REATO DI BANCAROTTA
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- Imputazione di bancarotta fraudolenta ?
- Indagato per bancarotta fraudolenta ?
COSA E’ LA BANCAROTTA FRAUDOLENTA DOCUMENTALE?
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BANCAROTTA FRAUDOLENTA, 2020:
ANNULLATE PENE ACCESSORIE
Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, il giudice penale investito del giudizio relativo ai reati di bancarotta ex artt. 216 e seguenti L.F. non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento, quanto al presupposto oggettivo dello stato d’insolvenza dell’impresa e ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previsti per la fallibilità dell’imprenditore, (cfr. Sez. V, n. 10033, del 19/1/2017, Ioghà, Rv. 269454 la quale ha affermato che il giudice penale investito del giudizio sui reati di bancarotta non può sindacare su eventuali errori commessi nel procedimento che ha portato alla sua emanazione). In senso conforme, è possibile riscontrare la Sez. V, n. 48203 del 10/7/2017, Meluzio, Rv. 271274, secondo cui la sospensione del processo penale per bancarotta, disposta a norma dell’art. 479 c.p.p. in attesa dell’esito del giudizio d’impugnazione avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, non è idonea a sospendere il corso della prescrizione a norma dell’art.159, c.1, n.2, c.p., in quanto quest’ultima disposizione si riferirebbe solo ai casi di c.d. “sospensione impropria”, in seguito alla quale il processo prosegue davanti ad un altro giudice cui sia stata deferita la decisione di una specifica questione pregiudiziale.
DA SENTENZA Cassazione Penale
sez. V
Sentenza 16/01/2020, n. 1556
1)I ricorrenti postulano l’inconducenza delle rilevate carenze documentali per aver legittimamente optato per l’adozione di un sistema di contabilità semplificata, trascurando di confrontarsi con il principio di diritto, reiteratamente riaffermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, in tema di reati fallimentari, il regime tributario di contabilità semplificata, previsto per le cosiddette imprese minori, non comporta l’esonero dall’obbligo di tenuta dei libri e delle scritture contabili previsto dall’art. 2214 c.c., con la conseguenza che il suo inadempimento può integrare – ove preordinato a rendere impossibile la ricostruzione del patrimonio dell’imprenditore – la fattispecie incriminatrice del reato di bancarotta fraudolenta documentale (Sez. 5, n. 52219 del 30/10/2014, Ragosa, Rv. 262198, N. 656 del 2014 Rv. 257958).
2)Si è, in tal senso, anche di recente, precisato come, in materia di scritture contabili, sia necessario innanzitutto considerare la normativa civilistica, espressione del valore attribuito alla regolare e corretta tenuta della contabilità e della rilevazione periodica della situazione patrimoniale dell’ente societario. Tali adempimenti, infatti, consentirebbero non soltanto un controllo ab interno per l’imprenditore, il quale può avere contezza dell’andamento della propria impresa, ma anche ab externo a garanzia dei soggetti terzi che con l’impresa stessa entrano in contatto.
3)Diversa è, invece, la ratio fondante la fissazione di peculiari regimi in sede tributaria,
dove gli obblighi contabili imposti sono, invece, principalmente finalizzati a consentire all’amministrazione finanziaria di esercitare le verifiche sulla corretta determinazione del reddito d’impresa, in stretta relazione con le modalità tipiche con cui l’evasione può essere realizzata. Tale differenza funzionale tra le due normative comporta la non derogabilità o modificabilità delle disposizioni civilistiche, dati i fini esclusivamente tributari della normativa fiscale. Qualora si ritenesse che il regime di contabilità semplificata ex D.P.R. n. 600 del 1973, art. 18 consenta all’imprenditore di tenere le scritture contabili solo in relazione a quelle previste dal medesimo testo normativo, si ammetterebbe, implicitamente, un’abrogazione dell’art. 2214 c.c. e ss., tesi questa che, per i motivi sopra sinteticamente esposti, non può trovare accoglimento. E’ bene inoltre evidenziare come la stessa lettera dell’art. 18 faccia salvi “gli obblighi di tenuta delle scritture previste da disposizioni diverse dal presente decreto”, con inclusione nell’eccezione anche dell’art. 2214 c.c. (Sez. 3, n. 24152 del 08/04/2019, Bitetti, Rv. 276273).
Donde il rilievo difensivo che richiama, ancora una volta, un insussistente esonero dalla tenuta delle scritture
è, da un lato, manifestamente infondato, avendo la Corte territoriale fatto corretta applicazione dell’enunciato principio; dall’altro generico, nella misura in cui non si confronta con la ricostruzione delle connesse fattispecie fallimentari e con le dissimulazioni patrimoniali rimaste insondabili anche grazie all’omessa consegna al curatore delle scritture obbligatorie, ampiamente argomentate nella avversata sentenza.
4)I ricorrenti operano una scomposizione delle singole condotte distrattive, offrendone una ricostruzione alternativa che risulta, da un lato, ampiamente contrastata nella sentenza impugnata e che, d’altro canto, finisce con il richiedere alla Corte di legittimità una rilettura in di fatto dell’intera vicenda societaria, collocando la doglianza oltre l’orizzonte cognitivo demandato alla presente sede.
Integra, invero, il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale la cessione di un ramo di azienda senza corrispettivo o con corrispettivo inferiore al valore reale;
nè assume rilievo, al riguardo, il dettato dell’art. 2560 c.c., comma 2, in ordine alla responsabilità dell’acquirente rispetto ai pregressi debiti dell’azienda, costituendo tale garanzia un “post factum” della già consumata distrazione (Sez. 5, n. 34464 del 14/05/2018, Innocenti, Rv. 273644, N. 17956 del 2013).
Il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale sussiste, difatti, anche in presenza di un’iniziativa economica in sè legittima, che si riferisca ad una impresa in stato pre-fallimentare, producendo riflessi negativi per i creditori (Sez. 5, n. 24024 del 01/04/2015, Bellachioma, Rv. 263943) e, nel caso in disamina, l’iniziativa economica è consistita nella cessione di un ramo di azienda di un’impresa in stato fallimentare, effettuata per un prezzo solo in minima parte corrisposto e che ha, pertanto, reso la cedente priva di beni e della possibilità di proseguire utilmente l’attività, con conseguente sottrazione di ogni garanzia per i crediti non compresi nel trasferimento.
La bancarotta fraudolenta per dissipazione ha, infatti, natura di reato di pericolo concreto a dolo generico. In relazione a tale reato non ha, pertanto, incidenza nè la finalità perseguita in via contingente dal soggetto – e pertanto sono per l’appunto manifestamente infondate le numerose censure del ricorrente tese a valorizzare tale profilo – nè si richiede uno specifico intento di arrecare un pregiudizio economico ai creditori, essendo sufficiente la consapevolezza della mera possibilità di danno che possa derivare alle ragioni creditorie.
L’argomentazione rassegnata al riguardo appare del tutto rispondente agli indicatori declinati dalla giurisprudenza più recente (Sez. 5, n. 38396 del 23/06/2017, Sgaramella, Rv. 270763) ai fini della delibazione tanto della concreta pericolosità della condotta dissipativa che riguardo la consapevolezza di siffatta pericolosità: si tratta di indici dotati di immediata evidenza dimostrativa, al di fuori di qualsiasi logica presuntiva, rinvenibili, ad esempio, nella disamina della condotta alla luce della condizione patrimoniale e finanziaria dell’azienda, nel contesto in cui l’agente ha operato, avuto riguardo alla continuità soggettiva delle parti; nella irriducibile estraneità del fatto generatore dello squilibrio tra cessione e realizzo rispetto ai canoni di ragionevolezza imprenditoriale, rilevanti anche nella fase liquidatoria, necessari a dar corpo, da un lato, alla prognosi postuma di concreta messa in pericolo dell’integrità del patrimonio dell’impresa, funzionale ad assicurare la garanzia dei creditori e, nella specie, la liquidazione, e, dall’altro, all’accertamento in capo all’agente della consapevolezza e volontà della condotta in concreto pericolosa.
Di guisa che la condotta ascritta agli imputati, per come ricostruita nelle sentenze di merito, appare caratterizzata da plurimi indici di fraudolenza tra quelli indicati, sia pur a titolo esemplificativo, dalla sentenza Sgaramella e da un’indubbia idoneità depressiva della garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.c., in presenza dell’adeguata giustificazione di un previo concerto tra società unitariamente gestite, finalizzato alla sottrazione agli organi della curatela di beni aziendali e del relativo controvalore.
La deduzione svolta riguardo la destinazione delle somme prelevate alla remunerazione dei dipendenti è generica e, comunque, non risolutiva in relazione all’entità dei prelievi.
Già la formulazione della censura avvince indistintamente nella medesima doglianza rilievi inerenti la valutazione della prova a discarico e pretesi travisamenti che, tuttavia, non s’appalesano idonei a superare il dato dell’assoluta mancanza di documentazione della destinazione delle risorse al pagamento dei dipendenti, risultando sul punto incensurabile, in quanto logicamente esplicata, la valutazione operata dalla Corte territoriale, che ha ritenuto non rispondente a collaudate massime d’esperienza ed a minime cautele aziendali la sistematica corresponsione degli stipendi per contanti, con conseguente esposizione, per anni, al rischio di azioni giudiziarie.
Nè l’argomento difensivo riesce a disarticolare il percorso giustificativo dell’avversata sentenza laddove pretende di inferire dalla mancata insinuazione al passivo dei dipendenti la soddisfazione delle relative obbligazioni, in presenza di una abnorme sproporzione tra disavanzo fallimentare (per oltre sei milioni di Euro) ed attivo (non specificato), che rende del tutto logico ritenere la plausibilità di valutazioni di convenienza, tali da determinare la desistenza di creditori diversi dall’Erario e da Enasarco nella procedura concorsuale.
Donde l’inammissibilità delle esplicate censure.
La giurisprudenza della Cassazione è del tutto consolidata nel ritenere come le operazioni dolose di cui alla L. Fall., art. 223, comma 2, n. 2, possano, invero, consistere nel sistematico inadempimento delle obbligazioni fiscali e previdenziali, frutto di una consapevole scelta gestionale da parte degli amministratori della società, da cui consegue il prevedibile aumento della sua esposizione debitoria nei confronti dell’erario e degli enti previdenziali (Sez. 5, n. 24752 del 19/02/2018, De Mattia, Rv. 273337, N. 12426 del 2014 Rv. 259997, N. 29586 del 2014 Rv. 260492, N. 47621 del 2014 Rv. 261684, N. 15281 del 2017 Rv. 270046).
In tal senso, le operazioni dolose di cui alla L. Fall., art. 223, comma 2, n. 2, attengono alla commissione di abusi di gestione o di infedeltà ai doveri imposti dalla legge all’organo amministrativo nell’esercizio della carica ricoperta, ovvero ad atti intrinsecamente pericolosi per la “salute” economico-finanziaria della impresa e postulano una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all’esito divisato (Sez. 5, n. 15281 del 08/11/2016 – dep. 2017, Bottiglieri, Rv. 270046, Sez. 5, n. 47621 del 25/09/2014, Prandini, Rv. 261684, N. 17408 del 2014 Rv. 259998, N. 29586 del 2014 Rv. 260492).
Donde del tutto razionalmente la Corte territoriale ha ritenuto corretta la qualificazione di operazione dolosa data al protratto, esteso e sistematico inadempimento delle obbligazioni tributarie e contributive che, aumentando ingiustificatamente l’esposizione nei confronti degli enti previdenziali e dell’Erario, rendeva in concreto del tutto prevedibile il conseguente dissesto della società.
Con la sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del R.D. n. 267 del 1942, art. 216, u.c., nella parte in cui dispone che “la condanna per uno dei delitti previsti nel presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa” e siffatta declaratoria – avente efficacia ex tunc ai sensi della L. costituzionale n. 87 del 1953, art. 30 – trova applicazione nell’ambito del presente procedimento in quanto, sebbene questione non investita dal ricorso, la durata delle sanzioni accessorie come determinata nella sentenza impugnata si qualifica in termini di (sopravvenuta) illegalità della pena, apprezzabile ex officio in sede di legittimità (S.U. n. 33040 del 26 febbraio 2015, Jazouli, Rv. 264207).
Nella sentenza additiva richiamata, la Consulta ha esplicitamente escluso l’applicabilità dello strumento di commisurazione (cor)relativa declinato dall’art. 37 c.p. che, in ipotesi di pena accessoria indeterminata, ne determina la durata nella stessa misura della pena principale, ritenendo il relativo meccanismo non adeguato ad assicurare la necessaria autonoma quantificazione in considerazione della specifica e non sovrapponibile funzione del diverso ordine di pene sia in relazione al diverso carico di afflittività rispetto ai diritti fondamentali della persona, che della diversa finalità.
Siffatta interpretazione non è stata ritenuta vincolante in una prima applicazione giurisprudenziale (Sez. 5, 7 dicembre 2018 in proc. 23648/2016, Piermartiri, informazione provvisoria n. 16/2018), mentre altro orientamento (Sez. 5, 13 dicembre 2018 in proc. 3703/2018, Retrosi; Sez. 5, n. 5882 del 6 febbraio 2019, Rv. 274413) si è determinato nel senso di dover rimettere al giudice del merito la determinazione discrezionale dell’entità delle pene accessorie ex art. 216 u.c..
Alla stregua del contrasto, manifestatosi nell’immediatezza della pronuncia della Consulta, è stata rimessa alle Sezioni Unite
la questione “se le pena accessorie previste per il reato di bancarotta fraudolenta dalla L. Fall., art. 216, u.c., come riformulato ad opera della sentenza n. 222 del 5/12/2018 della Corte costituzionale con sentenza dichiarativa di illegittimità costituzionale, mediante l’introduzione della previsione della sola durata massima “fino a dieci anni” debbano considerarsi pena con durata non predeterminata e quindi ricadere nella regola generale di computo di cui all’art. 37 c.p. (che prevede la commisurazione della pena accessoria non predeterminata alla pena principale inflitta), con la conseguenza che è la stessa Cassazione a poter operare la detta commisurazione con riferimento ai processi pendenti; ovvero se, per effetto, della nuova formulazione, la durata delle pene accessorie debba invece considerarsi predeterminata entro la forbice data, con la conseguenza che non trova applicazione l’art. 37 c.p. ma, di regola, la rideterminazione involge un giudizio di fatto di competenza del giudice del merito, da effettuarsi facendo ricorso ai parametri di cui all’art. 133 c.p.”.
Con sentenza n. 28910 del 28 febbraio 2019, le Sezioni Unite di questa Corte hanno statuito come “le pene accessorie previste dalla L. Fall., art. 216, nel testo riformulato dalla sentenza n. 222 della Corte costituzionale, così come le altre pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p.”.
In applicazione dell’enunciato principio di diritto, la verifica dei parametri di commisurazione della pena accessoria, in quanto sanzione predeterminata, in riferimento al carico di afflittività rispetto ai diritti fondamentali della persona (libertà di iniziativa economica) ed alla finalità (non (solo) rieducativa) della medesima, resta assegnata alla discrezionalità del giudice del merito.
Originally posted 2020-03-23 15:02:42.