MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA E ATTENUANTI GENERICHE

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA E ATTENUANTI GENERICHE

AVVOCATO PENALISTA ESPERTO SERGIO ARMAROLI  CHIAMA PER LA MIGLIORE ASSISTENZAPENALE  051 6447838

TRIBUNALE DI PAVIA, TRIBUNALE DI BRESCIA, CORTE APPELLO BRESCIA, TRIBUNALE MILANO, CORTE APPELLO MILANO, TRIBUNALE VICENZA, TRIBUNALE TREVISO ,CORTE APPELLO VENEZIA, TRIBUNALE VENEZIA, TRIBUNALE BOLOGNA, CORTE APPELLO BOLOGNA, TRIBUNALE FORLI, TRIBUNALE RAVENNA,TRIBUNALE RIMINI, TRIBUNALE MONZA, TRIBUNALE BERGAMO

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LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 577, terzo comma, del codice penale, nella parte in cui vieta al giudice di ritenere prevalenti le circostanze attenuanti di cui agli artt. 62, primo comma, numero 2), e 62-bis cod. pen.

 

IN PRIMO LUOGO LA CORTYE COSTITUZIONALE NEL 2023 HA DICHIARATOI QUANTO SEGUE “PARTE FINALE SENTENZA “:

 

Infine, come parimenti denunciato da tutte le ordinanze di rimessione (e come già rilevato in sede di lavori preparatori: verbale della seduta del 2 aprile 2019, nonché parere espresso dall’Unione delle Camere penali nel corso dell’audizione svoltasi l’11 giugno 2019 avanti alla Commissione 2ª, Giustizia, del Senato), la disposizione censurata viola il principio di proporzionalità delle pene, desumibile dal combinato disposto degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.; principio che questa Corte ha in ormai numerose occasioni ritenuto vulnerato dal divieto, strutturalmente analogo, di prevalenza delle circostanze attenuanti rispetto all’aggravante della recidiva reiterata sancito dall’art. 69, quarto comma, cod. pen. (per una recente ampia ricognizione di questa giurisprudenza, sentenza n. 94 del 2023, punto 10 del Considerato in diritto; nonché, successivamente, sentenze n. 141 del 2023 e n. 188 del 2023).

In questi precedenti, si è in particolare affermato che il principio di proporzionalità delle pene è violato laddove il divieto legislativo di bilanciamento tra circostanze impedisca al giudice di attribuire adeguato rilievo, sul piano della commisurazione della sanzione, a circostanze attenuanti espressive, oltre che di una minore offensività, di una minore colpevolezza dell’autore, che è componente essenziale per la determinazione del disvalore complessivo del fatto di reato (sentenza n. 73 del 2020, punto 4.2. del Considerato in diritto; nonché, rispetto alla diminuente di cui all’art. 116 cod. pen., parimenti espressiva di un ridotto disvalore soggettivo del fatto, sentenza n. 55 del 2021, punto 8 del Considerato in diritto).

E si è altresì evidenziato come il vulnus in parola non possa ritenersi di per sé escluso quando il divieto di prevalenza si riferisca a una circostanza a effetto comune, comportante come tale una riduzione sino a un terzo della pena base, dal momento che «l’entità concreta della diminuzione di pena dipende ovviamente dall’entità della pena base […] ben potendo tale diminuzione tradursi, rispetto ai delitti più gravi, in vari anni di reclusione in meno» (ancora, sentenza n. 73 del 2020, punto 4.3. del Considerato in diritto). Ciò che ha condotto questa Corte, in ormai numerose occasioni, a dichiarare costituzionalmente illegittimo il divieto di prevalenza di cui all’art. 69, quarto comma, cod. pen. a varie circostanze attenuanti a effetto comune (si vedano, oltre alla sentenza n. 73 del 2020 appena citata, le sentenze n. 141 del 2023, n. 143 e n. 55 del 2021).

In coerenza con questi precedenti, anche in questo caso non può che ritenersi violato il principio di proporzionalità della pena. L’attenuante della provocazione è intrinsecamente indicativa di una minore colpevolezza dell’autore (supra, punto 5.3.1.); e le attenuanti generiche sono anch’esse idonee a intercettare ulteriori elementi – distinti da quelli già valorizzabili agli effetti della provocazione – essi pure, nella più parte di casi, indicativi di una minore colpevolezza, come la giovane età della vittima e l’eventuale immaturo sviluppo della sua sfera emotiva, ovvero disturbi della personalità (eventualmente anche ingenerati da situazioni familiari di grave disagio) ancora non idonei ad assurgere a un vizio parziale di mente (supra, punto 5.3.2.).

Lo sbarramento determinato dalla disposizione censurata produce, d’altra parte, l’effetto di impedire agli imputati in tali procedimenti di beneficiare di una, e talvolta anche di due, attenuazioni di pena pari ciascuna a un terzo della pena: il che, rispetto a un delitto punito nella forma base con la pena minima di ventun anni di reclusione – non riducibili per effetto della scelta del giudizio abbreviato, preclusa oggi dall’art. 438, comma 1-bis, cod. proc. pen. -, è suscettibile di tradursi in numerosi anni di reclusione in più rispetto a quanto risulterebbe dall’applicazione dell’ordinaria disciplina di cui all’art. 69 cod. pen.

5.6.- L’odierna dichiarazione di illegittimità costituzionale non contraddice in alcun modo la legittima, ed anzi certamente apprezzabile, finalità di tutela perseguita dal legislatore con l’approvazione del “Codice Rosso”, avvenuta sulla base di un consenso trasversale raggiunto tra le forze politiche nel 2019.

Le statistiche annue sui femminicidi, sulle quali ha insistito l’Avvocatura generale dello Stato negli atti di intervento e nella discussione orale, dimostrano la necessità per il legislatore di intervenire con misure incisive, preventive e repressive, per contrastare efficacemente questo drammatico fenomeno, nonché la generalità dei fenomeni di violenza e abusi commessi nell’ambito di relazioni familiari e affettive.

Ciò che le ordinanze di rimessione hanno posto in discussione è, però, la risposta sanzionatoria manifestamente sproporzionata che l’introduzione dell’art. 577, terzo comma, Cost. provoca rispetto a casi del tutto eterogenei rispetto a quelli avuti di mira dal legislatore: casi, cioè, in cui è proprio la persona vulnerabile, vittima di reiterati comportamenti aggressivi all’interno del proprio contesto familiare, a compiere alla fine un atto omicida, sospinta dall’esasperazione per una situazione percepita come non più tollerabile. Una tale risposta costituisce un effetto collaterale, di natura per così dire “preterintenzionale”, prodotto da una disposizione pure sostenuta da una finalità legittima, che tuttavia, nell’impatto con la varietà dei casi reali, determina anche risultati incongrui rispetto a quella stessa finalità (per un caso simile in materia di misura della pena, sentenza n. 68 del 2012, punto 3 del Considerato in diritto; più in generale sull’eccesso nel perseguimento di fini legittimi da parte del legislatore, sentenze n. 184 del 2013, punto 6.5. del Considerato in diritto, e n. 20 del 2019, punto 5.4. del Considerato in diritto).

Il rimedio a tale vizio non può che essere il ripristino dei poteri discrezionali del giudice (analogamente, sentenza n. 102 del 2020, punto 5.4. del Considerato in diritto), sì da evitare che il divieto di prevalenza delle attenuanti operi in casi non coerenti rispetto alla ratio della disposizione stessa. Più precisamente, la soluzione “naturale” è quella di lasciare che si riespandano, per effetto dell’odierna dichiarazione di illegittimità costituzionale, quei poteri di cui dispongono normalmente, in forza della previsione generale di cui all’art. 69 cod. pen., le corti d’assise: al cui prudente apprezzamento – “tecnico” e “umano” allo stesso tempo – il legislatore del 2019 ha scelto di affidare la generalità dei procedimenti per gli omicidi astrattamente punibili con la pena dell’ergastolo (sull’impianto complessivo della legge 12 aprile 2019, n. 33, recante «Inapplicabilità del giudizio abbreviato ai delitti puniti con la pena dell’ergastolo», sentenza n. 260 del 2020, nonché – su profili più specifici – sentenza n. 207 del 2022 e ordinanza n. 214 del 2021).

5.7.- In conclusione, l’art. 577, terzo comma, cod. pen. deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, nei limiti sottoposti dalle ordinanze di rimessione allo scrutinio di questa Corte: ossia nella parte in cui vieta al giudice di ritenere prevalenti le circostanze attenuanti della provocazione di cui all’art. 62, primo comma, numero 2), cod. pen. e le circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis cod. pen.

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 577, terzo comma, del codice penale, nella parte in cui vieta al giudice di ritenere prevalenti le circostanze attenuanti di cui agli artt. 62, primo comma, numero 2), e 62-bis cod. pen.

 

Suprema Corte di Cassazione

Sezione VI penale

Sentenza 6 marzo 2017, n. 10906

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di …;

nel procedimento a carico di:

1) …;

2) …;

avverso la sentenza del 23/4/2015 del Tribunale di …

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Dott. …;

udito il Procuratore generale, Dott. …, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. … e … sono stati dichiarati responsabili del reato di cui agli articoli 110 e 572 cod. pen. commesso in danno del figlio minore, commesso in … fino al mese di … e condannati, con le concesse circostanze attenuanti generiche e la diminuente del rito abbreviato, alla pena di mesi sei di reclusione ciascuno.
  2. Propone ricorso il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di … e denuncia vizio di violazione di legge per mancanza di motivazione in relazione alle riconosciute circostanze attenuanti generiche. Deduce, in particolare, che nella sentenza impugnata non sono stati indicati gli elementi giustificativi della decisione poiché l’applicazione delle circostanze attenuanti, in presenza di elementi negativi, non può costituire oggetto di benevola concessione né un diritto dell’imputato, dovendo derivare dalla esistenza di elementi suscettibili di concreto e positivo apprezzamento.
  3. Il ricorso è infondato, non riscontrandosi nella sentenza impugnata i vizi di omissione e/o contraddittorietà della motivazione, che integrano il dedotto vizio di violazione di legge (Sez. 1, n. 6821 del 31/01/2012, dep. 21/02/2012, Chiesi, Rv. 25243001).
  4. Il giudice dell’udienza preliminare, senza fare ricorso a formula stereotipe, ha esplicitato gli elementi di valutazione che, ricondotti al giudizio di gravità del reato e alla personalità degli imputati, li rendevano meritevoli dell’applicazione delle circostanze attenuanti generiche al fine di mitigare il trattamento sanzionatorio loro inflitto, pure contenuto in misura prossima al minimo edittale. A tal fine la sentenza impugnata ha evidenziato la inadeguatezza etno-culturale degli imputati – che li induceva a ritenere consentite punizioni corporali che nel paese di origine non costituiscono illecito – ma, soprattutto, la incapacità culturale degli imputati di rendersi conto della patologia (iperattività e disturbo dell’attenzione) poi diagnosticata al minore in occasione del suo affidamento ad una struttura protetta, in seguito alla emersione dei fatti del presente procedimento e la loro conseguente incapacità di gestirne comportamenti oppositivi e provocatori che venivano erroneamente ricondotti ad aspetti caratteriali che si proponevano di contenere con metodi, certamente non consentiti ed erroneamente ritenuti educativi.Ai fini del giudizio di gravità del fatto ha altresì rilevato che le lesioni, in più occasioni riscontrate dagli insegnanti sul bambino, potevano essere ricondotte a comportamenti eccitati e imprudenti del piccolo e non univocamente, come pure accertato per altri episodi, a condotte violente dei genitori. E’, dunque, agevole rilevare che il giudice ha compiuto un apprezzamento delle condizioni che legittimano l’applicazione delle circostanze attenuanti, valorizzando sia elementi obiettivi, incidenti sul giudizio di gravità del reato, sia elementi soggettivi che hanno determinato un giudizio di minore disvalore del fatto (Sez. 6, n. 41365 del 28/10/2010, Straface, Rv. 248737), giudizio di fatto rimesso alla discrezionalità del giudice del merito, e sottratto, se adeguatamente motivato, al controllo in sede di legittimità.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Suprema Corte di Cassazione

Sezione VI penale

Sentenza 6 marzo 2017, n. 10906

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di …;

nel procedimento a carico di:

1) …;

2) …;

avverso la sentenza del 23/4/2015 del Tribunale di …

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Dott. …;

udito il Procuratore generale, Dott. …, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. … e … sono stati dichiarati responsabili del reato di cui agli articoli 110 e 572 cod. pen. commesso in danno del figlio minore, commesso in … fino al mese di … e condannati, con le concesse circostanze attenuanti generiche e la diminuente del rito abbreviato, alla pena di mesi sei di reclusione ciascuno.
  2. Propone ricorso il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di … e denuncia vizio di violazione di legge per mancanza di motivazione in relazione alle riconosciute circostanze attenuanti generiche. Deduce, in particolare, che nella sentenza impugnata non sono stati indicati gli elementi giustificativi della decisione poiché l’applicazione delle circostanze attenuanti, in presenza di elementi negativi, non può costituire oggetto di benevola concessione né un diritto dell’imputato, dovendo derivare dalla esistenza di elementi suscettibili di concreto e positivo apprezzamento.
  3. Il ricorso è infondato, non riscontrandosi nella sentenza impugnata i vizi di omissione e/o contraddittorietà della motivazione, che integrano il dedotto vizio di violazione di legge (Sez. 1, n. 6821 del 31/01/2012, dep. 21/02/2012, Chiesi, Rv. 25243001).
  4. Il giudice dell’udienza preliminare, senza fare ricorso a formula stereotipe, ha esplicitato gli elementi di valutazione che, ricondotti al giudizio di gravità del reato e alla personalità degli imputati, li rendevano meritevoli dell’applicazione delle circostanze attenuanti generiche al fine di mitigare il trattamento sanzionatorio loro inflitto, pure contenuto in misura prossima al minimo edittale. A tal fine la sentenza impugnata ha evidenziato la inadeguatezza etno-culturale degli imputati – che li induceva a ritenere consentite punizioni corporali che nel paese di origine non costituiscono illecito – ma, soprattutto, la incapacità culturale degli imputati di rendersi conto della patologia (iperattività e disturbo dell’attenzione) poi diagnosticata al minore in occasione del suo affidamento ad una struttura protetta, in seguito alla emersione dei fatti del presente procedimento e la loro conseguente incapacità di gestirne comportamenti oppositivi e provocatori che venivano erroneamente ricondotti ad aspetti caratteriali che si proponevano di contenere con metodi, certamente non consentiti ed erroneamente ritenuti educativi.Ai fini del giudizio di gravità del fatto ha altresì rilevato che le lesioni, in più occasioni riscontrate dagli insegnanti sul bambino, potevano essere ricondotte a comportamenti eccitati e imprudenti del piccolo e non univocamente, come pure accertato per altri episodi, a condotte violente dei genitori. E’, dunque, agevole rilevare che il giudice ha compiuto un apprezzamento delle condizioni che legittimano l’applicazione delle circostanze attenuanti, valorizzando sia elementi obiettivi, incidenti sul giudizio di gravità del reato, sia elementi soggettivi che hanno determinato un giudizio di minore disvalore del fatto (Sez. 6, n. 41365 del 28/10/2010, Straface, Rv. 248737), giudizio di fatto rimesso alla discrezionalità del giudice del merito, e sottratto, se adeguatamente motivato, al controllo in sede di legittimità.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Il delitto di maltrattamenti in famiglia può essere integrato anche da atti non costituenti in sè reato,  del resto, anche semanticamente, il termine “maltratta” non evoca in sè la necessità del compimento di singole condotte riconducibili a fattispecie tipiche ulteriori rispetto a quella di cui all’art.572 c.p.  (per questa affermazione cfr. Sez. 6, n. 44700 del 08/10/2013, P., Rv.256962; per interessanti fattispecie applicative, v. Sez. 2, n. 10994 del 06/12/2012, dep. 2013, T., Rv. 255175, nonchè Sez. 6, n. 8396 del 07/06/1996, Vitiello, Rv. 205563).

Cass. pen. Sez. VI, 10/03/2016, n. 13422.

 

 MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA

La condotta di maltrattamenti contro familiari o conviventi può consistere anche nella privazione pressoché totale del sostegno economico ai danni della persona offesa, a maggior ragione se unita ad ulteriori condotte vessatorie di altro genere. Non può invece rientrare nella fattispecie di cui all’art.572 c.p. la costrizione del coniuge al rapporto sessuale: il rapporto di coniugio non comporta alcun diritto a pretenderne la consumazione contro la volontà del consorte, ragion per cui il predetto comportamento integra pienamente il delitto di violenza sessuale ex art.609 bis c.p.

Cass. pen. Sez. III, 19/01/2016, n. 18937

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA

L’uso sistematico della violenza, quale ordinario trattamento del minore affidato, anche lì dove fosse sostenuto da animus corrigendi, non può rientrare nell’ambito della fattispecie di abuso dei mezzi di correzione, ma concretizza, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, gli estremi del più grave delitto di maltrattamenti.

Cass. pen. Sez. VI, 28/06/2017, n. 40959

 

 MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA: DICHIARAZIONI DELLA PERSONA OFFESA

Le regole dettate dall’art.192, comma 3, c.p.p., non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. Nel reato di maltrattamenti di cui all’art.572 c.p. l’oggetto giuridico non è costituito solo dall’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, ma anche dalla difesa dell’incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma, interessate al rispetto della loro personalità nello svolgimento di un rapporto fondato su vincoli familiari. Nel reato abituale il dolo non richiede infatti – a differenza che nel reato continuato – la sussistenza di uno specifico programma criminoso, verso il quale la serie di condotte criminose, sin dalla loro rappresentazione iniziale, siano finalizzate; è invece sufficiente la consapevolezza dell’autore del reato di persistere in un attività delittuosa, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere l’interesse tutelato dalla norma incriminatrice.

Cass. pen. Sez. VI, 06/10/2017, n. 49997

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA

Nel reato di maltrattamenti familiari possono essere riconosciute le attenuanti generiche di cui all’art.62 bis c.p. ai genitori che, per la loro inadeguatezza etno-culturale, ritengono consentite punizioni corporali sul figlio minore che nel Paese di origine (Marocco) non costituiscono illecito, allorquando la loro incapacità culturale non gli ha permesso di rendersi conto della patologia diagnosticata al figlio stesso a causa dei loro atti, nonché per la loro incapacità di gestirne i suoi comportamenti oppositivi e provocatori (ricondotti, pur sbagliando, ad aspetti caratteriali) che si proponevano di contenere con metodi non certamente consentiti ed erroneamente ritenuti educativi.

Cass. pen. Sez. VI, 15/02/2017, n. 10906

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA: INCONFIGURABILITA’

In un contesto familiare di continua conflittualità, ove alla veemenza verbale ed alla collera del marito la moglie risponde con capacità reattiva e non con un supino atteggiamento, non può configurarsi il delitto di maltrattamenti in famiglia.

Cass. pen. Sez. VI, 13/11/2015, n. 5258

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA: INCONFIGURABILITA’

Le condotte criminose poste in essere nei confronti del familiare convivente integranti percosse ed umiliazioni in danno del medesimo, ma prive del connotato dell’abitualità, in quanto verificatesi nell’ambito di un rapporto conflittuale, e di volta in volta commesse quale (abnorme) reazione occasionata da specifici comportamenti posti in essere dalla vittima, e, dunque, non come espressione della volontà di determinare in questa un disagio continuo ed incompatibile con le normali condizioni di vita, non risultano sussumibili nel reato di maltrattamenti in famiglia, ma integrano distinti episodi autonomamente rilevanti (nella specie di percosse, di lesioni, ed eventualmente di diffamazione, tuttavia non perseguibili per difetto o rimessione accettata di querela).

Cass. pen. Sez. VI, 19/04/2017, n. 27088

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA: Rapporti familiari di fatto – Cessazione della convivenza – Configurabilità del reato – Condizioni – Ragioni

In tema di reati contro la famiglia, è configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia anche in danno di persona non convivente o non più convivente con l’agente, quando quest’ultimo e la vittima siano legati da vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione. Peraltro, il reato persiste anche in caso di separazione legale, tenuto conto del fatto che tale stato, pur dispensando i coniugi dall’obbligo di convivenza e di fedeltà, lascia tuttavia integri i doveri di reciproco rispetto, di assistenza morale e materiale nonché di collaborazione. Pertanto, atteso che la convivenza non rappresenta un presupposto della fattispecie incriminatrice di cui all’art.572 c.p., la separazione non esclude il reato di maltrattamenti, quando l’attività vessatoria si valga proprio o comunque incida su quei vincoli che, rimasti intatti a seguito del provvedimento giudiziario, pongono la parte offesa in posizione psicologica subordinata o comunque dipendente.

Cass. pen. Sez. VI, 13/12/2017, n. 3356

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA

Il delitto di cui all’art.572 c.p. sussiste in caso di reiterate condotte vessatorie poste in essere in costanza di separazione legale o di fatto, in presenza della quale persistono i doveri di rispetto reciproco, assistenza morale e materiale e di solidarietà sociale sorti dal rapporto coniugale.

Cass. pen. Sez. VI, 01/02/2017, n. 10932

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA

In tema di reato di maltrattamento, la cessazione della convivenza da parte di un uomo – non legato con la donna maltrattata da rapporto di coniugio – non consente di qualificare la prosecuzione della condotta persecutoria nell’ambito del reato di cui all’art.572 c.p., dovendosi tale parte della condotta qualificare nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 612 bis, comma 2, c.p..  (Ferma l’eventualità ben possibile di un concorso apparente di norme che renda applicabili (concorrenti) entrambi i reati di maltrattamenti e di atti persecutori, il reato di cui all’art. 612 bis c.p. diviene idoneo a sanzionare con effetti diacronici comportamenti che, sorti in seno alla comunità familiare (o assimilata) ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulerebbero dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo o sodalizio familiare e affettivo o comunque della sua attualità e continuità temporale. Ciò che può valere, in particolare (se non unicamente), in caso di divorzio o di “relazione affettiva” definitivamente cessata, giacchè anche in caso di separazione legale (oltre che di fatto) questa S.C. ha affermato la ravvisabilità del reato di maltrattamenti, al venir meno degli obblighi di convivenza e fedeltà non corrispondendo il venir meno anche dei doveri di reciproco rispetto e di assistenza morale e materiale tra i coniugi (cfr.: Cass. Sez. 5, 1.2.1999 n. 3570, Valente, rv. 213515; Cass. Sez. 6,27.6.2008 n. 26571, rv. 241253) (conforme Sez. 6, n. 30704 del 19/05/2016, D’A., Rv. 267942)).

Cass. pen. Sez. VI, 27/06/2017, n. 35673

 

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA

Il reato di maltrattamenti in famiglia si configura anche a seguito della cessazione della convivenza e in presenza della separazione, qualora l’attività persecutoria si contestualizzi in ambito familiare. Ciò in quanto, il vincolo coniugale non viene meno con la separazione legale, ma si attenua soltanto, posto che rimangono integri i doveri di reciproco rispetto, di assistenza morale e materiale, nonché di collaborazione tra coniugi. Ne discende che laddove la condotta criminosa incida sui rapporti familiari, la separazione non esclude il reato di cui all’art.572 c.p.

Cass. pen. Sez. II, 05/07/2016, n. 39331

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA

La cessazione della convivenza non esclude, per ciò stesso, la configurabilità di condotte di maltrattamento tra i componenti della coppia quando il rapporto personale di fatto sia stato il risultato di un progetto di vita fondato sulla reciproca solidarietà ed assistenza, la cui principale ricaduta non può che essere il derivato rapporto di filiazione.

Cass. pen. Sez. VI, 20/04/2017, n. 25498

MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA

In assenza di vincoli nascenti dal coniugio, il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile nei confronti di persona non più convivente “more uxorio” con l’agente a condizione che quest’ultimo conservi con la vittima una stabilità di relazione dipendente dai doveri connessi alla filiazione. (In motivazione, la S.C. ha precisato che la permanenza del complesso di obblighi verso il figlio implica il permanere in capo ai genitori, che avevano costituito una famiglia di fatto, dei doveri di collaborazione e di reciproco rispetto). (Rigetta, App. Ancona, 04/07/2016)

Originally posted 2021-09-14 08:19:36.