Art. 572 Maltrattamenti contro familiari e conviventi

Art. 572 Maltrattamenti contro familiari e conviventi

Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni [c.p. 29, 31, 32] 2.

Art. 572 Maltrattamenti contro familiari e conviventi

La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi 3.

[La pena è aumentata se il fatto è commesso in danno di persona minore degli anni quattordici] 4.

Se dal fatto deriva una lesione personale grave [c.p. 583], si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.

Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato .

AVVOCATO PENALISTA BOLOGNA FRATTI DIFENDERE

335 8174816 335 8174816 335 8174816

Il reato di maltrattamenti è un reato contro la famiglia (segnatamente contro l’assistenza familiare) ed il bene giuridico protetto è costituito dai congiunti interessi dello Stato alla tutela della famiglia da comportamenti vessatori e violenti e dell’interesse delle persone facenti parte della famiglia alla difesa della propria incolumità fisica e psichica. L’ambito applicativo dell’incriminazione dipende pertanto dall’estensione di rapporti basati sui vincoli familiari, intendendosi per famiglia ogni gruppo di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, si siano instaurati rapporti di assistenza e solidarietà reciproche, senza la necessità (pur ricorrente in tal genere di consorzi umani) della convivenza o di una stabile coabitazione. Al di là della lettera della norma incriminatrice il reato di maltrattamenti familiari è un reato proprio, potendo essere commesso soltanto da chi ricopra un “ruolo” nel contesto della famiglia (coniuge, genitore, figlio) o una posizione di “autorità” o peculiare “affidamento” nelle aggregazioni comunitarie assimilate alla famiglia dall’art. 572 c.p. (organismi di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, professione o arte), in danno di un soggetto che faccia parte di tali aggregazioni familiari o assimilate.

Art. 572 Maltrattamenti contro familiari e conviventi

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETRUZZELLIS Anna – Presidente –

Dott. DI STEFANO Pierluigi – Consigliere –

Dott. GIORGI Maria S. – Consigliere –

Dott. BASSI A. – rel. Consigliere –

Dott. PATERNO’ RADDUSA Benedetto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

R.G., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 10/09/2020 della Corte di appello di Torino;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Alessandra Bassi;

letta la requisitoria scritta del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. CIMMINO Alessandro, che ha concluso chiedendo che il ricorso sia rigettato;

lette le conclusioni inoltrate via PEC dal difensore della parte civile, avv. Raffaella Carena, la quale ha concluso come da conclusioni scritte e nota spese;

letta la memoria inviata via PEC dal difensore, avv. Flavio Campagna, il quale insistito per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Con il provvedimento in epigrafe, la Corte d’appello di Torino ha confermato la sentenza appellata del 25 gennaio 2018, con cui il Tribunale di Torino ha condannato R.G. alla pena di legge per i reati di maltrattamenti in danno della convivente M.T., con l’aggravante di aver commesso il fatto alla presenza delle figlie minori A. e R., e di tentata estorsione in danno di A.P..

2. Nel ricorso a firma del difensore di fiducia, avv. Flavio Campagna, R.G. chiede l’annullamento del provvedimento per i motivi di seguito sintetizzati ai sensi dell’art. 173 disp. att. c.p.p..

2.1. Violazione di legge in relazione all’art. 572 c.p., e correlativo vizio di motivazione, per avere la Corte territoriale erroneamente ravvisato la sussistenza del delitto di maltrattamenti nell’intero arco temporale dal 1991 sino alla primavera del 2015, sebbene la convivenza more uxorio fra l’imputato e la presunta persona offesa sia cessata nel 2008, dovendo pertanto ravvisarsi, a partire da tale anno, il delitto di atti persecutori. Evidenzia il ricorrente come, dopo l’interruzione della convivenza, il ricorrente si sia sposato e abbia avuto due figli dalla moglie; come – nonostante la presenza dei tre figli nati dalla relazione con la presunta persona offesa e la prosecuzione dei rapporti con quest’ultima in virtù del ruolo paterno – manchi nella specie quella “progettualità comune di vita” e quel “patto di solidarietà” che fonda e caratterizza la comunità familiare, si da poter ravvisare il delitto nonostante l’assenza di un rapporto di “convivenza”, in ossequio ai principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte; come, in particolare, la giurisprudenza di cui ha fatto applicazione il Collegio territoriale finisce per realizzare una irragionevole disparità di trattamento fra il caso in cui si tratti di condotte maltrattanti commesse nell’ambito di un rapporto di coniugio – atteso che, con la pronuncia della sentenza di divorzio, non risulta più ravvisabile il delitto di maltrattamenti – e il caso in cui le medesime condotte siano commesse nel contesto di una relazione di fatto, situazione nella quale si riconosce, invece, la possibilità di applicare la fattispecie incriminatrice nonostante la cessazione della convivenza per il mero fatto che vi siano i figli. Conclude pertanto il ricorrente come, fissata la cessazione della convivenza e quindi della condotta di maltrattamenti al 2008, il reato in oggetto si sia estinto per prescrizione prima della sentenza di primo grado.

2.2. Mancata assunzione di prova decisiva in relazione alla testimonianza della figlia della coppia Noemi, fondamentale a discarico, e correlativo vizio di motivazione, stante l’apodittica risposta data dalla Corte distrettuale a giustificazione del rigetto della richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale (in quanto argomentata sulla scorta della “esaustività del materiale probatorio”).

2.3. Vizio di motivazione quanto alla valutazione di attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa nonchè in ordine alla ritenuta sussistenza della prova dell’elemento oggettivo del delitto. Rimarca la difesa come i Giudici di merito non abbiano dato risposta alle specifiche deduzioni mosse in appello circa: a) il mancato rinvenimento di documentazione medica attestante le gravi lesioni denunciate dalla presunta vittima; b) le incongruità del narrato; c) le dichiarazioni rese dalla Dott.ssa Diacono dei Servizi Sociali quanto all’assenza di emergenze di comportamenti maltrattanti ad opera dell’imputato.

2.4. Vizio di motivazione quanto alla riferibilità all’imputato dei messaggi estorsivi di cui al capo B), anche alla luce dell’annotazione di P.G. del 22 giugno 2015, risultando in ogni caso il fatto sussumibile nel reato di minaccia, non procedibile per mancanza di querela.

2.5. Nei motivi nuovi depositati in cancelleria, la difesa di R. insiste per l’accoglimento del ricorso con particolare riguardo al primo motivo. Rimarca come la Corte distrettuale abbia omesso di argomentare – se non con una motivazione contraddittoria e lacunosa – la sussistenza dei presupposti per ritenere che, dell’arco temporale dal 2008 al 2015, permanesse tra le parti un rapporto che seppur non assistito dalla convivenza (ed anzi, nonostante la sua cessazione) presentasse i caratteri di stabilità e di mutua solidarietà morale e materiale richiesti dalla giurisprudenza per l’integrazione del delitto di maltrattamenti, invocando a sostegno i principi anche di recente affermati in materia da questa Corte di legittimità.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è infondato in relazione a tutte le deduzioni mosse e deve, pertanto, essere disatteso.

2. Con il primo motivo, il ricorrente si duole della ritenuta integrazione del delitto di maltrattamenti nell’intervallo dal 1991 al 2015, sebbene la convivenza more uxorio fra l’imputato e la presunta persona offesa sia cessata nel 2008. La difesa pone altresì in luce il disallineamento giurisprudenziale quanto alla configurabilità del reato di cui all’art. 572 c.p., a seconda se sia cessata la convivenza more uxorio ovvero la convivenza fra i coniugi a seguito della sentenza dichiarativa di divorzio.

2.1. Preliminarmente, mette conto di rilevare come la questione della qualificazione giuridica del fatto non sia stata dedotta in appello dalla difesa e come, nondimeno, trattandosi di questione di diritto in relazione alla quale non risultano necessari accertamenti di fatto e rilevabile anche ex officio, risulta certamente delibabile ai sensi dell’art. 609 c.p.p., comma 3, (Sez. 2, n. 17235 del 17/01/2018, Tucci, Rv. 272651-01).

2.2. Tanto precisato, giudica la Corte erroneo l’assunto da cui muove il ricorrente, quello secondo cui la giurisprudenza di legittimità si sarebbe attestata su principi danti luogo ad una disparità di trattamento fra il caso di condotte maltrattanti commesse una volta cessata la convivenza a seguito dello scioglimento definitivo del matrimonio con la sentenza dichiarativa del divorzio e quello in cui le medesime condotte siano poste in essere all’esito dell’interruzione di un rapporto di convivenza more uxorio. Ad avviso della difesa, a fronte di analoghe condotte vessatorie e pur permanendo di rapporti di solidarietà fra gli ex coniugi legati alle esigenze di accudimento della prole, nel primo caso, non sarebbero più configurabili i maltrattamenti, ma potrebbe soltanto ravvisarsi il reato di atti persecutori, nel secondo caso potrebbe sempre ravvisarsi il più grave delitto eart. 572 c.p..

2.3. Giova rilevare che il delitto di cui all’art. 572 c.p., si impernia sulla realizzazione di una condotta che sia qualificabile come “maltrattante” (e non di mero abuso dei mezzi di correzione di cui al precedente art. 571 c.p.) in danno di una persona “della famiglia o comunque convivente” (ovvero “sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte”).

Il reato di cui all’art. 612 bis c.p., punisce invece, salvo che non costituisca un reato più grave, le condotte vessatorie ivi descritte in danno di una persona, ipotesi che risulta aggravata, ai sensi del comma 2, quando il comportamento sia rivolto in danno del “coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa (ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici”).

Il reato di maltrattamenti è un reato contro la famiglia (segnatamente contro l’assistenza familiare) ed il bene giuridico protetto è costituito dai congiunti interessi dello Stato alla tutela della famiglia da comportamenti vessatori e violenti e dell’interesse delle persone facenti parte della famiglia alla difesa della propria incolumità fisica e psichica. L’ambito applicativo dell’incriminazione dipende pertanto dall’estensione di rapporti basati sui vincoli familiari, intendendosi per famiglia ogni gruppo di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, si siano instaurati rapporti di assistenza e solidarietà reciproche, senza la necessità (pur ricorrente in tal genere di consorzi umani) della convivenza o di una stabile coabitazione. Al di là della lettera della norma incriminatrice (“chiunque”) il reato di maltrattamenti familiari è un reato proprio, potendo essere commesso soltanto da chi ricopra un “ruolo” nel contesto della famiglia (coniuge, genitore, figlio) o una posizione di “autorità” o peculiare “affidamento” nelle aggregazioni comunitarie assimilate alla famiglia dall’art. 572 c.p., (organismi di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, professione o arte), in danno di un soggetto che faccia parte di tali aggregazioni familiari o assimilate (in questo senso, nella motivazione di Sez. 6, n. 24575 del 24/11/2011 – dep. 2012, Rv. 252906-01).

Il reato di atti persecutori è invece un reato contro la persona, e in particolare contro la libertà morale, che può essere commesso da chiunque con atti di minaccia o molestia “reiterati” (integrando appunto un reato abituale) e che non presuppone l’esistenza di relazioni interpersonali specifiche.

Si tratta pertanto si stabilire l’esatto confine fra le due fattispecie allorchè ci trovi in presenza di una situazione nella quale la relazione maltrattante veda coinvolte persone un tempo legate da una relazione connotata dalla stabilità dei loro rapporti assistenza e solidarietà reciproche, dalla convivenza e, eventualmente, dal rapporto di coniugio, le quali abbiano interrotto la relazione affettiva e la convivenza de facto ed eventualmente anche de iure, stante l’adozione – in caso di relazioni matrimoniali – dei provvedimenti di separazione legale o di divorzio. In altri termini, qualora le condotte maltrattanti siano astrattamente inquadrabili quale stalking (dunque quando si sostanzino in reiterate minacce o molestie danti luogo ad ansia o al fondato timore per l’incolumità personale propria o di persona vicina e non trasmodino in abituali violenze fisiche), si tratta di verificare quando possa ancora parlarsi di comportamenti realizzati in danno di una persona “della famiglia o comunque convivente”, dunque nell’ambito di una comunità familiare o a questa assimilata (c.d. parafamiliare) o di una relazione stabile di coabitazione – situazione riconducibile all’ipotesi di cui all’art. 572 c.p., – e quando invece detta condizione non possa ritenersi esistente, così da rendere ravvisabile la fattispecie – meno grave – di cui all’art. 612 bis c.p., comma 2.

2.4. Questa Corte Suprema si è più volte occupata di tracciare il discrimen fra i delitti di maltrattamenti ex art. 572 c.p., e di atti persecutori ex art. 612 bis c.p., (ovvero, spendendo un termine anglosassone, stalking) e, in particolare, di chiarire quando, in forza della clausola di sussidiarietà prevista dal citato art. 612 bis, comma 1, debba essere riconosciuto il più grave reato di maltrattamenti e quando, invece, la condotta debba essere sussunta sotto l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori (prevista dall’art. 612 bis c.p., comma 2).

In particolare, questa Corte di legittimità ha avuto modo di affermare il principio di diritto ormai stabilizzato secondo cui il delitto di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche nel caso in cui le condotte proseguano dopo la cessazione della convivenza della vittima con l’agente, allorchè non siano venuti meno i vincoli di solidarietà che derivano dalla precedente qualità del rapporto intercorso tra le parti. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretta la decisione di condanna che ha ravvisato il reato anche in relazione alle condotte tenute dal padre nei confronti della figlia naturale dopo la fine della convivenza) (Sez. 3, n. 43701 del 12/06/2019, G., Rv. 277987-01).

Il medesimo principio è stato affermato anche in relazione alla situazione in cui le condotte vessatorie siano poste in essere ai danni del coniuge non più convivente, a seguito di separazione legale o di fatto, in presenza della – medesima – condizione che i vincoli nascenti dal coniugio o dalla filiazione permangono integri anche a seguito del venir meno della convivenza. (In motivazione, la Corte ha precisato che il reato previsto dall’art. 612 bis c.p., è configurabile solo nel caso di divorzio tra i coniugi, ovvero di cessazione della relazione di fatto) (Sez. 6, n. 3087 del 19/12/2017 – dep. 2018, F., Rv. 272134-01). A sostegno dell’affermazione di principio si è invero notato che la perdurante necessità di adempiere gli obblighi di cooperazione nel mantenimento, nell’educazione, nell’istruzione e nell’assistenza morale del figlio minore (anche naturale) derivanti dall’esercizio congiunto della potestà genitoriale, implica necessariamente il rispetto reciproco tra i genitori anche se non conviventi e, dunque, comporta la sussumibilità della condotta vessatoria posta in essere dall’agente nell’ipotesi di cui all’art. 572 c.p., (Sez. 6, n. 33882 del 08/07/2014, C., Rv. 262078).

Contrariamente a quanto assume la difesa, la medesima regula iuris è stata affermata – sebbene a contrariis – da questo Giudice della nomofilachia anche in relazione al caso in cui la convivenza sia cessata a seguito della sentenza dichiarativa di divorzio, là dove si è affermato che, nel reato di maltrattamenti in famiglia, quando la condotta è in danno del coniuge, la permanenza cessa allorchè interviene il divorzio cui non segua la ricomposizione di una relazione e consuetudine di vita improntata a rapporti di assistenza e solidarietà reciproche (Sez. 6, n. 50333 del 12/06/2013, Rv. 258644-01). Principio da cui appunto si evince (sia pure, come già notato, con un ragionamento a contrariis) che, nonostante la pronuncia dichiarativa del divorzio (provvedimento che certamente attesta il venir meno di un qualunque rapporto formale fra i coniugi), è possibile configurare il delitto di maltrattamenti allorchè sia seguita la ricomposizione di una relazione e consuetudine di vita improntata a rapporti di assistenza e solidarietà reciproche.

2.5. Tirando le fila delle considerazioni che precedono, il delitto di maltrattamenti in famiglia può essere ravvisato in tutti i casi in cui, nonostante l’interruzione della relazione di convivenza, eventualmente anche attestata da un provvedimento formale di separazione legale o di divorzio, residuino comunque dei rapporti di stabile frequentazione e di solidarietà determinati dalla pregressa esistenza del rapporto familiare, soprattutto allorchè dovuti alle comuni esigenze di accudimento e di educazione dei figli, atteso che in tale caso può ancora parlarsi di fatti commessi nel contesto di una “relazione familiare”.

E’ di contro ravvisabile il delitto di atti persecutori aggravato allorchè la relazione qualificata o di fatto e la convivenza sussistenti in passato siano ormai cessate e i rapporti tra gli ex coniugi o conviventi o partner siano definitivamente interrotti, sì da non potersi parlare – nè in senso tecnico e formale, nè in senso atecnico ed informale – di “famiglia”.

2.6. Deve dunque essere affermato il principio di diritto secondo il quale le condotte vessatorie realizzate in caso di cessazione della convivenza con la vittima, sia nel caso di separazione legale o di divorzio, sia nel caso di interruzione della convivenza allorchè si tratti di relazione di fatto, integrano il reato di maltrattamenti in famiglia e non anche quello di atti persecutori, allorchè i vincoli di solidarietà derivanti dal precedente rapporto intercorso tra le parti non più conviventi, nascenti dal coniugio, dalla relazione more uxorio o dalla filiazione, permangano integri o comunque solidi ed abituali nonostante il venir meno della convivenza.

2.7. Del sopra delineato principio di diritto hanno fatto ineccepibile applicazione i Giudici della cognizione nel caso in oggetto, là dove – secondo quanto si evince dall’attenta ricostruzione in fatto operata nelle sentenze di primo e di secondo grado – hanno dato conto del fatto che il ricorrente ha posto in essere le condotte aggressive e violente in danno della ex convivente more uxorio, in una situazione nella quale il vincolo familiare ed affettivo con la persona non era cessato, persistendo anzi un’intensa relazione conseguente dagli obblighi derivanti dall’esercizio congiunto della potestà genitoriale verso le loro figlie (tanto che R. aveva tenuto le chiavi di casa e frequentava ogni giorno l’alloggio per vedere le figlie), persistenza del legame “familiare” con la ex convivente attestato, anche, dalla circostanza – non irragionevolmente valorizzata dalla Corte distrettuale – che l’imputato e la vittima continuassero ad avere rapporti sessuali.

3. E’ inammissibile il secondo motivo con il quale il ricorrente lamenta la mancata assunzione di prova decisiva, con riguardo alla denegata richiesta di audizione della figlia maggiore Noemi.

3.1. A tale proposito, mette conto di rilevare come, alla stregua del chiaro disposto dell’art. 603 c.p.p., commi 1 e 2, l’assunzione di nuove prove in appello sia subordinata alla valutazione del collegio del gravame di non essere in grado di decidere allo stato degli atti, salvo che non si tratti di prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, nel quale caso la Corte d’appello dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nei limiti previsti dall’art. 495 c.p.p., comma 1.

Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, nel giudizio d’appello, la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, prevista dall’art. 603 c.p.p., comma 1, è subordinata alla verifica dell’incompletezza dell’indagine dibattimentale ed alla conseguente constatazione del giudice di non poter decidere allo stato degli atti senza una rinnovazione istruttoria; tale accertamento è rimesso alla valutazione del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivata (Sez. 6, n. 8936 del 13/01/2015, Leoni, Rv. 262620; Sez. 4, n. 4981 del 05/12/2003, Rv. 229666). Il giudice d’appello ha l’obbligo di motivare espressamente sulla richiesta di rinnovazione del dibattimento nel solo caso di suo accoglimento, mentre può anche motivarne implicitamente il rigetto, evidenziando la sussistenza di elementi sufficienti ad affermare o negare la responsabilità dell’imputato (da ultimo, Sez. 4, n. 1184 del 03/10/2018 – dep. 11/01/2019, Motta Pelli Srl, Rv. 275114-01).

3.2. A tali coordinate ermeneutiche si è perfettamente orientata la Corte distrettuale.

Ed invero, la Corte di merito, per un verso, ha richiamato la valutazione già espressa dal Giudice di primo grado (allorchè ha evidenziato come la figlia del ricorrente sia affetta da un’invalidità al 75%, con diagnosi di “ritardo mentale di grado medio e sindrome da deprivazione multipla” e sia assistita da un amministratore di sostegno e come anche il consulente di parte Dott. Chiodo si sia espresso sulla capacità di testimoniare della ragazza in termini dubitativi; v. pagina 8 della sentenza di primo grado). Per altro verso, ha comunque rilevato che il materiale probatorio acquisito risulta esaustivo ai fini della decisione (v. pagina 4 della sentenza impugnata).

Valutazione che, per la rilevata sostanziale inutilità dell’escussione testimoniale e per l’attestata completezza del compendio probatorio acquisito, risulta certamente conforme al dettato dell’art. 603 c.p.p., commi 1, come appena rammentato.

4. E’ inammissibile anche il terzo motivo, con cui la difesa attacca la valutazione e l’utilizzo delle dichiarazioni della persona offesa a fondamento del giudizio di penale responsabilità.

4.1. La difesa rinnova deduzioni già coltivate con il gravame ed esaustivamente disattese dal Collegio d’appello.

Costituisce ius receptum che le regole dettate dall’art. 192 c.p.p., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (In motivazione la Corte ha altresì precisato come, nel caso in cui la persona offesa si sia costituita parte civile, può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi) (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte ed altri, Rv. 253214).

4.2. Di tale principio di diritto hanno fatto ineccepibile applicazione i Giudici di merito, là dove – avendo riguardo al discorso giustificativo complessivo quale risulta dalla lettura integrata delle sentenze di primo e di secondo grado danti luogo ad una c.d. “doppia conforme” (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595) – nel dare risposta all’omologa doglianza proposta in appello, hanno espressamente affrontato il tema della credibilità della persona offesa.

In particolare, la Corte distrettuale ha argomentato, con considerazioni non illogiche, sia l’attendibilità intrinseca (ponendo in luce le ragioni di natura psicologica dell’atteggiamento “altalenante” tenuto dalla persona offesa, che sporgeva due denunce che poi ritirava, e valorizzando le conclusioni del consulente del P.M. quanto alla idoneità della donna a rendere testimonianza), sia l’attendibilità estrinseca (valorizzando le dichiarazioni delle figlie A. e R. e della Dott.ssa D. dei servizi sociali ed i referti medici) (v. pagine 12 e seguenti della sentenza di primo grado e pagine 4 e seguenti della sentenza impugnata).

Con tale apparato logico-argomentativo non si è confrontato il ricorrente, là dove ha proposto una valutazione parcellizzata e parziale delle plurime circostanze indicate a conforto della ritenuta attendibilità della persona offesa, finendo per sollecitare una diversa, stimata più plausibile, valutazione delle emergenze processuali, non consentita nel giudizio di legittimità, limitato alla verifica della completezza e dell’insussistenza di vizi logici ictu oculi percepibili (ex plurimis Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074).

5. Analoghe considerazioni valgono con riferimento al quarto motivo concernente la contestata riferibilità all’imputato dei messaggi estorsivi di cui al capo B).

5.1. Nel denunciare il vizio motivazionale sul punto, il ricorrente si concentra soltanto su uno dei plurimi elementi a carico (id est sull’ascrivibilità o meno al R. delle telefonate effettuate dalla cabina telefonica) ed omette di interfacciarsi con l’articolato quadro d’accusa delineato nelle sentenze di merito.

D’altronde, la riconducibilità delle richieste estorsive al ricorrente è stata esaustivamente poggiata dai Giudici della cognizione su di una pluralità di circostanze, quali: a) le dichiarazioni della persona offesa A.P. quanto alla riferita aggressione da parte del ricorrente il 16 ottobre 2014; b) la telefonata intimidatoria ricevuta il 21 novembre 2014 da parte del R., confermata dai riscontri sui tabulati del telefono cellulare in uso quest’ultimo e dalle stesse dichiarazioni dell’imputato; c) il messaggio scritto ed il messaggio vocale recante la richiesta estorsiva (“la stecca di 500 Euro”) inviati il 27 gennaio 2015 da una cabina pubblica (che – con considerazioni scevre da irragionevolezza – i Giudici della cognizione hanno ritenuto certamente riferibile al ricorrente sia per il riferimento alle “botte” che A. aveva “già preso”, non risultando che in quel periodo quest’ultimo fosse stato picchiato da altri diverso dal R., sia – e soprattutto – per il riconoscimento da parte dell’ A. della voce di quest’ultimo nel messaggio vocale); d) l’irrilevanza della circostanza che il telefono cellulare dell’imputato risultasse presente in un luogo diverso da quello ove è collocata la cabina pubblica da cui appunto erano partiti i due messaggi di gennaio 2015, potendo il ricorrente avere nell’occasione lasciato l’apparecchio a casa; e) la confusione e l’assoluta inverosimiglianza delle dichiarazioni rese dall’imputato (v. pagine 17 e seguenti della sentenza di primo grado e 5 e 6 della sentenza in verifica).

A fronte della precisione, completezza e intima coerenza dell’iter argomentativo sviluppato dal Giudice del gravame in sentenza, il ricorso si risolve nella sollecitazione di una diversa valutazione su aspetti squisitamente di merito, non consentita in questa sede.

6. Dal rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

6.1. Dalla decisione discende altresì la condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile M.T.. Essendo ella ammessa al patrocinio a spese dello Stato, tali spese, come liquidate dalla Corte d’appello di Torino con separato decreto di pagamento ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002artt. 82 e 83, dovranno essere pagate in favore dello Stato.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, il ricorrente alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile M.T., ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte d’appello di Torino con separato decreto di pagamento ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002artt. 82 e 83, disponendo il pagamento in favore dello Stato.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 19 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 2 agosto 2021

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giancarlo CORAGGIO

Giudici: Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

Svolgimento del processo

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, nella parte in cui richiama il secondo comma dell’art. 572 del codice penale, inserito dall’art. 9, comma 2, lettera b), della L. 19 luglio 2019, n. 69 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere), promosso dalla Corte d’appello di Bologna nel procedimento penale a carico di F. P., con ordinanza del 16 dicembre 2019, iscritta al n. 9 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 7 luglio 2021 il Giudice relatore Stefano Petitti;

deliberato nella camera di consiglio del 7 luglio 2021.

1.- Con ordinanza del 16 dicembre 2019, iscritta al n. 9 del registro ordinanze 2021, la Corte d’appello di Bologna ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, nella parte in cui, richiamando il secondo comma dell’art. 572 del codice penale, inserito dall’art. 9, comma 2, lettera b), della L. 19 luglio 2019, n. 69 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere), “prevede che il reato di maltrattamenti in famiglia commesso in presenza di minori è ostativo alla sospensione dell’ordine di esecuzione, senza prevedere un regime transitorio che dichiari applicabile tale norma solo ai fatti commessi successivamente” all’entrata in vigore della legge medesima.

Considerate la “natura afflittiva o intrinsecamente punitiva” e la “rilevanza sostanziale” della disposizione censurata, in quanto incidente sulla “portata della pena”, il rimettente sospetta che l’applicazione della stessa ai fatti commessi anteriormente all’entrata in vigore della L. n. 69 del 2019 violi gli artt. 31325, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con L. 4 agosto 1955, n. 848.

1.1.- La Corte d’appello di Bologna riferisce di dover provvedere sull’istanza con la quale F. P. ha chiesto sospendersi l’ordine di carcerazione emesso nei suoi confronti il 23 settembre 2019 in esecuzione di una sentenza passata in giudicato il 26 luglio 2019 recante condanna inflittagli per il reato aggravato di cui agli artt. 572 e 61, primo comma, numero 11-quinquies), cod. pen., avente ad oggetto maltrattamenti in danno della moglie commessi in presenza di minori “dal 2011 al mese di maggio 2017”.

Sull’assunto che questo titolo di reato sia divenuto ostativo alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva solo con l’entrata in vigore della L. n. 69 del 2019, quindi solo il 9 agosto 2019, il giudice a quo reputa che un’applicazione retroattiva della modifica normativa, seppur conforme al diritto vivente ispirato al principio tempus regit actum in materia esecutiva, oltre a rimettere la maggiore o minore severità del trattamento sanzionatorio al dato casuale del diverso tempo di attivazione dell’organo esecutivo, sia lesiva della garanzia sostanziale di irretroattività delle norme penali (viene richiamata la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, grande camera, 21 ottobre 2013, D.R.P. contro Spagna).

1.2.- In ordine alla rilevanza delle questioni, il giudice a quo osserva che “l’assenza di una disciplina transitoria ha comportato l’emissione dell’ordine di esecuzione per la carcerazione e, in caso di dichiarata incostituzionalità, il P. otterrebbe l’immediata sospensione dell’ordine di esecuzione, aprendosi per lui il termine per proporre richiesta, da libero, di misure alternative alla detenzione”.

D’altro canto, “l’esistenza di un diritto vivente così granitico in tema di applicazione del principio tempus regit actum in materia esecutiva” renderebbe impraticabile un’interpretazione adeguatrice della disposizione censurata.

2.- È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto dichiararsi le questioni inammissibili, sotto due convergenti profili, entrambi riferiti all’asserita erroneità della mancata sospensione dell’ordine di carcerazione, emendabile dal giudice dell’esecuzione con l’immediata declaratoria di inefficacia dell’ordine stesso.

2.1.- In primo luogo, il titolo di reato per cui è stata emessa la condanna di F. P., cioè maltrattamenti in famiglia aggravati dalla presenza di minore, non avrebbe avuto effetto ostativo al tempo della sospensione dell’ordine di esecuzione, effetto viceversa correlato al solo delitto di maltrattamenti in danno di minore.

2.2.- Inoltre, la sospensione dell’ordine di carcerazione avrebbe dovuto essere disposta in base alla disciplina vigente alla data del passaggio in giudicato della condanna, cioè al 26 luglio 2019, senza che potesse venire in rilievo la modifica normativa di cui alla L. n. 69 del 2019, entrata in vigore solo il 9 agosto 2019, essendo irrilevante che l’ordine stesso sia stato emesso posteriormente, ossia in data 23 settembre 2019, giacché “eventuali ritardi nell’esecuzione non possono avere alcuna incidenza sulla individuazione della normativa applicabile al caso concreto”.

Motivi della decisione

1.- La Corte d’appello di Bologna (reg. ord. n. 9 del 2021) ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, nella parte in cui, richiamando il secondo comma dell’art. 572 del codice penale, inserito dall’art. 9, comma 2, lettera b), della L. 19 luglio 2019, n. 69 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere), “prevede che il reato di maltrattamenti in famiglia commesso in presenza di minori è ostativo alla sospensione dell’ordine di esecuzione, senza prevedere un regime transitorio che dichiari applicabile tale norma solo ai fatti commessi successivamente” all’entrata in vigore della legge medesima.

Il rimettente prospetta la violazione degli artt. 31325, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con L. 4 agosto 1955, n. 848, in quanto l’applicazione del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva per maltrattamenti aggravati dalla presenza di minore commessi prima dell’entrata in vigore della L. n. 69 del 2019 – che ha reso questo titolo di reato ostativo alla sospensione – lederebbe la garanzia costituzionale e convenzionale di irretroattività delle norme penali ad effetti sostanziali, quelle incidenti cioè sulla portata effettiva della pena.

1.1.- Il giudice a quo riferisce di dover provvedere sull’istanza con la quale F. P. ha chiesto sospendersi l’ordine di carcerazione emesso nei suoi confronti il 23 settembre 2019 in esecuzione di una sentenza passata in giudicato il 26 luglio 2019 recante condanna inflittagli per il reato aggravato di cui agli artt. 572 e 61, primo comma, numero 11-quinquies), cod. pen., avente ad oggetto maltrattamenti in danno della moglie commessi in presenza di minori “dal 2011 al mese di maggio 2017”.

Le questioni sarebbero rilevanti poiché l’accoglimento delle stesse consentirebbe a F. P. di ottenere la sospensione dell’ordine di carcerazione e chiedere quindi, da libero, una misura alternativa alla detenzione; effetto che il rimettente dichiara non conseguibile altrimenti, attesa la sussistenza di “un diritto vivente così granitico in tema di applicazione del principio tempus regit actum in materia esecutiva” da impedire ogni interpretazione adeguatrice della norma censurata.

2.- Intervenuto in giudizio, il Presidente del Consiglio dei ministri ha chiesto dichiararsi le questioni inammissibili, poiché la mancata sospensione dell’ordine di carcerazione di F. P. sarebbe frutto di errori interpretativi e applicativi, che il giudice dell’esecuzione potrebbe emendare da sé, senza alcuna necessità di sollevare incidente di costituzionalità.

Ad avviso dell’interveniente, sarebbe stato erroneo considerare ostativo alla sospensione dell’ordine di esecuzione il reato di maltrattamenti in presenza di minori, giacché l’effetto ostativo andrebbe correlato ai soli maltrattamenti in danno di minori; inoltre, la sospensione dell’ordine di carcerazione avrebbe dovuto essere disposta in base alla disciplina vigente alla data del passaggio in giudicato della condanna, cioè al 26 luglio 2019, senza applicare la modifica normativa di cui alla L. n. 69 del 2019, entrata in vigore solo il 9 agosto 2019, non avendo alcuna rilevanza che l’ordine stesso sia stato emesso posteriormente, ossia in data 23 settembre 2019.

3.- Tali eccezioni di inammissibilità non sono fondate.

Il giudice a quo ha ritenuto che, malgrado il carattere ostativo del titolo di reato dei maltrattamenti familiari in presenza di minori sia sopravvenuto al fatto-reato commesso da F. P., e persino alla formazione del giudicato nei confronti dello stesso, tuttavia l’ordine di esecuzione della condanna non avrebbe potuto essere sospeso in ragione del principio tempus regit actum, la cui operatività in materia esecutiva era imposta dal diritto vivente.

3.1.- Questi argomenti sono tutt’altro che incoerenti rispetto al quadro interpretativo consolidato al momento dell’ordinanza di rimessione, effettivamente dominato dal principio tempus regit actum in materia esecutiva, fermo che l’actus di riferimento temporale avrebbe dovuto individuarsi, per l’appunto, nell’ordine di carcerazione della cui sospensione trattasi, elemento essenziale della fattispecie complessa destinata a culminare nell’eventuale concessione delle misure alternative (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 6 giugno 2019, n. 25212).

Tanto basta ad escludere l’eccepita inammissibilità delle questioni in scrutinio, atteso che il sindacato di questa Corte sul giudizio di rilevanza della questione incidentale ha carattere “esterno”, si arresta cioè alla soglia della “non implausibilità” della motivazione dell’ordinanza di rimessione (ex plurimis, sentenze n. 59, n. 32, n. 22 e n. 15 del 2021, n. 267 e n. 32 del 2020; ordinanze n. 117 del 2017 e n. 47 del 2016).

4.- Nel merito, le questioni non sono fondate, nei sensi di cui appresso.

5.- Con la sentenza n. 32 del 2020, questa Corte, ritenendo necessaria “una complessiva rimeditazione della portata del divieto di retroattività sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., in relazione alla disciplina dell’esecuzione della pena”, ha affermato che la regola di diritto vivente secondo cui le pene devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento dell’esecuzione, e non in base a quella in vigore al tempo della commissione del reato, soffre “un’eccezione allorché la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato”.

Ciò la sentenza medesima ha affermato anche per il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva di cui all’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., non essendo decisiva in senso contrario la collocazione della disposizione nel codice di rito, atteso che quel divieto “produce l’effetto di determinare l’inizio dell’esecuzione della pena stessa in regime detentivo, in attesa della decisione da parte del tribunale di sorveglianza sull’eventuale istanza di ammissione a una misura alternativa; e dunque comporta che una parte almeno della pena sia effettivamente scontata in carcere, anziché con le modalità extramurarie che erano consentite – per l’intera durata della pena inflitta – sulla base della legge vigente al momento della commissione del fatto”.

Enunciata a proposito dell’art. 1, comma 6, lettera b), della L. 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), la medesima ratio non può che valere in ogni ipotesi nella quale il legislatore estenda il novero dei reati ostativi alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva senza una disciplina transitoria mirata ad escludere dall’inasprimento normativo i condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente alla sua entrata in vigore.

5.1.- Al cospetto di un diritto vivente univocamente orientato all’indiscriminata applicazione del principio tempus regit actum in materia esecutiva, questa Corte, nella sopra citata sentenza, ha ritenuto di non poter adottare una pronuncia interpretativa di rigetto, e ha così dichiarato l’illegittimità costituzionale – per contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost. – dell’art. 1, comma 6, lettera b), della L. n. 3 del 2019, “in quanto interpretato” nel senso imposto da quel medesimo diritto vivente.

Modificando il quadro interpretativo del regime intertemporale delle novelle incidenti sulla disciplina dell’esecuzione della pena, tale declaratoria di illegittimità costituzionale ha restituito ai giudici comuni la possibilità – e quindi il dovere – di interpretare in senso costituzionalmente adeguato ogni sopravvenienza normativa che muti quella disciplina in peius.

5.2.- Per dette ragioni, con la sentenza n. 193 del 2020, questa Corte, chiamata a pronunciarsi su questioni analoghe alle odierne – sollevate, in riferimento agli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU, nei riguardi dell’art. 3-bis, comma 1, del D.L. 18 febbraio 2015, n. 7 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale, nonché proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle Organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione), convertito, con modificazioni, nella L. 17 aprile 2015, n. 43, nella parte in cui, stabilendo l’esclusione della sospensione dell’ordine di esecuzione per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, “non prevede una norma transitoria al fine di evitare l’applicazione retroattiva del divieto” -, ha dichiarato le questioni stesse non fondate “nei sensi di cui in motivazione”.

Infatti, sulla premessa che tale norma, sancendo il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, nulla dispone circa i fatti commessi anteriormente alla sua entrata in vigore, la sentenza n. 193 del 2020 ha osservato che “nessun ostacolo si oppone più a che il giudice a quo adotti, rispetto a tali reati, l’unica interpretazione della disposizione censurata compatibile con il principio di legalità della pena di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., così come declinato da questa Corte nella sentenza n. 32 del 2020″.

Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3-bis, comma 1, del D.L. n. 7 del 2015, come convertito, sono state dichiarate non fondate, quindi, “potendo e dovendo la disposizione censurata essere interpretata in modo conforme a Costituzione”, cioè nel senso che essa potrà trovare applicazione – con riferimento al divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva di cui all’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. – ai soli fatti di reato commessi successivamente alla sua entrata in vigore.

6.- A conclusioni analoghe deve pervenirsi per le questioni ora in scrutinio, una volta constatato che il reato di maltrattamenti familiari in presenza di minori è entrato a far parte del novero dei reati ostativi alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva solo per effetto della modifica introdotta dalla L. n. 69 del 2019, che non può peggiorare il regime esecutivo nei confronti di un condannato il quale – come F. P. – abbia commesso il reato medesimo prima dell’entrata in vigore di quella legge.

6.1.- La menzione dell’art. 572, secondo comma, cod. pen. nell’elenco dei titoli di reato per i quali l’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. esclude la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva è stata introdotta dall’art. 1, comma 1, lettera b), del D.L. 1 luglio 2013, n. 78 (Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena), convertito, con modificazioni, nella L. 9 agosto 2013, n. 94.

A quel tempo, l’art. 572, secondo comma, cod. pen., a sua volta introdotto dall’art. 4, comma 1, lettera d), della L. 1 ottobre 2012, n. 172 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007, nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno), prevedeva un’aggravante ad effetto comune del reato di maltrattamenti, se commesso “in danno di persona minore degli anni quattordici”.

6.2.- Su tale quadro normativo è intervenuto il D.L. 14 agosto 2013, n. 93 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province), convertito, con modificazioni, nella L. 15 ottobre 2013, n. 119.

L’art. 1, comma 1, del testo originario di tale decreto sostituiva il secondo comma dell’art. 572 cod. pen. riferendo l’aggravante – sempre ad effetto comune – al fatto commesso “in danno o in presenza di minore degli anni diciotto”, quindi con un ampliamento concernente non soltanto l’età del minore, giacché venivano inclusi anche gli ultraquattordicenni, ma anche la condotta del maltrattante, estesa a comprendere i maltrattamenti (non in danno, ma) in presenza del minore, tipo di lesione indiretta, basata sulla percezione della violenza in ambito domestico, anche nota come “violenza assistita”.

In sede di conversione, tuttavia, l’art. 1 del D.L. n. 93 del 2013 è stato modificato nel senso che, tramite il comma 1-bis, è stato abrogato il secondo comma dell’art. 572 cod. pen. e, mediante il comma 1, il relativo contenuto è stato trasferito nell’art. 61, primo comma, numero 11-quinquies), cod. pen., prevedendo, tra le circostanze aggravanti comuni, l'”avere … nel delitto di cui all’articolo 572, commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto …”.

6.3.- Da ultimo, l’art. 9, comma 1, della L. n. 69 del 2019 ha espunto il riferimento all’art. 572 cod. pen. dall’art. 61, primo comma, numero 11-quinquies), cod. pen.

L’art. 9, comma 2, lettera b), della L. n. 69 del 2019 medesima ha tuttavia inserito nell’art. 572 cod. pen. un nuovo secondo comma, che ha recuperato l’aggravante, questa volta configurandola alla stregua di una circostanza ad effetto speciale, giacché vi si prevede che “la pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore …”.

6.4.- Questo excursus evidenzia che, anteriormente alla modifica introdotta dalla L. n. 69 del 2019, l’art. 572, secondo comma, cod. pen. non ha mai contemplato la circostanza della presenza del minore quale aggravante del reato di maltrattamenti.

Esso è stato formalmente veicolo dell’aggravante della “presenza di minore degli anni diciotto” nell’arco temporale che va dall’entrata in vigore del D.L. n. 93 del 2013 (17 agosto 2013) sino all’entrata in vigore della legge di conversione (16 ottobre 2013), e tuttavia l’effetto caducatorio spiegato da quest’ultima – che, come si è visto, ha abrogato quel secondo comma tramite un emendamento modificativo del testo originario del decreto – impedisce che ciò possa avere un qualche rilievo (meno che mai in malam partem), giacché il decreto-legge convertito in legge con emendamenti implicanti mancata conversione in parte qua perde efficacia sin dall’inizio ex art. 77, terzo comma, Cost. (sentenze n. 367 del 2010 e n. 51 del 1985).

6.5.- La giurisprudenza di legittimità ha potuto quindi constatare che tra l’originaria forma aggravata ex art. 572, secondo comma, cod. pen. e quella inserita nell’art. 61, primo comma, numero 11-quinquies), cod. pen. vi è continuità normativa soltanto per le condotte tenute in danno dei minori di anni quattordici, unico terreno comune ad entrambe, mentre non rientrano nell’originaria previsione di aggravamento, e non possono quindi ritenersi richiamate in forma “mobile” dall’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., le ulteriori ipotesi aggravate introdotte nell’art. 61, primo comma, numero 11-quinquies), cod. pen., ipotesi nuove, ispirate da maggior rigore punitivo, quindi soggette ai principi di tassatività e irretroattività (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 21 marzo 2019, n. 12653).

6.6.- Insussistente in rapporto all’aggravante ad effetto comune ex art. 61, primo comma, numero 11-quinquies), cod. pen., l’effetto ostativo della “violenza assistita” è da intendersi quindi introdotto ex novo con l’aggravante ad effetto speciale di cui al secondo comma dell’art. 572 cod. pen., come inserito dalla L. n. 69 del 2019.

7.- In definitiva, le questioni vanno dichiarate non fondate, poiché, contrariamente a quanto sostenuto dal giudice a quo, pur in conformità al diritto vivente al tempo dell’ordinanza di rimessione, l’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. può e deve essere oggi interpretato – in linea con la sopravvenuta sentenza di questa Corte n. 32 del 2020 – nel senso che il divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva nei confronti del condannato per il delitto di maltrattamenti aggravato dalla presenza di minori non si applica alla condanna per fatti commessi prima dell’entrata in vigore della L. n. 69 del 2019.

P.Q.M.

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 31325, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con L. 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte d’appello di Bologna con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Conclusione

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2021.

Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2021.

Originally posted 2021-08-09 06:30:25.