CONFISCA PER EQUIVALENTE reati tributari BOLOGNA RAVENNA FORLI VICENZA TREVISO PADOVA ,

CONFISCA PER EQUIVALENTE reati tributari BOLOGNA RAVENNA FORLI VIENZA TREVISO PADOVA , il profitto confiscabile anche nella forma per equivalente è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale

Le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno affermato il principio secondo cui, in tema di reati tributari, il profitto confiscabile anche nella forma per equivalente è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito dalla consumazione del reato e può dunque consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito dell’accertamento del debito tributario (Sez. un., n. 18734 del 31/01/2013, Adami, Rv. 255036).

 CONFISCA PATRIMONIO BOLOGNA VICENZA TREVISO PADOVA MILANO PAVIA BERGAMO COMO BRESCIA AVVOCATO PENALISTA BOLOGNA DIFENDE  RIESAME CASSAZIONE 

il profitto, per rilevare ai fini della disciplina della confisca, deve essere accompagnato dal requisito della “pertinenzialità”, inteso nel senso che deve derivare in via immediata e diretta dal reato che lo presuppone (principio di “causalità” del reato rispetto al profitto) (Sez. Un., n. 9194 del 3/07/1996, Chabni, Rv. 205707; Sez. Un., n. 29951 del 24/05/2004, Focarelli, in motivazione; Sez. Un., n. 29952 del 24/05/2004, Romagnoli, in motivazione; Sez. Un., n. 41936 del 25/10/ 2005, Muci, Rv. 232164; Sez. Un., n. 26654 del 27/03/2008, Fisia Impianti, Rv. 239924; Sez. un., n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, in motivazione).

In tutte le sentenze indicate si è sempre fatto riferimento alla circostanza che il parametro della pertinenzialità al reato del profitto rappresenta l’effettivo criterio primario selettivo di ciò che può essere confiscato; anche la sentenza delle Sezioni unite, n. 20208 del 25/10/2007, – dep. 2008- Miragliotta, Rv. 238700, pur ammettendo la confiscabilità dell’utilità mediata – c.d. surrogati-, ha tuttavia affermato la necessità di individuazione di un profitto originario e di accertare i passaggi attraverso i quali si è compiuta la trasformazione dello stesso);

2) tale collegamento diretto reato-profitto esiste anche rispetto ai c.d. surrogati, cioè rispetto al bene acquisito attraverso l’immediato impiego/trasformazione del profitto diretto del reato, ma tale estensione del concetto di “pertinenzialità” trova il suo limite estremo in siffatto requisito di immediatezza (del reimpiego), che – in sostanza – ne garantisce la “riconoscibilità” probatoria (Sez. un., Miragliotta, cit.; Sez. un., n. 38691 del 25/06/2009, Caruso);

3) in virtù del “principio di causalità” e dei requisiti di materialità e attualità, il profitto, per essere tipico, deve corrispondere a un mutamento materiale, attuale e di segno positivo della situazione patrimoniale del suo beneficiario ingenerato dal reato attraverso la creazione, trasformazione o l’acquisizione di cose suscettibili di valutazione economica, sicchè non rappresenta “profitto” un qualsivoglia vantaggio futuro, immateriale, o non ancora materializzato in termini strettamente economico-patrimoniali (Sez. 5, n. 10265 del 28/12/2013, – dep. 2014-, Banca Italease s.p.a., Rv. 258577; ma anche Sez. un. “Fisia impianti”, cit.);

4) quanto al c.d. profitto risparmio di spesa, esso potrebbe assumere rilievo solo se inteso non in senso assoluto ma in senso relativo, presupponendo tale concetto un ricavo introitato e non decurtato dei costi che si sarebbero dovuti sostenere; anche nel caso di profitto- risparmio sarebbe stato, cioè, necessario un risultato economico positivo concretamente determinato (Sez. un., “Fisia impianti”, cit..; nello stesso senso, anche letteralmente, Sez. 6, n. 35490 del 28/05/ 2013, – dep. 2014- Ri.va. Fire s.p.a. ed altro, Rv. 244274).

Il tema del profitto – risparmio di spesa è stato storicamente connesso con quello dei reati tributari in relazione ai quali era condivisa l’affermazione secondo cui l’illiceità connota non la produzione della ricchezza da sottoporre a tassazione quanto, piuttosto, la sua sottrazione a tassazione.

Si assumeva che il profitto non potesse essere assoggettato a confisca diretta perchè 1) il valore sottratto, cioè l’imposta non corrisposta, essendo già presente nel patrimonio del reo, non poteva considerarsi “proveniente da reato”; 2) era impossibile ricostruire il nesso di derivazione tra “res”, cioè il denaro risparmiato, e il reato.

Si affermava, cioè, che in tema di reati tributari il profitto consistesse, salvo in casi eccezionali, solo in un mancato esborso conseguente all’inadempimento di un obbligazione di pagamento.

Sul punto, era intervenuto il legislatore, attraverso l’art. 1, comma 143, della legge finanziaria 24 dicembre 2007, n. 244, prevedendo espressamente l’applicabilità dell’art. 322 ter c.p., ai reati tributari.

Le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno poi affermato il principio secondo cui, in tema di reati tributari, il profitto confiscabile anche nella forma per equivalente è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito dalla consumazione del reato e può dunque consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito dell’accertamento del debito tributario (Sez. un., n. 18734 del 31/01/2013, Adami, Rv. 255036).

5.2. In tale articolato quadro di riferimento, si colloca Sez. un., n. 2014 del 30/01/2014, Gubert, con cui è stata recepita una nozione di profitto funzionale alla confisca molto più ampia perchè capace di accogliere al suo interno “non soltanto i beni appresi per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma anche ogni altra utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata, dell’attività criminosa… la trasformazione che il denaro, profitto del reato, abbia subito in beni di altra natura, fungibili o infungibili, non è quindi di ostacolo al sequestro preventivo il quale ben può avere ad oggetto il bene di investimento così acquisito. Infatti, il concetto di profitto o provento di reato legittimante la confisca e quindi nelle indagini preliminari, ai sensi dell’art. 321 c.p.p. , comma 2, il suddetto sequestro, deve intendersi come comprensivo non soltanto dei beni che l’autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma altresì di ogni altra utilità che lo stesso realizza come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa”.

Sul tema sono nuovamente intervenute le Sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza emessa n. 38343 del 24/04/2014, Rv. 261117, nel processo per i tragici fatti della “Tyssen”.

La Corte di cassazione ha sostanzialmente recepito il principio affermato nella sentenza “Gubert” secondo cui “il concetto di profitto o provento di reato legittimante la confisca deve intendersi come comprensivo non soltanto dei beni che l’autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma altresì di ogni altra utilità che lo stesso realizza come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa”.

 CONFISCA PATRIMONIO BOLOGNA VICENZA TREVISO PADOVA MILANO PAVIA BERGAMO COMO BRESCIA AVVOCATO PENALISTA BOLOGNA DIFENDE  RIESAME CASSAZIONE 

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI PENALE

Sentenza 14 settembre 2017 – 16 gennaio 2018, n. 1754

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. IPPOLITO Francesco – Presidente –

Dott. MOGINI Stefano – Consigliere –

Dott. RICCIARELLI Massimo – Consigliere –

Dott. D’ARCANGELO Fabrizio – Consigliere –

Dott. SILVESTRI Pietro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

B.C., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza emessa il 22/02/2017 dal G.i.p. del Tribunale di Milano;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Pietro Silvestri;

lette le conclusioni del Sostituto Procuratore Generale che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

  1. Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Milano ha applicato a B.C. la pena di un anno e sei mesi di reclusione per il reato di corruzione, disponendo la confisca per equivalente dei beni nella disponibilità dell’imputato per un valore pari a 2.100.000 Euro.
  2. è imputato del reato di corruzione propria internazionale ( artt. 319 e 321 c.p.art. 322 c.p., comma 2, n. 2) per aver compiuto, per il tramite di due persone di fiducia del Ministro dell’energia dell’Algeria, plurime dazioni di denaro in favore di quest’ultimo al fine di assicurare alla società B. s.p.a. un vantaggio indebito in operazioni economiche internazionali.

In particolare, le dazioni di denaro sarebbero state eseguite affinchè il Ministro dell’Algeria, nella sua veste di pubblico ufficiale, violando i propri doveri d’ufficio, garantisse alla società B. s.p.a., di cui l’imputato era il legale rappresentante, il reingresso nell’elenco delle imprese invitate alle gare dall’Ente di Stato Algerino Sonatrach e di essere inserita tra i “contrattisti” di Saipem, società italiana che operava in Algeria.

Ha affermato il Giudice che, in ragione della configurazione di un patto corruttivo unico, il reato contestato non sarebbe estinto per prescrizione, essendo stato effettuato l’ultimo versamento nel 2011.

Quanto alla confisca, si è ritenuto che il profitto derivante dal reato sarebbe costituito per la società B. s.p.a. dalla possibilità di continuare ad operare nel mercato algerino “vincendo gare di appalto”; tale profitto sarebbe costituito da 2,1 milioni di Euro, equivalente, ai sensi dell’art. 322 ter c.p., comma 2, alle somme corrisposte in ragione dell’accordo corruttivo.

Ha aggiunto il Tribunale che, non essendo possibile procedere alla confisca diretta nei riguardi della società, essendo questa fallita, la confisca, per equivalente, dovrebbe avere ad oggetto i beni personali dell’imputato.

  1. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore, munito di procura speciale, articolando tre motivi.

2.1. Con il primo si deduce l’erronea applicazione della legge processuale in relazione agli artt. 444 e 129 c.p.p. , atteso che la pena sarebbe stata applicata in relazione ad un reato già estinto per prescrizione, in quanto commesso dal (OMISSIS) al (OMISSIS).

Escluso che la richiesta di patteggiamento equivalga ad una rinuncia alla prescrizione, si evidenzia che nella specie, come risulterebbe dalla stessa lettura della imputazione, i patti corruttivi sarebbe stati due, intervenuti in tempi diversi, in luoghi diversi, all’esito di molteplici incontri effettuati con persone diverse ed aventi un oggetto diverso.

Tale elemento avrebbe dovuto condurre il giudice a dichiarare l’estinzione almeno di uno dei due reati contestati per prescrizione.

La stessa motivazione della sentenza sul punto sarebbe, a dire del ricorrente, contraddittoria, perchè, da una parte, affermerebbe l’unicità del patto corruttivo al fine di non dichiarare la estinzione del reato per prescrizione, e, dall’altra, farebbe invece espresso riferimento a due distinti accordi corruttivi al fine della quantificazione del profitto; anche le dichiarazioni rese da B. sarebbero state travisate, avendo l’imputato affermato che le dazioni furono compiute a seguito di plurimi accordi.

Si aggiunge che, ove pure si volesse fare riferimento ad un unico patto corruttivo, nondimeno le multiple dazioni configurerebbero più fatti – reato unificati per continuazione che, tuttavia, avrebbero un loro autonomo “dies a quo” per il decorso della prescrizione.

2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge in relazione all’art. 322 ter c.p., e art. 129 c.p.p.

Si sostiene che la confisca avrebbe dovuto essere disposta solo per gli episodi corruttivi non ancora prescritti alla data della sentenza e, quindi, solo in relazione alle dazioni effettuate dal 29.10.2009 (200.000 Euro) ed a quelle corrisposte nel 2011 (100.000).

2.3. Con il terzo motivo si deduce la violazione della legge penale in relazione all’art. 322 ter c.p.

Secondo il ricorrente, nella specie non sarebbe stato conseguito da parte della società B. s.p.a. un profitto di diretta ed immediata derivazione causale dal reato; ne deriverebbe che, in assenza di un profitto, il giudice non avrebbe potuto disporre la confisca per equivalente dei beni dell’imputato per un valore corrispondente ad un non dimostrato profitto. Non costituirebbe profitto in senso tecnico, cioè, quello indicato nella imputazione, cioè il mero inserimento della società nella sfera dei contrattisti delle imprese invitate alle gare di appalto dell’Ente di Stato algerino Sonatrach e la possibilità di contrattare con la società privata Saipem.

  1. In data 24/07/2017 è stato proposto un nuovo motivo di impugnazione con il quale si deduce la violazione di legge e l’erronea applicazione degli artt. 110, 321, 319 ter e 322 ter c.p.; si sostiene che la sentenza sarebbe viziata nella parte in cui ha disposto la confisca della somma di 2,1 milioni di Euro nei confronti del ricorrente senza tenere conto della natura plurisoggettiva necessaria del reato contestato e, in particolare, del ruolo dei pubblici funzionari ai fini della suddivisione dell’importo della somma ritenuta profitto del reato.

Motivi della decisione

  1. Il ricorso è fondato limitatamente al terzo motivo.
  2. Quanto al primo motivo di ricorso, va evidenziato che l’art. 444 c.p.p., comma 2, impone al giudice di verificare l’insussistenza di una delle cause di non punibilità indicate nel citato art. 129 c.p.p.– la cui operatività è necessariamente sottratta ai poteri dispositivi delle parti – sulla base degli atti fino a quel momento acquisiti.

La giurisprudenza ha sottolineato che si tratta di un’operazione che deve avvenire allo stato degli atti, cioè senza alcuna necessità di un approfondimento probatorio ovvero dell’acquisizione di ulteriori elementi, in quanto l’eventuale pronuncia di proscioglimento può derivare solo qualora le risultanze disponibili rendano palese l’esistenza della causa di non punibilità (Sez. un., n. 3 del 25 novembre 1998, – dep. 1999, Messina, Rv. 212437).

Al giudice è assegnato un sindacato meramente negativo con riferimento alla responsabilità dell’imputato, dovendo constatare semplicemente l’insussistenza delle cause indicate nell’art. 129 c.p.p. , non potendo, quindi, pronunciare sentenza di proscioglimento per mancanza, insufficienza o contraddittorietà delle prove desumibili dagli atti, non rientrando tale possibilità tra quelle esplicitamente indicate dall’articolo citato.

L’accusa, se correttamente qualificata, non può essere rimessa in discussione.

Il controllo preteso dall’art. 129 c.p.p. , comma 1, deve essere compiuto considerando che per effetto dell’accordo sulla pena l’imputato ha rinunciato, non solo a controvertere sulla quantificazione della sanzione, ma anche sul diritto alla prova, accettando di essere giudicato in base agli atti probatori presenti nel fascicolo, rinunciando altresì a controvertere sul fatto.

I limiti di quello che è definito un accertamento negativo della non punibilità dell’imputato effettuato in relazione alla sentenza di patteggiamento, caratterizzato da diverse regole di giudizio rispetto a quello sulla sentenza di condanna, condiziona i motivi che possono essere oggetto del ricorso per cassazione, nel senso che la natura negoziale del rito incide in concreto sui ricorsi di legittimità contro questo tipo di sentenze.

In particolare, oltre a non poter essere dedotte insufficienze ovvero carenze probatorie, la denuncia dell’errata qualificazione giuridica del fatto è destinata a ricevere un’applicazione limitata.

Come è noto, la possibilità di impugnare la sentenza di patteggiamento per denunciare l’erronea qualificazione giuridica del fatto ha dato luogo ad interpretazioni contrastanti, risolte da un intervento delle Sezioni unite (sent. n. 5 del 19 gennaio 2000, Neri), le quali hanno statuito che con il ricorso per cassazione può essere denunciata l’erronea qualificazione del fatto come prospettata dalle parti e recepita dal giudice, e ciò perchè è lo stesso art. 444 c.p.p. , comma 2, ad imporre siffatto controllo, funzionale ad evitare che l’accordo sulla pena si trasformi in accordo sui reati.

Tuttavia, proprio in considerazione della natura del patteggiamento e dello scopo del controllo affidato al giudice, la giurisprudenza ritiene che l’impugnabilità per l’erronea qualificazione del fatto debba essere limitata ai casi in cui quella prospettata dalle parti sia palesemente erronea ovvero ai casi in cui la contestazione originariamente delineata dal solo pubblico ministero sia anch’essa manifestamente erronea.

La ricorribilità della sentenza di patteggiamento è ammessa nelle sole ipotesi di errore manifesto, ossia quando sussiste realmente l’eventualità che l’accordo sulla pena si trasformi in accordo sui reati, sicchè deve essere esclusa tutte le volte in cui la diversa qualificazione presenti margini di opinabilità: l’errata qualificazione giuridica del fatto può essere fatta valere solo dinanzi ad un evidente “error in iudicando” che “dissimuli un’illegale trattativa sul nomen iuris”, ma non in presenza di una qualificazione che presenti oggettivi margini di opinabilità (tra le altre, tante, Cfr., Sez. 7, n. 39600 del 10/09/2015, Casarin. Rv. 264766; Sez. 3, n. 34902 del 24/06/2015, Brughitta, Rv. 264153; Sez. 6, n. 15009 del 27/11/2012 – dep. 2013 – Bisignani, Rv. 254865).

Non sono consentite impugnazioni che richiamino, come passaggio logico indispensabile della deduzione, aspetti in fatto e probatori che non risultino con immediatezza, quindi senza alcuna possibilità e tantomeno necessità di interpretazione o integrazione, dalla contestazione. Ogni argomentazione, pur in diritto, che non deduca la palese eccentricità della qualificazione giuridica che è stata proposta al Giudice e da questi condivisa, e richieda, per il proprio esame, una premessa in fatto che non risulti con la evidenziata necessaria peculiare immediatezza dal capo di imputazione, è preclusa.

  1. Sulla base di tali condivisibili principi, il motivo di ricorso rivela la sua infondatezza, al limita della inammissibilità.

Nel caso di specie, non emerge alcun elemento per ritenere che il Giudice abbia errato nella qualificazione dei fatti e, in particolare, nel ricondurli nell’ambito di un unico patto corruttivo, con conseguente decorso del termine di prescrizione solo dalla data dell’ultima dazione di denaro.

Al di là della necessità di distinguere le dazioni di denaro in relazione alle singole vicende al fine della quantificazione del profitto del reato, si è chiaramente ritenuto che le somme furono corrisposte in esecuzione di un unico patto corruttivo, che, tuttavia, ebbe modo di esplicitarsi nel tempo sotto diversi profili ed in relazione a diverse vicende.

A fronte di tale elemento, con il motivo di ricorso, fondato sulla prospettazione della esistenza di più accordi corruttivi e, quindi, sulla esistenza di una pluralità di reati con conseguente decorrenza di autonomi termini di prescrizione, si adducono argomenti critici quali la pluralità di persone, la diversità di tempo e di luogo in cui gli accordi sarebbero intervenuti, per la cui valutazione sarebbe stata necessaria la verifica dibattimentale L’esame della doglianza rende cioè necessario un preliminare accesso alla ricostruzione in fatto che, tuttavia, è preclusa dal rito prescelto dall’imputato e dalla sua difesa.

3.1. Infondato è altresì l’assunto secondo cui, ove pure si volesse fare riferimento ad un unico patto corruttivo, nondimeno le multiple dazioni configurerebbero più fatti – reato unificati per continuazione che, tuttavia, avrebbero un loro autonomo “dies a quo” per il decorso della prescrizione.

Sul punto è sufficiente richiamare il principio affermato dalle Sezioni unite della Corte di cassazione secondo cui il delitto di corruzione si perfeziona alternativamente con l’accettazione della promessa ovvero con la dazione ricezione dell’utilità, e tuttavia, ove alla promessa faccia seguito la dazione ricezione, è solo in tale ultimo momento che, approfondendosi l’offesa tipica, il reato viene a consumazione (Sez. un., n. 15208 del 25/02/2010, Mills, Rv. 246583).

Tale principio deve essere posto in connessione con l’ulteriore affermazione, secondo cui il reato è unico se trova la sua genesi in una sola pattuizione corruttiva, a nulla rilevando le plurime attività funzionali del p.u. o le plurime dazioni eventualmente erogate dal soggetto privato.

Dunque, il delitto di corruzione è reato a duplice schema perchè si perfeziona alternativamente con l’accettazione della promessa o con il ricevimento effettivo dell’utilità, ma, se tali atti si susseguono, il momento consumativo si cristallizza nell’ultimo, che assorbe, facendogli perdere di autonomia, l’atto di accettazione della promessa, perchè con l’effettiva prestazione si concretizza l’attività corruttiva e si approfondisce l’offesa tipica del reato (Sez. 6, n. 33435 del 04/05/2006, Battistella, Rv. 234360; Sez. 6, n. 35118 del 09/07/2007, Fezia, Rv. 237288).

Ne consegue che correttamente il Giudice dell’udienza preliminare ha ritenuto non estinto per prescrizione il reato di corruzione contestato all’imputato, attesa l’unicità del patto corruttivo e la commissione dell’ultima dazione di denaro nel 2011.

  1. E’ fondato il terzo motivo di ricorso.

Il Giudice dell’udienza preliminare ha disposto la confisca per equivalente dei beni di cui l’imputato abbia la disponibilità, fino al valore pari a 2,1 milioni di Euro.

Tale somma costituirebbe il profitto derivante dal reato di corruzione che sarebbe stato conseguito dalla società B. s.p.a.; in particolare il profitto è stato individuato nella “possibilità per la B. s.p.a., società di cui l’imputato era il legale rappresentante, di continuare ad operare nel mercato algerino, vincendo gare di appalto” (così testualmente la sentenza), cioè nell’essere inserita detta società nei soggetti invitati alle gare di appalto dell’Ente di Stato algerino Sonatrach e tra i contrattisti di Saipem.

  1. La questione attiene al se detto vantaggio sia tecnicamente qualificabile come profitto derivante dal reato e quindi suscettibile di confisca.

5.1. E’ consolidata l’affermazione secondo cui non si rinviene una nozione generale di profitto non solo nel codice penale, ma anche nelle varie disposizioni contenute in leggi speciali che ne prevedono la confisca; si tratta di norme che danno la nozione per presupposta, ovvero si limitano a contrapporla ad altri concetti parimenti non definiti, quali quelli di “prezzo”, “corpo” e “strumento” del reato, utilizzandola, peraltro, sia per determinare l’oggetto della confisca, sia ad altri fini, come, cioè, elemento costitutivo della fattispecie di reato o come circostanza aggravante.

5.2. Sulla nozione di profitto, la giurisprudenza della Corte di Cassazione, anche a Sezioni unite, aveva individuato nel tempo una serie di stabili principi:

1) il profitto, per rilevare ai fini della disciplina della confisca, deve essere accompagnato dal requisito della “pertinenzialità”, inteso nel senso che deve derivare in via immediata e diretta dal reato che lo presuppone (principio di “causalità” del reato rispetto al profitto) (Sez. Un., n. 9194 del 3/07/1996, Chabni, Rv. 205707; Sez. Un., n. 29951 del 24/05/2004, Focarelli, in motivazione; Sez. Un., n. 29952 del 24/05/2004, Romagnoli, in motivazione; Sez. Un., n. 41936 del 25/10/ 2005, Muci, Rv. 232164; Sez. Un., n. 26654 del 27/03/2008, Fisia Impianti, Rv. 239924; Sez. un., n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, in motivazione).

In tutte le sentenze indicate si è sempre fatto riferimento alla circostanza che il parametro della pertinenzialità al reato del profitto rappresenta l’effettivo criterio primario selettivo di ciò che può essere confiscato; anche la sentenza delle Sezioni unite, n. 20208 del 25/10/2007, – dep. 2008- Miragliotta, Rv. 238700, pur ammettendo la confiscabilità dell’utilità mediata – c.d. surrogati-, ha tuttavia affermato la necessità di individuazione di un profitto originario e di accertare i passaggi attraverso i quali si è compiuta la trasformazione dello stesso);

2) tale collegamento diretto reato-profitto esiste anche rispetto ai c.d. surrogati, cioè rispetto al bene acquisito attraverso l’immediato impiego/trasformazione del profitto diretto del reato, ma tale estensione del concetto di “pertinenzialità” trova il suo limite estremo in siffatto requisito di immediatezza (del reimpiego), che – in sostanza – ne garantisce la “riconoscibilità” probatoria (Sez. un., Miragliotta, cit.; Sez. un., n. 38691 del 25/06/2009, Caruso);

3) in virtù del “principio di causalità” e dei requisiti di materialità e attualità, il profitto, per essere tipico, deve corrispondere a un mutamento materiale, attuale e di segno positivo della situazione patrimoniale del suo beneficiario ingenerato dal reato attraverso la creazione, trasformazione o l’acquisizione di cose suscettibili di valutazione economica, sicchè non rappresenta “profitto” un qualsivoglia vantaggio futuro, immateriale, o non ancora materializzato in termini strettamente economico-patrimoniali (Sez. 5, n. 10265 del 28/12/2013, – dep. 2014-, Banca Italease s.p.a., Rv. 258577; ma anche Sez. un. “Fisia impianti”, cit.);

4) quanto al c.d. profitto risparmio di spesa, esso potrebbe assumere rilievo solo se inteso non in senso assoluto ma in senso relativo, presupponendo tale concetto un ricavo introitato e non decurtato dei costi che si sarebbero dovuti sostenere; anche nel caso di profitto- risparmio sarebbe stato, cioè, necessario un risultato economico positivo concretamente determinato (Sez. un., “Fisia impianti”, cit..; nello stesso senso, anche letteralmente, Sez. 6, n. 35490 del 28/05/ 2013, – dep. 2014- Ri.va. Fire s.p.a. ed altro, Rv. 244274).

Il tema del profitto – risparmio di spesa è stato storicamente connesso con quello dei reati tributari in relazione ai quali era condivisa l’affermazione secondo cui l’illiceità connota non la produzione della ricchezza da sottoporre a tassazione quanto, piuttosto, la sua sottrazione a tassazione.

Si assumeva che il profitto non potesse essere assoggettato a confisca diretta perchè 1) il valore sottratto, cioè l’imposta non corrisposta, essendo già presente nel patrimonio del reo, non poteva considerarsi “proveniente da reato”; 2) era impossibile ricostruire il nesso di derivazione tra “res”, cioè il denaro risparmiato, e il reato.

Si affermava, cioè, che in tema di reati tributari il profitto consistesse, salvo in casi eccezionali, solo in un mancato esborso conseguente all’inadempimento di un obbligazione di pagamento.

Sul punto, era intervenuto il legislatore, attraverso l’art. 1, comma 143, della legge finanziaria 24 dicembre 2007, n. 244, prevedendo espressamente l’applicabilità dell’art. 322 ter c.p., ai reati tributari.

Le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno poi affermato il principio secondo cui, in tema di reati tributari, il profitto confiscabile anche nella forma per equivalente è costituito da qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito dalla consumazione del reato e può dunque consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni dovuti a seguito dell’accertamento del debito tributario (Sez. un., n. 18734 del 31/01/2013, Adami, Rv. 255036).

5.2. In tale articolato quadro di riferimento, si colloca Sez. un., n. 2014 del 30/01/2014, Gubert, con cui è stata recepita una nozione di profitto funzionale alla confisca molto più ampia perchè capace di accogliere al suo interno “non soltanto i beni appresi per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma anche ogni altra utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata, dell’attività criminosa… la trasformazione che il denaro, profitto del reato, abbia subito in beni di altra natura, fungibili o infungibili, non è quindi di ostacolo al sequestro preventivo il quale ben può avere ad oggetto il bene di investimento così acquisito. Infatti, il concetto di profitto o provento di reato legittimante la confisca e quindi nelle indagini preliminari, ai sensi dell’art. 321 c.p.p. , comma 2, il suddetto sequestro, deve intendersi come comprensivo non soltanto dei beni che l’autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma altresì di ogni altra utilità che lo stesso realizza come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa”.

Sul tema sono nuovamente intervenute le Sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza emessa n. 38343 del 24/04/2014, Rv. 261117, nel processo per i tragici fatti della “Tyssen”.

La Corte di cassazione ha sostanzialmente recepito il principio affermato nella sentenza “Gubert” secondo cui “il concetto di profitto o provento di reato legittimante la confisca deve intendersi come comprensivo non soltanto dei beni che l’autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma altresì di ogni altra utilità che lo stesso realizza come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa”.

5.3. Sul tema, obiettivamente intricato, sono nuovamente intervenute le Sezioni Unite della Corte di cassazione, ribadendo il principio secondo cui profitto è solo il vantaggio di immediata e diretta derivazione causale dal reato (Sez. un., n. 31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264436; successivamente, nello stesso senso, Sez. 6, n. 33226 del 14/07/2015, Azienda Agraria Greenfarm di Guido Leopardi, Rv. 264941; Sez. 2, n. 53650 del 05/10/2016, Maiorano, Rv. 268854).

  1. Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Milano non ha fatto corretta applicazione dei principi indicati.

Sia che si voglia fare riferimento alla nozione di profitto tradizionalmente recepita dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, sia che invece si voglia recepire la nozione più ampia avallata dalle pronunce “Gubert” e “Tyssen” il profitto deve comunque corrispondere a un mutamento materiale, attuale e di segno positivo della situazione patrimoniale del suo beneficiario ingenerato dal reato attraverso la creazione, trasformazione o l’acquisizione di cose suscettibili di valutazione economica;

Non costituisce profitto del reato un qualsivoglia vantaggio che, pur derivante dal reato, tuttavia sia futuro, sperato, eventuale, solo possibile, immateriale o non ancora materializzato in termini strettamente economico-patrimoniali.

Il profitto non coincide con una mera aspettativa di fatto, con una mera “chance”, salvo che questa, in quanto fondata su circostanze specifiche, non presenti caratteri di concretezza ed effettività tale da costituire essa stessa una entità patrimoniale a sè stante, autonoma, giuridicamente ed economicamente suscettibile di valutazione in relazione alla sua proiezione sulla sfera patrimoniale del soggetto.

Nel caso di specie, si è fatto coincidere il profitto del reato non con il vantaggio derivante dalle possibili gare di appalto aggiudicate alla B. s.p.a. per effetto della corruzione, nè con i vantaggi derivanti dai contratti stipulati con Saipem, ma con la mera possibilità per la società in questione di partecipare in futuro a gare di appalto o di essere inserita negli elenchi dei soggetti contrattisti di Saipem.

Tale possibilità, tuttavia, non costituisce un vantaggio concreto valutabile in relazione alla sfera patrimoniale del soggetto, nè si è affermato che la mera possibilità di partecipare ad una gara, ovvero di essere ammessi alla fase di contrattazione, realizzi nella vicenda in esame una “chance” autonomamente qualificabile in termini di entità patrimoniale automa e, quindi, di profitto.

Ne deriva che nella specie, non potendo essere tecnicamente individuato un profitto del reato, non poteva essere disposta la confisca per equivalente sui beni dell’imputato.

La sentenza deve pertanto essere annullata sul punto senza rinvio.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla confisca disposta e rigetta nel resto il ricorso.

Così deciso in Roma, il 14 settembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 16 gennaio 2018

Originally posted 2018-08-05 10:14:54.