DIFFAMAZIONE FACEBOOK – DIFFAMAZIONE BOLOGNA  

DIFFAMAZIONE FACEBOOK-DIFFAMAZIONE BOLOGNA

La diffamazione è un reato previsto dall’articolo 595 del codice penale italiano, che punisce chiunque “comunicando con più persone offende l’altrui reputazione”.

La diffamazione su Facebook si configura quando una persona pubblica un post o un commento che contiene delle accuse o delle insinuazioni false o denigratorie nei confronti di un’altra persona, e tale post o commento viene letto da più persone.

Perché la diffamazione su Facebook possa essere configurata come reato, è necessario che sussistano i seguenti elementi:

  • La comunicazione: la diffamazione deve essere comunicata con più persone, anche se queste sono solo una limitata cerchia di amici o conoscenti.
  • L’offesa alla reputazione: la comunicazione deve contenere delle accuse o delle insinuazioni false o denigratorie che possono ledere la reputazione della persona offesa.
  • L’offesa a più persone: la comunicazione deve essere destinata a essere letta da più persone, anche se in realtà viene letta da un numero inferiore.

La diffamazione su Facebook si configura come un reato aggravato, ai sensi dell’articolo 595, comma 3, del codice penale, perché il social network ha una capacità di diffusione molto ampia.

Le pene previste per la diffamazione su Facebook sono la reclusione fino a un anno o la multa fino a 1.032 euro.

In caso di diffamazione su Facebook, la persona offesa può sporgere denuncia presso la polizia o la procura della Repubblica.

Ecco alcuni esempi di diffamazione su Facebook:

  • Pubblicare un post in cui si accusa una persona di essere un ladro o un truffatore.
  • Pubblicare un commento in cui si insinua che una persona sia un adultero o una prostituta.
  • Pubblicare una foto o un video in cui si ritrae una persona in una situazione compromettente.

È importante ricordare che la diffamazione è un reato grave che può avere conseguenze negative per la persona offesa, sia sul piano personale che professionale.

 

Argomenta che il Tribunale del riesame avrebbe confermato la sussistenza delle esigenze cautelari senza valutare in maniera adeguata la concretezza ed attualita’ delle stesse ne’ tenuto conto che l’ordinanza cautelare era stata annullata con riferimento al reato contestato al capo c) dell’imputazione provvisoria; la motivazione sarebbe, poi, apparente in ordine al pericolo di inquinamento probatorio e non terrebbe conto della mancata fissazione della data di scadenza della misura in relazione alle indagini da compiere; il Tribunale, inoltre, avrebbe ritenuto, con motivazione insufficiente, sussistere il pericolo di fuga evincendolo solo dalla gravita’ del titolo di reato per cui si precede.

MA DIFFAMARE SUI SOCIAL E DIFFAMAZIONE MEZZO STAMPA?

 

CHIAMA SUBITO L’AVVOCATO PENALISTA ESPERTO

 

 

Secondo la giurisprudenza di questa Corte la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca facebook integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 c.p., comma 3, sotto il profilo dell’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa, poichè la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone e tuttavia non può dirsi posta in essere “col mezzo della stampa”, non essendo i social network destinati ad un’attività di informazione professionale diretta al pubblico (Sez. 5, n. 4873 del 14/11/2016 – dep. 2017, P.M. in proc. Manduca, Rv. 269090.

 

DIFFAMAZIONE FACEBOOK-DIFFAMAZIONE BOLOGNA   MA DFFAMARE SUI SOCIAL E’ DIFFAMAZIONE MEZZO STAMPA?

 La questione sottoposta allo scrutinio di legittimità esige che sia richiamata la lezione ermeneutica impartita da questa Corte che, nei suoi numerosi arresti, ha ricondotto alla categoria dell’abnormità non solo il provvedimento che, per la sua singolarità, non sia inquadrabile nell’ambito dell’ordinamento processuale, ma anche quello che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite (Sez. U, n. 11 del 09/07/1997 – dep. 31/07/1997, Quarantelli, Rv. 20822101; Sez. 6, n. 2121 del 11/06/1998 – dep. 21/07/1998, Villacidro, Rv. 211315; Sez. 1, n. 4023 del 11/06/1996 – dep. 25/07/1996, Settegrana, Rv. 20535801; Sez. 5, n. 182 del 13/01/1994 – dep. 11/02/1994, Marino, Rv. 197091). Siffatta fenomenologia patologica può riguardare, quindi, tanto il profilo strutturale, allorchè, per la sua singolarità, il provvedimento emesso si ponga, appunto fuori del sistema organico della legge processuale, quanto il profilo funzionale, quando, pur se non estraneo al sistema normativo, determini la stasi del processo e l’impossibilità di proseguirlo, provocando, ad esempio, una indebita regressione del procedimento in grado di alterarne l’ordinata sequenza logico-cronologica (Sez. U, n. 5307 del 20/12/2007 – dep. 01/02/2008, P.M. in proc. Battistella, Rv. 23824001; Sez. U, n. 17 del 10/12/1997 – dep. 12/02/1998, Di Battista, Rv. 20960301; Sez. 3, n. 2853 del 14/07/1995 – dep. 08/09/1995, Beggiato ed altri, Rv. 20540601; Sez. 5, n. 1465 del 11/03/1994 – dep. 18/04/1994, P.M. in proc. Luchino ed altro, Rv. 19799901).

. Così delineato, in termini generali, il problema, poiché, dunque, l’abnormità non inerisce a quei provvedimenti che, ancorché eventualmente adottati in violazione di specifiche norme, rientrano tra gli atti tipici dell’ufficio che li adotta (Sez. 2, n. 5180 del 05/11/1999 – dep. 15/12/1999, Saraceno, Rv. 21518401), l’ordinanza impugnata non può essere qualificata come abnorme, costituendo, piuttosto, l’espressione del potere – attribuito al giudice dell’udienza preliminare – di controllo sulla qualificazione giuridica del fatto: potere che rimane legittimamente esercitato pur se in maniera non corretta in conseguenza dell’erronea interpretazione di una norma giuridica. Tale conclusione, cui il Collegio ritiene di prestare adesione, si appalesa, peraltro, in linea con quanto stabilito da questa Corte nella decisione di casi del tutto sovrapponibili, nei quali è stato formulato il principio di diritto secondo cui non è abnorme il provvedimento con cui il giudice dell’udienza preliminare dispone la restituzione degli atti al pubblico ministero, ancorché sull’erroneo presupposto della qualificazione del fatto come reato procedibile a citazione diretta (Sez. 5, n. 30834 del 3/07/2014 – dep. 11/07/2014, P.M. Trib. Salerno, non mass.; Sez. 1, n. 47766 del 06/11/2008 -dep. 23/12/2008, Lungari, Rv. 242747): “tanto perchè il giudice dell’udienza preliminare, come ogni altro giudice di fronte alla richiesta delle parti, ha il potere-dovere, quale espressione indefettibile del principio di legalità e della funzione di ius dicere, di dare al fatto contestato una diversa definizione o qualificazione giuridica, riconducendo così la fattispecie concreta allo schema legale che le è proprio. E ciò in forza della valenza generale della regola contenuta nell’art. 521 c.p.p. , comma 1, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale e delle Sezioni unite di questa Corte di legittimità” (Sez. 6, n. 41037 del 20/10/2009 – dep. 26/10/2009, Betti, Rv. 24503301).

L’interpretazione proposta dal Collegio si pone, peraltro, in linea di continuità con la soluzione cui sono pervenute le Sezioni Unite di questa Corte, che, nella sentenza n. 31022 del 29/01/2015 – dep. 17/07/2015, Fazzo e altro, Rv. 26409001, dopo avere affermato la legittimità di una interpretazione evolutiva e costituzionalmente orientata del termine “stampa” – così da estendere alle testate giornalistica telematiche le guarentigie di rango costituzionale e di livello ordinario assicurate a quelle tradizionali in formato cartaceo – hanno ritenuto necessario chiarire che l’esito di tale operazione ermeneutica non può riguardare tutti in blocco i nuovi mezzi, informatici e telematici, di manifestazione del pensiero (forum, blog, newsletter, newsgroup, mailing list, pagine Facebook), ma deve rimanere circoscritto a quei soli casi che, per i profili, strutturale e finalistico, che li connotano, sono riconducibili nel concetto di “stampa” inteso in senso più ampio. Il più autorevole Consesso ha, quindi, spiegato che: “Deve tenersi ben distinta l’area dell’informazione di tipo professionale, veicolata per il tramite di una testata giornalistica on line, dal vasto ed eterogeneo ambito della diffusione di notizie ed informazioni da parte di singoli soggetti in modo spontaneo”, ed ha concluso, quindi, con il precisare che: “Anche il social-network più diffuso, denominato Facebook, non è inquadrabile nel concetto di “stampa””, essendo: “un servizio di rete sociale, basato su una piattaforma software scritta in vari linguaggi di programmazione, che offre servizi di messaggistica privata ed instaura una trama di relazioni tra più persone all’interno dello stesso sistema”.

 

 

VIOLAZIONE DEGLI OBBLIGHI DI ASSISTENZA FAMIGLIARE

 

 

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Sentenza 5 novembre 2018 – 22 gennaio 2019, n. 2929

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FUMO Maurizio – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. – rel. Consigliere –

Dott. CATENA Rossella – Consigliere –

Dott. CALASELICE Barbara – Consigliere –

Dott. MOROSINI Elisabetta M. – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

G.C. nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 06/06/2017 della CORTE APPELLO di MILANO;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE SCOTTI;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale SECCIA DOMENICO, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità.

Svolgimento del processo

  1. La Corte di appello di Milano con sentenza del 6/6/2017 ha confermato la sentenza del Tribunale di Monza del 21/4/2015, appellata dall’imputato G.C., che, all’esito di giudizio abbreviato, l’aveva ritenuto responsabile del reato di diffamazione aggravata ex art. 595 c.p., comma 3, in relazione alla pubblicazione di espressioni offensive e diffamatorie sul blog “(OMISSIS)”, postate dall’imputato o da terzi e non opportunamente filtrate, e, concessegli le attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante, l’aveva perciò condannato alla pena di Euro 500,00 di multa e al risarcimento dei danni, liquidati in Euro 2.000,00 ciascuno, e al pagamento delle spese processuali in favore delle parti civili C.M. e C.A..

2. Ha proposto ricorso l’avv. Antonio Lucio Abbondanza, difensore di fiducia dell’imputato, svolgendo quattro motivi.

2.1. Con il primo motivo, proposto ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), il ricorrente lamenta violazione della legge penale in relazione agli artt. 125, 494, 192, 530 e 546 cod. proc. pen. e art. 110 c.p. e art. 595 c.p., comma 3, nonchè mancanza e contraddittorietà della motivazione.

La contraddittorietà della motivazione in ordine al ravvisato concorso dell’imputato nel reato di diffamazione emergeva dalla stessa sentenza.

Il blog è un diario virtuale, pubblicato su internet e periodicamente aggiornato dall’autore del sito, ove vengono pubblicati interlocuzioni dei lettori, dirette ad esporre commenti e riflessioni generalmente correlati agli interventi del blogger; solo in alcuni casi tali commenti sono filtrati, più spesso vengono immessi direttamente dai lettori senza intervento da parte del blogger.

La Corte territoriale non aveva considerato le osservazioni difensive ed aveva ravvisato la responsabilità concorsuale dell’imputato per l’erronea circostanza del filtro da lui operato ai commenti dei lettori.

A tal fine la Corte aveva dato rilievo alle dichiarazioni spontanee rese dal G. in dibattimento, inutilizzabili ex art. 494 cod. proc. pen..

Tale vizio non era superabile con il riferimento introdotto a quanto ammesso dall’imputato in sede di interrogatorio davanti al Pubblico Ministero, da cui non risultava affatto tale circostanza, mentre l’imputato aveva assunto di effettuare accessi solo sporadici e di non aver collocato filtri automatici di blocco di commenti o frasi ingiuriose.

2.2. Con il secondo motivo, proposto ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), il ricorrente lamenta violazione della legge penale in relazione agli artt. 125, 192, 530 e 546 cod. proc. pen. e art. 110 c.p. e art. 595 c.p., comma 3, nonchè mancanza e contraddittorietà della motivazione.

L’aggravante della commissione del reato a mezzo stampa era stata ravvisata in assenza di alcuna motivazione, nonostante specifico motivo di appello presentato dalla difesa, mentre il blog non poteva essere giuridicamente equiparato alla stampa.

2.3. Con il terzo motivo, proposto ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), il ricorrente lamenta violazione della legge penale in relazione agli artt. 125, 192, 529, 530 e 546 cod. proc. pen. e art. 110 c.p. e art. 595 c.p., comma 3, nonchè mancanza e contraddittorietà della motivazione.

La Corte territoriale aveva rigettato la richiesta di emettere sentenza ex art. 529 cod. proc. pen. per la mancanza di autenticità delle pagine stampate da Internet e allegate alla querela delle persone offese.

Non erano state prese in esame le allegazioni difensive imperniate sulla deposizione del perito di parte dott. A. circa la mancanza di autenticità degli atti, non essendo stata raccolta con le dovute garanzie, stante la natura volatile e trasformabile delle informazioni tratte da una rete telematica.

2.4. Con il quarto motivo, proposto ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), il ricorrente lamenta mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, in relazione alla liquidazione del danno all’immagine delle parti civili, effettuata nonostante la ravvisata equivocità della vicenda relativa alla designazione dello scrutatore, in una somma incongrua rispetto all’eco dell’evento e alla piccola realtà in cui i fatti si erano verificati.

3. Con memoria ex art. 611 cod. proc. pen. depositata il 22/10/2018 l’avv. Chiara Motta, difensore di fiducia di C.M. e C.A., ha chiesto il rigetto del ricorso, con rifusione delle spese del grado, argomentando in ordine alla ritenuta infondatezza dei motivi proposti.

Motivi della decisione

  1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta violazione della legge penale in relazione agli artt. 125, 494, 192, 530 e 546 cod. proc. pen. e art. 110 c.p. e art. 595 c.p., comma 3, nonchè mancanza e contraddittorietà della motivazione, asseritamente emergente dalla stessa sentenza.1.1. Il ricorrente ricorda che il blog è un diario virtuale, pubblicato su internet e periodicamente aggiornato dall’autore del sito, ove vengono pubblicati interventi dialoganti dei lettori, diretti ad esporre commenti e riflessioni e generalmente correlati agli interventi del blogger.Il ricorrente aggiunge che solo in alcuni casi tali commenti sono filtrati e più spesso vengono immessi direttamente dai lettori senza intervento da parte del blogger.1.2. Il termine blog è la contrazione di web-log, ovvero “diario in rete”.Si tratta di un particolare tipo di sito web in cui i contenuti vengono visualizzati in forma anti-cronologica (dal più recente al più lontano nel tempo), in genere gestito da uno o più blogger, che pubblicano, più o meno periodicamente, contenuti multimediali, in forma testuale o in forma di post, concetto assimilabile o avvicinabile a un articolo di giornale.I tratti strutturali comuni ai blog riguardano principalmente il fatto che si tratta di “diari in rete”: i testi sono forniti di data e sono presenti sulla pagina web in ordine anticronologico (prima i messaggi più recenti) e la maggior parte delle volte sono introdotti da un titolo.Il singolo intervento (articolo, pensiero, contenuto multimediale, ecc.) inserito dal blogger viene definito post e l’applicazione utilizzata permette di creare i nuovi post identificandoli con un titolo, la data di pubblicazione e alcune parole chiave (tag).Qualora l’autore del blog lo permetta, ovvero abbia configurato in questa maniera il blog, al post possono seguire i commenti dei lettori del blog.1.3. Secondo il ricorrente, la Corte territoriale non aveva considerato le sue osservazioni difensive ed aveva ravvisato la responsabilità concorsuale dell’imputato per l’erronea circostanza del filtro da lui operato ai commenti dei lettori.A tal fine la Corte aveva dato rilievo alle dichiarazioni spontanee rese dal G. in dibattimento, che erano invece inutilizzabili ex art. 494 cod. proc. pen..L’assunto del ricorrente non è adeguatamente precisato.

    L’art. 494 codice di rito nel prevedere la facoltà dell’imputato di rendere in ogni stato del dibattimento le dichiarazioni spontanee che ritiene opportune, purchè riferite all’oggetto dell’imputazione e non tali da intralciare l’istruzione dibattimentale, non prevede alcuna forma di inutilizzabilità probatoria del loro contenuto; esse costituiscono normalmente uno strumento di auto-difesa, ma non si può certo escludere che possano assumere valenza confessoria o comunque contenere elementi di prova a carico dell’imputato.

    Se poi la legge esclude che possano essere rivolte contestazioni o domande delle parti e del Giudice, non può ritenersi preclusa la facoltà del Giudice di chiedere all’imputato di precisare o chiarire il significato e la portata di dichiarazioni altrimenti oscure o non facilmente comprensibili.

    Il ricorrente sembra dolersi del fatto che l’elemento a lui sfavorevole desunto dalle sue dichiarazioni sia scaturito da una domanda rivolta dal Giudice, ma la censura è totalmente generica e non autosufficiente, poichè il ricorrente non ricostruisce, neppure per sommi capi, l’andamento delle sue dichiarazioni e l’oggetto del dialogo asseritamente intervenuto con il Giudice di primo grado.

    1.4. Il Giudice di primo grado, a pagina 11, inoltre aveva attribuito rilievo al costante controllo del blog da parte del G. nei due giorni che venivano in rilievo, ai suoi interventi ripetuti a risposta dei commenti da altri inseriti, con interventi polemici e a volte offensivi, diretti a fomentare il dibattito, ed inoltre al fatto che il G. non aveva mai cancellato i post diffamatori inseriti da terzi e non aveva preso le distanze di essi, continuando a mantenerli fruibili dal pubblico.

    1.5. Secondo il ricorrente il vizio non era superabile, come aveva ritenuto possibile la Corte di appello, con il riferimento introdotto a quanto ammesso dall’imputato in sede di interrogatorio in data 4/10/2012 davanti al Pubblico Ministero, da cui non risultava affatto tale circostanza, mentre l’imputato aveva assunto di effettuare accessi solo sporadici e di non aver collocato filtri automatici di blocco di commenti o frasi ingiuriose.

    La contestazione del ricorrente alla ricostruzione delle sue dichiarazioni è autoreferenziale e apodittica, nel rimproverare, nella sostanza, alla Corte territoriale, un travisamento della prova, senza adempiere agli oneri di specificità e autosufficienza, allegando o almeno riportando integralmente il contenuto delle dichiarazioni.

    1.6. Ai fini della configurabilità del vizio di travisamento della prova dichiarativa, è necessario che la relativa deduzione abbia un oggetto definito e inopinabile, tale da evidenziare la palese e non controvertibile difformità tra il senso intrinseco della dichiarazione e quello tratto dal giudice, con conseguente esclusione della rilevanza di presunti errori da questi commessi nella valutazione del significato probatorio della dichiarazione medesima (Sez. 5, n. 8188 del 04/12/2017 – dep. 2018, Grancini, Rv. 272406; Sez. 4, n. 1219 del 14/09/2017 – dep. 2018, Colomberotto, Rv. 271702; Sez. 5, n. 9338 del 12/12/2012 – dep. 2013, Maggio, Rv. 255087); si tratta dell’errore cosiddetto “revocatorio”, che cadendo sul significante e non sul significato della prova si traduce nell’utilizzo di una prova inesistente per effetto di una errata percezione di quanto riportato dall’atto istruttorio (Sez. 5, n. 18542 del 21/01/2011, Carone, Rv. 250168).

    In forza della regola della autosufficienza del ricorso, operante anche in sede penale, il ricorrente che intenda dedurre in sede di legittimità il travisamento di una prova testimoniale ha l’onere di suffragare la validità del suo assunto mediante la completa trascrizione dell’integrale contenuto delle dichiarazioni rese dal testimone, non consentendo la citazione di alcuni brani delle medesime l’effettivo apprezzamento del vizio dedotto (Sez. 1, n. 25834 del 04/05/2012, P.G. in proc. Massaro, Rv. 253017; Sez. 4, n. 37982 del 26/06/2008, Buzi, Rv. 241023; Sez. 1, n. 20344 del 18/05/2006, Salaj, Rv. 234115; Sez. 1, n. 20370 del 20/04/2006, Simonetti ed altri, Rv. 233778; Sez. F, n. 37368 del 13/09/2007, Torino, Rv. 237302).

    2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta violazione della legge penale in relazione agli artt. 125, 192, 530 e 546 cod. proc. pen. e art. 110 c.p. e art. 595 c.p., comma 3, e mancanza e contraddittorietà della motivazione.

    2.1. L’aggravante della commissione del reato a mezzo stampa era stata ravvisata in assenza di alcuna motivazione, nonostante specifico motivo di appello presentato dalla difesa, mentre il blog non poteva essere giuridicamente equiparato alla stampa.

    2.2. L’equivoco in cui incorre il ricorrente è evidente.

    Il Giudice di primo grado, alle pagine 6 e seguenti della sentenza di primo grado, ha diffusamente argomentato, fra l’altro in modo ineccepibile e alla luce della giurisprudenza di questa Corte, per escludere l’equiparazione del blog all’attività di stampa e ha fatto leva su tali principi per negare una responsabilità del gestore di blog equiparabile a quella propria del direttore responsabile ex art. 57 cod. pen..

    E’ stata invece ravvisata nell’uso della rete Internet l’aggravante dell’uso di uno strumento di pubblicità, pure prevista dalla seconda ipotesi dell’art. 595 cod. pen., comma 3 che in effetti prevede tre ipotesi alternative di aggravamento del reato in relazione al mezzo con cui è arrecata l’offesa: a) col mezzo della stampa, b) con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, c) in atto pubblico.

    2.3. Tale valutazione era del tutto corretta.

    Secondo la giurisprudenza di questa Corte la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca facebook integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 c.p., comma 3, sotto il profilo dell’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa, poichè la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone e tuttavia non può dirsi posta in essere “col mezzo della stampa”, non essendo i social network destinati ad un’attività di informazione professionale diretta al pubblico (Sez. 5, n. 4873 del 14/11/2016 – dep. 2017, P.M. in proc. Manduca, Rv. 269090.

    2.4. La Corte di appello ha confermato la decisione di primo grado, mentre l’appellante non aveva affatto censurato con apposito e specifico motivo l’applicazione dell’aggravante in questione, con la conseguente preclusione ex art. 606 c.p.p., comma 3.

    3. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta violazione della legge penale in relazione agli artt. 125, 192, 529, 530 e 546 cod. proc. pen. e art. 110 c.p. e art. 595 c.p., comma 3, nonchè mancanza e contraddittorietà della motivazione.

    3.1. La Corte territoriale aveva rigettato la richiesta di emettere sentenza ex art. 529 cod. proc. pen. per la mancanza di autenticità delle pagine stampate da Internet e allegate alla querela delle persone offese.

    Non erano state così prese in esame le allegazioni difensive imperniate sulla deposizione del perito di parte dott. A. circa la mancanza di autenticità degli atti, poichè la riproduzione non era stata raccolta con le dovute garanzie, stante la natura volatile e trasformabile delle informazioni tratte da una rete telematica.

    3.2. Il ragionamento del ricorrente posto a base della pretesa di emanazione di una decisione ex art. 529 cod. proc. pen. non è logico e consequenziale.

    Quand’anche la documentazione allegata alla querela non potesse considerarsi munita di adeguato valore probatorio perchè costituita da una mera stampa di videate tratte da Internet, senza l’adozione delle particolari tecniche forensi di estrazione e riproduzione del dato digitale, non ne deriverebbe affatto l’improcedibilità dell’azione penale per difetto di querela, in presenza di rituale e tempestiva espressione della volontà delle persone offese di persecuzione in sede penale dell’autore del reato.

    3.3. In ogni caso, anche sul terreno prettamente probatorio, i Giudici del merito hanno chiarito, da un lato, che le stampate prodotte dalle parti civili erano pur sempre documenti, non sforniti di valore probatorio, e non erano stati impugnati, e, dall’altro, e soprattutto, che non vi era dubbio alcuno circa il fatto che le espressioni oggetto di imputazione fossero comparse sul blog “(OMISSIS)” dell’imputato, alla luce delle numerose deposizioni testimoniali rese in tal senso.

    Tale assunto è rimasto indenne da specifiche censure e per ciò solo il motivo appare viziato da genericità.

    4. Con il quarto motivo cod. proc. pen., il ricorrente lamenta mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, in relazione alla liquidazione del danno all’immagine delle parti civili, effettuata nonostante la ravvisata equivocità della vicenda relativa alla designazione dello scrutatore, in una somma incongrua rispetto all’eco dell’evento e alla piccola realtà in cui i fatti si erano verificati.

    La liquidazione è avvenuta in via equitativa, in importo obiettivamente contenuto (Euro 2.000 per ciascun imputato) ed è stata corredata, sia in primo grado, sia in secondo grado, da una sintetica e comunque adeguata motivazione, correlata al numero dei messaggi, all’eco dell’evento e al risalto della notizia a livello locale.

    Occorre tener presente il principio per cui la liquidazione del danno morale è affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi del giudice di merito il quale ha, tuttavia, il dovere di dare conto delle circostanze di fatto considerate in sede di valutazione equitativa e del percorso logico posto a base della decisione, senza che sia necessario indicare analiticamente i calcoli in base ai quali ha determinato il quantum del risarcimento (Sez. 4, n. 18099 del 01/04/2015, Lucchelli e altro, Rv. 263450).

    Pertanto la valutazione del giudice in tema di liquidazione del danno morale, in quanto affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi, costituisce valutazione di fatto sottratta al sindacato di legittimità se sorretta da congrua motivazione (Sez. 6, n. 48461 del 28/11/2013, P.G., Fontana e altri, Rv. 258170; Sez. 3, n. 34209 del 17/06/2010, Ortolan, Rv. 248371), salvo il caso del totale difetto di giustificazione o di macroscopico scostamento dai dati di comune esperienza o di radicale contraddittorietà (Sez. 5, n. 35104 del 22/06/2013, R.C. Istituto Città Studi, Baldini e altri, Rv. 257123).

    5. Il ricorso va quindi dichiarato inammissibile; ne consegue la condanna del ricorrente ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen. al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di Euro 2.000,00= in favore della Cassa delle ammende, così equitativamente determinata in relazione ai motivi di ricorso che inducono a ritenere il ricorrente in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost. 13/6/2000 n. 186).

    Il ricorrente dovrà inoltre rifondere le spese sostenute dalla parte civile, che ne ha fatto puntuale richiesta con la memoria depositata il 22/10/2018, liquidate congruamente in complessivi Euro 840,00, oltre accessori come per legge.

P.Q.M.


Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 2.000,00 a favore della Cassa delle ammende, oltre al rimborso delle spese sostenute dalla parte civile, che liquida in complessivi Euro 840,00, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 5 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 22 gennaio 2019.

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requisito della continenza

Originally posted 2019-10-09 11:09:42.