DIRITTO PENALE INDUSTRIALE BOLOGNA VICENZA MILANO TORINO
In tema di elemento oggettivo del delitto di vendita di prodotti industriali con segni mendaci di cui all’art. 517 c.p., la condotta descritta con l’espressione “mette altrimenti in circolazione”, che nella fattispecie è alternativa a quella del “porre in vendita”, avuto riguardo all’oggetto giuridico del reato, alla diversità lessicale rispetto all’espressione “mettere in commercio”, presente nella diversa fattispecie di cui all’art. 516 c.p., nonché alla finalità del precetto, deve ritenersi riferita a qualsiasi attività con cui si miri a fare uscire a qualsiasi titolo la res dalla sfera giuridica e di custodia del mero detentore, così da includere pure le operazioni di immagazzinamento finalizzato alla distribuzione o la circolazione della merce destinata alla messa in vendita, con esclusione solo della mera detenzione in locali diversi da quelli di vendita o del deposito prima dell’uscita della merce dalla disponibilità del detentore.
In tema di tutela penale dei prodotti dell’industria e del commercio, integra l’illecito amministrativo previsto dall’art. 4, comma 49-bis, della legge n. 350 del 2003 – e non il reato di cui all’art. 517 cod. pen. – l’importazione dall’estero di prodotti recanti un’etichetta raffigurante un marchio (nella specie, “Gamma Italy”) idoneo, in assenza di precise indicazioni sulla esatta provenienza o della dichiarazione di impegno a rendere tali informazioni in fase di commercializzazione, a trarre in inganno anche un consumatore esperto sull’effettiva origine del prodotto. (Annulla senza rinvio, App. Milano, 04/07/2013 )
Cassazione penale sez. III 06 novembre 2014 n. 52029
Deve essere rimessa alle Sezioni Unite Penali la questione se l’introduzione in commercio di oggetti seriali – privi di marchi – costituenti riproduzione morfologica di oggetti protetti da marchio integri o meno gli estremi del delitto di cui agli artt. 473/474, ovvero di cui all’art. 517 c.p..
Cassazione penale sez. II 04 novembre 2014 n. 46868
Integra il reato di cui agli art. 517 e 517 bis c.p. la condotta dell’imputato che produce pane con l’ingannevole indicazione di Altamura senza però essersi sottoposto integralmente alle norme del relativo capitolato, ed in particolare ai controlli della Bioagricoop, impiegando lievito di birra e non solo lievito madre o naturale.
Cassazione penale sez. III 17 aprile 2014 n. 36716
In tema di tutela penale dei prodotti dell’industria e del commercio, la “fallace indicazione” del marchio di provenienza o di origine impressi sui prodotti presentati in dogana per l’immissione in commercio integra: a) il reato previsto dall’art. 4, comma 49, l. n. 350 del 2003 qualora, attraverso indicazioni false e fuorvianti o l’uso con modalità decettive di segni e figure, il consumatore è indotto a ritenere che la merce sia di origine italiana; b) l’illecito amministrativo previsto dall’art. 4, comma 49 bis, della medesima legge qualora, a causa di indicazioni di provenienza insufficienti o imprecise, ma non ingannevoli, il consumatore è indotto in errore sulla effettiva origine dei prodotti. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che correttamente la decisione impugnata avesse affermato la responsabilità dell’imputato per il reato di cui all’art.4, comma 49, l. n. 350 del 2003, per aver presentato alla dogana stendibiancheria di origine cinese recanti sulla confezione la bandiera nazionale ed indicazioni solo in lingua italiana tra cui la dicitura “prodotto di qualità testato a norma europea”). (Rigetta, App. Salerno, 14/02/2013 )
Cassazione penale sez. III 05 febbraio 2014 n. 21256
Integra il reato previsto dall’art. 517 c.p. la vendita di oggetti realizzati con materie prime italiane, ma completamente rifiniti all’estero e corredati dalla dicitura “Made in Italy” per la potenzialità ingannatoria dell’indicazione sul luogo di fabbricazione del prodotto. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto legittimo il sequestro di portafogli confezionati in Romania con pelle italiana, e recanti stampigliatura “Genuine Leather – Made in Italy”). Rigetta, Trib. lib. Gorizia, 18/07/2011
Cassazione penale sez. III 24 aprile 2013 n. 39093
Ai fini della configurabilità del reato di vendita di prodotti con segni mendaci (art. 517 c.p.) – che ha per oggetto la tutela dell’ordine economico – è sufficiente la mera imitazione del marchio, non necessariamente registrato o riconosciuto, purché idonea a trarre in inganno l’acquirente sull’origine, qualità o provenienza del prodotto da un determinato produttore.
Cassazione penale sez. V 04 febbraio 2013 n. 9389
Il reato di cui all’art. 517 c.p. è integrato dalla somiglianza del segno distintivo tale da creare confusione nel consumatore mediamente diligente sulla provenienza del prodotto, non essendo necessaria né la registrazione o il riconoscimento del marchio, né la sua effettiva contraffazione né, infine, la concreta induzione in errore dell’acquirente sul bene acquistato. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto configurabile il reato con riferimento alla messa in vendita di un orologio da polso che conteneva dati identificativi ed un marchio molto simili a quello di un modello brevettato). Annulla senza rinvio, App. Napoli, 10/06/2011
informazioni
Cassazione penale sez. III 24 gennaio 2013 n. 28905
Con riguardo, specificamente, ai reati commessi in danno di una società per azioni, si è, altresì, precisato, con orientamento univoco, che il termine di proposizione della querela si individua nel momento in cui il consigliere delegato o l’amministratore unico, titolari del potere di querela, abbiano conoscenza del fatto e del suo autore e possano, quindi, liberamente determinarsi (Sez. 2, n. 48026 del 04/11/2014 Rv. 261326; Sez. 2, n. 10978 del 12/12/2017 (dep. /2018) Rv. 272373), e non rileva, invece, il diverso e antecedente momento nel quale l’informazione del fatto sia pervenuta a ramificazioni periferiche della società (Sez. 5, n. 21889 del 19/04/2010, Rv. 247448). In ogni caso, l’onere della prova dell’intempestività della proposizione della querela incombe su chi la allega e, a tale fine, non è sufficiente affidarsi a semplici presunzioni o supposizioni, ma deve essere fornita una prova contraria rigorosa (Sez. 1, n. 7333 del 28/01/2008 Rv. 239162). A tali principi si è conformata la Corte di appello, la quale ha considerato, dalle dichiarazioni testimoniali del dipendente R., che la conoscenza del fatto, nei suoi elementi oggettivi e certi, non poteva che essere ricondotta a un momento successivo alle indagini svolte dall’amministrazione della società, dopo la iniziale informativa, solo generica e di tipo indiziario, proveniente dal predetto dipendente. Quest’ultimo, infatti, aveva riferito solo al suo diretto superiore (non anche all’amministratore della società) di avere visto, di sfuggita, presso gli stabilimenti FIAT, una chiave dinamometrica come quella prodotta da Atlas. A tanto erano seguiti i necessari accertamenti, di tipo tecnico, finalizzati alla verifica della avvenuta immissione sul mercato di un prodotto concorrenziale, della sottrazione del know how maturato dalla Atlas per la realizzazione del prodotto, e alla individuazione dei possibili autori dell’illecito. Nè i ricorrenti hanno provato il difetto di tempestività della querela, in tal senso risultando non decisive, per quanto sopra osservato, le circostanze indicate, con riguardo al momento in cui il dipendente di Atlas aveva visto la chiave prodotta dai ricorrenti presso FIAT, da datare a prima del 2 marzo 2006 (giorno in cui FIAT aveva restituito la chiave alla S.C.S.), o al più al 6 marzo 2006 in cui era avvenuta la pubblicizzazione della chiave sul sito di S.C.S., essi avendo dimostrato, in tal modo, solo l’epoca di acquisizione della notizia della esistenza di una chiave concorrenziale, ma non della sottrazione del know how.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. V PENALE – SENTENZA 4 giugno 2020, n.16975 – Pres. Scarlini – est. Belmonte
Ritenuto in fatto
1. Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Milano, con la rinuncia alla prescrizione da parte di tutti i ricorrenti, ha riformato parzialmente la decisione del Tribunale di Monza – che aveva riconosciuto T.C., G.S., Gi.Gi. e R.B. colpevoli dei reati di cui alla L. n. 633 del 1941, art. 171 bis (capo A) e art. 623 c.p. (capo B), commessi in concorso – assolvendo tutti gli imputati dal reato sub A), rideterminando la pena per il residuo reato sub B), e confermando le prime statuizioni, sia con riguardo ai benefici di pena, che per quelle in favore della parte civile.
2. I fatti traggono origine dalla denuncia -querela, in data 15 giugno 2007, di ATLAS COPCO BLM s.r.l. (di seguito solo ATLAS), società che si occupa della progettazione, costruzione e commercializzazione di apparecchiature meccaniche, elettroniche e informatiche per il serraggio, il cui mercato di riferimento è costituito da importanti case automobilistiche italiane e estere (FIAT, Mercedes, Audi, Ferrari, Ducati). La società ha realizzato, negli anni, un prodotto tecnologicamente sofisticato, ovvero una chiave dinamometrica, a cui è associato un software denominato Torque supervisor, finalizzato alla gestione dei fissaggi e in generale del parco utensili. Con riguardo alla parte informatica della chiave, la Atlas ha elaborato il c.d. codice sorgente, ovvero l’insieme di istruzioni appartenenti a un determinato linguaggio di programmazione, necessario per la realizzazione tanto del software che del firmware. Gli imputati – che per anni avevano lavorato, con ruoli differenti, all’interno della società, mentre il B. ne era stato consulente esterno – si erano tutti dimessi nel 2006, confluendo in una società di diritto francese costituitasi nel maggio 2005, la S.C.S.. Nel novembre di quello stesso anno, i ricorrenti avevano presentato alla società automobilistica italiana FIAT s.p.a. una chiave dinamometrica commercializzata con il marchio Stanley e Schimizu, già distributori di prodotti ATLAS. Secondo la prospettazione fatta propria dai giudici della Corte di Appello di Milano, tale chiave sarebbe stata realizzata sfruttando le conoscenze acquisite in Atlas, comprese parti del software di controllo Torque supervisor, messo a punto dalla società e sfruttando l’esperienza professionale acquisita dagli imputati negli anni presso detta società.
3. Hanno proposto ricorso per cassazione tutti e quattro gli imputati, con il ministero del medesimo difensore, il quale si affida a quattro motivi.
3.1. Tardività della querela presentata il 15 giugno 2007. Si assume che, dalla querela, dalla documentazione prodotta, e dalle stesse deposizioni testimoniali del legale rappresentante dell’epoca della società Atlas, nonchè dell’impiegato R.S., che per primo aveva visto una chiave prodotta dalla società S.C.S. fotografandola e rendendone edotti i suoi superiori, emergerebbe che Atlas era venuta pienamente a conoscenza dei fatti posti alla base della imputazione ex art. 623 c.p., fin dal 6 marzo 2007, giorno in cui veniva pubblicizzato, sul sito della S.C.S., la chiave in questione.
3.2. Violazione ed erronea applicazione dell’art. 623 c.p., in relazione al D.Lgs. n. 30 del 2005, art. 98, (codice della proprietà industriale) e dell’art. 2 n. 1 Direttiva UE 2016/943 (c.d. Trade Secrets), e correlato vizio della motivazione. Si deduce che il know how non è stato identificato nè è identificabile, ed è comunque privo dei requisiti di tutelabilità di legge, anche in considerazione della totale diversità della chiave prodotta dagli imputati rispetto a quella di ATLAS, sia sotto il profilo dell’hardware che per il software. La sentenza gravata presenta, inoltre, carenze motivazionali ed errori giuridici in ordine ai concetti di ‘notizia destinata a rimanere segreta’, ex art. 623 c.p., e alla nozione stessa di segretezza, come declinata dalla legge. In particolare:
3.2.1. Si contesta la sussistenza del reato sotto il profilo dell’elemento oggettivo e materiale, per mancata individuazione del know how, oggetto della tutela penale, non potendo riconoscersi un tale valore a tutti i processi produttivi o commerciali. Espone la difesa che, come riferito dagli stessi periti, la chiave dinamometrica che si assume replicata dagli imputati, è un prodotto semplice, in commercio da moltissimo tempo, soggetto a continue evoluzioni, per lo più destinata al mercato automobilistico. La commercializzazione delle chiavi da parte di ATLAS aveva reso di pubblico dominio l’asserito know how, perdendo qualsiasi pretesa di tutelabilità. In sostanza, per il genere di prodotto in discussione, non sarebbe prospettabile un know how una volta che il prodotto sia stato posto in commercio. D’altro canto, nessuna motivazione è stata data sul punto dalla Corte di Appello di Milano.
3.2.2. Ancora, si deduce che la sentenza gravata non ha tenuto conto dei tre requisiti, richiesti dalla normativa sia interna che comunitaria ai fini della tutela della segretezza. In realtà, la ATLAS non aveva attuato alcuna misura di tutela della asserita segretezza del proprio know how, non avendo stipulato con i ricorrenti neppure un patto di non concorrenza, nè erano state adottate misure di protezione idonee a delimitare l’accessibilità alle informazioni che, per consolidata giurisprudenza, sono distinte in tecnologiche, organizzative e contrattuali. In carenza di protezione, il preteso know how non risulta tutelabile, e, comunque, secondo quanto riferito dai periti, si tratta di informazioni generalmente note e facilmente accessibili. Come affermato dalla stessa sentenza, il prodotto commercializzato dagli imputati è diverso da quello della ATLAS, sia sotto il profilo tecnico che implementativo, avendo essi posto in essere una chiave concorrenziale; se i prodotti finiti sono diversi anche il know how è differente.
3.2.3. Quanto alla posizione di B., consulente esterno della ATLAS, questi aveva scritto il software nel 1990, prima ancora di collaborare con la BLM, e quindi le informazioni asseritamente segrete appartengono da sempre al suo personale patrimonio di competenze. Nei suoi confronti viene, quindi, invocata la direttiva UE sulla tutela del principio di libera circolazione dei lavoratori, peraltro, garantita dalla Costituzione.
3.3. Con il terzo motivo si eccepisce la nullità dell’ordinanza emessa dalla Corte di appello di Milano in data 16 ottobre 2018, per violazione dell’art. 178, comma 1, lett. c) in relazione all’art. 82 c.p.p., comma 2. Ci si duole del rigetto della richiesta di declaratoria di revoca tacita della costituzione di parte civile, da affermarsi in conseguenza della proposizione di atto di citazione dinanzi al Tribunale di civile di Milano, in data 06 giugno 2018, in ragione della totale coincidenza delle domande risarcitorie nei due diversi giudizi, civile e penale. Si denuncia l’erroneo richiamo, da parte della Corte di appello, dell’art. 75 c.p.p., comma 3, ricorrendo, invece, l’ipotesi disciplinata dall’art. 82, comma 2, a cui avrebbe dovuto conseguire la revoca, da parte della Corte distrettuale, delle statuizioni civili rese in primo grado, compresa la provvisionale, già, peraltro, interamente corrisposta.
3.4. E’ infine dedotto il vizio di motivazione, in quanto del tutto omessa, in ordine alle censure dell’appellante con riguardo alla insussistenza di danno risarcibile, deducendosi che non era stato provato il numero dei clienti ipoteticamente sottratti dalla società S.C.S., facente capo agli imputati, rispetto alla vendita di chiavi dinamometriche; che era emerso che FIAT non le aveva mai acquistate, e che dette chiavi si erano rivelate un fallimento totale per la società degli imputati. D’altro canto, l’importo della liquidata provvisionale è stato calcolato in modo corrispondente al primo giudice, pur a fronte della pronunciata assoluzione dal reato sub A).
4. Con memoria depositata il 22 gennaio 2019 la parte civile costituita, Atlas Copco BLM s.r.l., ha formulato deduzioni sui motivi di ricorso.
4.1. Quanto alla tardività della querela, ha rappresentato che la società aveva acquisito ulteriori elementi indiziari dopo il primo segnale di allarme, rappresentato dalla notizia proveniente da R., e sottoposto gli stessi alle verifiche tecniche, accertamenti finalizzati ad acquisire certezza della sottrazione del know how, e alla individuazione dei responsabili. Tali accertamenti avevano richiesto tempo, come riferito dal teste Ge., amministratore delegato del tempo.
4.2. Con riguardo alle censure in punto di sussistenza del reato di cui all’art. 623 c.p., vengono richiamati gli argomenti che i giudici di merito, nella loro doppia conforme decisione, hanno sviluppato logicamente e coerentemente con i principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza con riferimento alla individuazione del know how, costituito dal nucleo del software Torque Supervisor, considerato patrimonio aziendale di Atlas/BLM, e frutto di anni di elaborazione da parte di BLM per tarare al meglio l’efficienza del prodotto. D’altro canto, si fa rilevare che l’obbligo di segretezza permane anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro, a norma dell’art. 2105 c.c., e, comunque, per la posizione di rilievo nell’organigramma aziendale, rivestita da tutti i ricorrenti, essi non potevano non venire a conoscenza di tutti i dati in cui si articolavano i programmi, conoscenze che non hanno esitato a mettere a disposizione l’uno dell’altro al momento della uscita contestuale a coordinata dalla azienda, e programmata oltre un anno prima; che il fulcro del segreto era rappresentato non dall’algoritmo, ma dal combinato utilizzo all’interno di una chiave dinamometrica, che aveva prodotto una combinazione del tutto originale ottenuta attraverso studi, test e aggiustamenti, frutto di un lavoro di equipe finanziato e governato da Atlas. Del tutto irrilevante e fuorviante sarebbe, inoltre, il richiamo al patrimonio di conoscenze personali dei ricorrenti e alla notorietà delle informazioni.
4.4. In ordine alla asserita diversità dei prodotti, i giudici di merito hanno ben spiegato che il travaso di know how ha riguardato una porzione ben precisa delle informazioni residenti nel software, necessarie per conseguire determinati obiettivi e garantire determinate perfomances, informazioni sfruttate dagli imputati per mettere a punto un analogo risultato a tempo di record.
4.5. Non vi sarebbe alcuna sovrapponibilità della domanda giudiziale attivata in sede civile con la istanza risarcitoria formulata nel giudizio penale, atteso che al Tribunale civile di Milano si è richiesto di accertare le condotte, successive al 2007, riguardanti una nuova linea di chiavi dinamometriche denominate Feedom 3, e prodotti associati, per fatti di usurpazione della proprietà industriale commessi anche da altri soggetti coinvolti nella produzione e distribuzione della nuova linea, oltre che di determinare il quantum del danno accertato nella sede penale.
4.6. Quanto alla consistenza del danno, il Tribunale ha congruamente motivato, distinguendo anche il danno patrimoniale (storno della clientela, per la commercializzazione di prodotto analogo a prezzo inferiore) da quello non patrimoniale (danno all’immagine). Inoltre, nel dibattimento è emerso pacificamente che la Atlas si era determinata ad acquistare la BLM al prezzo di cinque milioni di Euro proprio per acquisire la tecnologia sviluppata da quel know how. D’altro canto, detta tecnologia è stata impiegata per realizzare chiavi poste a disposizione di case automobilistiche di primissimo piano, come la FIAT.
5. Con motivi aggiunti depositati il 24 gennaio 2020 i ricorrenti hanno segnalato di essere stati assolti dal Tribunale di Milano, con sentenza del 22 ottobre 2019, dall’analoga fattispecie di cui all’art. 623 c.p., per rispondere del medesimo fatto riferito alla duplicazione e commercializzazione delle chiavi dinamometriche c.d. di seconda generazione (qui, invece, ci si riferisce a quelle di prima generazione), sulla base del medesimo know how. Evidenzia la difesa che l’assoluzione è stata motivata dalla mancanza di patti di non concorrenza tra le parti e dalla mancata individuazione di informazioni destinate a rimanere segrete.
Considerato in diritto
1. I ricorsi non sono fondati.
2. E’ manifestamente infondata l’eccezione processuale di cui al primo motivo, con cui si fa valere la tardività della querela di Atlas. Premesso che, trattandosi di reato istantaneo, la consumazione del delitto di cui all’art. 623 c.p., si riscontra nel momento in cui il possessore della scoperta/invenzione impiega a suo profitto la stessa, senza autorizzazione del legittimo titolare (Sez. 5, n. 45509 del 04/11/2008, Rv. 242102), secondo il pluriennale orientamento della giurisprudenza di legittimità, ai fini della individuazione del dies a quo per la proposizione della querela, occorre che la persona offesa abbia avuto conoscenza precisa, certa e diretta, sulla base di elementi seri, del fatto-reato nella sua dimensione oggettiva e soggettiva, in modo da essere in possesso di tutti gli elementi di valutazione necessari per determinarsi. Così, nel caso in cui siano svolti tempestivi accertamenti, indispensabili anche per la certa individuazione del soggetto attivo, il termine di cui all’art. 124 c.p., decorre, non dal momento in cui la persona offesa viene a conoscenza del fatto oggettivo del reato, nè da quello in cui, sulla base di semplici sospetti, indirizza le indagini verso una determinata persona, ma dall’esito di tali indagini (Sez. 5, n. 33466 del 09/07/2008, Rv. 241395). Con riguardo, specificamente, ai reati commessi in danno di una società per azioni, si è, altresì, precisato, con orientamento univoco, che il termine di proposizione della querela si individua nel momento in cui il consigliere delegato o l’amministratore unico, titolari del potere di querela, abbiano conoscenza del fatto e del suo autore e possano, quindi, liberamente determinarsi (Sez. 2, n. 48026 del 04/11/2014 Rv. 261326; Sez. 2, n. 10978 del 12/12/2017 (dep. /2018) Rv. 272373), e non rileva, invece, il diverso e antecedente momento nel quale l’informazione del fatto sia pervenuta a ramificazioni periferiche della società (Sez. 5, n. 21889 del 19/04/2010, Rv. 247448). In ogni caso, l’onere della prova dell’intempestività della proposizione della querela incombe su chi la allega e, a tale fine, non è sufficiente affidarsi a semplici presunzioni o supposizioni, ma deve essere fornita una prova contraria rigorosa (Sez. 1, n. 7333 del 28/01/2008 Rv. 239162). A tali principi si è conformata la Corte di appello, la quale ha considerato, dalle dichiarazioni testimoniali del dipendente R., che la conoscenza del fatto, nei suoi elementi oggettivi e certi, non poteva che essere ricondotta a un momento successivo alle indagini svolte dall’amministrazione della società, dopo la iniziale informativa, solo generica e di tipo indiziario, proveniente dal predetto dipendente. Quest’ultimo, infatti, aveva riferito solo al suo diretto superiore (non anche all’amministratore della società) di avere visto, di sfuggita, presso gli stabilimenti FIAT, una chiave dinamometrica come quella prodotta da Atlas. A tanto erano seguiti i necessari accertamenti, di tipo tecnico, finalizzati alla verifica della avvenuta immissione sul mercato di un prodotto concorrenziale, della sottrazione del know how maturato dalla Atlas per la realizzazione del prodotto, e alla individuazione dei possibili autori dell’illecito. Nè i ricorrenti hanno provato il difetto di tempestività della querela, in tal senso risultando non decisive, per quanto sopra osservato, le circostanze indicate, con riguardo al momento in cui il dipendente di Atlas aveva visto la chiave prodotta dai ricorrenti presso FIAT, da datare a prima del 2 marzo 2006 (giorno in cui FIAT aveva restituito la chiave alla S.C.S.), o al più al 6 marzo 2006 in cui era avvenuta la pubblicizzazione della chiave sul sito di S.C.S., essi avendo dimostrato, in tal modo, solo l’epoca di acquisizione della notizia della esistenza di una chiave concorrenziale, ma non della sottrazione del know how.
3. Con l’articolato secondo motivo, come premesso, ci si duole dell’erronea applicazione della norma penale, assumendo la difesa che, per un verso, non sarebbe stato adeguatamente identificato il know how oggetto di protezione, e, per l’altro, che mancherebbe, in ogni caso, il requisito della segretezza, da declinarsi secondo i parametri di cui all’art. 98 del codice della proprietà industriale.
Entrambe le deduzioni non sono fondate.
4. Quanto alla prima, essa è al limite della inammissibilità, chiedendosi al Giudice di legittimità di rivalutare il giudizio di merito espresso dalla Corte territoriale in ordine alla individuazione del c.d. know how di cui gli imputati si sarebbero appropriati. Invero, i giudici merito, prendendo le mosse dalla relazione del perito del Tribunale, Dott. Gironi – che aveva evidenziato la necessità di tenere presente due aspetti del problema: il primo relativo all”usufrutto delle conoscenze software che hanno portato gli imputati a sviluppare un prodotto simile alla concorrenza’; il secondo riguardante, invece, ‘la pura copia delle sorgenti ‘- hanno distinto in modo chiaro la attività di duplicazione del codice sorgente (rilevante ai fini del reato di cui alla L. n. 633 del 1941, art. 171 bis), dal diverso ambito applicativo dell’art. 623 c.p., che oltre a sanzionare l’infedeltà del dipendente, ha ad oggetto la tutela penale del patrimonio cognitivo e organizzativo necessario per la costruzione, l’esercizio e la manutenzione di un apparato industriale (Sez. 5, n. 11965 del 18/02/2010, Rv. 246894).
E così, la Corte di merito ha escluso la duplicazione, da parte degli imputati, del software di Atlas, assolvendoli dal reato di cui all’art. 171 bis della L. n. 633 del 1941, sulla base delle concordi (sul punto) conclusioni a cui erano pervenuti i due periti del Tribunale, da un lato, e i consulenti di parte dall’altro, e cioè per la bassa percentuale di righe copiate dal software Atlas, e, soprattutto, per la genericità delle informazioni acquisite in tal modo, trattandosi, appunto, di ‘algoritmi generici’, di comune conoscenza e di semplice implementazione anche con algoritmi differenti.
5. Con riguardo, invece, al reato di cui all’art. 623 c.p., la Corte distrettuale ha fatto leva sull’orientamento formatosi nella giurisprudenza di legittimità a tenore del quale, in tema di delitti contro la inviolabilità dei segreti, non costituisce condizione, ai fini della configurabilità del reato di rivelazione di segreti industriali, la sussistenza dei presupposti per la brevettabilità, ex art. 2585 c.c., della scoperta o dell’applicazione rivelata (Sez. 5, n. 11965 del 18/02/2010, Rv. 246894), dovendosi ritenere oggetto della tutela penale del reato in questione il ‘segreto industriale’ inteso in senso lato, ovvero ‘quell’insieme di conoscenze riservate e di particolari modus operandi in grado di garantire la riduzione al minimo degli errori di progettazione e realizzazione e dunque la compressione dei tempi di produzione’ (Sez. 5 n. 25008 del 2001 cit., conf. 28882 del 23/05/2003, Rv. 226356). Si è bene messo in luce, infatti, nella sentenza impugnata, che è stato il patrimonio di conoscenze acquisito da Atlas in tre anni di lavoro – con l’impiego di risorse finanziarie rilevanti, e il lavoro di equipe, con il coinvolgimento di diverse competenze tecniche, la ricerca quotidiana, i numerosi test per renderla fruibile ai clienti finali, ovvero le più importanti case automobilistiche mondiali, e adattarle alle esigenze segnalate – a dare luogo alla combinazione del tutto originale confluita nella chiave dinamometrica realizzata dalla società. E’ stata, cioè, quella combinazione, così come individuata dalla parte civile, a consentire ai ricorrenti, avendo incamerato il patrimonio conoscitivo dell’azienda, di mettere a frutto, nel breve volgere di tre mesi, un prodotto tecnologicamente sofisticato e fortemente concorrenziale – che aveva richiesto alla Atlas un elevato impegno economico e di ricerca e tre anni di successiva sperimentazione – e di entrare immediatamente nel mercato in modo competitivo. Si è dato atto che la Atlas, multinazionale del settore, presente in 160 Paesi, consapevole della unicità del prodotto realizzato inizialmente da BLM, ha impegnato qualche milione di Euro per acquistare tale società, ed acquisirne, in tal modo, il know how per la produzione di chiavi dinamometriche di elevate performances, e si è segnalato che lo stesso file Statistics, pur contenendo elementi di per sè generici e comuni, rappresentava, tuttavia, per comune opinione dei periti e consulenti, il frutto di un’elaborazione autonoma da parte di BLM, durata anni, per tarare al meglio l’efficienza del prodotto finale.
In sostanza, gli imputati, usando conoscenze software acquisite durante il rapporto di collaborazione con Atlas Copco, e avvalendosene in modo sleale, hanno potuto comprimere al massimo i tempi di realizzazione di un prodotto fortemente concorrenziale, (trattandosi della chiave più ‘simile’ a quella prodotta da Atlas, tra quelle sul mercato) senza incorrere negli errori nei quali normalmente’ si imbatte chi affronta nuove realizzazioni, con conseguente notevole vantaggio patrimoniale a discapito della società interessata. L’aver sfruttato la ‘combinazione’ dei dati, frutto della esperienza pluriennale di BLM, ha consentito agli imputati di beneficiare del vantaggio temporale connesso ai tempi della ricerca e della sperimentazione di cui neppure hanno dovuto sopportare i costi – vantaggio che, in un sistema capitalistico sempre più connotato dalla velocità, e dalla rapida obsolescenza dei prodotti industriali, assume decisiva rilevanza valoriale del know how, ovvero del ‘patrimonio di conoscenze pratiche non brevettate derivanti da esperienze e da prove’ (art. 1 del regolamento CE 772/04 relativo all’applicazione dell’art. 81 par. 3 del trattato CE a categorie di accordi di trasferimento tecnologico).
5.1. Accanto alla protezione offerta al know how in ambito civilistico, l’ordinamento nazionale offre, grazie anche allo sviluppo della giurisprudenza, protezione anche in sede penale, in particolare, con l’art. 623 c.p., il cui bene giuridico oggetto di tutela è individuato nell’interesse a che non vengano divulgate notizie attinenti ai metodi che caratterizzano la struttura industriale e, pertanto, il c.d. know how, vale a dire – secondo la definizione da tempo affermata dalla giurisprudenza di legittimità – quel patrimonio cognitivo e organizzativo necessario per la costruzione, l’esercizio, la manutenzione di un apparato industriale (Sez. 5, n. 25008 del 18/05/2001, Rv. 219471). Ci si riferisce, con tale espressione, a una tecnica, o una prassi o, oggi, prevalentemente, a una informazione, e, in via sintetica, all’intero patrimonio di conoscenze di un’impresa, frutto di esperienze e ricerca accumulatesi negli anni, e capace di assicurare all’impresa un vantaggio competitivo, e quindi un’aspettativa di un maggiore profitto economico. Si tratta di un patrimonio di conoscenze il cui valore economico è parametrato all’ammontare degli investimenti (spesso cospicui) richiesti per la sua acquisizione e al vantaggio concorrenziale che da esso deriva, in termini di minori costi futuri o maggiore appetibilità dei prodotti. Esso si traduce, in ultima analisi, nella capacità dell’impresa di restare sul mercato e far fronte alla concorrenza. L’informazione tutelata dalla norma in questione è, dunque, un’informazione dotata di un valore strategico per l’impresa, dalla cui tutela può dipendere la sopravvivenza stessa dell’impresa.
5.2. Con l’esplicito riconoscimento dell’estensione della tutela prestata dall’art. 623 c.p., al know-how aziendale – riconducibile alla interpretazione dichiaratamente evolutiva della appena richiamata pronuncia della Corte di Cassazione (Sez. 5 n. 25008/2001 cit. in una fattispecie relativa alla condotta di due dipendenti di una azienda operante nel campo della realizzazione di progetti software che, abbandonato l’impiego, erano passati alle dipendenze di altra ditta, cui avevano conferito le loro specifiche conoscenze per la realizzazione di un macchinario a raggi x destinato all’industria alimentare, realizzato con modalità e caratteristiche essenziali analoghe a quello prodotto nella prima azienda), dettata dalla necessità di tenere conto della sempre più rapida evoluzione tecnologica – il know-how aziendale viene fatto rientrare nel campo di applicazione della norma in quanto riconducibile all’elastica nozione di ‘applicazione industriale’ (oggi assimilabile all’espressione ‘segreto commerciale’, secondo quanto espressamente affermato dal D.Lgs. n. 63 del 2018, art. 9, comma 3), comprensiva – secondo un’opinione risalente e diffusa – di tutte le innovazioni e gli accorgimenti che ‘contribuiscono, comunque, al miglioramento e all’aumento della produzione’, ancorchè siano privi dei requisiti richiesti per la loro brevettazione (in Sez. 5 n. 25008/2001 cit. si legge che il concetto di notizia destinata al segreto va elaborato, sotto l’aspetto oggettivo, con riferimento ‘all’interesse a che non vengano divulgate notizie attinenti ai metodi (di progettazione, produzione e messa a punto dei beni prodotti) che caratterizzano la struttura industriale e, pertanto, il così detto know-how…’). Dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere che la copertura offerta dall’art. 623 c.p., vada oltre quella predisposta dall’ordinamento civilistico all’invenzione brevettabile, e il giudice di legittimità ha più volte affermato che, ai fini della tutela penale del segreto industriale, novità (intrinseca od estrinseca) ed originalità non sono requisiti essenziali delle applicazioni industriali, poichè non espressamente richiesti dal disposto legislativo e perchè l’interesse alla tutela penale della riservatezza non deve necessariamente desumersi da questi attributi delle notizie protette. Già prima del D.Lgs. n. 30 del 2005 era stato ritenuto, invece, fondamentale che le applicazioni industriali non siano state divulgate e che quindi non possano dirsi notorie, non siano cioè a disposizione di un numero indeterminato di persone. Questo vuol dire che, anche se la sequenza delle informazioni, che, nel loro insieme, costituiscono un tutt’uno per la concretizzazione di una fase economica specifica dell’attività dell’azienda, è costituita da singole informazioni di per sè note, ove detta sequenza sia invece non conosciuta e sia considerata segreta in modo fattivo dall’azienda, essa è di per sè degna di protezione e tutela. Non è necessario, cioè, che ogni singolo dato cognitivo che compone la sequenza sia ‘non conosciuto’; è necessario, invece, che il loro insieme organico sia frutto di un’elaborazione dell’azienda. E’ attraverso questo processo, infatti, che l’informazione finale acquisisce un valore economico aggiuntivo rispetto ai singoli elementi che compongono la sequenza cognitiva. E’ ciò che accade, appunto, nel caso di una azienda che adotti una complessa strategia per lanciare un prodotto sul mercato: i suoi singoli elementi sono senz’altro noti agli operatori del settore, ma l’insieme può essere stato ideato in modo tale da rappresentare un qualcosa di nuovo e originale, costituendo, in tal modo, un vero e proprio tesoro dal punto di vista concorrenziale per l’ideatore.
5.3. Per quanto precede, non è possibile operare, – come tende a sostenere la difesa ricorrente – una assimilazione tra il segreto industriale di cui all’art. 623 c.p. e le informazioni segrete aziendali di cui all’art. 98 c.p.i. E’ noto che con il D.Lgs. 11 maggio 2018, n. 63, si è data attuazione alla Direttiva UE 2016/943, disciplinante la protezione del Know-how riservato e delle informazioni commerciali riservate (segreti commerciali) contro l’acquisizione, l’utilizzo e la divulgazione illeciti. Il Parlamento italiano ha scelto, in sede di recepimento della Direttiva (UE) 2016/943, di intervenire anche in sede penalistica, riscrivendo l’art. 623 c.p., al fine di soddisfare le esigenze sorte nella prassi. L’intervento ha riguardato, per quanto qui rileva, da una parte, l’oggetto del segreto, essendosi sotituita, al comma 1, alla formula ‘applicazioni industriali’ l’espressione ‘segreti commerciali’, uniformando la terminologia a quanto previsto dal Codice della proprietà industriale (c.p.i.). Dall’altra, si è inserito un nuovo comma all’art. 623 c.p. e si è strutturato l’illecito di violazione di un segreto commerciale alla stregua di un reato comune, lasciando però la conformazione di reato proprio per le notizie sopra invenzioni o scoperte scientifiche.
5.3.1. Il nostro ordinamento conosce già da tempo una nozione di informazione commerciale strutturata secondo le linee tratteggiate dal contesto sovranazionale, definizione confluita nel 2005 nell’art. 98 del codice della proprietà industriale, oggetto di modifiche solo marginali a seguito del recepimento della disciplina Europea. Infatti, ancora prima del D.Lgs. n. 63 del 2018, a livello normativo, l’ordinamento italiano già declinava, nel D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, artt. 98 e 99, (c.p.i.), una specifica tutela a quelle che venivano definite ‘informazioni segrete’ – ora indicate, invece, come ‘segreti commerciali’ – offrendo da anni una forma di tutela molto simile a quella auspicata dalla Direttiva Europea recepita nell’ordinamento interno con il predetto testo di legge. In realtà, le modifiche apportate alle norme del c.p.i. e anche al codice penale (art. 623 c.p.) lasciano in buona parte intatto l’impianto normativo preesistente, mettendo a disposizione dei titolari delle informazioni segrete alcuni strumenti di tutela ulteriori, e, sostituendo l’espressione ‘informazioni aziendali riservate’ con la dicitura ‘segreti commerciali’, operando un allargamento della platea dei soggetti legittimati a tutelare le proprie informazioni riservate.
5.3.2. Ritiene il Collegio che il tema della possibilità di definire l’oggetto dell’art. 623 c.p. (e in parte anche dell’art. 622 c.p.), mutuandone la descrizione dall’art. 98 c.p.i. – che individua l’oggetto della tutela nelle informazioni aziendali e le esperienze tecnico-industriali, comprese quelle commerciali, soggette al legittimo controllo del detentore, ove tali informazioni: a) siano segrete; b) abbiano valore economico in quanto segrete; c) siano sottoposte, da parte di persone al cui legittimo controllo sono soggette, a misure ragionevolmente adeguate – non possa essere affrontato attribuendo all’art. 98 c.p.i. la funzione di norma integrativa, poichè questo implicherebbe che, al concetto di segreto industriale, come definito da tale norma, possa essere attribuito valore generale. Ma ciò contrasta con il dato che lo stesso codice della proprietà industriale, all’art. 99, facendo salva la disciplina della concorrenza sleale, riconosce l’esistenza di segreti industriali che, pur non rispondendo ai criteri indicati dall’art. 98 c.p.i., sono meritevoli di tutela. Il riferimento alla disciplina della concorrenza sleale, contenuto nell’art. 99, comporta che l’art. 2598 c.c., sia applicabile, in via complementare, qualora gli atti di acquisto, utilizzazione e divulgazione – pur avendo ad oggetto informazioni non qualificabili come ‘informazioni segrete’ per mancanza dei requisiti di cui all’art. 98 c.p.i. soddisfino i requisiti soggettivi e oggettivi prescritti per l’azione di concorrenza sleale, come ad esempio nel caso di sottrazione di dati oggettivamente riservati, per i quali non siano state adottate misure di segretezza.
A tanto si aggiunge, altresì, che il legislatore della novella, pur avendo espressamente affermato, all’art. 9, comma 2, che ‘le notizie destinate a rimanere segrete sopra applicazioni industriali di cui alla formulazione previgente del medesimo art. 623, costituiscono segreti commerciali’, per definire i requisiti del know how, non ha, invece, operato, nel ridefinire la norma penale a tutela del segreto, alcun richiamo all’art. 98 del c.p.i.. Piuttosto, deve registrarsi il recepimento degli indirizzi evolutivi affermati della giurisprudenza, cosicchè, anche dopo l’intervento legislativo del 2018, può escludersi che il concetto penalistico di segreto soffra interferenze ad opera di quello ricavabile dall’art. 98 del codice di proprietà industriale (in tal senso Cass. Pen., Sez. 2, 11 maggio 2010, n. 20647; Sez. 5 n. 48895 del 20/09/2018, entrambe non mass.), risultando accolta, dall’art. 623 c.p., una nozione di segreto commerciale più ampia di quella descritta dall’art. 98 c.p.i.. Questo comporta che, se l’art. 98 c.p.i. non è norma idonea a definire i confini applicativi della fattispecie previsti dall’art. 623 c.p. – potendosi riscontrare, invece, solo una mera identità terminologica nel riferimento ai ‘segreti commerciali’, non sufficiente per giustificare una assimilazione anche della disciplina, in due settori diversi e indipendenti dell’ordinamento – tuttavia, in presenza di un know-how avente i requisiti previsti dall’art. 98 c.p.i., potrà accordarsi la tutela prevista dall’art. 623 c.p., trattandosi di notizie segrete ed essendovi un interesse giuridicamente tutelato al mantenimento del segreto. Laddove, invece, non sussistano i requisiti previsti dall’art. 98 c.p.i., dovrà individuarsi aliunde l’esistenza di un interesse giuridicamente apprezzabile al mantenimento del segreto.
5.3.3. Tale interesse, nella vicenda in scrutinio, è stato adeguatamente individuato dai giudici di merito laddove hanno posto in evidenza che la società Atlas, pur essendo presente con migliaia di stabilimenti in centinaia di paesi nel mondo, aveva deciso di acquistare la società BLM, con un esborso di diversi milioni di Euro, per acquisire la tecnologia avanzata elaborata da quest’ultima, e potere così immettere sul mercato un prodotto caratterizzato da altissimi standard tecnologici, non reperibile altrimenti sul mercato industriale. Efficacemente, il Tribunale ha riportato le dichiarazioni dell’A.D. della Atlas, G. (pg. 22) il quale, in sintesi, aveva spiegato che la ragione principale dell’acquisto di BLM da parte di Atlas era rappresentata proprio dal know how sviluppato dalla società, poi successivamente elaborato da Atlas. Come evidenziato dai giudici di merito, tale circostanza, e le ragioni di un siffatto agire da parte di Atlas, erano note gli imputati, che hanno potuto.adeguatamente apprezzare la riservatezza delle informazioni costituenti il know how di BLM prima e Atlas poi, alla luce delle posizioni apicali da loro rivestite all’interno di Atlas, e della condotta complessivamente da loro tenuta, per come ricostruita dalla Corte di Appello.
5.4. E’ infondata anche la doglianza sviluppata nell’interesse di B., consulente esterno della ATLAS, per avere questi scritto il software nel 1990, prima ancora di collaborare con la BLM, circostanza sulla base della quale si deduce che le informazioni asseritamente segrete appartengono da sempre al suo personale patrimonio di competenze, e si invoca nei suoi confronti la direttiva UE sulla tutela del principio di libera circolazione dei lavoratori, peraltro, garantita dalla Costituzione. Come si è ampliamente esplicitato, infatti, secondo la ricostruzione dei giudici di merito, l’oggetto specifico della violazione, nel caso in scrutinio, non ha riguardato l’appropriazione del software, ma il complesso delle informazioni ulteriori e successivamente acquisite dalla società Atlas, che ha portato alla elaborazione di un know how originale e altamente sofisticato. Bagaglio di conoscenze che il ricorrente, al pari degli altri coimputati, ha acquisito nel corso del suo rapporto alle dipendenze della società Atlas.
6. Anche il terzo motivo è infondato, poichè, nell’ordinanza impugnata, la Corte di appello ha dato atto della diversità dell’oggetto della causa proposta in sede civile da Atlas Copco BLM s.r.l., in quanto riferita a condotte degli imputati successive a quelle qui in scrutinio, e, in ogni caso, della sussistenza delle condizioni di cui all’art. 75 c.p.p., comma 3. La statuizione della Corte di appello è corretta, posto che, per affermata giurisprudenza di questa Corte, la revoca della costituzione di parte civile, prevista dall’art. 82 c.p.p., comma 2, per il caso in cui l’azione venga promossa anche davanti al giudice civile, si verifica solo quando sussiste coincidenza fra le due domande, ed è finalizzata ad escludere la duplicazione dei giudizi. (Sez. 4, n. 3454 del 19/12/2014 – dep. 2015, Rv. 261950; Sez. 5, n. 21672 del 16/02/2018, Rv. 273027). Situazione che, come premesso, nel caso di specie, è stata esclusa dalla Corte territoriale.
6.1. D’altro canto, l’azione risarcitoria è stata promossa dinanzi al giudice civile solo nel 2018, ovvero in epoca ben successiva alla sentenza penale di primo grado, pronunciata all’udienza del 25 marzo 2014; sicchè, correttamente, la Corte territoriale, nella ordinanza in scrutinio, ha richiamato la previsione di cui all’art. 75 c.p.p., comma 3. Come chiarito dalla giurisprudenza civile di questa Corte, infatti, nell’ordinamento processuale vigente, l’unico mezzo preventivo di coordinamento tra il processo civile e quello penale è costituito dall’art. 75 c.p.p., il quale esaurisce ogni possibile ipotesi di sospensione del giudizio civile per pregiudizialità, ponendosi come eccezione al principio generale di autonomia, al quale s’ispirano i rapporti tra i due processi, con il duplice corollario della prosecuzione parallela del giudizio civile e di quello penale, senza alcuna possibilità di influenza del secondo sul primo, e dell’obbligo del giudice civile di accertare autonomamente i fatti. La sospensione necessaria del giudizio civile è pertanto limitata all’ipotesi in cui l’azione in sede civile sia stata proposta dopo la costituzione di parte civile nel processo penale, prevedendosi, nel caso inverso, la facoltà di trasferire l’azione civile nel processo penale, il cui esercizio comporta la rinuncia ‘ex lege’ agli atti del giudizio civile, ovvero la prosecuzione separata dei due giudizi. (Sez. 6 – 3 civ., Ordinanza n. 26863 del 22/12/2016 -Rv. 641936 01), atteso che esclusivamente in tali casi si verifica una concreta interferenza del giudicato penale nel giudizio civile, non potendosi pervenire anticipatamente ad un esito potenzialmente difforme da quello penale in ordine alla sussistenza di uno o più dei comuni presupposti di fatto. (Sez. 6 – 3 civ., Ordinanza n. 23516 del 17/11/2015, Rv. 637751 – 01).
7. E’ manifestamente infondato il quarto motivo, che ha riguardo alle statuizioni risarcitorie. Si duole la difesa dell’omessa motivazione in ordine alle censure, prospettate con il nono motivo dell’atto di appello, con le quali si era contestata la sussistenza del danno in capo alla parte civile. L’eccezione, tuttavia, non tiene conto del richiamo effettuato dalla Corte di appello alla specifica motivazione offerta, sul punto, dalla sentenza di primo grado che ha riscontrato sia il danno patrimoniale (individuato nello storno della clientela a seguito della commercializzazione parassitaria di prodotti concorrenziali a costi inferiori rispetto ai prezzi di mercato, con conseguente incidenza sul fatturato della stessa ATLAS COPCO BLM S. r.l..), risultante dalle fatture in atti, sia quello non patrimoniale, consistito nel danno all’immagine imprenditoriale patito dalla parte civile per essere stata screditata dai propri collaboratori, ponendo sul mercato un prodotto alternativo a quello della società presso cui avevano lavorato fino a pochi mesi prima. In tal modo, la difesa ricorrente si scontra con il consolidato principio regolatore declinato ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione nel caso in cui ricorra la cd. ‘ doppia conforme’, ovvero quando la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si saldi con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest’ultima sia adottando gli stessi criteri utilizzati nella valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale (Sez. 2 n. 37295 del 12/06/2019 Rv. 277218): la motivazione della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico e inscindibile al quale occorre fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione Sez. 2, n. 12220 del 13/11/1997, Ambrosino; conf. ex plurimis, Sez. 6 n. 23248 del 07/.02/2003, Zanotti; Sez. 6 n. 11878 del 20/01/2003, Vigevano, sez. 2 n. 18847 del 15/05/2008).
7.1. Del pari inammissibile è la questione relativa alla pretesa eccessività della somma di danaro liquidata a titolo di provvisionale, non deducibile nel giudizio di legittimità in quanto trattasi di decisione di natura discrezionale, meramente delibativa e non necessariamente motivata (Sez. 5 n. 32899 del 25/05/2011, Rv. 250934). Non si ritiene ammissibile l’impugnazione con ricorso per cassazione della statuizione con cui è stata concessa una provvisionale alla parte civile nè sull’an (Sez. 5, n. 5001 del 17/01/2007, Mearini, Rv. 236068), nè sul quantum (Sez. 4, n. 34791 del 23/06/2010, Mazzannurro, Rv. 248348), trattandosi di provvedimento per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinato ad essere travolto dall’effettiva liquidazione dell’integrale risarcimento. (Sez. U. n. 2246 del 19/12/1990, Capelli, Rv. 186722; conf. Sez. 6 n. 50746 del 14/10/2014, Rv. 261536; Sez. 2 n. 49016 del 06/11/2014, Rv. 261054).
7.2. Giova aggiungere che la sentenza impugnata ha, per un verso, rilevato che la misura liquidata dal Tribunale non subiva alcuna ripercussione dalla intervenuta assoluzione per il reato di cui al capo A), ‘posto che il danno lamentato dalla parte civile deriva proprio dalla condotta di cui all’art. 623 c.p.’, e, per altro, ha correttamente valutato che, in tema di risarcimento del danno, la liquidazione dei pregiudizi morali, attesa la loro natura, non può che avvenire in via equitativa, trattandosi di danni che, per definizione, sfuggono a una esatta determinazione, sicchè la dazione di una somma di danaro così determinata, per tali danni, non è reintegratrice di una diminuzione patrimoniale, ma compensativa di un pregiudizio non economico, dovendosi ritenere assolto l’obbligo motivazionale mediante l’indicazione di fatti materiali tenuti in considerazione e del percorso logico posto alla base della decisione, senza che sia necessario indicare analiticamente in base a quali calcoli è stato determinato l’ammontare del risarcimento (Sez. 4 n. 18099 del 01/04/2015, Rv. 263450; Sez. 6 n. 48086 del 12/09/2018, Rv. 274229).
7.3. La valutazione della Corte di merito si sottrae, dunque, al sindacato di legittimità, in quanto la motivazione esposta per giustificare il convincimento è sviluppata in modo adeguato agli esiti istruttori, in coerenza con gli orientamenti affermati, nella materia, da questo consesso nomofilattico e con argomentazioni che non evidenziano fratture logiche.
8. Al rigetto segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Condanna i ricorrenti in solido alla refusione in favore della parte civile Atlas Copco BLM s.r.l. delle spese del grado che liquida in Euro 4.000,00, oltre accessori di legge.
Si dà atto che il presente provvedimento è sottoscritto dal solo presidente del collegio per impedimento dell’estensore, ai sensi del D.P.C.M. 8 marzo 2020, art. 1, comma 1 lett. a).
Originally posted 2020-11-18 15:03:25.