Cassazione treviso tribunale bancarotta

Cassazione treviso tribunale bancarotta

Deve, quindi, trovare applicazione il principio di diritto affermato da questa Corte di cassazione con la sentenza n. 9951 del 2018 secondo il quale il quale, in ipotesi di distrazione di cespiti aziendali, non può, nei confronti del soggetto investito solo formalmente di una carica gestoria della società, trovare automatica applicazione la massima di orientamento secondo cui, una volta accertata la presenza di determinati beni nella disponibilità dell’imprenditore fallito, il loro mancato reperimento, in assenza di adeguata giustificazione della destinazione ad essi data, legittima la presunzione della dolosa sottrazione, dal momento che la pur consapevole accettazione del ruolo di amministratore apparente non necessariamente implica la consapevolezza di disegni criminosi nutriti dall’amministratore di fatto (Sez. 5, n. 19049 del 19/02/2010, Succi, Rv. 247251; Sez. 5, n. 28007 del 04/06/2004, Squillante, Rv. 228713).

AVVOCATO ESPERTO REATO DI BANCAROTTA DIFENDE  TRIBUNALI APPELLO CASSAZIONE

 

 

Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Venezia ha parzialmente riformato la sentenza del 15 ottobre 2015 del Tribunale di Treviso che, per quanto di interesse in questa sede, ha affermato la penale responsabilità di B.B.G. per le condotte di bancarotta fraudolenta patrimoniale e bancarotta semplice, unificate in un unico delitto di bancarotta fraudolenta aggravata ai sensi del R.D. n. 267 del 1942art. 219, comma 1 e comma 2, n. 1, e, applicate le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle predette aggravanti, l’ha condannata alla pena di giustizia oltre che alla pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici ed alle pene accessorie di cui al R.D. n. 267 del 1942art. 216, u.c., la cui durata è stata fissata in anni dieci, ed al risarcimento del danno, da liquidarsi in separata sede, in favore del fallimento della (OMISSIS) s.r.l., costituitosi parte civile.

In particolare, la Corte di appello, decidendo sull’impugnazione della sola B., ha ritenuto le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti, ha ridotto la pena principale ad anni due di reclusione, ha eliminato la pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici e ha anche revocato le statuizioni civili, essendo intervenuta la revoca della costituzione di parte civile in conseguenza di un accordo transattivo raggiunto dalla B. con la curatela fallimentare, confermando nel resto la sentenza di primo grado.

All’esito del giudizio di secondo grado, B.B.G. risulta condannata per le condotte di bancarotta fraudolenta patrimoniale consistite nell’avere concorso, quale amministratrice unica sino al 29 settembre 2008 e successivamente quale amministratrice di fatto della (OMISSIS) s.r.l., dichiarata fallita il 10 giugno 2010, a distrarre la somma di Euro 780.000,00 mediante anticipi effettuati nel 2007 a favore del marito G.C., amministratore di fatto della stessa società, (essendola differenza rispetto alla somma di Euro 1.015.000,00 indicata nel capo di imputazione? stata restituita), nonchè la somma di Euro 2.522.182,01 mediante anticipi, sino alla metà del 2008, a favore della azienda agricola di G.C. e poi cedendo parte del credito alla società Collina s.r.l., anch’essa controllata, come la fallita, dalla B. e dal G..

Deve, invece, essere rilevata l’illegalità delle pene accessorie la cui durata è stata determinata, ai sensi del R.D. n. 267 del 1942art. 216, u.c., nella misura fissa di anni dieci.

Difatti, la Corte costituzionale ha dichiarato, con la sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018, la illegittimità del R.D. n. 267 del 1942art. 216, u.c., nella parte in cui determina nella misura fissa di anni dieci la durata della pena accessoria da essa prevista.

L’illegalità della pena, dipendente da una statuizione ab origine contraria all’assetto normativo vigente al momento consumativo del reato, è rilevabile d’ufficio nel giudizio di cassazione anche nel caso in cui il ricorso sia inammissibile (Sez. 3, n. 6997 del 22/11/2017, dep. 2018, C, Rv. 272090, che ha eliminato la pena accessoria di cui all’art. 609-nonies c.p., comma 2, illegalmente applicata poichè il reato di violenza sessuale non risultava commesso nei confronti di minori).

Per effetto della sentenza della Corte costituzionale sopra citata, la pena accessoria inflitta con la sentenza impugnata in questa sede è divenuta illegale, cosicchè la sentenza impugnata in questa sede deve, in tale parte, essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Venezia.

Peraltro, a seguito della citata sentenza della Corte costituzionale, le Sezioni Unite hanno affermato che la durata delle pene accessorie deve essere determinata in concreto dal giudice in base ai criteri fissati dall’art. 133 c.p. e non in misura pari a quella della pena principale ai sensi dell’art. 37 c.p. (Sez. U, n. 28910 del 28/02/2019, Surace, Rv. 276286).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VESSICHELLI Maria – Presidente –

Dott. PEZZULLO Rosa – Consigliere –

Dott. GUARDIANO Alfredo – Consigliere –

Dott. ROMANO Michele – rel. Consigliere –

Dott. RICCARDI Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

B.B.G., nata a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 18/02/2019 della Corte di appello di Venezia;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Michele Romano;

udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. Senatore Vincenzo, che ha concluso chiedendo che la sentenza impugnata sia annullata senza rinvio limitatamente all’affermazione di penale responsabilità per il delitto di cui al R.D. n. 267 del 1942, art. 217, comma 1, n. 4, perchè estinto per prescrizione;

udite le richieste del difensore del ricorrente, avv. Augusto Colucci, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

  1. Con la sentenza in epigrafe la Corte di appello di Venezia ha parzialmente riformato la sentenza del 15 ottobre 2015 del Tribunale di Treviso che, per quanto di interesse in questa sede, ha affermato la penale responsabilità di B.B.G. per le condotte di bancarotta fraudolenta patrimoniale e bancarotta semplice, unificate in un unico delitto di bancarotta fraudolenta aggravata ai sensi del R.D. n. 267 del 1942art. 219, comma 1 e comma 2, n. 1, e, applicate le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle predette aggravanti, l’ha condannata alla pena di giustizia oltre che alla pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici ed alle pene accessorie di cui al R.D. n. 267 del 1942art. 216, u.c., la cui durata è stata fissata in anni dieci, ed al risarcimento del danno, da liquidarsi in separata sede, in favore del fallimento della (OMISSIS) s.r.l., costituitosi parte civile.

In particolare, la Corte di appello, decidendo sull’impugnazione della sola B., ha ritenuto le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti, ha ridotto la pena principale ad anni due di reclusione, ha eliminato la pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici e ha anche revocato le statuizioni civili, essendo intervenuta la revoca della costituzione di parte civile in conseguenza di un accordo transattivo raggiunto dalla B. con la curatela fallimentare, confermando nel resto la sentenza di primo grado.

All’esito del giudizio di secondo grado, B.B.G. risulta condannata per le condotte di bancarotta fraudolenta patrimoniale consistite nell’avere concorso, quale amministratrice unica sino al 29 settembre 2008 e successivamente quale amministratrice di fatto della (OMISSIS) s.r.l., dichiarata fallita il 10 giugno 2010, a distrarre la somma di Euro 780.000,00 mediante anticipi effettuati nel 2007 a favore del marito G.C., amministratore di fatto della stessa società, (essendola differenza rispetto alla somma di Euro 1.015.000,00 indicata nel capo di imputazione? stata restituita), nonchè la somma di Euro 2.522.182,01 mediante anticipi, sino alla metà del 2008, a favore della azienda agricola di G.C. e poi cedendo parte del credito alla società Collina s.r.l., anch’essa controllata, come la fallita, dalla B. e dal G..

Inoltre, la B. risulta condannata per avere, nella qualità suddetta, aggravato il dissesto, astenendosi dal richiedere il fallimento della (OMISSIS) s.r.l., sebbene dal bilancio al 31 dicembre 2008 risultasse una perdita di esercizio pari ad Euro 2.712.753,00.

  1. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso B.B.G., a mezzo del suo difensore, chiedendone l’annullamento ed affidandosi a due motivi.

Con il primo motivo la ricorrente lamenta, quanto alla condanna per il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale, la mancanza o contraddittorietà della motivazione in ordine all’elemento psicologico del reato.

In particolare, la ricorrente evidenzia che il dolo è stato ritenuto sussistente perchè, quale amministratrice di diritto della società fallita ed amministratrice anche di altre società controllate da lei e dal marito G., non poteva ignorare le distrazioni attuate dal coniuge, amministratore di fatto della fallita. L’elemento soggettivo del reato era stato presunto sulla base del suo status di amministratrice, mentre esso andava dimostrato; la motivazione era, quindi, apparente perchè fondata su un automatismo logico inaccettabile.

Inoltre, la Corte di appello ha osservato che la B. non si era attivata per ottenere la restituzione delle somme dal marito alla società poi fallita e che per tale motivo non era possibile scindere la posizione della B. da quella del marito, atteso che la stessa, cogestendo l’impresa, non poteva non avere percepito la distrazione di una rilevante somma di denaro uscita dal conto corrente intestato alla società.

In realtà dall’istruttoria era emerso che la B. solo formalmente aveva amministrato la società, gestita di fatto da suo marito, che aveva voluto che sua moglie rivestisse tale carica per dare lustro, con il suo titolo nobiliare, ai vini che dalla società venivano prodotti e poi commercializzati con l’etichetta “(OMISSIS)”. La contessa B., pur non essendo una mera testa di legno, non aveva l’esperienza e la capacità di gestire l’impresa e si era affidata a suo marito, ritenendo che la gestione operata da quest’ultimo fosse del tutto corretta, ignorando che egli aveva un’amante insieme alla quale era solito impiegare le somme sottratte alla B., da lui definita un'”utile idiota”, ed alle società controllate da entrambi i coniugi.

Difatti, le condotte distrattive erano state attuate dal G. a vantaggio esclusivo suo e della sua impresa individuale e non della B.. Era illogico ammettere che la B. avesse partecipato dolosamente a condotte distrattive che l’avevano impoverita, mentre avevano arricchito esclusivamente suo marito, che tali condotte aveva attuato.

Peraltro, la Corte di appello ha trascurato tutte le deposizioni testimoniali, richiamate nei motivi di appello, secondo le quali la B. si disinteressava dell’attività imprenditoriale, che era di fatto seguita esclusivamente da Cesare G. anche per quanto concerneva i rapporti bancari.

Ne deriva che la circostanza che il G. avesse trasferito la somma di Euro 135.000,00 dal conto cointestato ai due coniugi al conto intestato alla società a titolo di parziale restituzione delle anticipazioni ricevute non valeva a dimostrare che la B. avesse percepito le condotte distrattive.

L’omesso controllo da parte della Berardi sull’operato del marito non dimostrava il dolo, sia pure nella forma eventuale, considerato che l’imputata era priva della preparazione a tal fine necessaria e riteneva che il marito, anche perchè coadiuvato da commercialisti esperti che provvedevano alla redazione di bilanci dai quali non risultavano le condotte distrattive, operasse correttamente.

Esso poteva semmai integrare un comportamento colposo, come tale inidoneo ad integrare l’elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice.

Deve, quindi, trovare applicazione il principio di diritto affermato da questa Corte di cassazione con la sentenza n. 9951 del 2018 secondo il quale il quale, in ipotesi di distrazione di cespiti aziendali, non può, nei confronti del soggetto investito solo formalmente di una carica gestoria della società, trovare automatica applicazione la massima di orientamento secondo cui, una volta accertata la presenza di determinati beni nella disponibilità dell’imprenditore fallito, il loro mancato reperimento, in assenza di adeguata giustificazione della destinazione ad essi data, legittima la presunzione della dolosa sottrazione, dal momento che la pur consapevole accettazione del ruolo di amministratore apparente non necessariamente implica la consapevolezza di disegni criminosi nutriti dall’amministratore di fatto (Sez. 5, n. 19049 del 19/02/2010, Succi, Rv. 247251; Sez. 5, n. 28007 del 04/06/2004, Squillante, Rv. 228713).

Risulta, quindi, apparente la motivazione della sentenza di secondo grado che desume la sussistenza del dolo dalla mera qualifica di amministratrice della società fallita.

2.2. Con il secondo motivo la ricorrente si duole, in relazione alla condotta di bancarotta semplice, della mancanza o contraddittorietà della motivazione in ordine all’elemento psicologico del reato e della violazione delle disposizioni in materia di prescrizione del reato.

2.2.1. Anche in relazione a tale imputazione la Corte di appello motiva affermando che non è credibile che l’imputata ignorasse lo stato di dissesto economico della società nel momento in cui è stata sostituita nella carica di amministratrice dalla propria domestica, emergendo anche da questa sostituzione il tentativo della B. di sottrarsi alle sue penali responsabilità nella consapevolezza delle difficoltà economiche in cui già versava la società poi fallita.

In realtà la nomina della domestica – che invece era anch’essa originaria di una famiglia aristocratica – quale amministratrice della società derivava dalla intenzione del G. di procedere alla fusione delle società La Collina s.r.l. e (OMISSIS) s.r.l., delle quali una produceva il vino e l’altra lo commercializzava, e dalla esigenza che le due società fossero amministrate da persone diverse. Nè tale sostituzione avrebbe potuto esonerare la B. dalle sue responsabilità per il periodo anteriore alla sua cessazione dalla carica.

Inoltre, la B. era cessata dalla carica il 28 settembre 2008 e nella sentenza non si chiarivano le ragioni per le quali la stessa era stata ritenuta, per il periodo successivo un’amministratrice di fatto, non essendo indicato alcun atto di gestione da lei compiuto.

Il bilancio chiuso al 31 dicembre 2008 era stato redatto ed approvato solo nei successivi sei mesi e, quindi, l’imputata non aveva avuto conoscenza della perdita e neppure era legittimata a richiedere il fallimento. La B. neppure sapeva leggere un bilancio.

2.2.2. In ogni caso la condotta di aggravamento del dissesto integrava una bancarotta semplice che, essendo il fallimento stato dichiarato il 10 giugno 2010, doveva ritenersi estinta per prescrizione già in data 9 febbraio 2018. La Corte di appello aveva, quindi, errato nel non rilevare l’estinzione del reato per prescrizione.

  1. Il Pubblico ministero ha fatto pervenire una memoria difensiva con la quale ha dedotto l’infondatezza del ricorso quanto alla condotta di bancarotta fraudolenta patrimoniale per essere la sentenza stata adeguatamente motivata, mentre ha chiesto che la sentenza impugnata sia annullata senza rinvio limitatamente alla condotta di bancarotta semplice, per essere il reato estinto per prescrizione, lasciando immutato il trattamento sanzionatorio.

Motivi della decisione

  1. Il primo motivo di ricorso è infondato.

Nella sentenza di primo grado si afferma (a pag. 9) che la B., sulla base delle deposizioni dei testi e della documentazione acquisita, non è una semplice prestanome del marito e che sebbene quest’ultimo avesse un ruolo prioritario nell’amministrazione della società, anche la B. partecipava in modo effettivo alla gestione della società, sia pure con un ruolo subordinato rispetto al G..

La stessa ricorrente, nel suo ricorso, ammette di non essere una semplice “testa di legno” (vedi pag. 5 del ricorso).Ciò posto, è invero conidivisibile quanto osservato dalla ricorrente e cioè che riguardo alla bancarotta fraudolenta documentale per sottrazione o per omessa tenuta in frode ai creditori delle scritture contabili ben può ritenersi la responsabilità del soggetto investito solo formalmente dell’amministrazione dell’impresa fallita (cosiddetto “testa di legno”), atteso il diretto e personale obbligo dell’amministratore di diritto di tenere e conservare le suddette scritture, non altrettanto può dirsi con riguardo all’ipotesi della distrazione, relativamente alla quale non può, nei confronti dell’amministratore apparente, trovare automatica applicazione il principio secondo il quale, una volta accertata la presenza di determinati beni nella disponibilità dell’imprenditore fallito, il loro mancato reperimento, in assenza di adeguata giustificazione della destinazione ad essi data, legittima la presunzione della dolosa sottrazione, dal momento che la pur consapevole accettazione del ruolo di amministratore apparente non necessariamente implica la consapevolezza di disegni criminosi nutriti dall’amministratore di fatto (Sez. 5, n. 54490 del 26/09/2018, C., Rv. 274166).

Tuttavia, il caso di specie è regolato dal diverso principio affermato da questa Corte di cassazione in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, secondo il quale, in caso di concorso ex art. 40 c.p., comma 2, dell’amministratore formale nel reato commesso dall’amministratore di fatto, il dolo del primo può configurarsi anche come eventuale ed essere integrato dall’omesso controllo sulla tenuta delle scritture che dimostra la rinuncia a porre in essere quelle attività idonee a prevenire il pericolo di distrazioni e, di conseguenza, l’accettazione del rischio che esse possano verificarsi (Sez. 5, n. 37305 del 14/05/2013, Meroni, Rv. 257608).

Secondo l’accertamento di fatto contenuto nelle due sentenze di merito, la distrazione delle somme di denaro emergeva dalla contabilità della società fallita e comunque la Corte di appello ha affermato che le distrazioni per la loro rilevanza economica e per le modalità con le quali esse erano avvenute non potevano essere sfuggite alla percezione dell’imputata.

Nè l’omissione da parte dell’imputata di ogni attività volta a controllare l’operato del marito varrebbe ad esonerarla da responsabilità, per quanto sopra esposto.

Nel resto le censure della ricorrente, laddove sostiene che è più credibile che la B. abbia ignorato le modalità con le quali il marito ha gestito la società poi fallita, attengono al merito e sono volte ad ottenere una rivalutazione del materiale istruttorio non consentita in questa sede.

  1. Il secondo motivo di ricorso non risulta inammissibile o manifestamente infondato, laddove la ricorrente si duole per essere stata condannata per il reato di bancarotta semplice di cui al R.D. n. 267 del 1942art. 217, comma 1, n. 4, quale amministratrice di fatto per il periodo successivo alla sua cessazione dalla carica di amministratrice di diritto avvenuta in data 28 settembre 2008, sebbene non vengano indicate le ragioni per le quali è stata ritenuta, per detto periodo, un’amministratrice di fatto, non essendo indicato alcun atto di gestione da lei compiuto.

Non risultando evidente la sussistenza di alcuna delle ipotesi di proscioglimento previste dall’art. 129 c.p.p., comma 2, il delitto di bancarotta semplice è ormai estinto per prescrizione.

Poichè la condanna per tale reato comportava l’applicazione dell’aggravante di cui al R.D. n. 267 del 1942art. 219, comma 2, n. 1, e considerato che detta aggravante era stata ritenuta subvalente rispetto alle circostanze attenuanti generiche, l’estinzione del reato non esercita alcun effetto sull’entità della pena inflitta.

Deve pure segnalarsi che la curatela fallimentare ha revocato la sua costituzione di parte civile nel corso del giudizio di secondo grado, cosicchè non opera l’art. 578 c.p.p..

  1. Deve, invece, essere rilevata l’illegalità delle pene accessorie la cui durata è stata determinata, ai sensi del R.D. n. 267 del 1942art. 216, u.c., nella misura fissa di anni dieci.

Difatti, la Corte costituzionale ha dichiarato, con la sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018, la illegittimità del R.D. n. 267 del 1942art. 216, u.c., nella parte in cui determina nella misura fissa di anni dieci la durata della pena accessoria da essa prevista.

L’illegalità della pena, dipendente da una statuizione ab origine contraria all’assetto normativo vigente al momento consumativo del reato, è rilevabile d’ufficio nel giudizio di cassazione anche nel caso in cui il ricorso sia inammissibile (Sez. 3, n. 6997 del 22/11/2017, dep. 2018, C, Rv. 272090, che ha eliminato la pena accessoria di cui all’art. 609-nonies c.p., comma 2, illegalmente applicata poichè il reato di violenza sessuale non risultava commesso nei confronti di minori).

Per effetto della sentenza della Corte costituzionale sopra citata, la pena accessoria inflitta con la sentenza impugnata in questa sede è divenuta illegale, cosicchè la sentenza impugnata in questa sede deve, in tale parte, essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Venezia.

Peraltro, a seguito della citata sentenza della Corte costituzionale, le Sezioni Unite hanno affermato che la durata delle pene accessorie deve essere determinata in concreto dal giudice in base ai criteri fissati dall’art. 133 c.p. e non in misura pari a quella della pena principale ai sensi dell’art. 37 c.p. (Sez. U, n. 28910 del 28/02/2019, Surace, Rv. 276286).

  1. Concludendo, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio limitatamente al reato di bancarotta semplice perchè estinto per prescrizione. La stessa sentenza deve essere altresì annullata limitatamente alla durata delle pene accessorie fallimentari con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Venezia per nuovo giudizio su tale punto.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di bancarotta semplice perchè estinto per prescrizione; annulla altresì la sentenza limitatamente alla durata delle pene accessorie fallimentari con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Venezia per nuovo giudizio su tale punto.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 22 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 29 luglio 2021

Originally posted 2021-08-10 15:08:04.