di punibilità, ma prognosticherebbe il rischio estrinsecato dalla condotta che costituirebbe l’unico elemento tipizzante della fattispecie omissiva (Sez. U, n. 38343  del 24/04/2014, Espenhahn, in motivazione); ove non si voglia abbandonare il paradigma condizionalistico, esso va comunque integrato con elementi prognostici resi indispensabili dalle caratteristiche del controfattuale omissivo.

L’interruzione del nesso di condizionamento e la pluralità di cause
3. Ampio spazio è stato riservato dai ricorrenti al tema della condotta altrui quale causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento, segnatamente con riguardo all’asserito sversamento di rifiuti nel pozzetto P.R.R.F. da parte dei lavoratori della CA. ovvero con riguardo alla condotta abnorme degli stessi lavoratori.
Delicati problemi pone il principio espresso dall’art.41, secondo comma, cod. pen. Le discussioni sulla causalità giuridica si sono da sempre incentrate sulla discussa formula dell’art. 41 capoverso, secondo cui le cause (cioè le condizioni) sopravvenute escludono la rilevanza causale delle condizioni preesistenti quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento. L’opinione largamente prevalente, fatta propria dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, ha per lo più ritenuto che l’unico modo per conferire un senso alla formula è quello di ritenere che si parli di cause sopravvenute che non siano da sole sufficienti a determinare l’evento, e costituiscano in realtà delle concause giacché, se ci si trovasse di fronte a cause dotate di piena autonomia, la disposizione sarebbe inutile, ovvia e ripetitiva degli artt.40, primo comma, e 41, primo comma, cod. pen. Si ritiene, quindi, che la norma intenda esercitare una funzione limitativa rispetto al principio di equivalenza causale espresso nel comma precedente, alludendo a concause qualificate, capaci di assumere su di sé, da un punto di vista normativo, la spiegazione dell’imputazione causale: il codice accoglie la teoria della condicio sine qua non ma vi apporta limitazioni rese necessarie dall’esigenza di evitare la proliferazione indiscriminata dell’imputazione del fatto, per effetto della eccessiva ampiezza del nesso di condizionamento determinato dal principio di equivalenza causale (Sez. 4, n. 21588 del 23/03/2007, Margani, in motivazione).
3.1. Anche l’illecito comportamento altrui soggiace a tale disciplina. Se ne desume il principio per cui, in tema di rapporto di causalità, ai sensi dell’art. 41, terzo comma, cod. pen., il nesso di causalità non resta escluso dal fatto altrui, cioè quando l’evento è dovuto anche all’imprudenza di un terzo o dello stesso offeso, poiché il fatto umano, involontario o volontario, realizza ancll’esso un fattore causale, al pari degli altri fattori accidentali o naturali (Sez. 4, n. 31679 del 08/06/2010, Rigotti, Rv. 248113), a meno che tale comportamento non sia qualificabile come concausa qualificata capace di assumere di per sé rilievo dirimente nella spiegazione del processo causale.
3.2. La norma dettata dall’art.41, secondo comma, cod. pen. pone, in altre parole, un limite all’imputazione di un evento ad una determinata condotta umana tutte le volte in cui si sia accertata la presenza di una causa, appartenente ad una serie causale completamente autonoma ovvero inseritasi nella serie causale dipendente dalla condotta dell’imputato e purtuttavia dotata di forza preponderante, dirimente nella determinazione dell’evento.
3.3. Il tema dell’interruzione del nesso causale ricorre con insistenza proprio nell’ambito di processi inerenti ad infortuni sul lavoro in ragione della pluralità delle condotte dei soggetti che concorrono alla gestione del rischio lavorativo, non ultima la condotta dello stesso lavoratore. Si sono, pertanto, da un lato, individuate le varie figure di «garanti», correlandole al rischio da ciascuno gestito, al fine di separare le responsabilità (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, in motivazione; Sez. 4, n. 33329 del 05/05/2015, Sorrentino, Rv. 264365); d’altro canto, si è cercato di enucleare un criterio di valutazione della condotta del lavoratore idonea ad interrompere il nesso di condizionamento tra il comportamento datoriale e l’infortunio.
3.4. Con riguardo a quest’ultimo profilo, in una recente sentenza di questa Sezione (Sez. 4, n. 49821 del 23/11/2012, Lovison, Rv. 254094) e nella stessa pronuncia delle Sezioni Unite più volte richiamata (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn) sono state ricordate le pronunce della Corte nelle quali si è ritenuto che il comportamento del lavoratore avesse interrotto il nesso di causalità tra l’azione o l’omissione del datore di lavoro e l’evento, onde sarà sufficiente un richiamo a dette pronunce per ribadire che va considerata interruttiva del nesso di condizionamento la condotta del lavoratore che si collochi in qualche guisa al di fuori dell’area di rischio definita dalla lavorazione in corso. Tale comportamento è «interruttivo» non perché «eccezionale» ma perché eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare. La condotta colposa del lavoratore era stata, in passato, ritenuta idonea ad escludere la responsabilità dell’imprenditore, dei dirigenti e dei preposti in quanto esorbitante dal procedimento di lavoro al quale egli era addetto oppure concretantesi nella inosservanza di precise norme antinfortunistiche (Sez. 4, n. 1484 del 08/11/1989, dep.1990, Dell’Oro,Rv. 183199). In alcune sentenze il principio è stato ribadito, e si è altresì sottolineato che la condotta esorbitante deve essere incompatibile con il sistema di lavorazione o, pur rientrandovi, deve consistere in qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro, tali non essendo i comportamenti tipici del lavoratore abituato al lavoro di routine (Sez. 4, n. 40164 del 03/06/2004, Giustiniani, Rv.229564; Sez. 4, n. 9568 del 11/02/1991, Lapi, Rv. 188202); in altre si è sostenuto che l’inopinabilità può essere desunta o dalla estraneità al processo produttivo o dall’estraneità alle mansioni attribuite (Sez.4, n. 12115 del 03/06/1999, Grande, Rv.214998; Sez.4, n.8676 del 14/06/1996, Ieritano, Rv. 206012), o dal carattere del tutto anomalo della condotta del lavoratore (Sez.4, n. 2172 del 13/11/1984, dep.1986, Accettura, Rv. 172160). Se, dunque, da un lato, è stato posto l’accento sulle mansioni del lavoratore, quale criterio idoneo a discriminare il comportamento anomalo da quello che non lo è, nel concetto di esorbitanza si è ritenuto di includere anche l’inosservanza di precise norme antinfortunistiche, ovvero la condotta del lavoratore contraria a precise direttive organizzative ricevute, a condizione che l’infortunio non risulti determinato da assenza o inidoneità delle misure di sicurezza adottate dal datore di lavoro (Sez.4, n.3455 del 03/11/2004, dep. 2005, Volpi, Rv.230770).
3.5. In sintesi, si può cogliere nella giurisprudenza di legittimità la tendenza a considerare interruttiva del nesso di condizionamento la condotta del lavoratore non solo quando essa si collochi in qualche modo al di fuori dell’area di rischio definita dalla lavorazione in corso ma anche quando, pur collocandosi nell’area di rischio, sia esorbitante dalle precise direttive ricevute ed, in sostanza, consapevolmente idonea a neutralizzare i presidi antinfortunistici posti in essere dal datore di lavoro; cionondimeno, quest’ultimo, dal canto suo, deve aver previsto il rischio ed aver adottato le misure prevenzionistiche esigibili in relazione alle particolarità del lavoro. La giurisprudenza di legittimità è, infatti, ferma nel sostenere che non possa discutersi di responsabilità (o anche solo di corresponsabilità) del lavoratore per l’infortunio quando il sistema della sicurezza approntato dal datore di lavoro presenti delle evidenti criticità (Sez.4, n.22044 del 2/05/2012, Goracci, n.m.; Sez.4, n.16888 del 07/02/2012, Pugliese, Rv. 252373; Sez.4, n.21511 del 15/04/2010, De Vita, n.m.). Le disposizioni antinfortunistiche perseguono, infatti, il fine di tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa, onde l’area di rischio da gestire include il rispetto della normativa prevenzionale che si impone ai lavoratori, dovendo il datore di lavoro dominare ed evitare l’instaurarsi, da parte degli stessi destinatari delle direttive di sicurezza, di prassi di lavoro non corrette e per tale ragione foriere di pericoli (Sez.4, n.4114 del 13/01/2011, n.4114, Galante, n.m.; Sez. F, n. 32357 del 12/08/2010, Mazzei, Rv. 2479962).
3.6. A monte di tali considerazioni si può individuare la differente funzione degli obblighi del datore di lavoro, ma anche del lavoratore, in relazione al rischio lavorativo. La formazione dei lavoratori è, infatti, funzionale a consentire loro di percepire il rischio, laddove il datore di lavoro è previamente tenuto a valutarlo onde approntare le misure prevenzionistiche (Sez. 4, n. 8883 del 10/02/2016, Santini, Rv. 266073).

Il rischio
4. Un’attenzione preliminare merita la data dell’evento, l’11 giugno 2008, di meno di un mese successiva all’entrata in vigore (15 maggio 2008) del d. Lgs. 9 aprile 2008, n.81, essendo appena abrogato il previgente d. Lgs. 19 settembre 1994, n.626 con la riserva prevista dall’art.304 d. Lgs. n.81/2008 che, richiamando gli artt.3, comma 3, d. Lgs. n.81/2008 e 306 d.lgs. n.81/2008, faceva salve per dodici mesi dalla data di entrata in vigore del medesimo d. Lgs. le disposizioni attuative dell’art. 1, comma 2, del d. Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, nonché le disposizioni di cui al d. Lgs. 27 luglio 1999, n. 271, al d. Lgs. 27 luglio 1999, n. 272, al d. Lgs. 17 agosto 1999, n. 298, e le disposizioni tecniche del d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, e del d.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164, richiamate dalla legge 26 aprile 1974, n. 191, e dai relativi decreti di attuazione e, d’altro canto, rinviava di novanta giorni l’efficacia delle disposizioni di cui agli artt. 17, comma 1, lettera a), e 28, nonché’ le altre disposizioni in tema di valutazione dei rischi che ad esse rinviano, ivi comprese le relative disposizioni sanzionatone, previste dal medesimo decreto. Per quanto qui interessa, dunque, all’epoca dell’evento erano ancora in vigore le disposizioni in tema di valutazione dei rischi previste dal d. Lgs. n.626/94, essendo già in vigore, per il resto, il nuovo testo normativo n.81/2008. Con riguardo al documento di valutazione dei rischi (D.V.R.) trova, dunque, applicazione l’art. 4 d.lgs. n. 626/1994, ma giova precisare che sul piano sostanziale, nel caso in esame, ciò non determina alcun significativo effetto, data la corrispondenza contenutistica delle disposizioni succedutesi (Sez. 4, n. 42018 del 12/10/2011, Marsiletti, Rv. 251932).
4.1. Come si è detto, il nuovo sistema di sicurezza aziendale si configura come procedimento di programmazione della prevenzione globale dei rischi e tale logica guida anche la gestione dei rischi in caso di affidamento dei lavori ad imprese appaltatrici o a lavoratori autonomi all’interno dell’azienda, o di una singola unità produttiva della stessa, nonchè nell’ambito dell’intero ciclo produttivo dell’azienda medesima, gravando sempre sul datore di lavoro, in questo caso anche committente, l’obbligo di predisporre il documento di valutazione dei rischi derivanti dalle possibili interferenze tra le diverse attività che si svolgono, in successione o contestualmente, all’Interno di una stessa area e gravando, specularmente, su tutti i datori di lavoro ai quali siano stati appaltati segmenti dell’opera complessa, l’obbligo di collaborare all’attuazione del sistema prevenzionistico globalmente inteso, sia mediante la programmazione della prevenzione concernente i rischi specifici della singola attività, rispetto ai quali la posizione di garanzia permane a carico di ciascun datore di lavoro, sia mediante la cooperazione nella prevenzione dei rischi generici derivanti dall’interferenza tra le diverse attività, rispetto ai quali la posizione di garanzia si estende a tutti i datori di lavoro ai quali siano riferibili le plurime attività coinvolte nel processo causale da cui ha tratto origine l’infortunio (Sez.4, n.5420 del 15/12/2011, Intrevado, n.m.; Sez.4, n.36605 del 5/05/2011, Giordano, n.m.; Sez.4, n.32119 del 25/03/2011, D’Acquisto, n.m.). Il giudice del merito è, dunque, in primo luogo tenuto ad individuare l’area di rischio la cui corretta prevenzione avrebbe evitato l’evento, onde successivamente individuare il titolare, o i titolari, della relativa posizione di garanzia.
4.2. Il presupposto dell’obbligo del committente di neutralizzare i rischi interferenziali in caso di appalto cosiddetto endoaziendale si rinviene nell’art.7, comma 3, d. Lgs. n.626/94, che è stato modificato ponendo espressamente a carico del datore di lavoro committente l’obbligo di stilare il D.U.V.R.I. (documento unico di valutazione dei rischi da interferenze), con riferimento alle attività che si svolgono all’Interno della sua azienda (art.7, comma 1, d.lgs. n.626/94), indipendentemente dal fatto che vi siano taluni rischi da interferenze che possano riguardare esclusivamente i dipendenti dell’appaltatore ovvero i lavoratori autonomi presenti nell’ambiente di lavoro e non anche i lavoratori dipendenti del committente. Si tratta di una regola evidentemente finalizzata ad individuare con certezza il titolare primario della posizione di garanzia relativa alla valutazione dei rischi da interferenze in colui che ha la posizione di dominio del rischio correlato alla compresenza nella sua unità produttiva di più imprese. Tale obbligo deve intendersi, poi, esclusivamente chiarito con l’entrata in vigore dell’art.26, comma 1, d. Lgs. n.81/2008, successiva all’infortunio in esame, in base al quale si intende per datore di lavoro committente colui che ha la disponibilità giuridica dei luoghi in cui si svolge l’appalto o la prestazione di lavoro autonomo (Sez. 4, n. 14167 del 12/03/2015, Marzano, Rv. 263150). Una pronuncia della Corte di legittimità ha puntualizzato che sotto la vigenza del d.lgs. n. 626/1994, in caso di contratto d’appalto, d’opera o di somministrazione, l’obbligo di elaborare il documento di valutazione dei rischi – denominato come piano di sicurezza e coordinamento – era posto in capo a tutti i datori di lavoro; quindi sia al datore di lavoro committente che ai datori di lavoro delle imprese appaltatrici (giova rammentare che la medesima decisione ha concluso nel senso che, a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 26 d.lgs. n. 81 del 2008, l’omessa valutazione del rischio interferenziale é divenuto reato proprio del committente e non può pertanto più essere imputata anche al datore di lavoro appaltatore (Sez.3, n. 2285 del 14/11/2012, dep.2013, Formentini, Rv. 254836). Ne deriva che, fatto salvo l’obbligo di valutazione dei rischi di cui all’art.4 d. Lgs. n.626/94 e fermi restando gli obblighi di cooperazione e di coordinamento confermati dalla nuova disciplina, in applicazione dell’art. 2, quarto comma, cod. pen. il datore di lavoro dell’impresa appaltatrice non può più essere ritenuto responsabile dell’omessa redazione del documento di valutazione dei rischi di cui all’art. 7, comma 1, d. Lgs. n.626/94.
4.3. Correlato alle suesposte previsioni normative è l’obbligo del giudice di merito di chiarire, preliminarmente, se una determinata attività abbia dato luogo ad un rischio interferenziale. Si tratta, in altre parole, di analizzare se sussista il rischio derivante dalla convergenza di articolazioni di aziende diverse verso il compimento di un’opera unitaria (nel caso concreto, la manutenzione straordinaria dell’impianto di depurazione) (Sez. 4, n. 14167 del 12/03/2015, Marzano, Rv. 263150), ovvero se il giudizio si debba limitare a verificare il tema della compiutezza e della adeguatezza delle misure previste nel documento di valutazione dei rischi ai sensi dell’art. 4 d.lgs. n. 626/1994.
Il rischio interferenziale
5. Considerato che il caso in esame è stato diversamente valutato dal giudice di appello, rispetto al giudice di primo grado, sul punto concernente la rilevanza penale della verosimile sinergia tra le fonti di produzione di gas killer, la mala gestio dell’impianto di depurazione da un lato, e lo sversamento di frazioni relative a residui di lavorazione dall’ADR al P.R.R.F. dall’altro, giova soffermarsi sul tema del cosiddetto rischio interferenziale. Ma il tema rileva, più in generale, nel contesto spaziale e lavorativo in cui si è verificato l’evento in occasione della convergenza delle attività di lavoratori dipendenti dal committente e dall’appaltatore.
5.1. L’interpretazione del concetto di «interferenza», da cui sorgono gli obblighi di coordinamento e cooperazione, come ricavabili dall’art.7 d. Lgs. n.626/94 (ora art.26, commi 1, lett. a) e b) e 3, d.lgs. n.81/2008, con riferimento alla posizione del committente, e comma 2 lett. a) e b) stesso decreto, con riferimento alla posizione dell’appaltatore e del subappaltatore), non viene definita dal testo normativo, ma una sua definizione normativa la si può rinvenire nella Determinazione n. 3/2008 dell’Autorità per la Vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, che la intende come «circostanza in cui si verifica un contatto rischioso tra il personale del committente e quello dell’appaltatore o tra il personale tra imprese diverse che operano nella stessa sede aziendale con contratti differenti».
5.2. Gli obblighi di cui al richiamato art. 7 presuppongono un rapporto di appalto ovvero di somministrazione, secondo le definizioni di tali tipologie contrattuali che si ricavano dalle norme civilistiche. Tuttavia, non possono esaurirsi in essi i rapporti ai quali fa riferimento l’intero art.7, posto che la ratio della norma è quella di tutelare i lavoratori appartenenti ad imprese diverse che si trovino ad interferire le une con le altre per lo svolgimento di determinate attività lavorative e nel medesimo luogo di lavoro. In particolare, la ratio della norma di cui all’art. 7 d. Lgs. n.626/94 è quella di far sì che il datore di lavoro committente organizzi la prevenzione dei rischi interferenziali, derivanti dalla contemporanea presenza di più imprese che operano sul medesimo luogo di lavoro, attivando e promuovendo percorsi condivisi di informazione e cooperazione, soluzioni comuni di problematiche complesse, rese tali dalla circostanza dovuta alla sostanziale estraneità dei dipendenti delle imprese appaltatrici all’ambiente di lavoro dove prestano la loro attività lavorativa. Se questa è la ratio, ciò che rileva ai fini della normativa di cui all’art. 7 del citato d. Lgs., non è la qualificazione civilistica attribuita al rapporto tra imprese che cooperano tra loro, quanto l’effetto che tale rapporto crea, cioè l’interferenza tra organizzazioni, che può essere fonte di ulteriori rischi per i lavoratori di tutte le imprese coinvolte. Quindi, anche se si accetta l’interpretazione del concetto di interferenza offertaci dalla richiamata Determinazione n. 3/2008, al fine di individuare i confini della stessa occorre far riferimento alla suindicata ratio per comprendere quando l’interferenza sia rilevante anche ai fini della qualificazione giuridica del fatto. Non solo il contatto rischioso tra lavoratori di imprese diverse che operano nel medesimo luogo di lavoro, ma anche la coesistenza in un medesimo contesto di più organizzazioni genera la posizione di garanzia dei datori di lavoro ai quali fanno capo le distinte organizzazioni; l’elemento rilevante è, in tal caso, il potere di interferenza dell’appaltatore (Sez. 4, n. 44792 del 17/06/2015, Mancini, Rv.264957; Sez. 4, n. 36398 del 23/05/2013, Mungiguerra, in motivazione).
5.3. Gli obblighi di cooperazione e coordinamento gravanti a norma dell’art. 7 d. Lgs. n.626/94 sui datori di lavoro così individuati rappresentano la cifra della loro posizione di garanzia e sono rilevanti anche per delimitare l’ambito della loro responsabilità. L’assolvimento di tali obblighi risponde, infatti, all’esigenza, avvertita come primaria dal legislatore comunitario, al quale si ispira l’attuale normativa antinfortunistica, di gestire preventivamente tale categoria di rischio.
I garanti
6. Per taluni imputati, alla condotta eminentemente commissiva si sono sommate plurime omissioni di cautele antinfortunistiche; per altri imputati assume rilievo determinante la definizione delle singole posizioni di garanzia in relazione alle condotte omissive loro contestate. La vigente tutela penale dell’Integrità psicofisica dei lavoratori risente della scelta di fondo del legislatore di attribuire rilievo dirimente al concetto di prevenzione dei rischi connessi all’attività lavorativa e di ritenere che la prevenzione si debba basare sulla programmazione del sistema di sicurezza aziendale nonché su un modello «collaborativo» di gestione del rischio da attività lavorativa. Sono stati, così, delineati i compiti di una serie di soggetti – anche dotati di specifiche professionalità -, nonché degli stessi lavoratori, funzionali ad individuare ed attuare le misure più adeguate a prevenire i rischi connessi all’esercizio dell’attività d’impresa. Le forme di protezione antinfortunistica, dopo l’entrata in vigore dei decreti d’ispirazione comunitaria, tendono, in altre parole, principalmente a minimizzare i rischi bilanciando gli interessi connessi alla sicurezza del lavoro con quelli che vi possano entrare in potenziale contrasto. Ne deriva una diversa prospettiva dalla quale il giudice del merito è tenuto ad accertare la sussistenza delle posizioni di garanzia e le, conseguenti, responsabilità penali per omissione di dovute cautele; se il nuovo sistema di sicurezza aziendale si configura come procedimento di programmazione della prevenzione globale dei rischi, si tratta, in sostanza, di ampliare il campo di osservazione dell’evento infortunistico, ricomprendendo nell’ambito delle omissioni penalmente rilevanti tutti quei comportamenti dai quali sia derivata una carente programmazione dei rischi. E’ evidente, da questa diversa prospettiva, il rilievo che assumono, innanzitutto, i compiti non delegabili di predisposizione del documento di valutazione dei rischi e di nomina del responsabile del servizio di prevenzione e protezione da parte del datore di lavoro.
6.1. Quanto all’individuazione delle diverse posizioni di garanzia nell’ambito dell’amministrazione di un Ente, giova richiamare testualmente le chiare indicazioni delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, in motivazione). La prima e fondamentale figura è quella del datore di lavoro. Si tratta del soggetto che ha la responsabilità dell’organizzazione dell’azienda o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa. Il dirigente costituisce il livello di responsabilità intermedio: è colui che attua le direttive del datore di lavoro, organizzando l’attività lavorativa e vigilando su di essa, in virtù di competenze professionali e di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’Incarico conferitogli. Il dirigente, dunque, nell’ambito del suo elevato ruolo nell’organizzazione delle attività, è tenuto a cooperare con il datore di lavoro nell’assicurare l’osservanza della disciplina legale nel suo complesso; e, quindi, nell’attuazione degli adempimenti che l’ordinamento demanda al datore di lavoro. Tale ruolo, naturalmente, è conformato ai poteri gestionali di cui dispone concretamente. Ciò che rileva, quindi, non è solo e non tanto la qualifica astratta, ma anche e soprattutto la funzione assegnata e svolta. Infine, il preposto è colui che sovraintende alle attività, attua le direttive ricevute controllandone l’esecuzione, sulla base e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico. Per ambedue le ultime figure occorre tener conto, da un lato, dei poteri gerarchici e funzionali che costituiscono base e limite della responsabilità; dall’altro, del ruolo di vigilanza e controllo. Si può dire, in breve, che si tratta di soggetti la cui sfera di responsabilità è conformata sui poteri di gestione e controllo di cui concretamente dispongono. Dette definizioni di carattere generale subiscono specificazioni in relazione a diversi fattori, quali il settore di attività, la conformazione giuridica dell’azienda, la sua concreta organizzazione, le sue dimensioni. Ed è ben possibile che in un’organizzazione di qualche complessità vi siano diverse persone, con diverse competenze, chiamate a ricoprire i ruoli in questione. Il capo cantiere, la cui posizione è assimilabile a quella del preposto, assume la qualità di garante dell’obbligo di assicurare la sicurezza del lavoro, in quanto sovraintende alle attività, impartisce istruzioni, dirige gli operai, attua le direttive ricevute e ne controlla l’esecuzione, sicché egli risponde degli infortuni occorsi ai dipendenti (Sez. 4, n. 9491 del 10/01/2013, Ridenti, Rv. 254403). Nell’ambito dello stesso organismo può, dunque, riscontrarsi la presenza di molteplici figure di garanti. Tale complessità fa sì che l’individuazione della responsabilità penale passi, non di rado, attraverso una accurata analisi delle diverse sfere di competenza gestionale ed organizzativa all’interno di ciascuna istituzione. Dunque, rilevano da un lato le categorie giuridiche, i modelli di agente, dall’altro i concreti ruoli esercitati da ciascuno.
6.2. Va richiamato, poi, il ruolo del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione. La giurisprudenza della Corte di legittimità ammette la responsabilità anche in capo a questa figura, qualora si accerti che la mancata adozione di una misura precauzionale da parte del datore di lavoro sia frutto dell’omissione colposa di un suo compito professionale. Tale figura istituzionale del sistema prevenzionistico, insieme al medico competente, svolge un importante ruolo di collaborazione con il datore di lavoro. Il servizio, ora previsto dagli artt. 31 segg. d.lgs. n.81/2008 (artt.8 segg. d. Lgs. n.626/94), deve essere composto da persone munite di specifiche capacità e requisiti professionali adeguati ai bisogni dell’organizzazione; ed ha rilevanti compiti, che consistono nell’individuazione e valutazione dei rischi, nonché nel proporre le misure preventive e protettive conseguenti a tale individuazione. Il Responsabile del Servizio svolge una delicata funzione di supporto informativo, valutativo e programmatico ma è priva di autonomia decisionale: essa, tuttavia coopera in un contesto che vede coinvolti diversi soggetti, con distinti ruoli e competenze. Sebbene il responsabile del Servizio non sia destinatario in prima persona di obblighi sanzionati penalmente e svolga un ruolo non operativo ma di mera consulenza, egli è l’anello di una procedura complessa che sfocia nelle scelte operative sulla sicurezza compiute dal datore di lavoro, per cui talune sue omissioni possono rilevare ai fini della spiegazione causale dell’evento illecito. Il caso più eloquente si verifica allorché il RSPP manchi di informare il datore di lavoro di un rischio la cui conoscenza derivi da competenze specialistiche. La responsabilità di tale figura è stata, del resto, ammessa in diverse pronunce della! Corte di Cassazione (Sez. 4, n. 49821 del 23/11/2012, Lovison, Rv. 254094; Sez. 4, n. 2814 del 21/12/2010, Di Mascio, Rv. 249626; Sez. 4, n. 32195 del 15/07/2010, Scagliarmi, Rv. 248555; Sez. 4, n. 25288 del 23/04/2008, Maciocia, Rv. 240297). Il RSPP può, dunque, assumere il ruolo di garante in relazione all’obbligo di svolgere in autonomia, nel rispetto del sapere scientifico e tecnologico, il compito di informare il datore di lavoro e di dissuaderlo da scelte esiziali per la sicurezza (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, in motivazione).
6.3. Giova soffermarsi, a questo punto, sulla disciplina della posizione di garanzia correlata alle funzioni datoriali nelle pubbliche amministrazioni. A norma dell’art.2 lett. b) d. Lgs. n.81/2008 “Nelle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, dei d. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest’ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall’organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell’ubicazione e dell’ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l’attività’, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa. In caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l’organo di vertice medesimo”. In tale disposizione sono confluite le soluzioni adottate da parte della giurisprudenza nella vigenza della precedente normativa, meno esaustiva di quella attuale, laddove si era specificata la necessità di un atto espresso di individuazione del dirigente o del funzionario quale datore di lavoro, altrimenti rimanendo quella posizione in capo al vertice politico dell’Ente pubblico. Tale necessità è oggi positivizzata nel testo normativo; l’individuazione del dirigente (o del funzionario) cui attribuire la qualifica di datore di lavoro è, quindi, demandata alla pubblica amministrazione, la quale vi provvede con l’attribuzione della qualità e il conferimento dei relativi poteri di autonomia gestionale, non potendo tale qualifica essere attribuita implicitamente ad un dirigente o funzionario solo perché preposti ad articolazioni della pubblica amministrazione che hanno competenze nel settore specifico. Nelle pubbliche amministrazioni, in altre parole, l’attribuzione della qualità di datore di lavoro a persona diversa dall’organo di vertice non può che essere espressa, anche perché comporta i poteri di gestione in tema di sicurezza. Sono gli organi di direzione politica che devono procedere all’individuazione, tenendo conto dell’ubicazione e dell’ambito funzionale degli uffici, non essendo per tale ragione possibile una scelta non espressa e non accompagnata dal conferimento di poteri di gestione alla persona fisica. La conseguenza della mancata indicazione è la conservazione in capo all’organo di direzione politica della qualità di datore di lavoro (Sez. 4, n. 30214 del 12/04/2013, Orciani, Rv. 255896). Con la precisazione che agli organi di direzione politica del Comune (Sindaco e Giunta Comunale) è attribuito in via originaria anche il potere di sovrintendere alle scelte di gestione e direzione amministrativa, con il conferimento di tutti i poteri conseguenti. Il potere di individuare il datore di lavoro conferma che all’organo di direzione politica compete un potere originario (in tal senso soprattutto, Sez. 4, n. 38840 del 22/06/2005, loriatti, Rv. 232418).
6.4. Occorre, tuttavia, distinguere gli effetti dell’individuazione del dirigente pubblico al quale viene conferita la qualifica di datore di lavoro dalle conseguenze giuridiche della delega di funzioni datoriali disciplinata dall’art.16 d.lgs. n.81/2008. L’atto di individuazione è correlato alla specialità della disciplina dettata per le pubbliche amministrazioni, alle quali non si applicano i criteri di imputazione della responsabilità per cosiddetta colpa di organizzazione individuati dal d. Lgs. 8 giugno 2001, n.231 e dall’art.30 d. Lgs. n.81/2008; tale specialità impone di chiarire che al dirigente così individuato competono tutte le funzioni datoriali, senza distinzione tra funzioni delegabili e non delegabili, in ragione della qualifica di datore di lavoro che tale soggetto viene ad assumere. In tema di norme per la prevenzione degli infortuni, la normativa vigente esclude, in altre parole, che si possa ascrivere all’organo di vertice, anche se di un Comune di modeste dimensioni, quale organo politico, ogni violazione di specifiche norme antinfortunistiche, quando risulti individuato il dirigente con qualifica di datore di lavoro in correlazione all’ubicazione ed all’ambito funzionale del singolo ufficio. Negli Enti locali, che rientrano nel novero delle pubbliche amministrazioni, la qualifica di datore di lavoro, ai fini della normativa sulla sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, con tutte le conseguenze che tale qualifica comporta, è riconosciuta al dirigente dotato di poteri di gestione e titolare di autonomi poteri decisionali anche in materia di spesa, tenuto conto della ripartizione di funzioni indicata dall’Ordinamento degli enti locali (art. 107 d. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267), che conferisce ai dirigenti amministrativi autonomi poteri di organizzazione delle risorse.
6.5. Occorre aggiungere che il principio di separazione tra politica ed amministrazione delineato dall’art. 107 d. Lgs. 18 agosto 2000, n.267 (T.U. Ordinamento Enti Locali, in precedenza art.51 legge 8 giugno 1990, n.142 e per tutte le Amministrazioni pubbliche art.3 d. Lgs. 3 febbraio 1993, n.29) implica una fondamentale distinzione tra le funzioni di indirizzo politico-amministrativo e quelle di amministrazione. Le prime competono agli organi di governo, i quali le esercitano definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento delle predette funzioni, con verifica della rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti; le seconde rientrano nella sfera di competenza dei dirigenti, ai quali spetta l’adozione degli atti e dei provvedimenti amministrativi, compresi tutti quelli che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. I dirigenti sono responsabili in via esclusiva dell’attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati. Da tale assetto deriva che gli obblighi di controllo sulla fonte del rischio spettano al dirigente responsabile del corrispondente servizio tecnico; l’organo politico risponde, per tale profilo, di atti o condotte omissive che abbiano privato il dirigente della reale autonomia di spesa, funzionale agli interventi necessari per neutralizzare il rischio. Rispetto alla tutela dei lavoratori da rischi derivanti dall’ambiente di lavoro, la posizione di garanzia spetta, dunque, negli Enti pubblici al dirigente individuato come datore di lavoro ed al preposto.
6.6. L’impianto normativo del T.U.E.L. riserva, in sostanza, all’autonomia autoorganizzatoria degli enti locali, mediante l’adozione di specifiche norme di rango regolamentare, in conformità alle norme statuarie, l’organizzazione degli uffici e dei servizi, nonché l’attribuzione delle facoltà gestionali ai dirigenti. È pertanto in tale ambito che occorre provvedere all’individuazione del dirigente o del funzionario responsabile delle procedure stabilite in materia di sicurezza; spetta, in altre parole, al regolamento dell’Ente, in raccordo con lo Statuto, provvedere all’organizzazione degli uffici e dei servizi, ricercando i dipendenti dirigenti, o non dirigenti, in relazione alla tipologia dell’Ente, cui attribuire le responsabilità connesse al procedimento, anche in materia di sicurezza sul lavoro (e di ambiente), in relazione alle specifiche professionalità possedute dai medesimi.
6.7. Da tale assetto normativo deriva la necessità di delineare con chiarezza, e con differenziazione rispetto ai doveri datoriali, quale sia l’ambito entro il quale si manifesta in capo all’organo di vertice dell’Ente, o all’assessore delegato, l’obbligo di gestire il rischio derivante ai lavoratori dalle mansioni svolte presso strutture ed impianti pubblici. Per il Sindaco, la norma di riferimento è l’art. 50 T.U.E.L., che definisce il primo cittadino come organo responsabile dell’amministrazione del Comune. Sebbene la disposizione faccia esplicito riferimento alla delimitazione dei poteri del Sindaco con quanto previsto dall’art.107 (Funzioni e responsabilità dei dirigenti) e quindi ad una distinzione tra poteri di indirizzo e poteri di concreta gestione, ciò non esclude che il primo cittadino debba svolgere un ruolo di controllo sull’operato dei suoi dirigenti e che analogo controllo siano tenuti a svolgere gli assessori con riguardo ai dirigenti che operano nei settori di loro competenza. Peraltro tale potere-dovere trova riconoscimento nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, laddove è stato 
affermato, in tema di reati ambientali, che «La distinzione operata dall’art. 107 del Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali fra i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, demandati agli organi di governo, e i compiti di gestione attribuiti ai dirigenti, non esclude, in materia di rifiuti, il dovere di attivazione del Sindaco allorché gli siano note situazioni, non derivanti da contingenti ed occasionali emergenze tecnico-operative, che pongano in pericolo la salute delle persone o l’integrità dell’ambiente» (Sez. 3, n. 37544 del 27/06/2013, Rv. 256638). Con riguardo alla messa in sicurezza degli impianti di proprietà dell’Ente, la posizione di garanzia dell’organo politico non è, in particolare, esclusa dall’attribuzione dei compiti di gestione ai dirigenti amministrativi perché si versa in un’area di rischio che può derivare anche da scelte di indirizzo politico dell’Ente. Onde evitare ogni forma di automatismo tra posizioni apicali e responsabilità omissive è, in ogni caso, necessario verificare la concreta conoscenza o conoscibilità della situazione di pericolo.
7. Le inammissibilità
7.1. Non è impugnabile con ricorso per cassazione la statuizione pronunciata in sede penale e relativa alla concessione e quantificazione di una provvisionale, trattandosi di decisione di natura discrezionale, meramente delibativa e non necessariamente motivata (Sez. 3, n. 18663 del 27/01/2015, D. G., Rv. 263486).
7.2. Non sono ammissibili le censure alla valutazione della prova, che contrappongano a quella dei giudici una diversa valutazione, senza neppure denunciare un travisamento del significante. Giova ricordare che il vizio di travisamento della prova, nel caso in cui i giudici delle due fasi di merito siano pervenuti a decisione conforme, può essere dedotto solo nel caso in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice (Sez. 4, n. 5615 del 13/11/2013, dep.2014, Nicoli, Rv. 258432; Sez. 4, n. 19710 del 03/02/2009 Buraschi, Rv. 243636; Sez. 1, n. 24667 del 15/06/2007, Musumeci, Rv. 237207; Sez. 2, n. 5223 del 24/01/2007, Medina, Rv. 236130) ovvero qualora entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forme di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili (ossia in assenza di alcun discrezionale apprezzamento di merito), il riscontro della persistente infedeltà delle motivazioni dettate in entrambe le decisioni di merito (Sez. 4, n. 44765 del 22/10/2013, Buonfine, Rv. 256837).
7.3. Vale, poi, ricordare che compito della Corte di Cassazione non è quello di ripetere l’esperienza conoscitiva del Giudice di merito, anche con riferimento 
alla valutazione dei dati tecnici sottoposti al suo giudizio, bensì quello di verificare se il ricorrente sia riuscito a dimostrare, in sede di legittimità, l’incompiutezza strutturale della motivazione della Corte di merito; incompiutezza che derivi dalla presenza di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica, o fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli appartenenti alla collettività, o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro ovvero dal non aver il decidente tenuto presenti fatti decisivi, di rilievo dirompente dell’equilibrio della decisione impugnata, oppure dall’aver assunto dati inconciliabili con atti del processo, specificamente indicati dal ricorrente e che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità cosi da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione (Sez. 2, n. 13994 del 23/03/2006, Napoli, Rv. 233460; Sez. 1, n. 20370 del 20/04/2006, Simonetti, Rv. 233778).

Principi applicabili

8. Data la sostanziale conformità del procedimento logico seguito e dei dati istruttori esaminati nelle sentenze dei due gradi di merito con riguardo alla posizione degli imputati Z.M., C.A. e G.S.M., trova applicazione il principio consolidato nella giurisprudenza della Corte di legittimità a mente del quale, in presenza di una doppia conforme affermazione di responsabilità, è ammissibile la motivazione della sentenza d’appello per reìationem a quella della decisione di primo grado, sempre che le censure formulate contro la prima sentenza non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi, in quanto il giudice di appello, nel controllare la fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non è tenuto a riesaminare questioni sommariamente riferite dall’appellante nei motivi di gravame, sulle quali si sia soffermato il primo giudice, con argomentazioni ritenute esatte e prive di vizi logici, non specificamente e criticamente censurate (Sez.6, n. 28411 del 13/11/2012, dep. 2013, Santapaola, Rv. 256435; Sez. 3, n. 13926 del 10/12/2011, dep. 2012, Valerio, Rv. 252615; Sez. 2, n. 1309 del 22/11/1993, dep. 1994, Albergamo, Rv. 197250). Nel caso in esame, la Corte territoriale non ha, peraltro, proceduto ad un mero rinvio per reìationem alla motivazione della sentenza di primo grado ma, valutando il materiale istruttorio, ha esaminato gli specifici rilievi sollevati con i motivi d’impugnazione contro la sentenza medesima.
Con riguardo alle posizioni degli imputati CA. e S.LC. rispetto al capo H) e dell’imputato G.V. rispetto al capo B) dell’imputazione, invece, la sentenza impugnata ha ribaltato il giudizio assolutorio del Tribunale e deve, pertanto, essere valutata alla luce del seguente principio espresso dalla giurisprudenza di legittimità: in tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679). Non basta, peraltro, in mancanza di elementi sopravvenuti, una mera e diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito in primo grado ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, né che tale valutazione sia caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, occorrendo, invece, una forza persuasiva superiore, tale da far venir meno ogni ragionevole dubbio (Sez.6, n.45203 del 22/10/2013, Paparo, Rv. 256869; Sez. 6, n.8705 del 24/01/2013, Farre, Rv. 254113; Sez.2, n.11883 del 08/11/2012, dep. 2013, Berlingeri, Rv. 254725; Sez.6, n.34487 del 13/06/2012, Gobbi, Rv. 253434).

Estinzione per prescrizione 
9. Esaminando, preliminarmente, il tempo necessario a prescrivere relativo ai reati per i quali è intervenuta condanna il Collegio rileva l’intervenuto decorso del termine massimo di prescrizione per i reati ascritti a CA. al capo F) (art.484 cod. pen.) ed a CA. e S.LC. al capo G) (art.260 d. Lgs. 3 aprile 2006, n.152, imputazione inerente alla gestione clandestina di rifiuti illecitamente sversati presso l’impianto di depurazione in questione e in altri scarichi non autorizzati). Si tratta di reati ai quali si applica, a norma dell’art. 157 cod. pen., il termine di prescrizione di sei anni, prorogato in virtù di atto interruttivo a sette anni e sei mesi. Le condotte di cui al capo F) risultano contestate, quanto al tempus commissi delieti, in data successiva e prossima al 10 giugno 2008 e le condotte contestate al capo G) risultano contestate fino al giorno 11 giugno 2008 e successivamente, ma con riguardo al capo F) non risultano condotte successive all’esecuzione dei sequestri dell’autocisterna e dei documenti eseguiti tra il 7 ed il 10 giugno 2008, né possono incidere sul tempus commissi delicti per il capo G) le attività intercettate in epoca conseguente al sopralluogo ed ai sequestri effettuati in data 15 luglio 2008 dalla Polizia Giudiziaria, in presenza di una generica indicazione (pag.215) di contratti stipulati dall’impresa CA. successivamente ai fatti di causa proprio in relazione all’attività di smaltimento dei rifiuti. 
9.1. Va, quindi, osservato che è venuto a maturare il termine massimo di prescrizione previsto dalla legge per i reati contestati ai capi F) e G), compiutosi, computando i periodi di sospensione alla luce della recente pronuncia delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 4909 del 18/12/2014, dep.2015, Torchio, Rv. 262913), in data successiva alla pronuncia della sentenza di appello.
9.2. La delibazione dei motivi sopra indicati fa escludere, per altro verso, l’emergere di un quadro dal quale possa trarsi ragionevole convincimento dell’evidente innocenza dei ricorrenti. Sul punto, l’orientamento della Corte di legittimità è univoco. In presenza di una causa di estinzione del reato il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’art. 129, comma 2, cod.proc.pen. soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell’imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, cosi che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di constatazione, ossia di percezioni ictu oculi, che a quello di apprezzamento e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (Sez. U, n.35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244275). Nel caso di specie, restando al vaglio previsto dall’art. 129, comma 2, cod.proc.pen., l’assenza di elementi univoci dai quali possa trarsi, senza necessità di approfondimento critico, il convincimento di innocenza degli imputati impone l’applicazione della causa estintiva.
9.3. La regola dettata dall’art.578 cod.proc.pen. prevede che, ancorché venga dichiarata l’estinzione del reato, il giudice di appello deve decidere sull’impugnazione ai soli effetti civili qualora vi sia stata condanna in primo grado alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato. Ma tale regola non è applicabile nel caso concreto in quanto, secondo quanto si evince chiaramente dal testo della sentenza impugnata, le pronunce di condanna al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili sono state emesse in relazione alle imputazioni di omicidio colposo e non concernono, pertanto, i reati per i quali è intervenuta prescrizione. La condotta di sversamento di rifiuti pericolosi nell’impianto di depurazione del Comune di Mineo, d’altro canto, seppure individuata quale concausa incidente sul rischio interferenziale dal quale è derivato l’evento morte, non costituisce che un segmento della più articolata attività di gestione di rifiuti in cui si sostanzia la condotta tipica del reato contestato al capo G); non può, dunque, individuarsi sotto tale profilo alcuna correlazione tra la pronuncia di condanna al risarcimento del danno e quest’ultimo reato. Giova, altresì, anticipare, quale ulteriore argomento a sostegno dell’assenza di correlazione tra i reati prescritti e la pronuncia di condanna al risarcimento del danno, che in relazione al reato contestato al capo H), concernente la morte quale conseguenza non voluta dello sversamento doloso di rifiuti speciali pericolosi, è rilevabile un errore di diritto meglio descritto al par. 13. Consegue la mera pronuncia di annullamento senza rinvio perché i reati in esame sono estinti per prescrizione.

Il ricorso di Z.M.
10. Il primo motivo è infondato. Nella sentenza di primo grado si rinviene sia l’affermazione che idrocarburi pesanti ed oli esausti normalmente non si trovano in un impianto di depurazione sia che anni prima dell’evento l’A.R.P.A. li aveva rilevati in acque in ingresso; ma si legge anche che non solo idrocarburi pesanti ma anche solfuri erano in concentrazione tale da escludere che il ciclo delle acque fosse coinvolto prima della loro immissione, desumendosi da tali elementi che l’immissione di solfuri ed idrocarburi fosse partita dal P.R.R.F. Il Tribunale aveva ritenuto provato che nel P.R.R.F. si fossero trovati idrocarburi che avevano le medesime caratteristiche, molto particolari e specifiche, degli idrocarburi che erano all’interno dell’autospurgo. La concentrazione più alta si era rinvenuta nell’autocisterna. Non era spiegabile come mai il fango che partiva da un sedimentatore ed andava verso il pozzetto potesse contenere un quantitativo di oli minerali inferiore (56 mg/kg) a quello che era nel pozzetto (275 mg/kg).

Il Tribunale aveva, quindi, analizzato la tesi del consulente della difesa, ing. S., a sostegno del buon funzionamento dell’impianto, ritenendo tuttavia che tale tesi fosse inidonea a confutare l’altra tesi per cui la produzione della quantità letale di acido solfidrico fosse avvenuta all’interno del depuratore e sottolineando che il buon funzionamento del depuratore avesse valore di condizione necessaria ma non sufficiente ad escludere la provenienza dall’impianto di acido solfidrico, dunque l’evento.
Altra condizione evidenziata dal Tribunale era l’assenza di tracce di solfuri nell’autocisterna; non ritenendo provata la concausa dello sversamento nel pozzetto di sostanze tossiche provenienti dall’autocisterna, il giudice di primo grado aveva considerato che la causa sufficiente dell’evento fosse la massa di fanghi non smaltiti nel quinquennio presente nel depuratore e, in particolare, nel SEDI.
La Corte di Appello, ripercorsa analiticamente la tesi dei consulenti tecnici del pubblico ministero, ha replicato all’osservazione critica relativa all’assenza di metano ed alla tesi difensiva circa l’inversione termica quale spiegazione della mancata rilevazione di metano, confutando la tesi difensiva secondo la quale la presenza di lemna minor fosse indicativa dell’ottimale funzionamento dell’impianto. Ha, quindi, replicato alla tesi difensiva concernente gli interventi sul biorotore. Non si ravvisano, in definitiva, lacune o vizi nella motivazione sui punti indicati nel motivo di ricorso.
10.1. Il secondo motivo di ricorso è infondato. Secondo quanto si legge nella sentenza impugnata, l’incarico di consulenza affidato al dott. P., esterno al Comune di Mineo, non aveva ad oggetto la gestione del depuratore ma soltanto delle analisi periodiche con cadenza quadrimestrale. L’unico addetto al depuratore, P.S., non aveva conoscenze adeguate sui processi biochimici in corso nel depuratore, né risultavano corsi di formazione che lo riguardassero; la culpa in eligendo del datore di lavoro è stata, pertanto, congruamente fondata sulla scelta di adibire all’impianto di depurazione operatori non dotati di competenze relative ai processi chimici, fisici e biologici che ivi si verificano in quanto tale impianto necessita di personale in grado di svolgere un’attività complessa che richiede competenze specialistiche.
10.2. Il terzo motivo di ricorso è infondato. L’accesso al pozzetto, secondo quanto accertato dai giudici di merito, non era considerato evento di carattere eccezionale o riservato agli interventi di manutenzione straordinaria e, ciononostante, nessuna cautela era stata adottata dal datore di lavoro per impedire l’accesso al P.R.R.F. La saldatura dei grigliati di copertura era saltata da tempo, né era stato rinvenuto alcun elemento che indicasse l’esistenza di una chiusura fissa del grigliato.
Quanto all’imposizione di un «visto» preventivo del datore di lavoro sugli ordini di servizio è stata ritenuta misura inidonea; correttamente la Corte territoriale ha ritenuto che la culpa in vigilando si sostanzi, secondo la normativa, nella garanzia di una corretta procedimentalizzazione delle decisioni a rischio. Ciò comporta che, affinchè il datore di lavoro possa ritenersi esente da colpa, deve essere accertato che abbia posto in essere tutti gli accorgimenti precauzionali indispensabili al fine. Deriva da tale considerazione che la misura adottata, ossia quella di pretendere che gli ordini di servizio venissero sottoposti al suo preventivo controllo, perché in ciò si sostanzia il predetto «visto», non possa qualificarsi come misura sufficiente qualora, come nel caso concreto, sia stata omessa la redazione di idoneo D.V.R. e di D.U.V.R.I. ed il datore di lavoro sia venuto meno al compito non delegabile di valutare il rischio da gestire. Nella sentenza impugnata si sono analizzate le caratteristiche e le fonti dei rischi correlati ad un impianto di depurazione e si è sottolineato come il rischio chimico sia connaturato a tale genere di impianti, connotati da zone simili ad «ambienti confinati», per cui l’omessa valutazione del rischio chimico ha impedito di prevedere i presidi idonei a neutralizzarlo.
Ma anche le omesse informazione e formazione dei lavoratori circa la conduzione dell’impianto in modo idoneo e sicuro rappresentava un obbligo la cui omissione è stata ritenuta determinante quale causa dell’evento. La Corte di Appello ha richiamato l’esito della prova dichiarativa per ricordare come non fosse stata prevista né attuata una formazione specifica dei lavoratori, che non avevano partecipato ad alcun corso di formazione, né erano informati dei rischi connaturati all’ambiente di lavoro del depuratore. Né vi era una squadra di operai del Comune dedicata al depuratore, essendovi invece un uso indifferente di tutte le squadre con previsione per tutti di accesso al depuratore. L’operaio addetto in pianta stabile al depuratore, si legge nella sentenza, P.S., non aveva mai sentito parlare del rischio chimico insito nell’attività lavorativa che prestava. I giudici di merito si sono soffermati anche sulle caratteristiche del corso sulla sicurezza svoltosi presso il Comune il 18 maggio 2002, indicandone le carenze ed analizzando le competenze documentate con riferimento a ciascun dipendente, per desumerne l’inadeguatezza sul tema della sicurezza nel luogo di lavoro.
Ancora, la Corte di appello si è soffermata sull’assenza di cartellonistica (arti.163-165 d.lgs. n.81/2008) e sulla mancata adozione di D.P.I. (artt.18 e 55 d. Lgs. n.81/2008) con riguardo a lavori in ambienti sospetti di inquinamento o in ambienti confinati. La culpa in vigilando dell’imputato Z.M. non era esclusa, secondo la Corte, dalla nomina dell’istruttore direttivo Z.G. in ragione del principio dell’equivalenza causale delle posizioni di garanzia di più soggetti che concorrono al rispetto della normativa antinfortunistica ed in virtù del potere gerarchico sovraordinato esercitato da Z.M. rispetto a Z.G.. Va, dunque, affermata l’infondatezza della censura perché nella sentenza sono stati enunciati in tutta la loro ampiezza gli obblighi connessi alla posizione di garanzia di Z.M., la cui omissione rende inconsistente l’obiezione circa l’assenza di comunicazioni dallo stesso ricevute in merito ai lavori che sarebbero stati eseguiti nel P.R.R.F. l’11 giugno 2008, comportandone l’implicita reiezione.
10.3. Il quarto motivo di ricorso è manifestamente infondato. Si richiama come premessa quanto già espresso in merito alla nozione di rischio interferenziale. Dopo un’ampia descrizione dei rischi correlati all’esercizio di un impianto di depurazione, la Corte territoriale ha sottolineato che l’intervento dell’11 giugno prevedeva la compresenza di due diverse organizzazioni (Comune di Mineo ed impresa CA.), tanto che alla richiesta di intervento dell’impresa esterna si era associato l’ordine di servizio che destinava al depuratore i dipendenti S.N. e P.G.; ha, quindi, spiegato correttamente perché vi fossero rischi interferenziali. Manifestamente infondata, sia in fatto sia in diritto, è dunque la censura secondo la quale il committente non avrebbe dovuto redigere il D.U.V.R.I. 
10.4. Il quinto motivo di ricorso deve essere esaminato nel contesto generale della motivazione.
Va premesso che per un impianto di depurazione, il rischio chimico è connesso e fisiologico, e la Corte di Appello ha chiarito che si tratta di un dato già noto dagli anni ’90, desumibile dai manuali compilati per la gestione e manutenzione dei depuratori. Nel caso concreto si tratta del rischio chimico relativo o indiretto, che consegue alla disfunzione dell’impianto quando quest’ultimo va in ipossia producendo azoto, ammoniaca, idrogeno solforato e foschina. E’ pacifico che nel D.V.R. del Comune di Mineo tale rischio non fosse stato previsto. L’affermazione secondo la quale il rischio chimico non possa considerarsi rischio tipico di un impianto di depurazione, concreta mera reiterazione di analoga censura sottoposta al giudice di appello, che ha fornito in proposito ampia e convincente replica.
L’omissione è stata correttamente contestata in relazione all’art.4, commi 1 e 2, d. Lgs. n.626/94 ed a tale norma si fa riferimento anche nella sentenza, poi per evidente errore materiale mutato in art. 4 d.lgs. n.81/2008. La doglianza trascura l’ampia motivazione offerta a sostegno dell’affermata inadeguatezza del D.V.R., del tutto informale, in possesso dell’UTC. La fonte dell’obbligo giuridico di redigere un D.V.R. idoneo e completo è nel disposto dell’art.4 d.lgs. n. 626/1994. Tale normativa prevede che, nel confezionare il documento di valutazione dei rischi, al datore di lavoro spetti il compito prudenziale, testualmente indicato dalla norma, di sommare tutti i fattori di rischio conosciuti, cioè di considerarli ipoteticamente tutti compresenti onde ricostruire una situazione da stress da cui trarre le necessitate conclusioni in tema di opere prevenzionali per azzerare o ridurre al minimo i rischi. Nel caso di specie il rischio chimico correlato alla gestione del depuratore doveva essere noto e prevedibile in base alle conoscenze acquisite. La pronunzia confuta, motivatamente, indicando i documenti tecnici pertinenti, la tesi difensiva secondo cui il rischio chimico non è un rischio tipico delle lavorazioni all’interno di un impianto di depurazione. Si tratta di motivazione che risulta congrua sia con riferimento alla concretezza del rischio chimico sia con riferimento alla conoscibilità di esso da parte del datore di lavoro.
Gli argomenti sviluppati nel ricorso a sostegno dell’adempimento da parte dell’arch. Z.M. dell’obbligo di redigere il D.V.R. non scardinano la congruità della motivazione in quanto i giudici di merito, come detto, hanno accertato la diversa violazione della redazione di un D.V.R. di contenuto insufficiente, in cui si faceva soltanto riferimento alla presenza di un depuratore ed ai rischi generici che si possono verificare in luoghi del genere, senza alcun riferimento specifico al tipo di depuratore in uso presso il Comune di Mineo. Si richiama, sul punto, il principio espresso dalla Corte di legittimità a mente del quale «integra la violazione prevista dal combinato disposto degli artt. 89, comma 1, e 4, comma 2, d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626 (obbligo per il datore di lavoro di elaborare un documento di valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute durante il lavoro) non soltanto l’omessa redazione del documento di valutazione, ma anche il suo mancato, insufficiente o inadeguato aggiornamento od adeguamento» (Sez. 3, n. 4063 del 04/10/2007, dep.2008, Franzoni, Rv. 238539).
10.5. Il sesto motivo di ricorso è manifestamente infondato. Si richiamano, onde evitare ripetizioni, le osservazioni svolte con riferimento al terzo, al quarto ed al quinto motivo di ricorso.
10.6. Il settimo e l’ottavo motivo di ricorso sono infondati in quanto si basano sull’assunto, smentito dal tenore letterale della pronuncia impugnata, secondo il quale il giudice di appello avrebbe trascurato senza alcuna motivazione di esaminare le prove dichiarative e documentali indicative dell’eccezionaiità dell’accesso al pozzetto. Secondo quanto si legge alle pagg.185-195, le condotte dei lavoratori non potevano qualificarsi come abnormi, eccezionali, eccentriche rispetto al rischio lavorativo in quanto non estranee alle finalità del lavoro e derivanti dalla mancanza di adeguate informazione e formazione sui rischi nel contesto di mala gestio del depuratore. La motivazione integra e sviluppa la conforme motivazione svolta dal giudice di primo grado, che aveva rimarcato l’insostenibilità della interruzione del nesso di condizionamento tra condotta del datore ed infortunio occorso al lavoratore, quand’anche quest’ultimo avesse posto in essere una condotta imprudente, allorché il datore di lavoro abbia omesso l’adozione delle misure di prevenzione dovute nel caso concreto. Valgano, con riguardo alla presente censura, i limiti alla deducibilità del vizio di motivazione richiamati al par.7.2.
10.7. Il nono motivo di ricorso è infondato. Si premette che la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha in più occasioni evidenziato la natura eccezionale dell’istituto della rinnovazione dibattimentale di cui all’art.603 cod. proc. pen. ritenendo, conseguentemente, che ad esso possa farsi ricorso, su richiesta di parte o d’ufficio, solamente quando il giudice lo ritenga indispensabile ai fini del decidere, non potendolo fare allo stato degli atti (Sez.2, n.41808 del 27/09/2013, Mongiardo, Rv. 256968; Sez.2, n.3458 del 1/12/2005, dep. 2006, Di Gloria, Rv. 233391) precisando, altresì, che, considerata tale natura, una motivazione specifica è richiesta solo nel caso in cui il giudice disponga la rinnovazione, poiché in tal caso deve rendere conto del corretto uso del potere discrezionale derivante dalla acquisita consapevolezza di non poter decidere allo stato degli atti, mentre in caso di rigetto è ammessa anche una motivazione implicita, ricavabile dalla stessa struttura argomentativa posta a sostegno della pronuncia di merito, nella quale sia evidenziata la sussistenza di elementi sufficienti per una valutazione in senso positivo o negativo sulla responsabilità, con la conseguente mancanza di necessità di rinnovare il dibattimento (Sez. 3, n.24294 del 07/04/2010, D.S.B., Rv. 247872). E’, nel caso in esame, dirimente il principio, pacifico nella giurisprudenza della Corte di legittimità, che la perizia, per il suo carattere neutro sottratta alla disponibilità delle parti e rimessa alla discrezionalità del giudice, non può farsi entrare nel concetto di prova decisiva (Sez. 4, n.7444 del 17/01/2013, Sciarra, Rv. 255152; Sez. 6, n. 43526 del 03/10/2012, Ritorto, Rv. 253707; Sez.4, n.10110 del 14.02.2012, Nonnis, n.m.; Sez. 4, n.14130 del 22.01.2007, Pastorelli, Rv. 236191).
10.8. Il decimo motivo di ricorso attiene ai criteri di computo del trattamento sanzionatorio. Il Tribunale aveva determinato per il reato di omicidio colposo la pena base di 2 anni di reclusione ai sensi deirart.589, secondo comma, cod. pen.; aveva poi aumentato la pena ai sensi dell’art.589, terzo comma (rectius quarto comma), cod. pen. a 4 anni di reclusione e su tale pena aveva applicato la riduzione di un terzo ai sensi dell’art.62 bis cod. pen., pervenendo alla pena finale di 2 anni ed 8 mesi di reclusione. La Corte di Appello, riformando su appello del Procuratore Generale, la decisione del primo giudice sul presupposto che l’art.589, terzo comma, cod. pen. non prevede una circostanza aggravante ma disciplina una particolare ipotesi di concorso formale di reati unificati quoad poenam, ha determinato la pena base in 3 anni di reclusione, riducendola di un terzo ai sensi dell’art.62 bis cod. pen. ad anni 2 «per effetto delle circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alla contestata aggravante», successivamente applicando l’aumento di pena pari a 3 mesi di reclusione per ciascuna vittima, pervenendo alla pena finale di 3 anni e 6 mesi di reclusione.
La doglianza è fondata. In virtù del giudizio di equivalenza tra circostanze attenuanti generiche e contestata aggravante ex art.589, secondo comma, cod. pen. il giudice di merito avrebbe dovuto commisurare la pena con riguardo ai limiti edittali previsti dall’art.589, primo comma, cod. pen. in applicazione della regola dettata dall’art.69, terzo e quarto comma, cod. pen. Viola il disposto dell’art.33 cod. pen. l’irrogazione della pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici in relazione alla condanna per un delitto colposo. La sentenza va, pertanto, annullata sul punto.

Il ricorso di C.A.
11. Il primo motivo di ricorso, concernente la carenza di motivazione in merito alle contestate lacune dell’attività di indagine, non può ritenersi fondatamente proposto perché nella sentenza impugnata la Corte ha esaminato gli accertamenti relativi allo stato dei fanghi presenti nel depuratore al momento dell’evento, spiegando che la presenza di bollicine di gas nel comparto di sedimentazione della vasca Imhoff e la riemersione del fango in tale comparto, dove fanghi non dovrebbero esserci, costituivano indici inequivocabili dell’accumulo di fango oltre il limite di tollerabilità nel comparto inferiore, con attivazione di un processo chimico di trasformazione della sostanza organica in gas nocivi. Il tema del prelievo dei fanghi e della sua presunta inadeguatezza ai fini investigativi era stato preso in esame nella sentenza di primo grado, ma l’analitica descrizione delle operazioni di campionamento e dei loro risultati, svolta senza ignorare i rilievi critici della difesa, mostra la forte valenza indiziaria riconosciuta dai giudici di merito a tali campionamenti e la compiutezza delle valutazioni che ne sono derivate, sia con riferimento alla presenza nel depuratore di idrocarburi pesanti ed oli esausti che, per qualità e quantità, non dovrebbero essere usualmente presenti in un impianto di depurazione di reflui urbani, sia con riguardo al fatto che i valori di concentrazione di solfuri ed idrocarburi misurati nel P.R.R.F. erano significativamente superiori a quelli misurati nei fanghi presenti nelle altre unità dell’impianto. Ciò che è bene sottolineare è che il giudice di appello non incorre nel vizio di carenza di motivazione quando ometta di esaminare tutte le deduzioni difensive svolte a sostegno del gravame, purché abbia esaminato criticamente gli elementi di segno contrario sulla base dei quali quelle deduzioni siano state implicitamente disattese. La deduzione circa lacune investigative asseritamente trascurate dai giudici di merito tendeva, a ben vedere, a confutare la tesi secondo la quale le sostanze nocive presenti nel P.R.R.F. al momento dell’evento letale provenissero dall’impianto di depurazione; ma la Corte territoriale ha desunto, in conformità al Tribunale, da un complesso insieme di acquisizioni istruttorie il malfunzionamento dell’impianto di depurazione e l’eccessività del cosiddetto tempo di detenzione, ossia il tempo di permanenza dei liquami nelle vasche, nonché l’eccessivo accumulo di fanghi nelle vasche di sedimentazione. Tali argomenti hanno reso non dirimente, come si legge nella sentenza (p.59), l’osservazione difensiva concernente l’omessa misurazione dei fanghi.

11.1. Il secondo motivo di ricorso tende a dimostrare l’insufficienza dei dati tecnici acquisiti, sia perché errati sia perché incompleti, per fondare l’accertamento di responsabilità sulla mala gestio dell’impianto di depurazione. Si tratta di argomenti che sviluppano censure in fatto, ai limiti dell’ammissibilità, senza tener conto di quanto accertato e riportato nelle sentenze di merito a proposito dell’omessa attività di estrazione dei fanghi dai comparti di stabilizzazione e di digestione nel corso di cinque anni di funzionamento dell’impianto, delle indicazioni contenute nel manuale di gestione dell’impianto fornito dal produttore in merito al volume dei fanghi da smaltire annualmente, delle conseguenze prodotte dal sovradimensionamento dell’impianto sui tempi di detenzione, della relatività del valore della portata d’ingresso di un depuratore per calcolare i fanghi prodotti rispetto all’altro valore dell’efficienza di rimozione dei solidi, della consistenza del fango (sedimentato ed ispessito ed in fase di digesione anaerobica) rinvenuto sul fondo del SEDI, collegato al P.R.R.F. da una valvola che nell’immediatezza del fatto fu trovata non perfettamente chiusa con il naspo incastrato e bloccato dalla saracinesca di chiusura, del quantitativo di solfuri rinvenuto nel fango prelevato dal SEDI (5000 mg/kg) e dell’assenza dei solfuri nei liquami, della bassissima quantità di solfuri rinvenuta nel liquido proveniente dal bocchettone inferiore dell’autocisterna dell’impresa CA..
Il dato di partenza delle consulenze tecniche indicato nel presente motivo di ricorso, ossia la portata media di ingresso dell’impianto di depurazione, non è, dunque, il dato di partenza della decisione, che ha dedotto le note conclusioni partendo dalla formulazione di un’ipotesi suffragata da una serie di dati concreti e non confutata da elementi di segno contrario. Basti, qui, evidenziare che la stessa individuazione dell’acido solfidrico quale causa mortis risulta frutto di una contestualizzazione dell’evento all’interno di un impianto di depurazione, ove tale acido può prodursi in situazioni anossiche da sostanze organiche solforate, perché altrimenti gli effetti prodotti sui corpi delle vittime sarebbero stati compatibili con sostanze quali l’acido solforico o l’ammoniaca. Né va tralasciato il rilievo del segno nero indelebile lasciato sul cemento del SEDI dai fanghi in anossia, i cui solfuri erano annidati all’interno delle microporosità del cemento, o il dato rilevato dai Vigili del Fuoco nell’immediatezza del fatto allorché, al distacco della pompa rinvenuta in azione sul fondo del P.R.R.F., si era verificato un riflusso di fanghi che producevano H2S rilevato con l’esplosimetro in allarme.
Non corrisponde al reale contenuto della sentenza impugnata l’affermazione secondo la quale sarebbero stati trascurati i rilievi difensivi in merito alla presenza di ragnatele nell’unità di stacciatura dei fanghi (pag.62), in merito alla presenza di bollicine in ambienti anaerobici (pag.69), a proposito della metodica utile ad accertare l’assenza di pellicola biologica sui biodischi (pag.73). Specifica valutazione degli elementi di segno contrario all’ipotesi del malfunzionamento dell’impianto è rinvenibile alle pagg.75-78 della sentenza.
Ma ciò che, in definitiva, rende infondato tale motivo di ricorso è l’inidoneità degli argomenti addotti a scardinare il costrutto logico-fattuale sul quale si struttura la decisione, posto che nessuno di essi evidenzia il travisamento di prove o l’inconsistenza delle ragioni giustificative della decisione, tendendo piuttosto a fornire una diversa lettura di comuni e pacifiche risultanze istruttorie!. 
senza enucleare uno specifico elemento che metta in discussione la congruità della decisione impugnata.
Il cattivo funzionamento dell’impianto non è, infatti, nella ricostruzione dei giudici di merito, la causa esclusiva dell’eccesso di acido solfidrico nel pozzetto di ricircolo, pur essendone condizione necessaria, ove si ponga mente al diverso profilo ampiamente sviluppato dell’omesso smaltimento dei fanghi sedimentati e dell’intervento di stasatura commissionato, senza le dovute cautele, dal Comune all’impresa CA..
Il contrasto tra quanto affermato dai giudici di appello a proposito dell’erroneità dei campionamenti eseguiti dal doti. P. e quanto si legge nella pronuncia di primo grado è solo apparente; il Tribunale si era, infatti, limitato a dare per certa la correttezza delle analisi al solo scopo di dimostrarne la non conducenza. Privo di fondamento è l’asserito contrasto del dato inerente ai quantitativi di fango indicati a pag.58, concernente il fango indicativamente immesso nella strettoia della vasca Imhoff, con il dato concernente il fango presente sul fondo del SEDI, effettivamente misurato. Risulta, peraltro, oscura l’incidenza di tale rilievo sulla correttezza logica e sulla congruità del percorso motivazionale. La Corte ha, comunque, espressamente replicato al rilievo difensivo secondo il quale se le vasche fossero state sature di fanghi non sarebbe stato possibile sversare nella vasche Imhoff i fanghi del sedimentatore secondario, rimarcando che il fango sversato fosse un quantitativo esiguo rispetto al complessivo volume delle vasche e che il contenuto del sedimentatore secondario era in parte costituito da acque chiarificate, ricordando come il fango da depurazione sia costituito da una frazione di materia solida, contenuta nelle acque reflue urbane ed extraurbane, che viene rimossa durante i vari trattamenti depurativi sino a raggiungere una concentrazione diversa dal fango inteso secondo il senso comune (pagg.58-59). L’asserita contraddittorietà tra i due punti della decisione in merito ai dati quantitativi sversati nella vasca Imhoff risulta, alla luce del volume di tali vasche pari ad alcune centinaia di metri cubi, del tutto irrilevante.
Essendo la responsabilità dell’imputato fondata sulla totale omissione di misure antinfortunistiche relative ad un rischio neppure valutato, risulta manifestamente ininfluente la questione che inerisce alla tesi difensiva per cui l’intervento nel pozzetto di ricircolo fanghi non fosse programmato; in ogni caso, a pag.183 si rinviene l’indicazione delle concrete emergenze istruttorie dalle quali è stato desunto che l’accesso al pozzetto non fosse un fatto eccezionale, imprevedibile, dovuto ad una scelta autonoma dello Z.G. e fosse piuttosto^ reiterato nel tempo, noto e, come tale, prevedibile ed evitabile. 
11.2. Il terzo motivo di ricorso è manifestamente infondato in quanto parte dall’assunto, contrastante con l’accertamento della mala gestio del depuratore e con le plurime violazioni di norme antinfortunistiche correlate al rischio chimico da lavoro in ambienti confinati, secondo il quale il nesso di condizionamento tra le predette violazioni e l’evento sarebbe stato interrotto sia dal sopravvenuto sversamento nel pozzetto del contenuto petrolifero dell’autocisterna, sia dalla condotta abnorme dei lavoratori.
In merito allo sversamento di idrocarburi è sufficiente richiamare quanto affermato dai giudici di merito a proposito delle prove dimostrative della pari efficienza causale dei due fattori. La pronuncia è, sul punto, conforme ai principi espressi in materia di nesso di condizionamento al par.2 in quanto fondata sull’evidenza disponibile inerente alla presenza di solfuri nonché sulla verificata assenza di elementi di falsificazione o di plausibili ipotesi alternative, già richiamate nei paragrafi precedenti.
In merito alla presunta abnormità della condotta dei lavoratori, nella sentenza sono state svolte le seguenti considerazioni:
a) il datore di lavoro deve adempiere all’obbligo di formazione ed informazione dei lavoratori prima di poter affidare al lavoratore la consapevole gestione del rischio, laddove nel caso concreto i lavoratori che operarono per la stasatura all’interno del pozzetto evidentemente sottovalutarono, anche per carenza di formazione, i rischi che tale operazione comportava e gli altri lavoratori ebbero delle inconsulte reazioni di aiuto a catena, perdendo la facoltà di selezionare il comportamento più ragionevole; in assenza di formazione, si legge, non trova applicazione il principio dell’affidamento sul lavoratore;
b) non può considerarsi abnorme la condotta che, seppure non conforme al generale canone di prudenza, non costituisce esercizio di mansioni esorbitanti da quelle ordinariamente affidate all’interessato. La carente formazione, l’omessa adozione di cautele per lavorare in ambienti confinati e la mancata o inadeguata vigilanza dei garanti non hanno, nel caso concreto, trovato l’elemento interruttivo del nesso di causa con l’evento in un comportamento dei lavoratori eccentrico rispetto all’area di rischio che i garanti stessi erano tenuti a governare: il comportamento negligente del lavoratore originato dalla condotta colposa del datore che non ponga in essere le premesse di un comportamento diligente, si legge nella sentenza, non consente di esimere il datore di lavoro da responsabilità;
c) allorché l’incidente si verifichi a causa del lavoro svolto e per l’inadeguatezza delle misure di prevenzione, la condotta del lavoratore non è causa da sola sufficiente a determinare l’evento: l’errore sulle modalità esecutive, l’eccesso di sicurezza, la scarsa informazione esulano dal concetto di abnormità della condotta del lavoratore, tanto più che a monte dell’infortunio vi furono le gravi e plurime condotte colpose ascrivibili agli imputati, violative delle misure antinfortunistiche;
d) la causa prima che ha determinato la catena dei soccorritori è stata l’omessa adozione delle cautele doverose atte ad evitare e scongiurare il rischio; l’improvvisa liberazione della massa di fango contenente idrogeno solforato ha innescato il processo causale che, in presenza di una repentina minaccia, ha generato una reazione postraumatica nei soccorritori senza che essi fossero in grado di tener conto del maggior rischio che correvano. In ogni caso, la stessa condotta dei soccorritori ha incontrato carenze gestionali legate all’assenza di segnali attorno all’area di pericolo;
e) la posizione di garanzia in capo allo Z.G. non escludeva quella di coloro che vantavano nei suoi confronti un potere gerarchico con responsabilità inerenti alle scelte gestionali generali rapportate all’effettivo potere di spesa: la responsabilità del datore di lavoro non può delegarsi al capo cantiere; la Corte ha ricordato che il C.A. subentrava al datore di lavoro per i periodi di assenza di quest’ultimo e che plurime erano le prove che egli fosse a conoscenza dei problemi al depuratore (aveva, infatti, fatto rientrare P.G. dalle ferie per l’intervento al depuratore ed aveva ricevuto una telefonata che segnalava l’esistenza di un problema al depuratore che andava risolto); d’altro canto assumevano rilievo anche le minime dimensioni del Comune, dove tutti sapevano che erano scesi tutti al depuratore.
Si tratta di motivazione conforme ai principi richiamati in dettaglio al par.3.
11.3. Il quarto motivo è infondato. Si richiama, onde evitare ripetizioni, quando indicato al par. 1.7 a proposito della notorietà e prevedibilità del rischio chimico già all’epoca dei fatti in esame.
11.4. Il quinto motivo è infondato. Si richiama, onde evitare ripetizioni, quanto indicato ai parr.5 e 10.3 in tema di rischio interferenziale ed al par.1.8 in tema di obbligo di fornire i D.P.I. per lavori in ambienti confinati. Con riguardo alla tesi difensiva che gli ordini di servizio redatti dallo Z.G. non fossero stati sottoposti al visto dei superiori, la motivazione che ne sostiene l’infondatezza, o meglio l’irrilevanza nel contesto della condotta ascritta al C.A., si rinviene nell’individuazione di un comportamento inerte delle persone con posizione apicale nell’Ufficio Tecnico comunale nell’attivarsi presso gli organi amministrativi dotati di potere di spesa al fine di ottenere la migliore gestione dell’impianto. Tale inerzia è stata ritenuta, con motivazione congrua, l’antecedente necessario dei lavori eseguiti, a seguito del malfunzionamento del depuratore, il giorno 11 giugno 2008. Si trattava di lavori non espressamente vietati in un ambiente del tutto privo di cartellonistica con divieto di accesso o con segnalazione rischi, in assenza di qualsivoglia presidio idoneo a neutralizzare le condizioni di rischio.
11.5. Il sesto ed il settimo motivo sono fondatamente proposti. In virtù del giudizio di equivalenza tra circostanze attenuanti generiche e contestata aggravante ex art.589, secondo comma, cod. pen. il giudice di merito avrebbe dovuto commisurare la pena con riguardo ai limiti edittali previsti dall’art.589, primo comma, cod. pen. in applicazione della regola dettata dall’art.69, terzo e quarto comma, cod. pen. La pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, in base al disposto degli artt.29 e 33 cod. pen., non si applica in caso di condanna per delitto colposo. La sentenza va, pertanto, annullata con rinvio sul punto.

Il ricorso di G.S.M.
12. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato, alla luce della corretta motivazione offerta sul punto alle pagg.11-14 della sentenza impugnata, e costituisce mera reiterazione di analoga censura svolta con i motivi di appello, ampiamente esaminata dal giudice di merito con argomentazione che il ricorso confuta genericamente.

12.1. Il secondo motivo di ricorso non supera il vaglio di ammissibilità in quanto tende, sostanzialmente, ad avvalorare una ricostruzione alternativa dei fatti sulla base di dati tecnici esaminati dal giudice di appello o implicitamente ritenuti non dirimenti. Si richiama quanto premesso ai parr.l e 7.
12.2. Il terzo motivo di ricorso è fondato. Non è contestato che con determinazioni sindacali n.22 del 14 aprile 2005, n.35 del 27 novembre 2006 e n.27 del 14 giugno 2007 Z.M. fosse stato formalmente destinatario di atto di individuazione quale dirigente dell’Ufficio Tecnico Comunale, avente autonomia gestionale, e datore di lavoro ai sensi degli artt. 30 d. Lgs. n.242/1996 e 2, comma 1, lett.b) d. Lgs. n.81/2008; né risulta che alla citata qualifica non corrispondessero i relativi poteri. G.S.M. quale assessore con delega ai lavori pubblici, al servizio idrico integrato, all’ecologia, ai servizi tecnologici è stato ritenuto responsabile sia per culpa in eligendo, con riferimento alla scelta di persona priva delle necessarie competenze quale addetto al depuratore, sia per culpa In vigilando, per non avere verificato con la necessaria cura il funzionamento del depuratore, in virtù del principio di equivalenza causale di plurime posizioni di garanzia. La sua posizione di garanzia è stata desunta dall’esistenza di una delega con correlate funzioni di spesa, programmazione, indirizzo e controllo nei settori lavori pubblici, servizio idrico integrato, ecologia e servizi tecnologici e dal fatto che le vicende del depuratore, uno degli impianti più importanti nel piccolo Comune, non potessero sfuggire alla sua attenzione. Il mancato smaltimento dei fanghi dopo diversi anni di attività del depuratore avrebbe dovuto allertare l’assessore preposto al settore, al di là degli esiti delle analisi dei reflui, soprattutto in presenza di note con le quali l’autorità regionale competente chiedeva informazioni sul quantitativo di rifiuti prodotto dall’impianto. In quanto assessore preposto al settore, secondo i giudici di merito, G.S.M. avrebbe dovuto vigilare ed attivarsi esercitando i poteri di programmazione e di controllo propri della sua funzione di sovrintendenza al funzionamento dei servizi a lui delegati.
Ma, in ossequio al sistema delineato al par.6, un corretto inquadramento della questione avrebbe imposto di evidenziare preliminarmente le attribuzioni e le competenze dell’organo politico ed il ruolo effettivamente svolto nell’ambito del settore di competenza, i poteri di attuazione delle misure di prevenzione ed il potere di controllo sulla loro osservanza. Ai dirigenti, in base alla normativa in vigore all’epoca del fatto (art.17 d. Lgs. 30 marzo 2001, n.165) spettava infatti sia l’attuazione dei progetti e delle gestioni ad essi assegnati dai dirigenti degli uffici dirigenziali generali, l’adozione dei relativi atti e provvedimenti amministrativi e l’esercizio di poteri di spesa e di acquisizione delle entrate, sia la gestione del personale e delle risorse finanziarie e strumentali assegnate ai loro uffici, onde si sarebbe dovuto in primo luogo chiarire se la delega sindacale menzionata dai giudici di merito attribuisse all’assessore anche funzioni dirigenziali di natura amministrativa, ovvero esclusivamente la funzione di indirizzo politico e di controllo.
Va rimarcato che, contrariamente a quanto dedotto nel ricorso, la responsabilità di Z.M. e C.A., quali soggetti in posizione apicale all’Interno dell’Ufficio Tecnico Comunale, non è stata desunta dal potere di spesa inteso come potere di cassa, ma è stata correlata al potere di proporre una gestione oculata della spesa e di dirigere, dare impulso, coordinare l’attività di propria competenza; si è, dunque, precisato che entrambi avrebbero potuto e dovuto attivarsi presso gli organi amministrativi dotati di poteri di spesa diretta, rimproverandosi loro di non aver segnalato l’esigenza di una gestione oculata della spesa del depuratore comunale. Mentre con riferimento agli imputati Z.M. e C.A. nella sentenza si rinviene specifica motivazione in merito alle circostanze del caso concreto dalle quali è stata desunta la possibilità per entrambi di conoscere le condizioni del depuratore e la necessità dell’intervento commissionato all’impresa CA., quali presupposti fattuali del loro obbligo di attivarsi, la motivazione risulta invece carente con riguardo all’individuazione dei presupposti di fatto sui quali si fonda nel caso concreto l’obbligo di garanzia gravante sul ricorrente G.S.M.. L’enucleazione della fonte dei poteri correlati alla ritenuta culpa in eligendo, con riferimento alla scelta di persona priva delle necessarie competenze quale addetto al depuratore, è stata desunta dall’omessa stipula di contratti di appalto che affidassero ad impresa specializzata la gestione del depuratore, senza alcun chiarimento in merito ai poteri delegati al G.S.M. ed ai poteri di spesa diretta ad essi correlati. Sotto altro profilo si sarebbe dovuto chiarire se, invece, l’assessore avesse ricevuto delega esclusivamente con riguardo alle funzioni sindacali; in tal caso, si sarebbe dovuto individuare un obbligo di controllo circa l’utilizzo e la manutenzione ottimale degli impianti, distinto dal controllo tecnico e di merito che inerisce all’idoneità ed all’adeguatezza dell’attività e delle scelte operate dagli uffici investiti della gestione tecnica. Si tratta, infatti, di obbligo di controllo inerente al ruolo di organo elettivo di governo dell’Ente con competenze professionali politiche e di alta amministrazione. Alle censure mosse dalla difesa nell’atto di gravame a proposito dell’assenza di poteri gestionali nell’ambito della delega conferitagli, a proposito dell’assenza di qualsivoglia segnalazione da parte del Responsabile dell’UTC arch. Z.M., in merito all’obbligo dell’A.R.P.A. di segnalare eventuali difformità dei risultati delle analisi rispetto agli standards previsti dalla normativa vigente, non risulta fornita congrua replica. Con riferimento alla culpa in vigilando è stata, dunque, trascurata l’indicazione degli elementi di fatto che avrebbero reso riconoscibile da parte dell’imputato la situazione critica inerente alla gestione del depuratore, così da generare l’obbligo di attivarsi (Sez. 3, n. 257 del 24/11/2000, dep.2001, Bonghi, Rv. 217718; Sez. 3, n. 11819 del 04/11/1997, Scutari G, Rv. 209710). La motivazione è, in particolare, carente laddove si è posto in relazione l’obbligo di attivarsi del ricorrente G.S.M. con la congettura secondo la quale le piccole dimensioni del Comune non consentivano che sfuggisse alla sua attenzione la problematica inerente al funzionamento del depuratore. La sentenza viene, pertanto, annullata con rinvio affinchè venga fornita congrua motivazione sul punto, restando assorbito il quarto motivo di ricorso.

Il ricorso di CA. e di S.LC.
13. In applicazione dei principi enunciati in tema di rischio interferenziale al par.5, e della conseguente correttezza della pronuncia di condanna degli imputati CA. e S.LC. in relazione al capo B) dell’Imputazione, il Collegio rileva l’errore di diritto presente nella pronuncia di condanna dei due ricorrenti in relazione al capo H) dell’imputazione. Secondo quanto si legge nella sentenza impugnata, l’evento letale è stato determinato, ancorché non sia possibile dare un peso causale in termini proporzionali all’accettata condotta di sversamento, dalla sinergia delle due fonti di produzione di gas killer, in quanto esistevano nell’intervento presso il depuratore rischi comuni ai lavoratori dipendenti del committente e dell’appaltatore non gestiti secondo i previsti obblighi di cooperazione e coordinamento. La Corte territoriale ha, dunque, individuato nel rischio interferenziale l’ambito entro il quale si è sviluppato l’evento, ricostruendo in relazione a tale area di rischio la posizione di garanzia dei singoli imputati e, conseguentemente, ridimensionando la rilevanza del dato inerente al quantitativo di rifiuti sversati dall’autocisterna dell’impresa CA.. Il Tribunale aveva, in precedenza, assolto gli imputati CA. e S.LC. dal reato di cui al capo H) dell’imputazione per assenza di prove della condotta di sversamento doloso nel pozzetto di ricircolo dei fanghi di sostanze di natura petrolifera provenienti dall’ADR dell’impresa CA. in quantitativi tali da dimostrare il nesso causale con la morte dei sei lavoratori. La Corte di Appello ha ribaltato tale decisione, con argomentazione in diritto sulla base dei medesimi dati istruttori e tecnici, applicando il principio di equivalenza delle cause dettato dall’art.41, primo comma, cod. pen. sul presupposto, ampiamente argomentato, che lo sversamento dei rifiuti operato dall’impresa CA. costituisse «concausa importante nel determinismo di produzione dell’idrogeno solforato nella concentrazione letale e, quindi, nella morte dei sei operai». L’affermazione per cui «non vi sarebbe duplicazione dell’imputazione di omicidio colposo contenuta nel capo B perché lì la responsabilità a titolo di colpa nella determinazione degli eventi concerne un’area di rischio (rischio connaturato alla violazione delle regole tecniche nella organizzazione dei lavori di impresa e nell’adozione dei presidi di sicurezza) distinta e diversa rispetto a quella coperta dall’art. 586 cod. pen.» è stata spiegata indicando nel «pericolo fisiologico rappresentato dall’attività, lecita, di sturo di condotte rientrante nell’attività d’impresa della CA.» la diversa area di rischio giustificativa del concorso formale di reati. Ma si tratta di motivazione errata in diritto, essendo possibile riconoscere il concorso formale di reati a condizione che dalla medesima condotta siano scaturiti eventi diversi (Sez. 1, n. 2595 del 14/11/2002, dep.2003, Solazzo, Rv. 223842), laddove nel caso in esame dalla medesima condotta ascrivibile agli imputati, per come descritta dallo stesso giudice di merito, è derivato l’unico evento della morte, non voluta, dei sei lavoratori. Tale rilievo comporta l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente al capo H), rimanendo assorbito in tale pronuncia il primo motivo di ricorso.

13.1. Il secondo motivo di ricorso è infondato, ai limiti dell’inammissibilità. Le articolate censure ivi svolte reiterano analogo motivo di gravame e trascurano la motivazione offerta dalla Corte di Appello in merito alle plurime violazioni di norme cautelari ascrivibili a CA. , in qualità di datore di lavoro, ed a S.LC. , in qualità di preposto, in relazione al rischio interferenziale individuabile presso l’impianto di depurazione. Si richiamano, in merito alla corretta individuazione del rischio interferenziale, le considerazioni svolte al par.5.
Con specifico riferimento al mancato accertamento che il luogo in cui si era verificato l’evento non coincidesse con il luogo dell’intervento programmato ed a tutti gli argomenti svolti in merito alla difformità tra intervento programmato ed intervento effettivamente svolto, si richiamano le congrue considerazioni svolte nella sentenza impugnata, riportate al par.11.2, in merito all’infondatezza dell’assunto secondo il quale la condotta dei lavoratori avrebbe interrotto il nesso di condizionamento tra condotte ascritte agli imputati ed evento.
Giova aggiungere che l’omessa redazione del D.U.V.R.I. non è stata valutata in sé quale condotta omissiva causalmente determinante l’evento e che, secondo la normativa vigente, non è sufficiente che i datori di lavoro delle imprese interessate dal rischio interferenziale concordino «la migliore esecuzione dei lavori»; è, invece, necessario che la programmazione dei lavori avvenga in funzione del rischio interferenziale, una volta che tale rischio sia stato individuato. Logica premessa di tale obbligo di programmazione è che il rischio di cui trattasi venga individuato, ed è in tale ottica che l’omessa redazione del D.U.V.R.I. da parte del committente, omissione inevitabilmente nota ai datori di lavoro delle imprese appaltatrici, può assumere rilevanza nella catena causale che conduce all’evento delittuoso.
13.2. Il terzo ed il quarto motivo di ricorso sono assorbiti dalla rilevata estinzione per intervenuta prescrizione dei reati di cui ai capi G) ed F).
13.3. Il quinto motivo di ricorso, con riguardo ai criteri seguiti per la determinazione della pena, è fondato. Si richiama quanto indicato al par.10.8. Giova, tuttavia, sottolineare che il criterio cronologico seguito dal giudice di merito per individuare il reato più grave non si discosta dal principio affermato dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite per stabilire quale sia la violazione più grave nelle ipotesi di cumulo giuridico (Sez. U, n. 25939 del 28/02/2013, Ciabotti, Rv. 255347 : «la violazione più grave va individuata in astratto in base alla pena edittale prevista per il reato ritenuto dal giudice»), posto che nel caso in cui concorrano reati soggetti al medesimo regime sanzionatorio occorre necessariamente fare riferimento alle singole circostanze in cui la fattispecie si è manifestata. Conclusivamente, la condanna pronunciata nei confronti di CA. e S.LC. in relazione al reato contestato al capo B) deve essere annullata sul punto relativo al trattamento sanzionatorio, anche/ relativamente alla pena accessoria, con rinvio alla Corte di Appello di Catania.

Il ricorso di G.V.
14. Il primo motivo di ricorso è fondato.

14.1. Il Tribunale aveva assolto tale imputato dal reato contestatogli al capo B) sul presupposto che egli avesse adempiuto ai compiti definiti dall’art. 33 d. Lgs. n.626/94. In particolare, egli era un collaboratore esterno che si occupava di redigere il documento di valutazione dei rischi per l’attività generica dell’impresa CA. nonché per le attività specifiche che di volta in volta gli venivano sottoposte; si occupava anche dell’informazione sui rischi di lavoro ed organizzava sedute periodiche di formazione e informazione per gli operai della ditta. Considerato che non risultava che il geom. G.V. fosse stato informato dell’assunzione di S.G., avvenuta il giorno prima dell’infortunio; che il documento di valutazione dei rischi da lui redatto era conforme a quello previsto dalla normativa; che egli non risultava informato sull’attività da svolgere presso il depuratore e che, comunque, nel D.V.R. aveva specificamente previsto le procedure e le precauzioni da seguire in caso di lavori in ambienti con rischio di esalazione di gas, il giudice di primo grado aveva escluso che il RSPP potesse ritenersi responsabile del delitto ascrittogli.
14.2. Sul presupposto che il RSPP risponde per mancata elaborazione di informazione e di formazione dei lavoratori tutte le volte in cui l’infortunio sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa ignorata o mal considerata dal responsabile del servizio, la Corte di Appello ha ritenuto che, nel caso concreto, i lavoratori T.S. e S.G. non avessero ricevuto un’adeguata formazione. T.S. risultava formalmente presente a due corsi, ma di fatto aveva partecipato ad un solo corso di due ore; per S.G. erano state del tutto omesse la formazione e l’informazione preliminari all’assunzione. Ignorando le modalità ottimali per eseguire l’intervento loro richiesto, si legge nella sentenza, a causa del difetto di formazione-informazione, i due lavoratori avevano operato disattendendo le più elementari regole precauzionali. La posizione di garanzia del RSPP è stata ricondotta, oltre che alla compilazione del documento di sicurezza, all’obbligo di verificare l’effettiva e costante partecipazione di tutti i dipendenti ai corsi di formazione, con particolare riguardo ai corsi aventi ad oggetto rischi specifici, di curare i meccanismi di raccordo e di automaticità per garantire la formazione/informazione dei nuovi assunti prima dell’assunzione stessa, di garantire un meccanismo di controllo effettivo sulla partecipazione dei lavoratori ai corsi.
14.3. Secondo quanto indicato al par.6.2 a proposito della posizione di garanzia del RSPP, si deve ribadire che i compiti di consulenza spettanti a tale figura professionale non possono estendersi sino ad includervi la vigilanza sull’effettivo svolgimento delle attività di formazione e di informazione dei lavoratori, a meno che non vi sia espressa delega di funzioni datoriali in tal senso. L’obbligo di vigilanza sull’effettivo svolgimento dell’attività di formazione/informazione dei lavoratori è, infatti, strettamente inerente all’osservanza della normativa antinfortunistica che la legge pone a carico di soggetti diversi dal RSPP. Dalla normativa di settore (artt.8, commi 3 e 10, d.lgs. n.626/94, ora art.31, commi 2 e 5, d. Lgs. n.81/2008), emerge che i componenti del servizio di prevenzione e protezione, essendo considerati dei semplici ausiliari del datore di lavoro, non possono venire chiamati a rispondere direttamente del loro operato, proprio perché difettano di un effettivo potere decisionale. Essi svolgono compiti di consulenza ed i risultati dei loro studi e delle loro elaborazioni, come in qualsiasi altro settore dell’amministrazione dell’azienda, vengono fatti propri dal vertice che li ha scelti sulla base di un rapporto di affidamento liberamente instaurato e che della loro opera si avvale per meglio ottemperare agli obblighi di cui è esclusivo destinatario (Sez. F, n.32357 del 12/08/2010, Mazzei, Rv. 247996). Ciò non esclude che anche al RSPP possano essere ascritte responsabilità in materia, ma i casi che hanno comportato l’affermazione di responsabilità di tale figura professionale riguardano, per lo più, l’omessa individuazione di un rischio o l’omessa segnalazione di una situazione pericolosa la cui conoscenza avrebbe messo il datore di lavoro nella condizione di evitare l’evento (Sez. 4, n. 32195 del 15/07/2010, Scagliarini, Rv. 248555; Sez. 4, n. 16134 del 18/03/2010, Santoro, Rv. 247098; Sez. 4, n. 1834 del 16/12/2009, dep.2010, Guarnotta, Rv. 245999; Sez. 4, n. 37861 del 10/07/2009, Pucciarini, Rv. 245276; Sez. 4, n. 27420 del 20/05/2008, Verderosa, Rv. 240886), omissioni non accertate nel caso concreto.
14.4. Le considerazioni che precedono inducono a ritenere che le argomentazioni svolte nella sentenza impugnata per riformare la pronuncia assolutoria di primo grado non siano dotate di una forza persuasiva superiore tale da far venir meno ogni ragionevole dubbio circa la responsabilità di G.V. e che, pertanto, la sentenza debba essere annullata senza rinvio in quanto non è possibile raggiungere la prova che l’imputato abbia commesso il fatto. Gli altri motivi di ricorso sono, conseguentemente, assorbiti.

Il ricorso del Comune di Mineo
15. I primi cinque motivi di ricorso sono sovrapponibili a quelli proposti da C.A. , onde è sufficiente richiamare quanto esposto nel par. 10.

Il sesto motivo di ricorso è inammissibile, secondo quanto indicato al par.7.1.
Il ricorso viene, dunque, rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ai sensi dell’art.616 cod.proc.pen., nonché alla rifusione delle spese sostenute per questo giudizio di cassazione dalle parti civili elencate in dispositivo in quanto intervenute all’udienza di discussione (Sez. 6, n. 17057 del 14/04/2011, Melis, Rv. 250062). La liquidazione viene demandata al giudice del rinvio in ragione del parziale annullamento della sentenza per ragioni che coinvolgono domande di risarcimento dei danni cagionati dal reato (Sez. 6, n. 8326 del 04/02/2015, Murgia, Rv. 262626) e della, correlata, necessità di pervenire ad una pronuncia definitiva con riguardo a tutti i coimputati ai fini della ripartizione delle spese (Sez. 5, n. 25469 del 23/04/2014, Greco, Rv. 262561; per la ripartizione delle spese tra coimputati, Sez. 5, n. 5934 del 06/10/2011, dep.2012, Franco, Rv. 252155).

Il ricorso delle parti civili
16. La prima parte del motivo di ricorso proposto dalle parti civili è, del pari, inammissibile per quanto esposto al par.7.1, mentre risulta totalmente omessa la motivazione in merito alle doglianze svolte nell’atto di gravame a proposito dei parametri di determinazione delle spese sostenute dalla parte civile. La sentenza impugnata dovrà, pertanto, essere annullata su tale punto, con rinvio alla Corte di Appello di Catania affinchè prenda in esame la doglianza già svolta nell’atto di appello.

17. Il parziale accoglimento dei ricorsi degli imputati, il parziale rigetto del ricorso proposto dalle parti civili M.MA’., Z.S. e P.S. e la confluenza di posizioni creditorie e debitorie nel Comune di Mineo, inducono a disporre la compensazione delle spese sostenute da I.N.A.I.L., Comune di Mineo, M.MA’., Z.S. e P.S..

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di G.S.M. in ordine al reato ascrittogli al capo A), con rinvio alla Corte di Appello di Catania per nuovo esame.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di G.V. in ordine al reato di cui al capo B) per non aver commesso il fatto.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato ascritto a CA. al capo H) perché il fatto non sussiste ed ai reati sempre a lui ascritti ai capi G) ed F) perché estinti per prescrizione. 
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di CA. in ordine al capo B) limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio alla Corte di Appello di Catania per nuovo esame sul punto e con l’eliminazione della pena irrogata in ordine ai reati di cui ai capi F), G), H).
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato ascritto a S.LC. al capo G) perché estinto per prescrizione.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di S.LC. in ordine al capo B) limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio alla Corte di Appello di Catania per nuovo esame sul punto e con l’eliminazione della pena irrogata in ordine al reato di cui al capo G).
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio nei confronti di Z.M. e C.A. in ordine al reato di cui al capo A) ad essi ascritto e rinvia sul punto alla Corte di Appello di Catania per nuovo esame.
Rigetta nel resto i ricorsi di CA. , S.LC. , Z.M. e C.A..
Visto l’art.624 cod.proc.pen. dichiara l’irrevocabilità della sentenza in ordine all’affermazione di responsabilità degli imputati Z.M. e C.A. in ordine al reato di cui al capo A), nonché CA. e S.LC. in ordine al reato di cui al capo B).
Rigetta il ricorso del Comune di Mineo, che condanna, in persona del Sindaco prò tempore, al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese per questo giudizio di cassazione sostenute dalle costituite parti civili Omissis, in proprio e quali eredi di Omissis, in proprio e nella qualità di esercente la responsabilità genitoriale sui minori Omissis, in proprio e nella qualità di esercente la responsabilità genitoriale sui minori Omissis, rimette la liquidazione al giudice del rinvio.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla questione concernente la quantificazione delle spese processuali liquidate in primo grado in favore delle parti civili M.MA’., Z.S. e P.S., con rinvio per nuovo esame sul punto alla Corte di Appello di Catania.
Rigetta il ricorso delle suddette parti civili nel resto. 
Dichiara compensate tra il Comune di Mineo, quale responsabile civile, e le parti civili I.N.A.I.L., Comune di Mineo, M.MA’., Z.S. e P.S. le spese di questo giudizio di cassazione.
Così deciso il 7/06/2016

Originally posted 2020-05-02 10:32:05.