ART 268 CPP Prove, mezzi di ricerca della prova

 

ART 268 CPP Prove, mezzi di ricerca della prova PENALE BOLOGNA PROCESSO

 

Attenzione: Diritto penale breve vademecum-avvocato penalista Bologna

 

 

 

 

l’accoglimento della richiesta avrebbe potuto comportare una lesione del diritto costituzionale alla riservatezza di soggetti estranei al processo. Il giudice dell’udienza preliminare aveva autorizzato i richiedenti solo a visionare le riprese e ascoltare le registrazioni nell’Ufficio di Procura, adempimento che avrebbe richiesto l’impegno di migliaia di ore.

A fondamento della condanna sono stati posti spezzoni (individuati dall’Accusa) che non consentono di ricostruire l’abitualità della condotta, per la loro episodicità e mancanza di gravità ed a fronte di comportamenti che vanno valutati in relazione alle caratteristiche delle persone vittime dei reati, affetti da gravi patologie e turbe comportamentali che necessitavano di interventi volti a rimuovere situazioni di pericolo per la vita degli stessi, degli altri pazienti e del personale.

Sul piano processuale l’omessa attivazione dell’udienza cd. stralcio (che lo stesso Consiglio Superiore della Magistratura ha suggerito con risoluzione del 29 luglio 2016) e l’omesso rilascio di copie della totalità del materiale ha determinato un vulnus del diritto di difesa che si è riverberato, ex art. 178 c.p.p., lett. c) sulla posizione del responsabile civile, sia in relazione all’avviso di conclusione delle indagini, ex art. 415-bis c.p.p., con il quale viene messa a disposizione delle parti la totalità delle risultanze delle indagini che degli atti successivi;

CASSAZIONE SEZ UNITE ALCOLTEST, AVVOCATO PENALISTA BOLOGNA RAVENNA RIMINI CESENA FORLI SEQUESTRO VEICOLO DI TERZI ESCLUSIONE:non è confiscabile fa vettura condotta in stato di ebbrezza dall’autore dei reato, utilizzatore del veicolo in relazione a contratto di leasing, se il concedente, proprietario del mezzo, sia estraneo al reato”.

Ai fini dell’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni per l’emissione di una misura cautelare non è necessaria la trasmissione del verbale previsto dall’art. 268, comma primo, c.p.p., ma è sufficiente la trasmissione, con la richiesta del P.M., di una documentazione sommaria e informale, come i c.d. brogliacci di ascolto. E invero, mentre è necessaria la trasmissione dei decreti autorizzativi delle intercettazioni per dimostrare che le intercettazioni non sono state diposte in violazione di un divieto stabilito dalla legge (vizio che senz’altro pregiudicherebbe la possibilità di tenere conto degli indizi attraverso di esse acquisiti per l’emissione della misura), lo stesso valore non si può attribuire al verbale, la cui funzione è solo di dare atto delle modalità di svolgimento delle relative operazioni. (Fattispecie concernente intercettazioni ambientali, in relazione alle quali, peraltro, la S.C. ha ritenuto inapplicabile il disposto di cui all’art. 268, comma terzo, c.p.p.).

La mancata trasmissione al Gip, da parte del P.M., a corredo della richiesta di applicazione di una misura cautelare basata sui risultati di intercettazioni telefoniche, dei decreti di autorizzazione all’effettuazione di tali operazioni, se non dedotta mediante impugnazione dell’ordinanza applicativa di detta misura, non può costituire motivo di revoca della misura stessa, quando venga accertato che i decreti in questione erano stati, in effetti, tempestivamente e ritualmente emessi.

In tema di intercettazioni di conversazioni e comunicazioni, l’omissione del deposito dei provvedimenti del P.M. e del Gip, nonché del contenuto delle trascrizioni, nelle forme previste dall’art. 268, quarto e sesto comma, c.p.p. non dà luogo ad alcuna sanzione di nullità o inutilizzabilità in quanto non prevista dalla legge.

Sono inutilizzabili, anche ai fini cautelari, i risultati di intercettazioni telefoniche quando sia stata omessa, da parte del pubblico ministero, la trasmissione non solo dei verbali delle conversazioni intercettate, ma anche delle trascrizioni sommarie e dei riferimenti riassuntivi previsti dall’art. 268, comma 2, c.p.p.

In tema di intercettazione di conversazioni tra presenti, è legittima l’autorizzazione all’utilizzo di impianti in dotazione alla polizia giudiziaria, stanti gli insormontabili ostacoli tecnici che impediscono un utile impiego degli impianti installati presso la procura della Repubblica, il cui normale uso è previsto dall’art. 268, comma terzo, c.p.p., con disposizione palesemente concepita per le intercettazioni telefoniche e non adattabile alle particolari esigenze di quelle ambientali.

La mancata osservanza dell’obbligo di motivazione previsto dall’art. 268, comma terzo, c.p.p. sul perché l’intercettazione debba essere eseguita non da impianti degli uffici della Procura della Repubblica ma dagli altri impianti dalla stessa norma previsti comporta, ai sensi dell’art. 271, la semplice inutilizzabilità delle intercettazioni compiute; pertanto di tali ragioni può darsi conto in un provvedimento integrativo, successivo all’effettuazione, purché anteriore all’utilizzazione delle risultanze dell’operazione, in modo da consentire il controllo da parte del giudice.

In tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, la richiesta di una misura cautelare non deve essere preceduta dal deposito di cui al quarto comma dell’art. 268 c.p.p., che rientra negli adempimenti da osservarsi nell’ambito del procedimento principale. Nella procedura incidentale de libertate il deposito non rileva, essendo del tutto incompatibile con la urgenza che caratterizza le misure cautelari.

Per l’intercettazione di comunicazioni tra presenti (nella specie effettuate nei locali di un istituto di pena) è richiesto, a pena di inutilizzabilità del relativo contenuto, che il decreto del pubblico ministero di autorizzazione a servirsi, sempre che ricorrano le condizioni previste dall’art. 268, comma terzo, c.p.p., di apparecchiature non installate presso la procura della Repubblica che procede, sia adeguatamente motivato.

Ai fini dell’utilizzabilità dei risultati delle intercettazioni per l’emissione di una misura cautelare non è necessaria la trasmissione del verbale previsto dall’art. 268, comma primo, c.p.p., ma è sufficiente la trasmissione, con la richiesta del P.M., di una sommaria trascrizione del contenuto di esse o di un riferimento riassuntivo, come i c.d. brogliacci di ascolto.

A differenza della mancata trasmissione al giudice dei decreti di autorizzazione all’effettuazione di intercettazioni di comunicazioni, la mancata trasmissione dei verbali di esecuzione delle relative operazioni non dà luogo ad inutilizzabilità dei risultati, ai sensi dell’art. 271 c.p.p., sempre che — dovendosi pur sempre consentire la verifica della regolarità delle suddette operazioni — dalle trascrizioni sommarie o appunti riassuntivi siano comunque rilevabili la data, l’ora, il luogo della loro effettuazione e l’identità dell’agente che vi ha proceduto.

Gli elementi ricavati da intercettazioni eseguite presso impianti diversi da quelli in dotazione alla Procura della Repubblica, in totale mancanza di specifico provvedimento del P.M. ai sensi dell’art. 268, comma terzo, del codice di procedura penale, sono inutilizzabili in giudizio. Ed invero, la mancata attuazione, nelle forme prescritte, del preventivo controllo dell’autorità giudiziaria circa le modalità dell’intercettazione, coinvolgendo il diritto, di rango costituzionale, alla riservatezza delle comunicazioni che riguarda non il solo indagato, ma una pluralità non preventivamente determinabile di soggetti, dà luogo automaticamente ad una situazione di radicale illegittimità sanzionata non solo dalla inutilizzabilità dei risultati, ma addirittura dalla fisica distruzione del materiale ricavato, che il giudice deve disporre d’ufficio in ogni stato e grado del processo: il che esclude altresì, evidentemente, la possibilità di qualsiasi intervento correttivo successivo all’esecuzione delle operazioni.

Ai fini dell’adozione di una misura cautelare, i «gravi indizi di colpevolezza» possono essere legittimamente desunti anche dalle trascrizioni sommarie o dagli appunti raccolti durante le operazioni di intercettazione di comunicazione (c.d. «brogliacci di ascolto»), non essendo necessaria, ai fini anzidetti, la trasmissione, da parte del pubblico ministero, dei verbali redatti a norma dell’art. 268 comma 1 c.p.p. e dell’art. 89 att. c.p.p., i quali, a differenza dei decreti di autorizzazione, non attengono alla dimostrazione che le operazioni non si sono svolte in violazione di un divieto (con conseguenti riflessi sulla utilizzabilità dei loro risultati), ma riguardano solo l’elemento estrinseco e formale delle acquisizioni legittimamente avvenute, da considerarsi rilevante, ai fini della utilizzabilità, ex art. 271, comma 1, c.p.p., solo in sede probatoria e non in quella cautelare.

Nel caso in cui la misura cautelare è richiesta dal pubblico ministero sulla base dei risultati di intercettazioni telefoniche, devono essere allegati, a pena di inutilizzabilità di tale mezzo di ricerca della prova, i relativi decreti autorizzativi, perché solo attraverso l’esame di tali atti il giudice investito della richiesta può esercitare il controllo di legalità che gli compete, accertando se sono state effettivamente osservate le disposizioni dell’art. 267 c.p.p. Né si può sostenere l’inutilità di inviare i decreti autorizzativi allo stesso organo che li ha precedentemente emessi, poiché il giudice per le indagini preliminari non trattiene documentazione di simili provvedimenti.

Qualora il pubblico ministero giustifichi, con adeguata motivazione, l’impossibilità di impiegare nelle intercettazioni gli impianti installati presso la procura della Repubblica, rimane affidato alla discrezionalità del medesimo il compito di utilizzare gli strumenti ritenuti idonei al fine di pervenire al risultato tecnicamente più rispondente alle esigenze dell’ascolto e della registrazione.

In conformità all’orientamento espresso dalle Sezioni unite della Suprema Corte, deve ritenersi che i decreti autorizzativi delle intercettazioni debbano essere allegati dal pubblico ministero agli atti da trasmettere al giudice per le indagini preliminari a fondamento della richiesta di applicazione della misura cautelare personale, e, successivamente, al tribunale in sede di riesame o di appello cautelare. La mancata presenza tra gli atti trasmessi dal P.M. al tribunale, a norma dellart. 309, comma quinto, c.p.p., dei decreti autorizzativi non determina, tuttavia, di per sè, l’automatica perdita di efficacia della misura cautelare. Questa sanzione è stata infatti tassativamente correlata, a norma dell’art. 309, comma decimo, c.p.p., alla sola mancata trasmissione degli atti posti dal P.M. a fondamento della richiesta di applicazione della misura coercitiva. D’altro canto, l’omessa allegazione alla richiesta di applicazione della misura cautelare dei decreti autorizzativi non dà luogo, di per sè, a nullità dell’ordinanza applicativa in quanto emessa in assenza dei gravi indizi di colpevolezza, dovendo il tribunale valutare, quale giudice del riesame, in forza dei poteri conferitigli dall’art. 309, comma nono, c.p.p., la legittimità della misura stessa sulla base del contenuto degli atti trasmessi dal P.M., senza tener conto dei risultati delle intercettazioni.

In materia di intercettazioni telefoniche, l’art. 268, terzo comma, c.p.p., stabilisce che le operazioni di intercettazione telefonica possono essere eseguite, previo provvedimento motivato del pubblico ministero, mediante impianti di pubblico servizio o in dotazione della polizia giudiziaria quando quelli esistenti presso le procure risultano «insufficienti o inidonei ed esistano ragioni di urgenza». Quanto alla valutazione da parte del pubblico ministero circa la inidoneità dei propri impianti all’uso designato, a nulla rileva la teorica previsione dell’obbligo di dotazione di impianti siffattamente idonei negli stessi uffici, servendo difatti la prevista facoltà derogatoria, del resto rigorosamente circoscritta dalla legge, proprio al superamento di deficienze tecniche del genere, in vista delle imperative e pressanti necessità di ordine pubblico, così come a nulla rileva la teorica possibilità – specie se emersa solo in un secondo momento – dell’eventuale raggiungimento del medesimo risultato a mezzo di opportune innovazioni tecniche: quella di cui bisogna tener conto è la situazione di fatto e di diritto esistente al momento in cui il pubblico ministero dispone, con decreto motivato, che le operazioni di intercettazioni vengano eseguite mediante impianti diversi da quelli esistenti presso il suo ufficio per la ritenuta inidoneità di questi ultimi e per la esistenza di eccezionali ragioni di urgenza.

In tema d’intercettazione di comunicazioni tra presenti, è legittima l’autorizzazione all’utilizzo degli impianti in dotazione alla polizia giudiziaria per insormontabili ostacoli tecnico-ambientali che si frappongono ad un utile impiego degli impianti installati presso la Procura della Repubblica, il cui normale utilizzo è, peraltro, previsto dall’art. 268, comma 3, c.p.p. con disposizione palesemente concepita per le intercettazioni telefoniche e non adattata alle particolari esigenze delle intercettazioni ambientali.

Ai fini della legittimità dell’emissione di un provvedimento di custodia cautelare non è necesario che vengano trasmessi agli organi decidenti gli atti comprovanti la regolarità formale delle operazioni di intercettazione telefonica e quelli idonei a consentire il controllo sostanziale del loro risultato, essendo sufficienti anche semplici annotazioni riassuntive del tenore delle conversazioni, in quanto — in relazione alla fase delle indagini preliminari, caratterizzata da esigenze di rapidità ed essenzialità di forme e connotata da costante evoluzione del materiale probatorio — non può invocarsi un’indebita compressione del diritto di difesa, le cui modalità vanno ragionevolmente adattate ai diversi momenti e alle peculiarità del rito.

In tema di intercettazioni, il comma 6 dell’art. 268 c.p.p. pone a carico delle parti l’onere di indicare le conversazioni alla cui acquisizione abbiano interesse, e delle quali, poi, il giudice deve disporre la trascrizione integrale, ai sensi del successivo comma 7. Peraltro la relativa richiesta deve essere mirata, cioè indirizzata verso specifiche conversazioni indicate, per le quali il giudice sia in grado di esercitare il previsto vaglio di non manifesta irrilevanza, essendo inconcepibile istanza cumulativa, non sorretta da idonea motivazione a supporto di individuate esigenze. (Con riferimento al caso di specie e sulla base del principio di cui in massima, la Cassazione ha ritenuto che correttamente non si fosse dato esito, da parte del giudice di merito, alla richiesta dell’imputato di procedere alla trascrizione di ogni altra telefonata intercettata, oltre quelle per le quali si era già provveduto in tale senso).

Qualora, a seguito di intercettazione di comunicazioni tra presenti venga disposta perizia con cui siano state trascritte le comunicazioni intercettate e registrate e qualora il perito sia stato nella disponibilità dei brogliacci delle intercettazioni redatti dalla polizia giudiziaria ex art. 268 c.p.p., che non avrebbero dovuto essere allegati al fascicolo dibattimentale, è da escludere, in mancanza di previsione normativa, l’inutilizzabilità della detta perizia ovvero l’irritualità della stessa, se da nessun elemento del processo è dato dedurre che il perito sia stato fuorviato dalla conoscenza dei brogliacci.

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Cassazione Penale

sez. VI

Sentenza 16/04/2019, n. 16583

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETRUZZELLIS Anna – Presidente –

Dott. COSTANZO Angelo – Consigliere –

Dott. GIORDANO Emilia A. – rel. Consigliere –

Dott. ROSATI Martino – Consigliere –

Dott. SILVESTRI Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

A.J. nato il 21/10/1959;

B.M. nato a GENOVA il 22/01/1963;

Z.D. nato a UNTERSCHAHEN (SVIZZERA) il 08/10/1963;

V.D. nato a CARIATI il 23/06/1981;

N.M. nato a GENOVA il 05/06/1940;

MU.MA. nato a GENOVA il 01/05/1943;

G.S. nato a GENOVA il 09/07/1976;

GI.MA. nato a LA SPEZIA il 28/07/1951;

e dal responsabile civile:

VILLA GRITTA SPA;

avverso la sentenza del 01/06/2018 della CORTE APPELLO di GENOVA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;

udita la relazione svolta dal Consigliere EMILIA ANNA GIORDANO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore LORI PERLA che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata nei confronti di Gi.Ma. ed il rigetto dei rimanenti ricorsi;

uditi i difensori, avvocati DI RELLA TOMASI DI LAMPEDUSA AURELIO in difesa di A.J., V.D., MU.MA., G.S., GI.MA. e VILLA GRITTA SPA chiede l’annullamento della sentenza impugnata e l’avvocato DI RELLA TOMASI DI LAMPEDUSA RICCARDO sostituto processuale dell’avvocato DI RELLA TOMASI DI LAMPEDUSA AURELIO in difesa di: A.J., V.D., MU.MA., G.S., GI.MA. e VILLA GRITTA SPA insiste per l’accoglimento dei motivi di ricorso.

RITENUTO IN FATTO

  1. La Corte di appello di Genova ha confermato la condanna, per il reato di maltrattamenti in danno degli ospiti della struttura per il ricovero di soggetti disabili, denominata I Cedri, ed avente sede in Nè, con condotte accertate fino al 15 dicembre 2012, nei confronti di:

– A.J., alla pena di anni due e mesi tre di reclusione;

– B.M., alla pena di anni tre di reclusione;

– Z.D., alla pena di anni due e mesi nove di reclusione.

– V.D., alla pena di anni due e mesi tre di reclusione;

– N.M., con le circostanze attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti contestate, alla pena di anni uno e mesi otto di reclusione;

– Mu.Ma., con le generiche equivalenti alle contestate aggravanti, alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione e in accoglimento dell’appello del Pubblico Ministero ed in riforma della sentenza di assoluzione intervenuta in primo grado, ha condannato:

– G.S., alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione e – Gi.Ma., alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione.

Gli imputati ed il responsabile civile Villa Gritta s.p.a. sono stati condannati al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, congiunti degli ospiti, in proprio e quali amministratori di sostegno dei predetti.

Legale rappresentante della struttura, presidio socio sanitario per soggetti portatori di disabilità fisiche, psichiche e sensoriali, era l’imputata Mu.Ma., mentre la figlia, G.S., ne era responsabile amministrativo e Gi.Ma. responsabile sanitario, condannati ai sensi dell’art. 40 c.p., comma 2 e art. 572 c.p..

Presso la struttura lavoravano, in qualità di infermieri professionali, B.M., Z.D. e N.M. e, in qualità di operatori socio-sanitari, i rimanenti imputati, dipendenti della struttura ovvero di una società della quale il centro si avvaleva sulla base di un contratto di prestazione di opera professionale, ciascuno ritenuto responsabile, con le precisazioni di seguito indicate, del reato di cui all’art. 572 c.p., con le aggravanti di cui all’art. 61 c.p., nn. 5 e 11.

  1. Le fonti di prova valorizzate dai giudici territoriali sono costituite da dichiarazioni testimoniali, da evidenze documentali e dalle risultanze del servizio di osservazione, condotto a partire dal mese di ottobre 2012 a mezzo due telecamere collocate in un corridoio e in un antibagno e poste al secondo dei due piani nei quali si articolava il centro.

In particolare, i frammenti dei filmati, veicolati nel giudizio attraverso una perizia disposta nel dibattimento di primo grado, e le dichiarazioni rese da alcuni operatori, sono stati posti a fondamento del giudizio di colpevolezza nei confronti di ciascuno degli imputati e in relazione alle condotte rispettivamente ascritte: incontestata è la identificazione degli autori delle condotte e delle vittime dei maltrattamenti, tutte individuate negli ospiti affetti da gravi disabilità (quali encefalopatie, ritardo mentale estremo e grave, autismo primario ed atipico) ed inquadrati, in ragione del grave quadro di disabilità e conseguente livello di autonomia, nel cd. gruppo quattro della struttura.

  1. Avverso la sentenza hanno proposto ricorso i singoli imputati innanzi indicati nonchè il responsabile civile, Villa Gritta s.p.a., con motivi di seguito sintetizzati, ai sensi dell’art. 173 disp. att. c.p.p., nei limiti strettamente indispensabili ai fini della decisione. Onde evitare inutili appesantimenti ritiene il Collegio sufficiente esporre i motivi di ricorso pertinenti alla posizione degli imputati A.J., B.M., Z.D., V.D., N.M., G.S. e Gi.Ma.. A seguire sono riportati i motivi di ricorso di natura processuale comuni a più ricorrenti, relativi alla improcedibilità dell’appello proposto avverso la sentenza di primo grado dal Pubblico Ministero, alla nullità della costituzione del rapporto processuale fin dall’udienza preliminare nonchè alle statuizioni civili recate dalla sentenza. Infine, saranno riportati i motivi di ricorso svolti da Mu.Ma. e dal responsabile civile Villa Gritta s.p.a..

3.1. A.J..

3.1.1. insussistenza degli elementi costitutivi, materiale e psicologico, del reato di cui all’art. 572 c.p.. L’imputato risponde di comportamenti tenuti nei confronti di un unico soggetto ricoverato ( J.A.) e che erano funzionali ad interagire con il paziente ma per nulla espressivi di vessazioni e violenza, anche solo psicologica.

3.2. B.M..

3.2.1 violazione di legge, in relazione all’art. 572 c.p., e cumulativi vizi di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza del requisito di abitualità della condotta. La Corte si è limitata ad una elencazione delle deposizioni testimoniali trascurando di esaminare l’aspetto dell’attendibilità dei testi, minata dalla trasmissione degli atti alla Procura in ragione della falsità e reticenza delle dichiarazioni rese; dalla carenza di rilievi in sede ispettiva;

3.2.2. violazione di legge, in relazione all’art. 89 c.p., e vizio di motivazione sul punto della ritenuta insussistenza della parziale incapacità di intendere e di volere dell’imputato. La perizia in tema è stata effettuata nel dibattimento di primo grado a distanza di cinque anni dai fatti e concludeva nel senso della esistenza di un disturbo bipolare aggravato dalle condizioni di stress lavorativo, condizione sussistente anche all’epoca dei fatti, compensata al momento dell’osservazione, ma in guisa da alterarne la capacità di adattamento e di tolleranza alle situazioni frustranti registrate al momento dei fatti;

3.2.3. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al diniego di applicazione delle circostanze attenuanti generiche. I giudici hanno esaminato solo l’aspetto delle condizioni mentali dell’imputato al momento dei fatti, ma hanno pretermesso l’esame delle ulteriori circostanze allegate dalla difesa relative alla vita anteatta del reo che aveva svolto l’attività lavorativa di infermiere professionale per oltre venti anni senza rilievi di sorta e superando, attraverso il lavoro, proprie problematiche personali, anche relative ad un passato di tossicodipendenza. Anche sull’entità della pena inflitta la motivazione della Corte è generica è di pura apparenza non avendo svolto rilievi sul concreto giudizio di personalità dell’imputato in relazione alla funzione rieducativa della pena;

3.2.4. violazione di legge in relazione all’art. 61 quinquies c.p.. I giudici di merito hanno ritenuto sussistente la cd. violenza assistita in danno dei congiunti dei pazienti costituti parti civili e di tutti i pazienti, a fronte della loro mera presenza fisica e di eventuale percezione visiva, in danno di tutti i pazienti. Le affermazioni dei giudici del merito al riguardo non hanno fondamento nella descritta previsione normativa (che ha individuato una specifica aggravante solo nel caso di maltrattamenti su minore e donna in gravidanza) e perchè è impossibile provare la volontarietà della condotta dell’agente e il nesso di causalità con i danni subiti. Certamente, con riferimento alle singole parti civili, la Corte distrettuale non ha motivato la ricorrenza perchè non è dimostrato che l’imputato avrebbe scientemente fatto assistere gli altri ospiti alla violenze praticate su alcuni pazienti con il fine particolare di provocare loro un danno psicologico.

3.3. Z.D..

3.3.1 violazione di legge, in relazione all’art. 572 c.p., e cumulativi vizi di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell’elemento psicologico del reato. La ricorrente è stata condannata in relazione ad un’unica condotta attiva di maltrattamenti, in danno del paziente D.B.M., e, in forma di violenza cd. assistita in danno di altri pazienti. La Corte ha sbrigativamente esaminato l’aspetto dell’elemento psicologico del reato, a fronte delle dichiarazioni, rese nel giudizio di appello dall’imputata che aveva evidenziato le proprie condizioni di stress e di ansia che ne determinavano comportamenti maldestri e sbrigativi non connotati, tuttavia, dal dolo, come individuato nella giurisprudenza di legittimità che richiede la consapevolezza e volontà ovvero l’intenzione di avvilire e vessare la vittima;

3.3.2 vizi di motivazione e violazione di legge inficiano anche la determinazione del trattamento sanzionatorio caratterizzato dall’individuazione di un’elevata pena base; dall’eccessivo aumento per l’applicazione delle circostanze aggravanti e di quello per la continuazione fra reati; diniego delle generiche e, quindi, giudizio di comparazione con le aggravanti. La Corte distrettuale non si è pronunciata sui rilievi della difesa che allegava il corretto comportamento processuale dell’imputata e la sua incensuratezza come circostanze di fatto che avrebbero potuto comportare l’applicazione di un trattamento penale meno severo. Apodittico è, al riguardo il giudizio della Corte di merito (pena congrua) a fronte di pena non contenuta nel minimo edittale.

FLAGRANZA REATO CONVALIDA ARRESTO , FLAGRANZA REATO, QUASI FLAGRANZA,CONSULENZA DIRITTO PENALE BOLOGNA

3.4. V.D..

3.4.1. insussistenza degli elementi costitutivi, materiale e psicologico, del reato di cui all’art. 572 c.p.. L’imputato risponde di comportamenti tenuti nei confronti di pazienti affetti da patologie, con crisi pantoplastiche che richiedevano contromisure adeguate per la salvaguardia della incolumità dei pazienti stessi e degli atri ricoverati.

3.5. N.M..

3.5.1. nullità della sentenza, in relazione all’art. 129 c.p.p.. Non sono indicati elementi per ritenere che l’imputato abbia commesso i fatti ascrittigli fino alla fine dell’anno 2010, individuazione temporale delle condotte ascritte all’imputato (genericamente indicate come fino all’anno 2010) onde escludere che si fosse verificata la prescrizione del reato. Le dichiarazioni acquisite ( So.Ta., BO.Sa., Sa.Di., Br.Si.) non consentono, anche per le incertezze che connotano la collocazione del periodo temporale nel quale le stesse dichiaranti hanno svolto attività lavorativa presso la struttura, di collocare a fine anno 2010 la commissione dei fatti. L’ambiguità della contestazione (fino all’anno 2010) e la impossibilità di agganciare a solidi elementi di prova le condotte e l’epoca della loro commissione imponevano la pronuncia di declaratoria di estinzione del reato;

3.5.2. erronea applicazione della legge processuale penale, art. 500 c.p.p., nella valutazione delle dichiarazioni accusatorie. A fondamento della condanna sono state poste, in particolare, le dichiarazioni rese nella fase delle indagini da Br.Si. e S.D., acquisite in sede di contestazione e, pertanto utilizzabili solo ai fini del giudizio di attendibilità delle dichiaranti, e non quanto dichiarato in dibattimento ove le testi avevano escluso l’abitualità dei comportamenti dell’imputato. La Corte avrebbe dovuto procedere alla riacquisizione delle dichiarazioni ed ha, invece, indebitamente utilizzato elementi di prova non acquisiti al fascicolo per il dibattimento.

3.6.1. nullità, ex art. 603 c.p.p., lett. d) c.p.p., all’imputata è stato addebitato, ai sensi dell’art. 40 c.p., il reato di maltrattamenti in relazione alle condotte ascritte a B. e V.. La motivazione della sentenza impugnata è mancante sul punto della conoscenza della condotta in quanto l’imputata si era limitata a riferire singoli episodi;

3.6.2. nullità della sentenza per mancanza di motivazione e violazione dell’art. 603 c.p.p., comma 3 bis. Il Tribunale aveva assolto l’imputata sul rilievo che non le erano attribuiti poteri disciplinari sulla scorta di quanto dalla stessa riferito non smentito da prove di segno contrario e, anzi, riscontrate dall’organigramma della struttura. La Corte ha valorizzato dichiarazioni, secondo le quali l’imputata era completamente interscambiabile con la titolare della struttura, operando una rilettura delle fonti dichiarative senza procedere alla loro riescussione (riporta, al riguardo, le dichiarazioni rese da Sl.St., St., T., g., L.) ed equivocandone il tenore, opposto alla lettura contenuta nella sentenza della Corte distrettuale.

3.7. Gi.Ma..

3.7.1. nullità della sentenza per violazione di legge e vizio di motivazione in punto di responsabilità ricondotta all’ipotesi di cui all’art. 40 c.p., limitatamente ad un unico episodio riguardante il paziente B. e in presenza di un intervento sanzionatorio adottato dall’imputato;

3.7.2 nullità della sentenza per mancanza di motivazione e violazione dell’art. 6 CEDU a seguito di omessa rinnovazione del dibattimento in appello. La sentenza di assoluzione in primo grado è stata ribaltata a seguito di una rivisitazione meramente cartolare delle prove e senza procedere al riascolto dei testimoni.

3.8. Sono comuni alle posizioni di A.J., V.D., G.S., Gi.Ma. i motivi di ricorso con i quali si denuncia:

3.8.1. violazione di legge, in relazione all’art. 582 c.p.p., e conseguente inammissibilità dell’appello del Pubblico Ministero perchè depositato presso la cancelleria del Tribunale da un non meglio identificato commesso;

3.8.2. violazione dell’art. 178 c.p.p., lett. c), in relazione all’assistenza dei predetti imputati all’udienza del 29 settembre 2014 poichè, nel corso dell’udienza preliminare, avendo il difensore abbandonato la difesa, non erano stati regolarmente assistiti nel corso dell’udienza, durante la quale avevano concluso i difensori di altri imputati ed ai fini del rinvio dell’udienza a quella del 3 ottobre 2014.

In fatto i ricorrenti Gi. e G. evidenziano che all’udienza del 29 settembre 2014 il difensore di fiducia, invitato a concludere, aveva eccepito di non poter concludere nel merito non avendo avuto cognizione di tutti gli atti del procedimento; il giudice dell’udienza preliminare preso atto della eccezione di illegittimità costituzionale sollevata dalle difese, aveva rinviato all’udienza del 3 ottobre 2014 nel corso della quale alla presenza del difensore di fiducia, dava atto di avere nominato agli imputati difensore di ufficio estromettendo dal processo il difensore di fiducia per abbandono della difesa;

il giudice dava lettura dell’ordinanza con la quale aveva dichiarato la manifesta infondatezza della dedotta questione di illegittimità costituzionale; prendeva atto della dichiarazione del difensore di ufficio di richiesta di termine a difesa e rinviava all’udienza del 16 ottobre 2014 nel corso della quale gli imputati ribadivano la nomina del difensore di fiducia negli avvocati Aurelio e Riccardo di Rella e il giudice disponeva il rinvio a giudizio degli imputati. La questione, già devoluta alla Corte di appello, è stata erroneamente risolta sia dal giudice dell’udienza preliminare, che all’udienza del 29 settembre non aveva nominato immediatamente difensore di ufficio agli imputati provvedendovi solo dopo quattro giorni, sia dai giudici di appello, secondo i quali l’udienza del 29 settembre era proseguita senza che venisse svolta attività processuale mentre, invece, tale attività si era svolta con l’acquisizione delle conclusioni dei difensori di altri imputati ed il rinvio all’udienza del 3 ottobre 2014. Ne consegue la nullità dell’udienza preliminare e di tutti gli atti successivi.

3.9. Comuni alle posizioni degli imputati A.J. e V.D. i motivi con il quali i predetti denunciano.

3.9.1. nullità, per violazione dell’art. 74 c.p.p., dell’ordinanza di ammissione delle parti civili, prossimi congiunti delle persone offese, in mancanza di una danno riconducibile direttamente all’illecito ascritto agli imputati e consistente solo nel turbamento derivato dalla possibile commissione di un reato ai danni dei congiunti;

3.10. Mu.Ma..

3.10.1. non è il caso di riportare in questa sede il primo motivo di ricorso dell’imputata che sviluppa la questione già riportata al punto 3.8.2., al quale si rimanda;

3.10.2. nullità della richiesta di rinvio a giudizio, dell’udienza preliminare e del giudizio di primo grado per violazione del principio di parità delle parti e violazione del diritto di difesa. La difesa degli imputati e della parte civile, a fronte di materiale probatorio costituito da migliaia di ore di telefonate e centinaia di ore di intercettazioni ambientali o riprese, non è stato messa in condizione di conoscere le fonti di prova poichè, non essendosi tenuta l’udienza di cui all’art. 268 c.p.p., non ha ottenuto il rilascio di copia delle riprese video e delle registrazioni delle intercettazioni telefoniche, copia denegata con ordinanza del 29 settembre 2014 dal giudice dell’udienza preliminare e con ordinanza del 27 aprile 2015 del Tribunale poichè l’accoglimento della richiesta avrebbe potuto comportare una lesione del diritto costituzionale alla riservatezza di soggetti estranei al processo. Il giudice dell’udienza preliminare aveva autorizzato i richiedenti solo a visionare le riprese e ascoltare le registrazioni nell’Ufficio di Procura, adempimento che avrebbe richiesto l’impegno di migliaia di ore. A fondamento della condanna sono stati posti spezzoni (individuati dall’Accusa) che non consentono di ricostruire l’abitualità della condotta, per la loro episodicità e mancanza di gravità ed a fronte di comportamenti che vanno valutati in relazione alle caratteristiche delle persone vittime dei reati, affetti da gravi patologie e turbe comportamentali che necessitavano di interventi volti a rimuovere situazioni di pericolo per la vita degli stessi, degli altri pazienti e del personale. Sul piano processuale l’omessa attivazione dell’udienza cd. stralcio (che lo stesso Consiglio Superiore della Magistratura ha suggerito con risoluzione del 29 luglio 2016) e l’omesso rilascio di copie della totalità del materiale ha determinato un vulnus del diritto di difesa che si è riverberato, ex art. 178 c.p.p., lett. c) sulla posizione del responsabile civile, sia in relazione all’avviso di conclusione delle indagini, ex art. 415-bis c.p.p., con il quale viene messa a disposizione delle parti la totalità delle risultanze delle indagini che degli atti successivi;

3.10.3. illegittimità costituzionale dell’art. 415-bis c.p.p., in relazione agli artt. 24 e 111 Cost. nella parte in cui non prevede che, dopo la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini, il difensore abbia diritto di ottenere copia delle intercettazioni telefoniche e ambientali e riprese audiovisive;

3.10.4. nullità dell’ordinanza del 27 aprile 2015 del Tribunale di Genova e degli atti successivi per violazione dell’art. 223 c.p.p. e art. 178 c.p.p., lett. c) poichè al consulente di parte è stato negato il diritto di accedere alla struttura per esaminare le cartelle cliniche dei degenti e verificare il loro stato di salute, come, invece, aveva potuto fare il consulente tecnico del pubblico ministero che, deponendo dinanzi al Tribunale, aveva potuto riferire quanto aveva rilevato esaminando tutta la documentazione medica e conferendo con i pazienti mentre il consulente di parte aveva avuto solo la parziale cognizione degli elementi contenuti nel fascicolo delle indagini preliminari;

3.10.5. illegittimità costituzionale dell’art. 223 c.p.p., in relazione agli artt. 24 e 111 Cost., nella parte in cui non prevede che la difesa abbia il diritto di ottenere che il consulente tecnico ritualmente nominato sia autorizzato a svolgere tutte le indagini tecniche necessarie a fini difensivi, quantomeno in condizioni di parità con il consulente del pubblico ministero;

3.10.6. nullità, per violazione dell’art. 74 c.p.p., dell’ordinanza di ammissione delle parti civili, prossimi congiunti delle persone offese, in mancanza di un danno riconducibile direttamente all’illecito ascritto agli imputati, danno consistente solo nel turbamento derivato dalla possibile commissione di un reato ai danni dei congiunti, non presenti alle condotte illecite;

3.10.7. insussistenza degli elementi costitutivi, materiale e psicologico, del reato di cui all’art. 572 c.p.. L’imputata risponde del reato di maltrattamenti, ai sensi dell’art. 40 c.p., ascritto a A.J., vittima di pregiudizi razziali, per comportamenti tenuti nei confronti di un unico soggetto ricoverato ( J.) e che erano funzionali ad interagire con il paziente ma per nulla espressivi di vessazioni e violenza, anche solo psicologica;

3.10.8. insussistenza degli elementi costitutivi, materiale e psicologico, del reato di cui all’art. 572 c.p.. L’imputata risponde del reato di maltrattamenti, ai sensi dell’art. 40 cod. pen., ascritto a V.D. e nei confronti di pazienti affetti da patologie, con crisi pantoplastiche che richiedevano contromisure adeguate per la salvaguardia della incolumità dei pazienti stessi e degli atri ricoverati. Il giudizio di colpevolezza contrasta con il compendio probatorio che ne descrive l’atteggiamento materno verso i ricoverati e quelli, affetti da patologie psichiatriche, più gravi in particolare.

3.11. Responsabile civile Villa Gritta s.p.a..

3.11.1. nullità della richiesta di rinvio a giudizio, dell’udienza preliminare e del giudizio di primo grado per violazione del principio di parità delle parti e violazione del diritto di difesa, come illustrati al punto 3.10.2;

3.11.2. illegittimità costituzionale dell’art. 415-bis c.p.p., in relazione agli artt. 24 e 111 Cost. illustrato al punto 3.10.3;

3.11.3. nullità dell’ordinanza del 27 aprile 2015 del Tribunale di Genova e degli atti successivi per violazione dell’art. 233 c.p.p. e art. 178 c.p.p., lett. c), come illustrato al punto 3.10.4;

3.11.4. illegittimità costituzionale dell’art. 233 c.p.p., in relazione agli artt. 24 e 111 Cost., come illustrato al punto 3.10.5;

3.11.5. nullità, per violazione dell’art. 74 c.p.p., dell’ordinanza di ammissione delle parti civili, prossimi congiunti delle persone offese, già riferito al punto 3.10.6;

3.11.6. nullità, per illogicità della motivazione, dell’ordinanza con la quale il Tribunale ha respinto la richiesta di trascrizione delle intercettazioni telefoniche in quanto fondata sull’erroneo presupposto che tali conversazioni fossero antecedenti alla formulazione dei capi di imputazione mentre, invece, le conversazioni sono state intercettate dopo la esecuzione degli arresti;

3.11.7. erronea applicazione dell’art. 572 c.p. in relazione ai casi di cd. violenza assistita. I giudici del merito hanno ritenuto configurabile il reato ma la introduzione dell’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 11 quinquies non ha comportato nè la introduzione di una nuova figura criminosa nè una circostanza aggravante configurabile allorquando episodi di violenza vengano commessi in presenza di disabili maggiorenni, ipotesi alla quale sono riconducibili le ritenute fattispecie criminose sulla base di un’artificiosa rappresentazione della realtà. Non è provato che le parti civili An. e Ca. siano state vittime di violenza o che abbaino assistito ad episodi di maltrattamento di altri ospiti della struttura; le loro condizioni sono migliorate durante la degenza e l’istruttoria espletata con la escussione di vari testi (cfr. pag. 18 e ss. del ricorso) contrasta con la tesi della esistenza di un clima di violenza e sopraffazioni all’interno della struttura. Con riferimento alle singole parti civili, in particolare An., la Corte distrettuale non ha motivato la ricorrenza di un danno psicologico.

  1. In vista della trattazione dell’udienza odierna, è pervenuta dichiarazione di revoca della costituzione di parte civile, proposta dal procuratore speciale, nell’interesse di An.Da.Do., An.Fe.Ma. e P.M.G.; Ca.Pi.An. e M.R. in proprio e quali amministratori di sostegno dei rispettivi congiunti, nei confronti di B.M., G.S., Gi.Ma. e Mu.Ma..

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. I ricorsi di A.J., B.M., Z.D., V.D. e N.M. sono inammissibili. Devono essere rigettati i ricorsi di Mu.Ma., G.S., Gi.Ma. e Villa Gritta s.p.a. non senza avere rilevato che la dichiarazione di rinuncia alla costituzione di parte civile nell’interesse di An.Da.Do., An.Fe.Ma. e P.M.G.; Ca.Pi.An. e M.R. in proprio e quali amministratori di sostegno dei rispettivi congiunti, comporta la revoca delle correlative statuizioni civili nei confronti degli imputati B.M., G.S., Gi.Ma. e Mu.Ma..

2.E’ opportuno esaminare, in primo luogo, le questioni processuali, comuni a più ricorrenti, che attengono ad aspetti generali e, in particolare, le questioni relative alla costituzione del rapporto processuale all’udienza preliminare, alla inammissibilità dell’appello del Pubblico Ministero, alla nullità della sentenza di appello, per mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale e, infine, la questione che, anche in presenza della parziale revoca della dichiarazione di costituzione di parte civile, concerne la legittimazione delle parti civili.

  1. Manifestamente infondato è motivo di ricorso, comune a A.J., V.D., G.S., Gi.Ma. (v. motivi comuni al punto 3.8.2) Mu.Ma. (v. motivo al punto 3.10.1), motivo con il quale è denunciata la nullità, per violazione dell’art. 178 c.p.p., lett. c), del rapporto processuale costituito all’udienza preliminare.

Ritiene il Collegio che sono al riguardo corrette le conclusioni alle quali è pervenuta la Corte di appello (illustrate alle pagg. 34 e 35 della sentenza impugnata) la cui disamina comporta, le seguenti precisazioni nella ricostruzione delle scansioni processuali sulla scorta dei verbali delle udienze del 29 settembre, 3 ottobre e 16 ottobre 2014, nelle quali si è articolata, per quanto qui di interesse, la trattazione dell’udienza preliminare.

3.1. Risulta, in particolare, che all’udienza del 29 settembre 2014 erano presenti gli avvocati Aurelio e Riccardo Di Rella, quali difensori di fiducia di V.D., A.J., Mu.Ma., G.S. e Gi.Ma. e che, dopo avere acquisito le conclusioni del Pubblico Ministero, della parte civile e dei difensori di altri imputati, il giudice dell’udienza preliminare dava la parola ai predetti difensori per rassegnare le loro conclusioni sulle posizioni degli assistiti. L’avvocato Riccardo Di Rella dichiarava “di non poter concludere perchè non ha avuto a disposizione tutti gli atti processuali e non è stato in grado di effettuare delle scelte processuali” e, dopo la discussione di altri difensori, anche l’avvocato Aurelio Di Rella verbalizzava conclusioni del medesimo tenore insistendo nella già rassegnate eccezioni di nullità delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare e nelle già proposte questioni di illegittimità costituzionale. Il giudice dell’udienza preliminare, dichiarava chiusa la discussione e rinviava per decidere le questioni di illegittimità costituzionale ed altre eccezioni all’udienza del 3 ottobre 2014. A questa udienza erano presenti per gli imputati V.D., A.J., Mu.Ma., G.S. e Gi.Ma. gli avvocati Aurelio e Riccardo Di Rella. Con ordinanza emessa ai sensi dell’art. 105 c.p.p., infatti, il giudice dell’udienza preliminare, immediatamente dopo la costituzione delle parti con la presenza dei predetti difensori, avvocati Aurelio e Riccardo Di Rella, dava lettura del provvedimento con il quale, ravvisando una condotta di abbandono di difesa degli avvocati Aurelio e Riccardo Di Rella, nominava ai predetti imputati difensore di ufficio in persona dell’avvocato Giovanna Novaresi, parimenti presente. Dopo la lettura dell’ordinanza, alle ore 10,25, gli avvocati Aurelio e Riccardo Di Rella lasciavano l’aula di udienza e, solo dopo la lettura dell’ordinanza con la quale rigettava le questioni di nullità e di illegittimità costituzionale, il difensore di ufficio chiedeva termine a difesa che veniva concesso con rinvio della trattazione dell’udienza preliminare al 16 ottobre 2014 per il prosieguo. A quest’ultima udienza erano presenti gli avvocati Aurelio e Riccardo Di Rella, per gli imputati innanzi indicati, e il giudice dava atto che, dopo l’udienza del 3 ottobre 2014, era pervenuta in cancelleria la dichiarazione degli imputati V.D., A.J., Mu.Ma., G.S. e Gi.Ma. che confermavano la nomina dei rispettivi difensori, in persona degli avvocati Aurelio e Riccardo Di Rella precisando di essere informati della scelta processuale di non rassegnare conclusioni nel merito e della motivazione della stessa, condividendo tale opzione processuale. All’esito il giudice, revocata la nomina del difensore di ufficio, dichiarava chiusa la discussione e disponeva il rinvio a giudizio degli imputati.

3.2. Con le argomentazioni poste a fondamento del motivo di impugnazione sviluppato con l’odierno ricorso dagli imputati, si ravvisa una ipotesi di nullità processuale, ai sensi dell’art. 178 c.p.p., lett. c) poichè all’udienza preliminare del 29 settembre 2014 sarebbero state svolte attività processuali – l’acquisizione delle conclusioni di altre parti processuali e lo stesso rinvio di udienza, contrariamente a quanto evidenziato dalla Corte genovese nel rigettare l’eccezione difensiva – in assenza di assistenza difensiva degli imputati. Nel motivo di ricorso dell’imputata Mu.Ma. viene, con argomentazioni più diffuse, denunciata la illegittimità e contraddittorietà della decisione del giudice dell’udienza preliminare sul rilievo che delle due l’una: o il comportamento degli avvocati Aurelio e Riccardo Di Rella all’udienza del 29 settembre 2014 non aveva integrato abbandono di difesa, sicchè era illegittima l’ordinanza del 3 ottobre 2014, in quanto l’ordinanza del giudice aveva inciso sul diritto dell’imputato alla scelta personale del difensore, ovvero tale comportamento aveva integrato una condotta di abbandono di talchè, ripropostasi la medesima situazione all’udienza del 16 ottobre 2014, era ravvisabile una fattispecie di mancata assistenza difensiva a detta udienza.

3.3. Ritiene il Collegio che la censura difensiva è manifestamente infondata sulla scorta della ricostruzione in fatto della vicenda processuale, innanzi compiuta, dal momento che gli avvocati Aurelio e Riccardo Di Rella sono stati presenti, ai fini dell’assistenza degli imputati, fino alla fine dell’udienza del 29 settembre 2014 ed erano presenti al momento della costituzione del rapporto processuale all’udienza del 3 ottobre 2014, udienza nella quale sono stati sostituiti dal difensore di ufficio e che, in esito alla lettura del provvedimento con il quale il giudice aveva rilevato la situazione di abbandono di difesa procedendo alla nomina del difensore di ufficio, pure presente, e solo a partire da quel momento, si erano allontanati dall’aula di udienza. I predetti avvocati Di Rella erano, infine, presenti all’udienza del 16 ottobre 2014 nella quale, revocata la nomina del difensore di ufficio, il giudice aveva disposto il rinvio a giudizio degli imputati. Non si è, pertanto, verificata alcuna cesura, nell’assistenza degli imputati V.D., A.J., Mu.Ma., Gi.Ma. e S. nè all’udienza del 29 settembre 2014, ove gli imputati sono stati assistiti durante il compimento delle attività processuali e fino al momento del rinvio dell’udienza al 3 ottobre 2014 dagli avvocati di fiducia Aurelio e Riccardo Di Rella, che prendevano la parola dopo le conclusioni rassegnate dal Pubblico Ministero, assistendo alla discussione dei difensori dei coimputati e che, certamente, avevano preso atto della data di rinvio; nè all’udienza del 3 ottobre 2014, durante la quale gli imputati erano stati assistiti, al momento della costituzione del rapporto processuale, dai predetti avvocati di fiducia Aurelio e Riccardo Di Rella e poi dal difensore di ufficio; nè, infine, all’udienza del 16 ottobre 2014, alla quale hanno partecipato i difensori di fiducia degli imputati, avvocati Aurelio e Riccardo Di Rella, prendendo atto della emissione del decreto ex art. 429 c.p.p..

Non può ritenersi illegittimo il provvedimento adottato, in data 3 ottobre 2014, dal giudice dell’udienza preliminare, provvedimento che ha determinato la sostituzione dei difensori di fiducia nominati dagli imputati incidendo sulla configurazione della difesa tecnica come un diritto che si atteggia, in primo luogo, come libertà di scegliere un difensore di fiducia, nè il provvedimento di revoca della nomina del difensore di ufficio, intervenuto all’udienza del 16 ottobre 2014, provvedimento che ha determinato la prosecuzione del rapporto processuale dell’udienza con l’assistenza dei predetti difensori di fiducia degli imputati.

Va, in primo luogo, affermata la natura costitutiva dell’ordinanza con la quale il giudice, ravvisata una condotta rilevante ai sensi dell’art. 105 c.p.p., procede alla sostituzione del difensore di fiducia dell’imputato di fiducia con il difensore di ufficio e la natura costitutiva di detto provvedimento comporta che esso opera solo a partire dal momento della sua pronuncia – nel caso intervenuta all’udienza del 3 ottobre 2014 – senza incidere sulla legittimità della costituzione del rapporto processuale e sull’assistenza degli imputati da parte dei difensori di fiducia nel corso della precedente udienza e, quindi, inficiando di radicale nullità la costituzione del rapporto processuale e l’attività processuale che durante tale udienza era stata svolta.

La valutazione del comportamento processuale del difensore di fiducia e della sua qualificazione quale abbandono di difesa è frutto della interpretazione affidata al giudice che vi procede alla luce delle norme del codice di rito penale, che ne costituiscono la trama obbligata, sicchè, in presenza di un comportamento abdicativo e inerte del difensore, espresso in un momento processuale quale quello delle conclusioni del difensore nel corso dell’udienza preliminare, si impone al giudice un’attenta verifica e bilanciamento degli interessi in gioco costituiti non solo dal corretto incedere dell’iter processuale, che deve procedere verso l’esito processuale senza che si dia luogo a situazioni evocative di nullità processuali, ma, soprattutto, della effettiva attuazione al principio del contraddittorio, principio rispetto al quale sono serventi i diritti di difesa, assistenza e rappresentanza dell’imputato. L’acquisizione delle conclusioni del difensore all’udienza preliminare, non solo costituisce l’indefettibile passaggio verso la decisione della fase processuale, ma rappresenta una ineludibile modalità di estrinsecazione del contraddittorio, contrassegnato dalla esigenza di rendere obbligatoriamente l’ufficio della difesa.

E, nel caso in esame, anche in ragione delle allegazioni poste a giustificazione della addotta scelta processuale dagli difensori di fiducia, ovvero le eccezioni di violazioni della legge processuale la cui soluzione si sviluppa nel processo e nel contraddittorio tra le parti, eccezioni alle quali è connessa la possibilità di estrinsecazione della tutela, ove respinte dal giudice che procede, nei successivi gradi di giudizio, piuttosto che nella abdicazione e rifiuto della dialettica processuale, non è ravvisabile la illegittimità nella scelta del giudice di nominare agli imputati un difensore di ufficio, avendo ritenuto essersi verificata una situazione di abbandono della difesa fiduciaria dell’imputato. Tale evenienza processuale e le sottostanti valutazioni del giudice ben possono non coincidere con le valutazioni della condotta processuale del difensore rimesse al Consiglio dell’Ordine, che ha archiviato la denuncia inoltratagli dal giudice dell’udienza preliminare, stante il diverso ambito di rilevanza della decisione dell’organo giudiziario e quella deontologica, nonchè l’autonomia delle due decisioni.

Nel prosieguo della trattazione dell’udienza preliminare proprio tale scelta processuale – di abdicare al contraddittorio – è stata indicata, essa stessa, come esercizio del diritto di difesa condivisa dagli imputati, situazione che ha conseguentemente condotto, alla successiva udienza del 16 ottobre 2014, alla revoca della nomina del difensore di ufficio riprendendo così vigore la nomina fiduciaria degli imputati. Rimane, in vero, nella disponibilità dell’imputato la gestione del rapporto con il suo difensore di fiducia e delle conseguenti scelte nella linea difensiva da seguire, espressioni di esercizio libero, autonomo ed inviolabile del diritto di difesa, non potendo ritenersi sussistente, per effetto della condivisa scelta di una strategia processuale, una mera inerzia o abdicazione del difensore che, esse sì, determinano una lesione delle prerogative difensive dell’assistito, imponendo il corretto bilanciamento tra le ineliminabili esigenze di rendere l’officio della difesa e la libertà delle forme, dei tempi e dei modi per espletarlo. Da tale premessa discende la piena legittimità del rapporto processuale costituito all’udienza del 16 ottobre 2014 e della decisione del giudice che, in presenza del chiaro tenore delle dichiarazioni rese dagli imputati, non era affatto tenuto a replicare un’attività processuale – l’acquisizione delle conclusioni dei difensori – dal momento che all’udienza del 29 settembre 2014 gli imputati ed i difensori erano stati messi nelle condizioni di esercitare il diritto al contraddittorio, che per scelta e condivisa strategia difensiva era stato declinato.

  1. Generico e manifestamente infondato è il motivo di ricorso con il quale i ricorrenti A.J., V.D., G.S. e Gi.Ma. (v. motivi comuni al punto 3.8.1) denunciano vizio di violazione di legge con riferimento alla mancata identificazione dell’addetto della Procura della Repubblica che aveva depositato l’appello del Pubblico Ministero avverso la sentenza del Tribunale. La difesa richiama una isolata pronuncia di questa Corte che si contrappone alla pacifica giurisprudenza, secondo la quale la ritualità della presentazione dell’atto di impugnazione della parte pubblica non richiede che la cancelleria del giudice del provvedimento impugnato provveda ad identificare nominativamente l’incaricato alla presentazione appartenente a detto ufficio (Sez. 5, n. 14465 del 09/02/2011 – dep. 11/04/2011, Lupi, Rv. 249901). Nè i ricorrenti allegano elementi che mettano in dubbio l’autenticità della sottoscrizione da parte del magistrato (cfr. Sez. 6, n. 28825 del 21/09/2017, dep. 2018, Scuto e altri, Rv. 273663), difetto di autenticità che potrebbe costituire la sola ragione idonea ad incidere, viziandola, sulla procedibilità dell’atto di impugnazione poichè la ratio della previsione dell’art. 582 c.p.p., comma 1, non va collegata ad un dato puramente formale, dal momento che il disposto normativo non prevede particolari formalità per il conferimento dell’incarico, che può avvenire anche oralmente, ma è inteso ad assicurare l’autenticità della sottoscrizione dell’atto di impugnazione.

  2. Manifestamente infondato è, nei limiti che qui rilevano a seguito della intervenuta revoca della costituzione di parte civile, il motivo di ricorso afferente alla richiesta di declaratoria di nullità della sentenza impugnata per erronea applicazione dell’art. 74 c.p.p., proposto da A.J., V.D., Mu.Ma. (v. sub 3.10.6), dal responsabile civile Villa Gritta s.p.a. (sub 3.11.5) nonchè da B.M.. Sono, infatti, inconsistenti le argomentazioni giuridiche che la difesa ha allegato a sostegno dell’assunto e che sono già state disattese dai giudici del merito con richiamo alla giurisprudenza di questa Corte, resa sulla base di stringenti affermazioni di principio che il Collegio non ritiene di poter disattendere. In vero, legittimato all’esercizio dell’azione civile nel processo penale non è solo il soggetto passivo del reato ma anche il danneggiato che abbia riportato un danno eziologicamente riferibile all’azione od omissione del soggetto attivo del reato; tale rapporto di causalità sussiste anche quando il fatto-reato, pur non avendo cagionato direttamente il danno, abbia tuttavia determinato uno stato tale di cose che senza di esse il danno non si sarebbe verificato (Sez. 1, n. 46084 del 21/10/2014, Galdiero, Rv. 261482). Ai fini della costituzione di parte civile per l’esercizio di azione risarcitoria, è sufficiente inoltre, che il preteso danneggiato prospetti un fatto astrattamente idoneo a cagionare un pregiudizio, giuridicamente apprezzabile, alla sua sfera di interessi (Sez. 3, n. 18518 del 11/01/2018 – dep. 02/05/2018, S. e altro, Rv. 273647). E, correttamente, nella sentenza impugnata si assume che le condotte ascritte ai ricorrenti hanno prodotto un danno giuridicamente apprezzabile nella sfera giuridica dei genitori delle vittime sottoposte a violenza diretta ovvero a violenza cd. assistita, danno che va ricondotto non già al turbamento derivato dalla conoscenza degli illeciti che sui ricoverati erano stati posti in essere, ma all’interesse dei genitori alla integrità psicofisica dei figli e della loro sfera morale,e, quindi, ad una tipologia di danno alla persona causalmente e direttamente riferibile alle violenze agite dal soggetto attivo del reato – nel caso alle condotte di maltrattamenti ascritte all’ A., al V. ed al B. – che si erano prodotte ben prima del loro disvelamento a seguito delle indagini che ne hanno solo reso possibile la conoscenza da parte dei genitori delle vittime, mettendole in condizione di esercitare i connessi diritti di tutela e l’azione risarcitoria intrapresa mediante la costituzione di parte civile nell’odierno processo, danni che non sono certo eziologicamente riconducibili alla conoscenza dei fatti e cagionati dalla pubblicità della stessa.

  3. Generici e infondati sono i rilievi della difesa di G.S. e Gi.Ma. nella parte in cui denunciano la violazione dell’art. 603 c.p.p. perchè la Corte di appello avrebbe pronunciato il giudizio di responsabilità in forza di una valutazione meramente cartolare delle emergenze processuali e senza procedere alla riescussione delle fonti di prova di natura dichiarativa poste a carico degli imputati e che in primo grado ne avevano comportato l’assoluzione impugnata dal Pubblico Ministero.

La sentenza della Corte genovese è stata emessa nella vigenza della disciplina introdotta dalla L. 23 giugno 2017, n. 103, art. 1, comma 58 secondo cui nel caso di appello del Pubblico Ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa il giudice dispone la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale. Tale prescrizione non comporta, tuttavia, la necessità di procedere, pena la violazione della richiamata disposizione, alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale nel caso in cui il giudice di appello ritenga di dovere modificare la pronuncia di assoluzione, secondo la lettura auspicata dal difensore. Il legislatore del 2017 ha disciplinato, positivizzandoli, principi enunciati dalla giurisprudenza di questa Corte che impongono la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in presenza di questioni che concernono la valutazione della prova dichiarativa, ritenuta decisiva nel giudizio ordinario (S.U. n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267487) e, in materia di giudizio abbreviato (cfr. Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, Rv. 269785), affermazioni sulle quali questa Corte è poi, a più riprese tornata, precisando che il giudice d’appello che intenda procedere alla reformatio in peius di una sentenza assolutoria di primo grado non ha l’obbligo di rinnovare la prova dichiarativa decisiva qualora emerga che la lettura della prova compiuta dal primo giudice sia stata travisata per omissione, secondo le precisazioni recate dalla sentenza da ultimo richiamata, ovvero sia inficiata da un errore di diritto (Sez. 4, n. 49159 del 18/07/2017, Ferrara, Rv. 271518).

Ritiene pertanto il Collegio, anche avuto riguardo alla generica strutturazione sul punto dei motivi di ricorso, che correttamente la Corte di merito ha proceduto alla riforma della sentenza di assoluzione dell’imputato, senza procedere alla rinnovazione, ravvisando nella decisione del Tribunale un errore di diritto non già nella valutazione della prova ma nella sussunzione del fatto, sulla base del risultato di prova conseguito, nella fattispecie incriminatrice di cui all’art. 40 c.p., comma 2 e art. 572 c.p. e, particolarmente, nella ricostruzione dei poteri individuabili in capo alla G. ed al Gi., in quanto titolari della posizione di garanzia, al fine di ritenere sussistente il dovere di attivarsi a protezione delle persone offese, come di seguito sarà precisato trattando la posizione dei predetti, e, dunque, facendo buongoverno nell’applicazione al caso concreto dei reiterati principi di diritto affermati da questa Corte in materia di rinnovazione del giudizio di appello in caso di reformatio in pejus di sentenza di assoluzione. E, in concreto, come sarà ampiamente precisato nel prosieguo, la Corte distrettuale ha ritenuto assolutamente ingiustificata, in comparazione con la posizione di Mu.Ma., la conclusione del Tribunale sulla inesistenza di poteri interdittivi in capo alla G. ed al G. e l’insussistenza del nesso di causalità tra condotta omissiva ed evento.

  1. Ulteriore motivo di ricorso, comune alla posizione dei ricorrenti Mu.Ma. e del Responsabile civile Villa Gritta s.p.a. è relativo alla nullità della richiesta di rinvio a giudizio, della trattazione dell’udienza preliminare e del giudizio di primo grado per violazione del principio di parità delle parti e violazione del diritto di difesa, ricorsi che cumulativamente attaccano le ordinanze rese dal giudice dell’udienza preliminare, dal Tribunale e dalla Corte appello – che ha condiviso la ricostruzione dei primi giudici – ma che deve essere necessariamente scomposto in funzione dei distinti momenti in relazione ai quali è proposta la dedotta nullità e, pertanto, con riguardo alla parte che fa riferimento alla violazione del diritto di difesa riconducibile all’avviso di conclusione delle indagini, alla trattazione dell’udienza preliminare e conseguente emissione del decreto che dispone il giudizio e, infine, all’ordinanza adottata dal Tribunale di Genova.

Solo all’apparenza l’eccezione difensiva investe il tema della discovery degli atti e, in particolare, del contenuto delle intercettazioni telefoniche ed ambientali e, segnatamente della traccia, fonica o visiva, recata dai supporti digitali che la incorporano (comune ne è ormai la piena assimilazione Sez. 6, n. 37476 del 03/07/2017, S, Rv. 271371, anche a prescindere dalle modalità di acquisizione), poichè, in effetti, il punto del quale in questa sede si discute non è quello dell’omesso deposito, in favore degli imputati e delle parti, degli atti relativi alle intercettazioni telefoniche ed ambientali, comprensivi delle bobine e, comunque, dei supporti recanti le tracce foniche e visive delle intercettazioni, ma quello delle modalità del rilascio copie ed ascolto da parte dell’indagato, imputato e difensore, e, quindi, in rapporto all’articolazione del diritto alla prova nelle varie fasi procedimentali e processuali. Netta, a riguardo, è la prospettazione della difesa – prospettazione che non tocca il tema della inutilizzabilità della prova costituita dalle risultanze delle riprese audiovisive – secondo la quale il mancato rilascio delle tracce foniche, in ciascuno dei momenti nei quali si è articolato il rifiuto di rilascio delle copie, menoma il diritto di difesa (art. 24 Cost., comma 2), altera, a sfavore dell’indagatolimputato, la parità delle parti nel processo (art. 111 Cost., comma 2) e non consente alla persona accusata di disporre delle condizioni necessarie a preparare la sua difesa (art. 111 Cost., comma 3). Ulteriore aspetto attiene alla incidenza su tale problema della brevità del termine di ascolto, nella fase dell’udienza preliminare.

Ancora oggi sono rilevanti, ai fini della ricostruzione dei canoni interpretativi che regolano la materia, la sentenza del giudice delle leggi n. 336 del 2008 e la sentenza Lasala (Sez. U, n. 20300 del 22/04/2010, Lasala, Rv. 246908).

Oggetto dell’intervento additivo della Corte Costituzionale, volto ad assicurare la piena tutela del diritto di difesa e del principio di parità delle parti nel processo, è stato l’art. 268 c.p.p.. Con la pronuncia la Corte ha affermato il diritto della difesa, che deve concretarsi nella possibilità di ottenere una copia della traccia fonica, e che ha riconosciuto, in relazione ad una misura restrittiva della libertà personale già eseguita, il diritto incondizionato dei difensori ad accedere, su loro istanza, alle registrazioni poste a base della richiesta cautelare del pubblico ministero e non presentate a corredo di quest’ultima in quanto sostituite dalle trascrizioni, anche sommarie, effettuate dalla Polizia giudiziaria. Il diritto all’accesso, conclude la Corte, implica, come naturale conseguenza, quello di ottenere la trasposizione su nastro magnetico delle registrazioni medesime. Osserva altresì la Corte che non sarebbe sufficiente, per assicurare pienamente l’osservanza dell’art. 24 Cost. il ricorso all’art. 116 c.p.p., che disciplina il rilascio di copie degli atti processuali. La suddetta norma, infatti, vista congiuntamente all’art. 43 disp. att. c.p.p., non attribuisce, secondo la giurisprudenza di legittimità, un diritto incondizionato alla parte interessata ad ottenere copia degli atti, ma solo una mera possibilità, giacchè la richiesta, ai sensi del comma 2, deve essere autorizzata dal giudice, previsione che non avrebbe senso se la parte avesse un diritto pieno al rilascio della copia.

La richiamata sentenza Lasala (successiva alla pronuncia del Giudice delle leggi) per altro aspetto, ha chiarito che il diniego o l’ingiustificato ritardo da parte dell’Ufficio del pubblico ministero nel consentire al difensore l’accesso alle conversazioni intercettate e trascritte (e dunque anche la duplicazione delle registrazioni su supporto magnetico, di cui il difensore possa, poi, autonomamente disporre) dà luogo a nullità di ordine generale a regime intermedio – ex art. 178 c.p.p., lett. c) – in quanto determina vizio nel procedimento di acquisizione della prova, vizio che tuttavia non inficia l’attività di ricerca in sè ed il relativo “risultato”, ma che si riverbera, se la nullità è stata tempestivamente dedotta, nella fase cautelare, atteggiandosi come circostanza che indebitamente ha compresso – limitatamente al sub procedimento de libertate – l’esercizio del diritto di difesa, con la conseguenza che le trascrizioni delle captazioni di cui non è stata resa disponibile la registrazione non possono essere utilizzate nel giudizio cautelare.

In via generale deve poi osservarsi che l’art. 268 c.p.p. disciplina la esecuzione delle operazioni di intercettazione; le modalità di redazione dei relativi verbali e le modalità di inoltro degli stessi al pubblico ministero e delle registrazioni nonchè la possibilità per il pubblico ministero di ottenere il ritardato deposito di tali materiali e, ai commi 6, 7 e 8, la cd. procedura di stralcio in relazione alla quale, ai sensi del comma 6, è data facoltà ai difensori di esaminare gli atti e ascoltare le registrazioni ovvero prendere cognizione dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche e, solo all’esito della disposta trascrizione delle conversazioni indicate dalle parti che non appaiono manifestamente irrilevanti, alla estrazione di copia delle trascrizioni e trasposizione della registrazione su nastro magnetico ovvero su idoneo supporto. Nella procedura indicata il giudice procede, anche di ufficio, allo stralcio delle registrazioni e dei verbali di cui è vietata l’utilizzazione e, su indicazione delle parti all’acquisizione delle conversazioni che non appaiono manifestamente irrilevanti che vengono inserite nel fascicolo del dibattimento.

7.1. Svolta questa premessa vanno svolte le seguenti precisazioni in fatto sulla scorta degli atti processuali.

In data 23 maggio 2013 il Pubblico Ministero aveva emesso avviso di conclusione delle indagini preliminari ai sensi dell’art. 415-bis c.p.p., notificato agli indagati (e, in particolare, alla Mu., odierna ricorrente). Nell’avviso di conclusione delle indagini erano riportati i capi di imputazione, corrispondenti a quelli poi posti a fondamento della richiesta di rinvio a giudizio, contenenti la descrizione in fatto delle condotte di maltrattamento ed il riferimento alle annotazioni di Polizia giudiziaria nelle quali erano riportate le risultanze dei filmati, espunte dalle riprese audiovisive. Il provvedimento del pubblico ministero recava l’avviso di deposito nella segreteria del Pubblico Ministero, di tutti gli atti acquisiti al fascicolo delle indagini preliminari, ai sensi dell’art. 415-bis c.p.p., comma 2 secondo il quale l’avviso contiene l’avvertimento che la documentazione relativa alle indagini espletate è depositata presso la segreteria del Pubblico Ministero e che l’indagato e il suo difensore hanno facoltà di prenderne visione ed estrarne copia.

Non consta che gli indagati, ovvero i loro difensori, abbiano richiesto al Pubblico Ministero copia degli atti, e segnatamente dei file audio relativi alle intercettazioni ed alla riprese audiovisive, nè la presenza di alcun provvedimento di diniego da parte dell’Ufficio di Procura di tale istanza. Del resto, gli stessi difensori, con i motivi di ricorso, deducono vizio di violazione di legge, con riferimento alla violazione dell’art. 178 c.p.p., comma 2, lett. c), non già in relazione ad un provvedimento in tal senso dell’Ufficio di Procura ma in relazione ai provvedimenti con i quali il giudice dell’udienza preliminare, in vista dell’udienza preliminare fissata per il 29 aprile 2014, aveva respinto, con un provvedimento adottato in data 10 marzo 2014, la richiesta di rilascio copia dei file riproducenti le intercettazioni telefoniche e ambientali.

7.1.1.Ritiene il Collegio che è indiscutibile che indagati e difensori abbiano, al termine delle indagini preliminari, il diritto pieno e tendenzialmente non limitabile di conoscere l’intero contenuto del fascicolo del Pubblico Ministero e, conseguentemente, quello di estrarne copia integrale (il che significa dei documenti in cartaceo e di ogni altro supporto, audio, informativo o magnetico esistente in atti, anche se attinenti alle intercettazioni).

Con riferimento ai rapporti tra la richiesta di copia degli atti di indagine effettuata dalla difesa nella fase della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini, l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità consente di escludere che la richiesta difensiva possa essere respinta dall’ufficio di Procura, ovvero da una parte processuale, dal momento che la difesa ha il diritto di “rileggere”, controllare e valutare il significato delle intercettazioni che l’accusa ha posto a fondamento dell’avviso ed alla luce del contenuto di tutte le conversazioni captate nella fase delle indagini. Ciò allo scopo di proporre una ricostruzione o una interpretazione dei fatti eventualmente diversa da quella che fonda l’ipotesi accusatoria. Solo in tal modo può assicurarsi l’esercizio pieno del diritto di difesa essendo ben noto che, in maniera frequente la ricostruzione della responsabilità o estraneità dell’accusato rispetto al fatto delittuoso attribuitogli dipenderà, con riferimento alla prova per intercettazioni, dalla lettura e dall’ascolto di una pluralità di conversazioni, alcune delle quali apparentemente non riferibili al singolo imputato della cui posizione si discute.

E’ ben vero che una risalente decisione di questa Corte – diffusamente richiamata nei provvedimenti di merito – ha affermato che non è nulla la richiesta di rinvio a giudizio qualora il PM non dia corso alla richiesta della difesa – inoltrata ex art. 415-bis c.p.p., comma 2, – di ottenere copia dei supporti magnetici depositati poichè non proposta, ex art. 268 c.p.p., comma 8, nell’ambito del subprocedimento conseguente all’esecuzione delle intercettazioni, in quanto la nullità della richiesta di rinvio a giudizio è prevista solo nel caso che essa non sia preceduta dall’avviso di cui all’art. 415-bis e, ove la persona sottoposta alle indagini ne abbia fatto richiesta, dall’invito a presentarsi per rendere interrogatorio (Sez. 5, n. 4976 del 01/10/2009 – dep. 2010, P.G. in proc. Mancuso e altri, Rv. 246062).

A ben diversa conclusione ed approccio di sistema è, tuttavia, pervenuta la successiva giurisprudenza di questa Corte. Una più recente decisione, infatti, ha escluso l’abnormità del provvedimento con il quale il giudice dell’udienza preliminare aveva dichiarato la nullità dell’avviso ex art. 415-bis c.p.p. e della richiesta di rinvio a giudizio, disponendo la restituzione degli atti al pubblico ministero, per violazione del diritto di difesa determinato dal diniego del pubblico ministero di consegnare, al difensore dell’indagato che ne abbia fatto regolarmente richiesta successivamente alla notifica dell’avviso ex art. 415-bis c.p.p., copia integrale delle intercettazioni, nonchè dalla mancata instaurazione dell’udienza di stralcio, preordinata ad assicurare l’eliminazione delle conversazioni irrilevanti o delle quali sia vietata l’utilizzazione (Sez. 5, n. 38409 del 12/04/2017, P.M. in proc. Almaviva, Rv. 271118). In tale sentenza si è proceduto, inoltre, alla ricostruzione dei presupposti in presenza dei quali può ravvisarsi una nullità di ordine generale, ai sensi dell’art. 178 c.p.p., lett. c), che si riverbera sulla regolarità della richiesta di rinvio a giudizio e, per questo, deve essere rilevata dal giudice per l’udienza preliminare, se tempestivamente eccepita. Si è osservato, in particolare, che la violazione del diritto all’ascolto delle registrazione e quello legato alla copia dei file audio dà luogo ad una compressione del diritto di difesa, perchè cade direttamente sulla possibilità di vaglio critico del momento nel quale si concreta la prova, id est le registrazioni.

La decisione costituisce l’approdo di un percorso evolutivo della giurisprudenza che ha ritenuto configurabile la violazione dell’art. 178 c.p.p., lett. c) in un caso in cui, in un procedimento celebrato con rito abbreviato, aveva utilizzato ai fini della decisione conversazioni intercettate acquisite mediante “brogliacci”, senza consentire ai difensori l’esercizio della facoltà di ascolto (Sez. 6, n. 41362 del 11/07/2013, Drago e altro, Rv. 257804) ovvero ha escluso la sussistenza della violazione del diritto difesa sul rilievo che la richiesta risultava proposta dopo l’attivazione da parte dello stesso pubblico ministero dello speciale procedimento di cui all’art. 268 c.p.p., commi 6, 7 e 8, nel corso del quale i difensori erano stati messi nelle condizioni di procedere all’ascolto delle suddette registrazioni prima dello stralcio di quelle ritenute non rilevanti a fini probatori (Sez. 6, n. 21063 del 03/05/2011, Andò e altri, Rv. 250103).

7.1.2. La conseguente applicazione dei principi posti a fondamento delle decisioni innanzi richiamate impone di verificare la esistenza di un provvedimento di diniego del Pubblico Ministero che non è rinvenibile agli atti del procedimento in esame e, anzi, nella richiesta della difesa, avanzata il 10 marzo 2014 al giudice dell’udienza preliminare, si da atto che alla richiesta della difesa nulla era stato opposto dalla Procura e che la difesa, al fine di limitare gli esborsi dovuti a titolo di diritti, aveva ritenuto opportuno di soprassedere alla richiesta di rilascio di copie dei file audio, nella fase delle indagini, al fine di concentrare all’essenziale la richiesta di copie, tenuto conto che alcune copie avrebbero potuto essere scambiate con i difensori di coloro per i quali fosse stato richiesto il rinvio a giudizio.

Il descritto iter processuale, e, in particolare, la inesistenza di un provvedimento di diniego di ostensione delle copie dei file audio da parte dell’Ufficio di Procura, connota di manifesta infondatezza la censura difensiva nella parte in cui viene dedotta la nullità della richiesta di rinvio a giudizio per violazione del diritto di difesa, in quanto non sarebbe stato consentito alla difesa di prendere completa cognizione, mediante estensione dei file audio delle conversazioni intercettate e delle riprese audiovisive, poste a fondamento dell’avviso di conclusione delle indagini.

Da qui, anche la irrilevanza della prospettata questione di questione di illegittimità costituzionale dell’art. 415-bis c.p.p., sviluppata nei motivi sub 3.10.3 e 3.11.2.

7.3. Non sfugge che un così ampio diritto di accesso all’ascolto delle conversazioni intercettate – limitabile solo attraverso la procedura di secretazione attivata, ricorrendone i presupposti, dal pubblico ministero – e la possibilità per le parti private di ottenere la duplicazione dei file è in potenziale contrasto con il diritto alla riservatezza dei soggetti sottoposti ad intercettazione e di coloro che, ad esempio terzi occasionalmente coinvolti ed estranei all’attività captativa, fortuitamente prendano contatto con i reali destinatari delle captazioni, tema questo, ben evidenziato nelle linee guida emanate da alcuni Procuratori della Repubblica poi poste a base della Circolare del Consiglio Superiore della Magistratura richiamata dalla difesa che, proprio in ragione dell’ampia discovery che si verifica a seguito del deposito degli atti in sede di notifica dell’avviso di conclusione delle indagini, invitava gli Uffici di Procura a farsi promotori della procedura di cui all’art. 268 c.p.p., di scarsissima utilizzazione nella prassi degli uffici requirenti, già nella fase delle indagini, e nelle disposizioni recate dal D.Lgs. 29 dicembre 2017, n. 216 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 8 dell’U gennaio 2018 che hanno significativamente inciso sulla disciplina della cd. udienza stralcio e, a monte di questa, sul meccanismo di acquisizione delle captazioni al fascicolo delle indagini preliminari prevedendone, invece, la introduzione e conservazione in apposito archivio riservato. Tali disposizioni prevedono, inoltre, il divieto di trascrizione, anche sommaria, di tre categorie di conversazioni e comunicazioni ovvero quelle irrilevanti ai fini delle indagini, sia per l’oggetto che per i soggetti coinvolti; quelle che riguardino dati personali definiti sensibili dal D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 4, comma 1, lett. d); quelle relative alle conversazioni, anche indirette, con i difensori.

Non è certo questa la sede per esaminare la portata della disciplina introdotta – e non ancora in vigore – se non per aggiungere che l’Unione delle Camere Penali ne ha immediatamente denunciato aspetti di contrasto e di non adeguato bilanciamento con i principi costituzionali (art. 24 e 111 Cost.) e convenzionali (art. 6 CEDU) in materia di giusto processo. Oggetto di rilievo è, in primo luogo, la lesione, ritenuta irragionevole e sproporzionata, che la persona accusata subisce nel concreto esercizio dei propri diritti di difesa per il fatto che la preselezione del materiale utile e rilevante ai fini della verifica dell’ipotesi accusatoria effettuata dalla polizia giudiziaria delegata all’ascolto non sia controbilanciata dalla trascrizione sommaria di tutte le conversazioni con facoltà da parte dell’indagato e/o imputato e del suo difensore di estrarre copia dei verbali trascrittivi e dei supporti audio ovvero ascolto diretto presso l’archivio riservato da parte della persona interessata. La critica si è concentrata, altresì, sul successivo incedere della procedura di stralcio, a seguito della quale gli atti vengono formalmente inseriti nel fascicolo delle indagini.

A questo riguardo, infatti, la tempistica dettata dalla norma codicistica e gli strumenti di cui può disporre la difesa (mero esame della documentazione e ascolto delle conversazioni) amplificano, secondo l’Avvocatura, la compressione dei diritti della difesa del cittadino al quale non è garantita una procedura che, per tempi e strumenti, gli consenta di esercitare pienamente le proprie facoltà difensive.

7.4. Altra problematica posta dalla difesa è relativa alla ricostruzione della prospettata eccezione difensiva con riguardo alle richieste della difesa dopo la fissazione dell’udienza preliminare e in vista della trattazione di detta udienza.

Ed invero in data 7 marzo 2014 – in vista dell’udienza preliminare fissata per il 29 aprile 2014- i difensori di Mu.Ma. e G.S. avanzavano istanza volta ad ottenere il rilascio di copie delle registrazioni telefoniche ed ambientali. Le richieste afferivano al rilascio di duplicati di colloqui telefonici (con indicazioni dei RID di riferimento ed ascendenti ad oltre duemila conversazioni) ed delle registrazioni (in numero di 952) effettuate nell’ufficio della imputata Mu.Ma.. Con decreto del 10 marzo 2014 il giudice dell’udienza preliminare autorizzava quanto richiesto ma, con successivo decreto del 12 marzo 2014 precisava che la richiesta di rilascio copie era da intendersi limitata ai brogliacci di ascolto senza alcuna trasposizione su supporto magnetico delle relative conversazioni, ferma restando la facoltà della difesa di ascoltare le conversazioni e intercettazioni presso l’Ufficio di Procura, ove i supporti erano custoditi. In particolare, il giudice dell’udienza preliminare dava atto che la richiesta difensiva avrebbe potuto essere accolta solo a seguito della trascrizione, nella forma della perizia, delle intercettazioni non manifestamente irrilevanti e che, viceversa, riconoscendo il diritto al rilascio di duplicato di tutte le intercettazioni, verrebbe riconosciuto alla difesa un diritto più ampio di quello accordato dalla procedura di selezione di cui all’art. 268 c.p.p. e che dall’altro potrebbe derivarne una lesione del diritto di riservatezza di persone estranee alle indagini, coinvolte nelle conversazioni.

Con successiva richiesta del 25 marzo 2014 il difensore insisteva nella richiesta di rilascio di duplicato dei 3214 brani, contestando la legittimità dell’ordinanza del giudice dell’udienza preliminare che, allineandosi ad un parere dell’ufficio di Procura, aveva in sostanza denegato l’esercizio del diritto di difesa e sul rilievo che la mera conoscenza degli atti depositati dal pubblico ministero, non accompagnata dal diritto di estrarre copia, rappresentava una ingiustificata limitazione del diritto di difesa, secondo le linee dettate dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 192 del 1997. Il difensore esaminava il contenuto dei brogliacci di ascolto indicando anche il numero di conversazioni indicate, dai delegati all’ascolto, di interesse non investigativo ed evidenziava la complessità della procedura di ascolto, in ragione della sua durata sottolineando che l’esame diretto da parte dei difensori, avrebbe comportato l’impiego di circa trecento giorni lavorativi, per l’esame delle videoriprese, ed un elevato numero di ore per l’ascolto della conversazioni. Insisteva, pertanto, nella richiesta di ottenere copia integrale dei supporti informativi e audiovisivi, consentito sulla scorta di una lettura costituzionalmente orientata della disposizione normativa – che non prevedeva un espresso divieto di rilascio delle copie – e della interpretazione del giudice delle Leggi con la sentenza del 2008. In tale direzione milita, secondo il ricorrente, il disposto di cui all’art. 416 c.p.p., comma 2, che prevede la trasmissione, con la richiesta di rinvio a giudizio, della documentazione relativa alle indagini espletate. Denunciava, inoltre, la disparità di trattamento che ne conseguiva, tra l’Accusa, a conoscenza di tutto il compendio intercettativo, e la difesa, vulnus che non sarebbe stato eliso dalla possibilità di chiedere la effettuazione della perizia dal momento che oggetto di questa potevano essere solo le conversazioni indicate dalle parti come rilevanti e, dunque, non l’intero patrimonio investigativo, che neppure poteva essere scremato con riferimento alle conversazioni indicate dalla polizia giudiziaria come rilevanti dal momento che tale giudizio di rilevanza era reso nella prospettiva accusatoria. L’istanza difensiva si concludeva con richiesta di autorizzare il rilascio di copia delle intercettazioni telefoniche e videoriprese eccependo la illegittimità costituzionale dell’art. 268 c.p.p., comma 4 e art. 415-bis c.p.p. nella parte in cui non prevedono il diritto del difensore di avere copia delle registrazioni e delle riprese depositate, per violazione dell’art. 24 Cost. non essendo la limitazione giustificata, dopo il deposito, da ragioni processuali e per violazione del principio di parità delle parti nel processo penale, sancito dall’art. 111 Cost..

Le ragioni della difesa, poste a fondamento della richiesta, venivano ribadite all’udienza preliminare del 29 aprile 2014, ove erano oggetto di illustrazione con memoria difensiva, mentre le argomentazioni del diniego di rilascio copia delle tracce foniche e video, enunciate nell’ordinanza del 27 marzo 2014 erano precisate e con l’ordinanza emessa dal giudice dell’udienza preliminare in data 3 ottobre 2014 con la quale era respinta la dedotta eccezione di nullità, per violazione dell’art. 178 c.p.p., lett. c), dell’udienza preliminare, poichè, in conseguenza del mancato esperimento della procedura incidentale di cui all’art. 268 c.p.p., la difesa non era stata messa in condizione di tutelare i diritti delle imputate Mu. e G..

Anche il Tribunale, in sede di esame delle questioni preliminari e poi investito della richiesta delle prove, rigettava l’eccezione difensiva e la richiesta di acquisire copia di tutti i supporti relativi alle riprese audiovisive versate agli atti del Pubblico Ministero, evidenziando la genericità della richiesta della difesa che non consentiva di effettuare il vaglio di non manifesta irrilevanza e superfluità delle acquisizioni captative ai fini della decisione, che sarebbe stato compito della parte richiedente esplorare nelle fasi preliminari del dibattimento. Analogo vizio di genericità inficiava la richiesta di acquisire spezzoni di filmati, ritraenti lo svolgersi dei rapporti tra imputati e persone offese. Parimenti veniva disattesa la richiesta di trascrizione su tutte le intercettazioni non qualificate dagli agenti come “irrilevanti”, non pertinenti e non interessanti per le indagini, dal momento che tale giudizio, espresso con riferimento alla fase delle indagini, non coincideva con il giudizio di non manifesta irrilevanza e superfluità che il richiedente avrebbe dovuto allegare in vista della perizia da eseguire nel dibattimento.

La Corte distrettuale, a propria volta, ha respinto le deduzioni sviluppate dalla difesa, richiamando l’ordinanza del giudice dell’udienza preliminare e quella del Tribunale, muovendo dalla risalente sentenza di questa Corte (4976/2010, Mancuso) innanzi indicata. Ha rilevato che la sentenza del Giudice delle leggi n. 336/2008 si occupa di una questione specifica e, cioè, il diritto del difensore di ottenere la duplicazione delle registrazioni poste a base di una misura cautelare rispetto alle quali, pertanto, sono superate le esigenze di segretezza. Centrale, secondo i giudici di appello, è il rilievo che la disciplina di cui all’art. 268 c.p.p., di carattere speciale, prevale su quella generale di cui all’art. 415-bis c.p.p., disciplina che prevede, nel corso del sub procedimento in esame, il diritto del difensore all’ascolto di tutto il patrimonio intercettativo e il diritto di ottenere copia non di tutte le registrazioni ma solo di quelle rilevanti per il giudizio e, in quanto tali, delimitative del campo di confronto tra accusa e difesa. Tale speciale disciplina è funzionale a realizzare il necessario equilibrio tra le esigenze conoscitive della difesa, doverosamente informata dell’evoluzione del quadro indiziario, e quelle di riservatezza, in relazione alle intercettazioni ritenute non rilevanti ai fini del processo, nonchè quelle di ragionevole durata del processo. Anche nel caso di mancata attivazione del sub procedimento di cui all’art. 268 c.p.p., deve ritenersi incongruo che all’imputato ed al suo difensore possa essere riconosciuta una facoltà di estrazione di copie più ampia rispetto a quella attribuita dall’art. 268 c.p.p. il quale, al comma 8, prevede una facoltà non illimitata, ma circoscritta alle sole intercettazioni rilevanti e non vietate dalla legge. Il sistema di garanzie delineato negli artt. 268 e 415-bis c.p.p. non determina alcuna violazione del diritto di difesa poichè pur non riconoscendo un indiscriminato diritto all’estrazione di copie, consente alle parti di ascoltare e prendere visione – senza alcuna limitazione – delle registrazioni depositate, anche al fine di richiedere, fino al momento della richiesta di prove, l’attivazione del sub procedimento di cui all’art. 268 c.p.p., comma 6, solo a seguito del quale il difensore ha facoltà di chiedere il rilascio di copie delle registrazioni rilevanti. Tali ragioni danno conto della manifesta infondatezza della questione di illegittimità costituzionale poichè, essendo pienamente riconosciuto il diritto di accesso agli atti, risulta assicurato il diritto di difesa e quello del contraddittorio. Generico è il rilievo della difesa allegato con riferimento alle difficoltà di ordine materiale che non possono automaticamente riverberarsi sulla legittimità o meno della procedura seguita, poichè gli impedimenti allegati sono da mettere in relazione alle modalità concrete con cui si è ritenuto di esplicare il mandato difensivo e non da preclusioni illegittimamente fatte valere dai richiedenti.

7.5. Le conclusioni alle quali sono pervenuti i giudici del merito, devono essere precisate non solo evidenziando come il risalente richiamo alla sentenza Mancuso ed alla successiva giurisprudenza di questa Corte non sia corretto, perchè finisce per disattendere la linea interpretativa, innanzi delineata, tracciata dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento al diritto delle parti di ottenere copia integrale delle tracce foniche e visive all’atto del deposito dell’avviso di cui all’art. 415-bis c.p.p., ma anche perchè è necessario precisare coordinate che presidiano l’esercizio del diritto al rilascio delle copie delle tracce foniche o video delle intercettazioni, in relazione alla fase dell’udienza preliminare ed a quella del dibattimento al confronto con la norma cardine del sistema, rappresentata dal sub procedimento di cui all’art. 268 c.p.p., tanto tenuto conto delle argomentazioni difensive che prospettano come violazione del diritto di difesa, ex se rilevante, il mancato rilascio di copia indistintamente di tutte le tracce foniche e visive.

Come anticipato, il problema non è relativo al mancato deposito degli atti e delle tracce delle intercettazioni, ritualmente depositate, ma all’integrale e indifferenziato rilascio di copia del contenuto delle registrazioni poichè il giudice dell’udienza preliminare, con il provvedimento del 12 marzo 2014, pur autorizzando l’ascolto e visione delle registrazioni e dei filmati depositati, ha escluso che potessero essere rilasciate indistintamente copie di tutte le tracce foniche e video perchè non indicate come rilevanti e per esigenze connesse alla tutela della riservatezza dei terzi coinvolti nelle registrazioni.

Il deposito degli atti per l’udienza preliminare ed il diritto di estrarre copia degli stessi, in relazione alle previsioni di cui all’art. 416 c.p.p., comma 2 e art. 419 c.p.p., è regolato dall’art. dall’art. 131 disp. att. c.p.p. e si riferisce a tutti gli atti trasmessi dal Pubblico Ministero con la richiesta di rinvio a giudizio.

Come noto il deposito degli atti in cancelleria a disposizione delle parti deve, di regola, comportare necessariamente, insieme al diritto di prenderne visione, la facoltà di estrarne copia. Al contenuto minimo del diritto di difesa, ravvisabile nella conoscenza degli atti depositati mediante la loro visione, deve cioè accompagnarsi automaticamente, salvo che la legge disponga diversamente, la facoltà di estrarne copia, al fine di agevolare le ovvie esigenze del difensore di disporre direttamente e materialmente degli atti per preparare la difesa e utilizzarli nella redazione di richieste, memorie, motivi di impugnazione. E, come noto, le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 4 del 03/02/1995 – dep. 14/04/1995, Sciancalepore ed altri, Rv. 200711) hanno precisato, alla luce del combinato disposto dell’art. 116 c.p.p. e art. 43 disp. att., che, solo nei casi in cui il diritto di estrarre copia non è espressamente riconosciuto dalla legge, il rilascio delle copie è subordinato, a norma dell’art. 116 c.p.p., comma 2, all’autorizzazione dell’autorità giudiziaria che procede, cui spetta valutare se sussistono esigenze processuali tali da prevalere sulla piena esplicazione del diritto di difesa.

Cionondimeno ritiene il Collegio, confermando sul punto le conclusioni della Corte di merito, che la disciplina dettata dall’art. 268 c.p.p., in materia di intercettazioni telefoniche, e con la quale, in ragione della natura dell’atto, si realizza una evidente disconnessione tra il diritto di ascolto, che corrisponde al diritto di prendere visione di un atto processuale, e quello di rilascio della copia fonica, condizionato all’espletamento della procedura di trascrizione che può avere ad oggetto solo quelle conversazioni o, comunque, tracce non vietate dalla legge e, comunque, non manifestamente irrilevanti a fini di prova, possiede una forza espansiva, in ragione dei sottostanti interessi tutelati – e individuati in quelli descritti al punto 7.3 che precede – di rilievo tale da costituire la fonte di regolamentazione di tutte le ipotesi nelle quali oggetto di deposito, ovvero di discovery, siano intercettazioni, telefoniche ed ambientali, sicchè in tutte le fattispecie in cui venga in rilievo il diritto al rilascio della copia recata dalle intercettazioni tale diritto si esercita, a tutela del diritto di difesa, attraverso il deposito e la facoltà di visione ovvero di ascolto di tutto il patrimonio captativo. Stante stante l’intrinseco pericolo connesso alla diffusione delle tracce foniche o video, sotto forma di copia digitale o informatica, ciò è consentito solo in relazione a quelle registrazioni che non siano vietate dalla legge, lesive del diritto alla riservatezza di soggetti terzi che vi siano coinvolti, e che non appaiano manifestamente irrilevanti ai fini della decisione, connotato, questo, che è naturalmente collegato allo sviluppo del procedimento. Tale è la rilevanza degli interessi in gioco che neppure nella fase di deposito degli atti, in vista dell’udienza di trascrizione e stralcio, è previsto il rilascio di copia delle conversazioni o dei flussi di comunicazione, potendo la difesa solo procedere all’ascolto, di talchè, come rilevato dai giudici del merito, irragionevole sarebbe che la disciplina generale, in materia di rilascio copie, possa prevalere su quella specifica che regola il procedimento di acquisizione delle risultanze delle intercettazioni oggetto di specifica previsione nell’art. 268 c.p.p..

Non è casuale, ad avviso del Collegio, che la stessa sentenza della Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale delle disposizioni che non prevedevano l’ostensione al difensore ed alla parte delle intercettazioni poste a base della misura cautelare, sia intervenuta non sul disposto di cui all’art. 293 c.p.p. (che aveva già costituito oggetto di un precedente intervento integrativo, con sentenza n. 192 del 1997 onde consentire la facoltà di estrarre copia della richiesta cautelare e della documentazione presentata con la stessa) ma proprio sull’art. 268 c.p.p., ovvero sulla disposizione generale in materia di intercettazioni, decisione che ha circoscritto il diritto di rilascio delle copie, a prescindere dall’attivazione della procedura di trascrizione, solo a quelle intercettazioni che, per essere state utilizzate nell’ordinanza impugnata, non erano manifestamente irrilevanti.

La valutazione di non manifesta irrilevanza, se può trovare la massima espansione nella fase in cui l’Ufficio di Procura spedisce all’indagato l’avviso di conclusione delle indagini ai sensi dell’art. 415-bis c.p.p., per le ragioni indicate al punto 7.1.1., nelle successive fasi processuali va necessariamente raccordata al tema di prova posto a base della richiesta di rinvio a giudizio e della successiva fase processuale, sicchè la richiesta di integrale e cumulativo rilascio delle copie delle intercettazioni, anche nel caso di mancata attivazione delle procedure di stralcio e trascrizione, deve essere sorretta da idonea motivazione esplicata con riguardo alla rilevanza delle copie richieste a supporto di individuate esigenze, sicchè la richiesta stessa è inammissibile ove abbia ad oggetto l’intero compendio captativo e sia motivata dal rispetto del principio di parità con l’Accusa, che detto compendio conosce, o da mere finalità di controllo dell’operato dell’inquirente, che trovano adeguata tutela attraverso il ricorso alla procedura di ascolto, questa sì indifferenziata e tenuto conto che l’eventuale sbilanciamento delle posizioni conoscitive trova adeguata composizione nella possibilità di chiedere la copia di quelle intercettazioni che la parte stessa indichi come rilevanti ai fini probatori, ovvero per preparare la difesa.

Non si è dunque verificata, nel caso in esame, alcuna violazione del principio della discovery integrale (principio tutelato attraverso il deposito integrale degli atti relativi alla intercettazione) nè del diritto di difesa, essendo stata posta la difesa della ricorrente Mu., e quella del responsabile civile nel corso del giudizio, nelle condizioni di conoscere, a seguito del deposito degli atti nella fase delle indagini preliminari prima e dell’udienza preliminare poi, l’intero materiale captativo; di esercitare le conseguente facoltà di ascolto funzionali a chiedere la trascrizione e l’acquisizione al processo, nelle forme di legge, come fonti di prova utilizzabili per la decisione, dei contenuti delle intercettazioni e delle riprese audiovisive non manifestamente irrilevanti e di interesse difensivo nella fase dell’udienza preliminare e del giudizio. Nessuna violazione di legge o lesione delle prerogative della difesa è ravvisabile, dunque, con riferimento ai provvedimenti con i quali il giudice dell’udienza preliminare ha respinto la richiesta di rilascio di copie, su supporto digitale o informatico, di tutte le intercettazioni telefoniche o audiovisive (in particolare i provvedimenti del 12 e 25 marzo 2014) e dei successivi provvedimenti del Tribunale e della Corte di merito poichè la difesa si duole del mancato rilascio di copia non di singole e specifiche intercettazioni o filmati, ma cumulativamente e genericamente di tutto il compendio captativo con argomentazioni che non sono sorrette, in punto di rilevanza, da idonea motivazione a supporto di individuate esigenze.

Non ha pregio il rilievo della difesa nella parte in cui denuncia la violazione del diritto di difesa in relazione al tempo necessario all’ascolto del compendio captativo, incompatibile con i tempi di trattazione dell’udienza preliminare che, tuttavia, nei caso in esame, si è articolata in più udienze, a partire dal 24 aprile 2014 e fino al 29 settembre 2014 di talchè la difesa ha avuto a disposizione un congruo termine per esaminare il compendio captativo posto a base della richiesta di rinvio a giudizio e funzionale ad esercitare i diritti anche relativi alla scelta dei riti alternativi.

  1. Generico è il motivo di ricorso di cui ai punti 3.11.6 formulato nell’interesse del responsabile civile Villa Gritta s.p.a. non emergendo elementi per la valutazione della pertinenza e rilevanza delle conversazioni intercettate delle quali veniva richiesta la trascrizione in fase dibattimentale e, dunque, per inferirne il denunciato errore di valutazione del Tribunale. L’ordinanza del Tribunale ha evidenziato che il canone di ammissione della prova, in fase dibattimentale, richiedeva la illustrazione delle ragioni che rendevano le prove non manifestamente irrilevanti o superflue (a norma dell’art. 190 c.p.p.), ragioni che la difesa non ha spiegato neppure con il proposto ricorso, se non richiamando la circostanza che le intercettazioni erano successive all’avvio delle indagini ed alla loro conoscenza da parte degli indagati, sicchè il giudizio di irrilevanza ai fini delle indagini – espresso dagli inquirenti al momento dell’ascolto – non sarebbe stato pertinente in ragione dello sviluppo dell’iter procedimentale. Trattasi di argomentazioni, all’evidenza, inconferenti rispetto al positivo giudizio di rilevanza che il difensore è tenuto ad allegare, che attiene al contenuto proprio dell’atto, e non al momento del procedimento nel corso del quale è stato acquisito.

  2. Nessuna violazione di legge o lesione delle prerogative della difesa è ravvisabile con riguardo al provvedimento con il quale il Tribunale ha negato al consulente tecnico della difesa del responsabile civile Villa Gritta s.p.a. l’autorizzazione ad accedere alla struttura I Cedri per esaminare le cartelle cliniche dei degenti e per verificare il loro stato di salute. Sostengono i ricorrenti – cfr. motivi sub 3.10.4. e 3.11.3. – che tale diniego – di qui il connesso motivo di cui ai punti 3.10.5 e 3.11.4 – ha comportato una violazione del principio di parità delle parti dal momento che il Pubblico Ministero, nella fase delle indagini, aveva potuto espletare un accertamento in tal senso, ai sensi dell’art. 359 c.p.p.. La sentenza impugnata, che ha richiamato sul punto l’art. 233 c.p.p., comma 2, ha correttamente evidenziato come il rilascio all’autorizzazione per l’accesso a determinati luoghi è consentito solo nel corso dell’istruttoria dibattimentale, e che, nel caso in esame, la richiesta era stata intempestiva, perchè avanzata nella fase anteriore alla dichiarazione di apertura del dibattimento. Corretta è anche la conclusione della Corte di merito di manifesta infondatezza della questione di illegittimità costituzionale poichè la scelta del Pubblico Ministero, di eseguire accertamento ai sensi dell’art. 359 c.p.p., non poteva ridondare in una violazione del principio di parità, di cui all’art. 111 Cost., fra accusa e difesa. Tale principio, infatti, non comporta necessariamente l’identità dei poteri processuali del pubblico ministero e del difensore dell’imputato, in quanto le fisiologiche differenze che connotano le posizioni delle due parti, correlate alle diverse condizioni di operatività e ai differenti interessi di cui sono portatrici, rendono compatibili con il suddetto principio alterazioni della simmetria dei rispettivi poteri e facoltà, purchè tali alterazioni trovino un’adeguata ratio giustificatrice nel ruolo istituzionale del pubblico ministero, ovvero in esigenze di corretta esplicazione della giustizia, e risultino contenute entro i limiti della ragionevolezza. Nè, rileva conclusivamente il Collegio, a tal riguardo la difesa ha evidenziato le ragioni che, in relazione all’attività di consulenza da svolgere, rendevano necessaria l’autorizzazione del Tribunale dal momento che non risulta nè che la struttura era sottoposta a sequestro nè che gli atti da eseguire rientrassero tra quelli tassativamente indicati dall’art. 233 c.p.p., comma 1 bis tenuto conto che il disposto di cui agli artt. 391 quater e 391 sexies c.p.p. consente al difensore con riferimento alla pubblica amministrazione, l’acquisizione della documentazione e l’accesso ai luoghi, a tal fine (Sez. 2, n. 42588 del 12/10/2005, Giambra, Rv. 232609) escludendone, rispetto alla documentazione privata, l’acquisizione a mezzo perquisizione ma non anche l’acquisizione e produzione di quella che sia stata volontariamente consegnata dal soggetto che ne ha la disponibilità. Tale diniego non risulta documentato. Nè il riferimento alla necessità di visita medica dei pazienti ha trovato puntuale dimostrazione per escludere la sussistenza delle condizioni fattuali che ne avevano comportato la sottoposizione al regime di assistenza, ricovero e cura presso il Centro, sicchè il rigetto della richiesta difensiva non è decisivo ai fini di ritenere sussistente il vizio di cui all’art. 603 c.p.p., comma 1, lett. d).

10.E’ opportuno, prima di passare all’esame dei motivi di ricorso che concernono il giudizio di responsabilità svolgere le seguenti premesse con riguardo alle contestazioni ascritte agli imputati A.J., B.M., Z.D. e N.M., come ritenute dalla sentenza impugnata e da quella di primo grado.

Le contestazioni ascritte ai singoli imputati sono, infatti, individualizzate ed autonome – e non sotto forma di concorso degli imputati in un unico reato – e in relazione alle specifiche condotte tenute da ciascun agente, si è articolata la disamina delle posizioni dei singoli imputati nella enucleazione delle fonti di prova dichiarative e nella illustrazione delle risultanze delle riprese.

Il giudice di primo grado (cfr. pag. 27 e ss.) ha compiuto un’attenta analisi delle condotte maltrattanti riscontrate e consistite in calci, spintoni, schiaffi, eccessivi contenimenti degli ospiti in situazioni di crisi; spruzzi di acqua sul capo dei pazienti e nell’uso di espressioni offensive che contrassegnavano il linguaggio con il quale gli operatori, infermieri ed assistenti, si rivolgevano agli ospiti. Pur evidenziando che gli ospiti, a causa delle gravi patologie dalle quali erano affetti, andavano soggetti a violente crisi, anche di natura pantoclastica (rottura di oggetti), nel corso delle quali potevano aggredire gli operatori e gli altri pazienti, la reazione contenitiva degli operatori, secondo il giudice monocratico, avrebbe dovuto essere ispirata al rispetto della incolumità fisica e morale del destinatario e, pertanto, il Tribunale ha ritenuto che devono ritenersi ingiustificate, e conseguentemente devono essere qualificati come inutili ed inaccettabili atti di violenza, tutte le reazioni contenitive difformi da parametri appena evidenziati e che, nella maggior parte dei casi esaminati, consistevano in vere e proprie percosse e si risolvevano in manifestazioni di forza tese ad intimorire gli ospiti per ristabilire la calma in tempi rapidi e a qualsiasi costo.

A maggior ragione tale connotato, di ingiustificatezza e ingiustificabilità, va riconosciuto secondo le argomentazioni sviluppate dai giudici di appello che a quelle del giudice di primo grado di saldano, arricchendole – a quegli atti intimidatori e violenti agìti al di fuori di situazioni di crisi dell’ospite dal momento che in tale caso non sussisteva neppure la necessità di evitare peggiori conseguenze e, a tal proposito, è del tutto irrilevante che l’uso della forza fosse gratuito, ovvero che fosse funzionale al compimento di atti rientranti nella doverosa gestione dell’ospite da parte dell’operatore.

La reiterazione delle condotte vessatorie in danno del singolo ospite, anche più volte nel corso della stessa giornata, ha condotto all’affermazione di colpevolezza degli imputati per le condotte direttamente dispiegate in danno delle singole persone offese.

Il giudice monocratico (cfr. pag. 30 sentenza di primo grado), ha ritenuto integrata la condotta di maltrattamenti, in forma di violenza cd. assistita, non solo nei confronti delle persone offese destinatarie dei singoli atti di violenza fisica, ma anche in danno di singoli pazienti che vi assistevano. Secondo il Tribunale, tenuto conto che i fatti hanno avuto luogo in una struttura dove convivono più ospiti, l’attività della individuazione dei soggetti passivi non può esaurirsi nell’accertare chi sia stato destinatario dei reiterati atti di vessazione poichè, invece, soggetti passivi del reato sono anche gli ospiti che, pur non essendo stati attinti direttamente da alcun atto vessatorio ovvero essendo stati attinti da atti vessatori, ma non reiterati, abbiano comunque direttamente assistito e, più in generale, avuto percezione delle vessazioni realizzate nei confronti delle vittime dirette.

L’accertamento in fatto – per lo più compiuto sulla scorta delle risultanze dei filmati oltre che delle dichiarazioni rese dal personale della struttura oggetto di analitica esposizione nelle sentenze di merito – costituisce il necessario quadro di riferimento fattuale e valutativo, espresso con argomentazioni logiche, complete e concludenti con gli elementi descrittivi della fattispecie incriminatrice contestata e delle condotte ascritte agli imputati e, dunque, l’imprescindibile termine di riferimento dei motivi di ricorso di seguito esaminati, motivi che approdano ad un complessivo giudizio di genericità e manifesta infondatezza dal momento che con tale quadro probatorio ed argomentativo le deduzioni difensive non si confrontano proponendo una lettura atomistica e alternativa dei dati processuali, una valutazione alternativa del risultato di prova ed una conseguente interpretazione, per lo più dell’elemento psicologico del reato, avulsa dalla interpretazione che questa Corte ha univocamente offerto sull’elemento psicologico del reato di cui all’art. 572 c.p..

  1. A.J..

11.1. Il ricorso è inammissibile.

11.2. Non sfugge all’esito decisorio di manifesta infondatezza il motivo di ricorso in punto di responsabilità. Il ricorrente riproduce censure sollevate nel giudizio di appello che hanno formato oggetto di adeguato esame dei giudici dell’impugnazione che hanno analizzato anche la tesi difensiva dell’imputato condividendo la conclusione alla quale era pervenuto il Tribunale sulla impossibilità di ricondurre la condotta dell’imputato alla necessità di contenimento delle crisi del paziente J.A.. Premesso che al ricorrente sono ascritte anche ulteriori condotte di maltrattamenti sulla scorta delle dichiarazioni rese dagli operatori (cfr. pag. 38 della sentenza impugnata) che ne descrivono condotte vessatorie tenute in danno di tutti gli ospiti del reparto n. 4, tacciati con epiteti ingiuriosi, ripresi a suon di schiaffi o calci, per indurli a spostarsi nel reparto o verso la mensa, in buona sostanza incontestati, le sentenze di merito, in ragionato confronto con la tesi difensiva oggi proposta con il ricorso, e valorizzando il contenuto delle testimonianze, si sono soffermate sulle condotte in danno di J.A., paziente con il quale il ricorrente aveva instaurato un rapporto privilegiato, e vittima di condotte abusanti costruite sulle paure del paziente, alimentate con condotte frequenti e reiterate, per ottenerne comportamenti compiacenti. Il ricorrente, infatti, facendo leva proprio sulle paure del destinatario, attraverso la evocazione dell’uomo nero, finiva con l’ingenerare e acuire i deliri e le allucinazioni – portato della patologia -, comportamenti che, secondo le dichiarazioni rese dalla psicologa Mo., erano forieri di tensioni e, soprattutto, produttivi di un danno oggettivo per il destinatario. Conseguenze, queste, ben illustrate dalle testi escusse che riferivano come il paziente reagisse con urla e pianti e come tali comportamenti non corrispondessero ad alcuna esigenza di assistenza, poichè spesso venivano “azionati” per provocare le risa degli astanti.

Il compendio probatorio valutato dai giudici del merito fonda la conclusione, raggiunta attraverso una sintesi completa degli elementi di prova, secondo la quale non è ravvisabile alcuna esigenza di trattamento comportamentale nelle condotte dell’imputato, gratuite e vessatorie e solo finalizzate ad accrescere lo stato di sofferenza ed umiliazione delle vittime che ne erano destinatarie e dello J. in particolare, conclusione quella raggiunta nella sentenza impugnata insuscettibile di censura in questa sede, sia per l’aspetto materiale del reato – essendone confermata l’abitualità dei comportamenti – che per quello psicologico, conclamato, a tacere d’altro, dall’obiettiva rimostranza della vittima e dai rilievi che all’imputato muovevano i colleghi di lavoro che, in più occasioni, gliene contestavano le modalità e, soprattutto, gli effetti incompatibili con le funzioni di assistenza e cura che gli competevano.

  1. B.M..

12.1. Il ricorso di B.M. è inammissibile.

12.2. Manifestamente infondato è il motivo di ricorso che concerne la sussistenza del reato, sotto l’aspetto della prova e del requisito di abitualità della condotta.

Il ricorrente non è stato raggiunto solo dalle dichiarazioni rese da alcune dipendenti della struttura che ne hanno descritto i comportamenti vessatori tenuti nei confronti degli ospiti, è stato più volte ripreso dalle telecamere, installate nel corridoio e in un antibagno della struttura, mentre colpiva con schiaffi D.B.M. o altri ospiti della struttura (il sonoro riproduce inequivocabilmente il rumore degli schiaffi ed i lamenti delle vittime); mentre trascinava per i capelli o spingendola per la nuca un’altra disabile ovvero mentre, a schiaffi, allontanava gli ospiti dal luogo nel quale si era appartato per effettuare delle telefonate. In più occasioni è stato ripreso mentre sferrava un calcio all’uno o all’altro degli ospiti, a tacere delle numerose occasioni nelle quali era ripreso mentre si rivolgeva, con epiteti ingiuriosi, ai vari ricoverati.

La prova dell’abitualità del reato, per effetto della reiterazione di condotte violente e vessatorie tenute nei confronti degli ospiti della struttura, è data, dunque – secondo la complessa struttura motivazionale della sentenza impugnata diffusamente illustrata alle pagg. 59 e ss. oltre che di quella di primo grado – dal contenuto delle videoriprese che restituiscono, secondo i giudici di appello, un inoppugnabile dato probatorio apprezzabile sia per la reiterazione di violenze gratuite da parte dell’imputato, a volte ricorrenti nella stessa giornata a danno di numerosi ospiti, sia per la durata sul piano temporale delle condotte maltrattanti intercettate nel periodo dei due mesi delle operazioni, oltre che per la significatività delle condotte, che esulano totalmente da qualsivoglia finalità di contenimento o rieducativa essendo, in alcuni casi, del tutto gratuiti e sempre di gran lunga eccessive rispetto alle finalità descritte e talvolta connotate da ingiustificabile violenza e denigrazioni continue, comportamenti che denotano un metodo di abituale approccio dell’imputato nei confronti degli ospiti. Elementi, questi, tutti e ciascuno logicamente e adeguatamente valorizzati dai giudici di merito per ritenere sussistente il requisito dell’abitualità della condotta, contestato con il ricorso.

Il risultato di prova che consegue dal contenuto delle videoriprese è tale da confinare nell’irrilevanza non solo la mancata conferma delle dichiarazioni, rese nella fase delle indagini preliminari, da alcuni dei testi escussi in dibattimento ma, per l’evidenza ed eloquenza delle immagini, anche il rilievo della difesa secondo cui positivamente e senza rilevare problemi di sorta nella gestione degli ospiti, si erano sempre concluse le ispezioni, preventive e successive all’accreditamento della struttura e che, evidentemente erano funzionali a verificare i livelli di assistenza e le condizioni generali di idoneità, pulizia, assistenza terapeutica degli ospiti, ma che non potevano scendere nel dettaglio della quotidiana gestione dei pazienti da parte degli infermieri e degli operatori preposti all’assistenza, dettaglio che è rivelato dalle risultanze della sorveglianza lungo l’intero arco della giornata e per un lungo ed apprezzabile arco di tempo, e che, per l’appunto, descrive la diuturna gestione dei degenti e le modalità dei fatti ascritti all’imputato.

Con l’apparato argomentativo della decisione impugnata non si confronta, venendo così meno all’ineluttabile funzione di critica dell’atto di impugnazione, il ricorso proposto nell’interesse dell’imputato che seleziona, nel più ampio e significativo compendio probatorio a suo carico, solo un frammento della prova che, viceversa, apprezzata nella sua interezza e sulla scorta di dati descrittivi di inequivoco contenuto rappresentativo, quale quello evincibile dai filmati, ne denota la responsabilità e che la sentenza impugnata ha posto a fondamento del giudizio di colpevolezza pur non trascurando di analizzare anche il contributo dichiarativo riveniente dai testi escussi.

12.3. La sentenza impugnata ha escluso di poter applicare al B. la circostanza di cui all’art. 89 c.p. condividendo le conclusioni raggiunte dal perito, che ha ritenuto l’imputato pienamente capace di intendere e di volere. Il giudizio medico del sanitario che ha sottoposto a visita l’imputato, e che ha escluso la incidenza delle condizioni di stress lavorativo sull’assetto psichico del B. in quanto inidonee a compromettere i test di realtà e a comportare fenomeni tali da rendere ingestibile o incontrollabile il comportamento, è confutato in termini generici dalla difesa che evoca la struttura personologica dell’imputato, corrispondente a quella di una persona fragile, con scarsa capacità di adattamento e tolleranza alle situazioni frustranti ovvero a soggetto affetto da disturbo bipolare di personalità, caratteristiche che, con argomentazioni logiche e corrispondenti alla nozione di incapacità legale, sono state ritenute dai giudici di merito non indicative di condizioni patologiche tali da incidere sulla capacità di comprendere la portata e le conseguenze dei propri atti, anche se retrospettivamente valutate rispetto al momento di commissione dei fatti. Efficacemente e plasticamente, la Corte distrettuale (cfr. pag. 61) ha ricondotto ai tratti personologici di un soggetto violento ed irascibile, le descritte caratteristiche di personalità, tratti personologici che risultano perfettamente concludenti con quelli comportamentali descritti dai colleghi di lavoro e ripresi nei filmati. Ne consegue la manifesta infondatezza del motivo di ricorso afferente al vizio di motivazione e, per l’effetto, a quello di violazione di legge, con riguardo alla portata della previsione di cui all’art. 89 c.p..

12.4. La Corte distrettuale ha confermato la pena applicata in primo grado (e corrispondente a quella di anni due e mesi sei di reclusione aumentata per effetto delle aggravanti e della continuazione alla pena di anni tre di reclusione), pena individuata in misura che si discosta dal minimo edittale, ma ad esso prossima, evidenziando, ai fini del diniego delle circostanze attenuanti generiche, la mancanza di resipiscenza dell’imputato nonchè la protrazione nel tempo e in danno di più soggetti delle condotte illecite dispiegate. Non ha ritenuto suscettibile di mitigazione del trattamento sanzionatorio la presenza del disturbo di personalità che, viceversa, la difesa aveva valorizzato a sostegno di applicazione delle circostanze innominate. Come è noto la misura della pena, misura alla quale concorrono più fattori di valutazione indicati dall’art. 133 c.p., e così l’applicazione delle circostanze innominate, involgono un profilo della regiudicanda rimesso all’esclusivo apprezzamento del giudice di merito e sottratto a scrutinio di legittimità quando risulti sorretto, come deve constatarsi nel caso dell’impugnata sentenza, da esauriente e logica motivazione. La Corte territoriale non ha solo valorizzato la gravità delle condotte e la pervicacia dell’imputato ma, soprattutto in ragione della funzione rieducativa della pena, ha esaminato le descritte condizioni personali dell’imputato e l’allegata patologia, escludendone la rilevanza come condizioni atte a giustificare un più contenuto trattamento punitivo. Solo contraddicendosi, dopo avere descritto il tratto violento ed irascibile del carattere dell’imputato e la consapevolezza degli atteggiamenti tenuti a fini di prevaricazione nei confronti degli assistiti e finalizzati a garantirgli un più facile approccio con soggetti soggiogati e intimoriti, la Corte distrettuale avrebbe potuto applicare all’imputato le circostanze attenuanti generiche il cui diniego è, invece, perfettamente in linea con le valutazioni complessivamente dispiegate ai fini della valutazione dell’elemento psicologico del reato, della imputabilità e, conseguentemente, della funzione punitiva e rieducativa della pena. Può ritenersi, pertanto, che la Corte territoriale ha fatto buon governo delle regole rimesse all’apprezzamento del giudice del merito nell’esercizio del potere sanzionatorio, effettuando una globale valutazione del fatto e della personalità dell’imputato, esprimendo sul punto una ragionata motivazione nella quale sono adeguatamente valorizzati aspetti soggettivi che rinviano alla pericolosità dell’autore del fatto oltre che alla gravità dello stesso.

  1. Z.D..

  • 13.1. Il ricorso di Z.D. è inammissibile.

  • 13.2. Il primo motivo di ricorso, relativo al vizio di motivazione in punto di sussistenza dell’elemento psicologico del reato e del conseguente vizio di violazione di legge, è manifestamente infondato. Non è neppure il caso di citare la copiosa giurisprudenza di questa Corte in materia di controllo di legittimità sulla motivazione delle sentenze di merito se non per rammentare che tale controllo, circoscritto e rigorosamente ancorato al testo del provvedimento impugnato, è inteso a verificare la ricorrenza, nell’apparato argomentativo della decisione, di vizi di macroscopica evidenza oltre che a verificare la esistenza di una motivazione effettiva – e non meramente apparente – ed idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante, in ragionato confronto con le argomentazioni poste a fondamento del gravame, ha sviluppato sui temi devolutigli con l’impugnazione, oltre a non porsi in contrasto con le affermazioni nella stessa contenute e con altri atti, specificamente indicati, acquisiti al processo. Fondamentale, inoltre, è la verifica del rispetto, nell’incedere argomentativo, delle regole della logica. Orbene, nessuno di tali vizi inficia la struttura argomentativa della decisione impugnata che, come accennato in premessa, si salda alla sentenza di primo grado, della quale condivide l’apprezzamento delle prove a fondamento del giudizio di colpevolezza e della ricostruzione dell’elemento psicologico del reato, ponendosi in ragionato confronto critico con le argomentazioni difensive che i difensori di altri imputati avevano già allegato nel corso del dibattimento di primo grado e che l’imputata, attraverso le spontanee dichiarazioni e la produzione di un manoscritto a sua firma, ha fatto proprie nel giudizio di appello, sostenendo che le condizioni di stress lavorativo e di un perdurante stato di ansia ne determinavano cadute di attenzione e comportamenti sbrigativi verso l’unico ospite, affetto da gravissime patologie e con comportamenti anche autolesionistici, risultato vittima di condotta di maltrattamenti diretti senza, che, tuttavia, tali condotte potessero ritenersi sorrette dalla volontà di ledere l’incolumità fisica e psichica dell’ospite.

Correttamente, tuttavia, in ragione della configurazione dell’elemento psicologico del reato di cui all’art. 572 c.p., costituito dal dolo generico, la Corte distrettuale ha escluso la rilevanza delle dedotte condizioni di stress ovvero di frustrazione personale in quanto inidonee ad incidere sulla consapevolezza e volontà della condotta agita dall’imputata. La condotta della ricorrente è stata contrassegnata non da mere condotte di indifferenza o incuria verso il paziente, ma si è esplicata attraverso comportamenti attivi che la vedevano agire con schiaffi e strattonamenti del D.B., estranei alle finalità della cura ed a fronte di comportamenti del paziente che, per un’operatrice specializzata nel settore, richiedevano ben altro impegno di cura, tanto a tacere degli insulti, con il ricorso ad epiteti che evocavano direttamente la patologia ed i suoi effetti devastanti sulla persona, anche fisica, del malato rivolti a numerosi ospiti e risultati del tutto gratuiti e pertanto, impiegati come veri e propri di strumenti di denigrazione e offesa. Per la ricorrenza dell’elemento psicologico del reato non si richiede, infatti, che l’agente sia animato da alcun fine di maltrattare la vittima, bastando la coscienza e volontà di sottoporre la stessa alla propria condotta abitualmente offensiva, nei termini fattuali sopra specificati (Sez. 6, n. 4933 del 08/01/2004, Catanzaro, Rv. 229514), coscienza e volontà che, come opportunamente rilevato dal giudice di primo grado con riferimento ai coimputati che avevano allegato le medesime giustificazioni, non sono annullate dalla condizione di stress lavorativo, e non solo perchè lo stress lavorativo o condizioni di frustrazione non incidono sulla capacità di autodeterminazione del soggetto che le vive, ma soprattutto perchè il soggetto che le vive ben può liberamente e scientemente optare per diverse soluzioni, non implicanti l’adozione di condotte violente, finanche astenendosi da qualsiasi intervento di cura, e, nel caso della Z., precluse dalla esistenza di un sistema di controlli e vincoli interni e che quindi le rendevano più confacente agire sfogandosi sul paziente.

13.3. Manifestamente infondati sono i motivi di ricorso concernenti il trattamento sanzionatorio. Nel disattendere l’appello del Pubblico Ministero – che instava per l’aggravamento della pena inflitta – la Corte distrettuale ha fatto espresso rinvio alle argomentazioni sviluppate nella sentenza di primo grado che aveva ritenuto preclusiva all’applicazione delle circostanze attenuanti generiche in favore della Z. la reiterazione di comportamenti prevaricatori e violenti in danno dell’ospite più compromesso e indifeso della comunità e, pertanto, maggiormente riprovevole. La pena base, individuata in anni due e mesi sei di reclusione (poco al di sopra del minimo fissato in anni due di reclusione), aumentato di mesi tre per le ricorrenti (e incontestate aggravanti) di cui all’art. 61 c.p., nn. 5 e 11, e della continuazione fra reati (l’imputata risponde anche del reato di maltrattamenti in danno di altro ospite della struttura, anche in forma di violenza cd. assistita) e l’entità minima degli aumenti (contenuti in un mese per ciascuna delle circostanze aggravanti e della continuazione, in assenza di ulteriori specificazioni), rende sufficiente ai fini della motivazione della sentenza impugnata il riferimento alla congruità della pena già illustrato nella sentenza di primo grado. Nè, come noto, l’incensuratezza – di per sè irrilevante, per chiara scelta del legislatore espressa nell’art. 62 bis c.p., comma 3, – ovvero il comportamento processuale (che la difesa ha riferito essere intervenuto solo nel giudizio di appello e limitato a fornire giustificazioni della condotta illecita, ma per nulla espressivo di resipiscenza e revisione critica del comportamento tenuto) valgono ad introdurre significativi temi di decisione che la Corte di merito avrebbe dovuto esaminare per trarne, in relazione alle valutazioni ampiamente discrezionali che connotano la scelta sanzionatoria, l’applicazione delle circostanze innominate e la misura degli aumenti di pena.

  1. V.D..

14.1. Il ricorso di V.D. è inammissibile.

14.2. Generico e manifestamente infondato è il motivo di ricorso in punto di responsabilità. Il ricorrente riproduce censure sollevate nel giudizio di appello che hanno formato oggetto di adeguato esame dei giudici dell’impugnazione e che costituivano oggetto della tesi difensiva esaminata anche dal giudice di primo grado che aveva escluso la possibilità di ricondurre al potere di contenimento dei pazienti le condotte agite dal V..

Anche V.D. non è stato raggiunto solo dalle dichiarazioni rese da alcune dipendenti della struttura che ne hanno descritto i comportamenti vessatori tenuti nei confronti degli ospiti, ma è stato più volte ripreso dalle telecamere, i cui frames sono puntualmente descritti già nella sentenza di primo grado, dove è ripreso mentre minaccia i pazienti di prenderli a schiaffi ovvero li colpisce, in una occasione anche con un calcio o il manico della scopa o mentre li spintona verso il bagno, a tacere delle numerose occasioni nelle quali era ripreso mentre si rivolgeva, con epiteti ingiuriosi, ai vari ricoverati.

La prova dell’abitualità del reato, per effetto della reiterazione di condotte violente e vessatorie tenute nei confronti degli ospiti della struttura, è data, dunque – secondo la complessa struttura motivazionale della sentenza impugnata diffusamente illustrata alle pagg. 59 e ss. oltre che di quella di primo grado – dal contenuto delle videoriprese che restituiscono, in una alle dichiarazioni di altri operatori, secondo i giudici di appello, un inoppugnabile dato probatorio apprezzabile sia per la reiterazione di violenze gratuite da parte dell’imputato, a volte ricorrenti nella stessa giornata a danno di numerosi ospiti sia per la durata sul piano temporale delle condotte maltrattanti, intercettate nel periodo dei due mesi delle operazioni oltre che per la significatività delle condotte che esulano totalmente da qualsivoglia finalità di contenimento o rieducativa essendo, in alcuni casi, del tutto gratuiti, poichè V. colpiva i pazienti, passando per il corridoio; comportamenti eccessivi e connotati da ingiustificabile violenza e denigrazioni continue e che ne denotano un metodo di abituale approccio nei confronti degli ospiti. Elementi, questi, tutti e ciascuno logicamente e adeguatamente valorizzati dai giudici di merito per ritenere sussistente il requisito dell’abitualità della condotta, contestato con il ricorso.

  1. N.M..

15.1. Il ricorso di N.M. è inammissibile.

15.2. Il ricorrente risponde del reato ascrittogli al capo N) della rubrica con precisa individuazione delle persone fisiche degli ospiti oggetto di violenza diretta ovvero assistita. Effettivamente la contestazione ascrittagli reca, quale data di commissione dei fatti, fino all’anno 2010.

La sentenza di primo grado (cfr. pag. 63) ha evidenziato che l’imputato, infermiere professionale, era assegnato alla cura degli ospiti del quarto gruppo ed è raggiunto (non sono infatti registrati dalle video riprese comportamenti a suo carico poichè all’epoca egli non era più in servizio nella struttura), dalle dichiarazioni rese da numerosi colleghi di lavoro che ne illustravano le condotte di violenza fisica (schiaffi per farli alzare e/o camminare, come riferito dalle testi So., Bo. e T.; spinte, come riferito dalla teste Mo.) ovvero colpendoli con un mazzo di chiavi e condotte di denigrazione verbale (con frequenti ingiurie essendo suo costume rivolgersi ai pazienti con termini come maiali (i testi T.L., Sa.Di., C. e Br.Si.) alle quali era aduso nel trattamento degli ospiti che, secondo l’efficace descrizione del giudice di primo grado, venivano trattati come bestie radunate in branco. L’imputato ha confermato anche precise circostanze fattuali, compreso l’uso delle chiavi per picchiare in testa gli ospiti o la sua abitudine di chiamarli maiali, espressione, a suo dire, utilizzata in occasione dei pasti e quando sporcavano la mensa.

15.3. Indeducibile in questa sede è l’eccezione di prescrizione del reato, che si dice commesso fino all’anno 2010 data da intendersi, pertanto, riferita al 31 dicembre 2010 e conseguente maturazione dei termini di prescrizione massima alla data del 30 giugno 2018, eccezione che non è stata formalmente sollevata con i motivi di impugnazione in sede di appello.

Il ricorrente sostiene che la collocazione temporale delle condotte non può univocamente individuarsi alla fine dell’anno 2010 poichè egli aveva lasciato la struttura prima della fine dell’anno e che la esatta collocazione temporale può inferirsi dalle dichiarazioni rese dalle persone escusse che, a propria volta, non hanno precisamente indicato i periodi di svolgimento delle attività lavorativa presso (OMISSIS).

In merito a questa richiesta va preliminarmente osservato che i poteri della Corte di cassazione, in tema di accertamento della data del commesso reato, non differiscono dagli ordinari poteri del giudice di legittimità. Nel senso che il giudice di legittimità deve prendere in considerazione la data contenuta nel capo di imputazione ovvero quella accertata dai giudici di merito poichè esula dai poteri della Corte procedere ad una ricostruzione fattuale estranea ai suoi compiti istituzionali (cfr. Sez. 1, 30 gennaio 2001 n. 11037, Ardito, Rv. 218617; in senso ancor più rigoroso, Sez. 6, 27 aprile 2000 n. 9944, Meloni, Rv. 217255). Naturalmente il giudice di merito (in particolare quello di appello) può errare in questo accertamento fattuale e dunque, in questi casi, è consentito alla parte che abbia interesse proporre ricorso deducendo o il vizio di motivazione, quando l’accertamento della data del commesso reato sia avvenuto con criteri manifestamente illogici, ovvero il vizio di travisamento della prova, che può ravvisarsi nei casi in cui il giudice di merito abbia fondato il suo convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale. Ma, in tale caso, l’accertamento della Corte di legittimità non può comunque spingersi fino alla verifica delle circostanze fattuali dedotte – e nel caso in termini del tutto generici e non dimostrati dall’imputato ovvero avventurarsi nella ricostruzione di dati fattuali (l’accertamento del periodo di servizio delle operatrici e lavoratori che hanno chiamato in causa l’imputato) neppure devolute al giudice di merito, che è il solo davanti al quale può svolgersi un effettivo contraddittorio tra le parti del processo.

15.4. Manifestamente infondato è motivo di ricorso in punto di responsabilità. Le argomentazioni sviluppate nell’impugnazione, a confronto con l’ampio compendio probatorio posto a fondamento della sentenza di condanna che ha valorizzato anche le dichiarazioni rese dall’imputato, si connotano per evidente genericità dell’assunto difensivo. Il ricorrente richiama nell’atto di impugnazione brevi passaggi delle dichiarazioni rese dalle testi Br.Si. e S.D. che costituiscono solo un frammento del compendio accusatorio valorizzato dai giudici del merito, compendio che ha costituito, anche con riguardo alla reiterazione delle condotte illecite poste in essere dall’imputato per verificare la ricorrenza del requisito dell’abitualità della condotta maltrattante, oggetto di dettagliata esposizione sia nella sentenza di primo grado, che nella sentenza di appello. Rileva, inoltre, il Collegio che se è vero che ricorre la inutilizzabilità della prova dichiarativa derivante dalle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria, inutilizzabilità che può essere pronunciata anche di ufficio in ogni stato e grado del processo (cfr. Sez. 3, n. 38146 del 09/07/2015, V., Rv. 264729) è anche vero che tale deduzione deve essere rilevabile dal provvedimento impugnato, ovvero dagli atti processuali e che, nel caso in esame, le conclusioni alle quali è pervenuta la Corte genovese (con riferimento alla pag. 70 della sentenza impugnata) in merito alla conferma della circostanza che l’imputato fosse solito rivolgersi agli ospiti con l’appellativo di maiali sono incentrate, piuttosto che sulla valorizzazione delle dichiarazioni rese nella fase delle indagini, utilizzate per la contestazione, sul contegno ammissivo delle dichiaranti, nel prosieguo dell’esame al quale erano state sottoposte e rispetto al quale non erano state in grado di individuare le circostanze in cui ciò avveniva.

  1. Come anticipato rispondono del reato di maltrattamenti, ai sensi dell’art. 40 c.p., comma 2, Mu.Ma., G.S. e il responsabile sanitario della struttura, Gi.Ma..

Appare pertanto opportuna una comune premessa all’esame delle questioni poste dai ricorsi.

Mu.Ma. è stata condannata in primo grado sulla scorta di una disamina delle specifiche condotte omissive ascrittele, avendo, tuttavia, il Tribunale ritenuto non sussistente la rilevanza causale di ulteriori condotte (quali quelle di mancato approntamento di un adeguato piano terapeutico per i singoli pazienti; di avere ignorato le condizioni di stress del personale e di non avere assicurato un’adeguata formazione professionale degli infermieri e operatori ed assicurato un’adeguata turnazione, anche mediante la previsione di un numero idoneo di operatori durante i singoli turni).

Ineludibile condizione per affermare la responsabilità dell’agente, a titolo di concorso omissivo nel reato commissivo, secondo il Tribunale, è la conoscenza della abituale reiterazione di condotte vessatorie ai danni degli ospiti della struttura e la possibilità di esercitare immediatamente il potere disciplinare, mediante licenziamento, a carico degli addetti. E, prosegue il Tribunale, in tale evenienza, solo la titolarità di poteri disciplinari e del potere di interrompere il rapporto di lavoro con infermieri e operatori assume rilievo al fine di integrare la condotta omissiva causalmente rilevante.

Tale potere è stato ritenuto ravvisabile in capo alla Mu. (cfr. pag. 82 della sentenza di primo grado) in quanto titolare del potere di adottare l’unica misura idonea a determinare la cessazione delle condotte. Certamente, infatti, la Mu. era a conoscenza non solo di singoli e sporadici episodi di ingiurie e aggressioni in danno degli ospiti, ma delle condotte vessatorie e della loro abituale reiterazione poste in essere dal V.D. e da A.J.. L’imputata è stata ritenuta responsabile non solo del reato di maltrattamenti, in danno delle vittime di violenza diretta da parte del V., ma anche delle vittime di violenza cd. assistita.

Il Tribunale aveva, invece, assolto, per non avere commesso il fatto, G.S. e Gi.Ma. (cfr. pag. 79).

Questi, dirigente medico della struttura, era, secondo la ricostruzione del Tribunale, esclusivamente munito di poteri decisionali relativi alla cura degli ospiti e all’adozione ed attuazione dei progetti terapeutici, ma non avrebbe mai potuto assumere provvedimenti implicanti conseguenze definitive sul rapporto di lavoro che legava alla struttura gli autori delle condotte. Risultava irrilevante, a giudizio del Tribunale, l’adozione di un provvedimento disciplinare – la breve sospensione inflitta a B.M. a seguito di una condotta violenta serbata i danni dell’ospite Be. – provvedimento adottato in assenza della Mu. e, comunque ben diverso dal potere di risoluzione del rapporto di lavoro, connesso all’esercizio dei poteri gestionali della struttura, ma estranei alle sue mansioni.

Analogamente (cfr. pag. 81) non esercitava poteri gestionali, implicanti il potere di risoluzione del rapporto di lavoro, G.S. che poteva prendere decisioni autonome, di cui riferiva puntualmente alla madre, ma solo nel settore dell’amministrazione.

La Corte di appello (pag. 76/85 della sentenza impugnata), ha ritenuto muovere da presupposti erronei (cfr. pag. 82) la esclusione, in capo al Gi. e G., della posizione di garanzia in favore degli ospiti della struttura.

Ha ritenuto accertato, sulla scorta dello statuto sociale, che costei rivestisse il ruolo di amministratore delegato della struttura, dotata dei più ampi poteri, “con firma congiunta e disgiunta” e dirigente del settore amministrativo e del personale, ruolo in concreto esercitato tanto da divenire, nel tempo, una vera e propria alter ego della madre, dotata sostanzialmente dei medesimi poteri gestionali alla Mu. facenti capo e, dunque, non limitati al solo settore amministrativo, come risultanti dall’organigramma.

Analogamente, ha rilevato che il dottore Gi. prendeva parte a tutte le scelte organizzative e di gestione, partecipando alle scelte relative alla ospitabilità dei nuovi ospiti, ai colloqui con i genitori, ai colloqui per l’assunzione del personale dirigente. E che, messo a parte delle problematiche insorte fra personale e ospiti, aveva personalmente organizzato incontri finalizzati non solo a chiarirne le dinamiche, ma anche ad assumere idonei provvedimenti in merito, e, fra questi, il provvedimento disciplinare (di sospensione per alcuni giorni dal servizio) di B.M. in conseguenza dell’episodio che aveva avuto come vittima il ricoverato Be.. La qualifica di pubblico ufficiale rivestita dal sanitario; la natura pubblicistica delle sue mansioni; la sua consapevolezza della ricorrenza di fatti penalmente rilevanti all’interno della struttura e tali da integrare il delitto di maltrattamenti ne denota la penale responsabilità, in presenza della prosecuzione dell’attività illecita, che la colpevole inerzia serbata ha consentito di procrastinare nel tempo, nel crescente clima di intimidazione costante dei pazienti, così, rafforzando nei materiali esecutori la consapevolezza dell’impunità.

La condotta illecita ascritta agli imputati è stata, peraltro, circoscritta, quanto alla Mu. al concorso nel delitto di maltrattamenti ascritto ad A.J.; quanto al Gi. al concorso negli episodi di maltrattamenti posti in essere materialmente da B.M. e per la G., al concorso nelle condotte dolose di B.M. e V.D..

  1. Ritiene il Collegio che i motivi di ricorso proposti nell’interesse di Mu.Ma., G.S. e Gi.Ma. sono infondati.

Diversamente da quanto si prospetta nei ricorsi, i giudici del merito – con riguardo alla Mu. raggiunta da una sentenza di doppia conforme condanna – e la Corte di appello, con riferimento alle posizioni di G.S. e Gi.Ma. hanno articolato una adeguata disamina dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 572 c.p., rispettivamente ascritto agli imputati, individuandone gli elementi dimostrativi con riferimento alla peculiarità della condotta che passa attraverso la contestazione del concorso di persone nel reato commissivo doloso mediante omissione, alla stregua degli elementi enucleati dalla giurisprudenza sul criterio di imputazione soggettiva e del nesso causale.

Pacifica, invero, è l’affermazione nella giurisprudenza di legittimità della configurabilità del reato di cui all’art. 572 c.p., mediante concorso per omissione nel reato commissivo (cfr. ex multis Sez. 3, n. 47968 del 14/9/2016, D’A., 268496 e Sez. 6, n. 3965 del 17/10/1994, Fiorillo, Rv. 199476), fattispecie che può ben verificarsi in una struttura di pubblica assistenza (così Sez. 6, n. 3965, cit. e Sez. 6, n. 394 del 30/5/1990, dep. 1991, Cosco, Rv. 186202 e 186205) ed anche in assenza di un rapporto diretto tra agente e vittima (cfr. sul punto la cit. sentenza Fiorillo).

Non è superfluo precisare che in tema di concorso mediante omissione nel reato commissivo, in presenza dell’obbligo giuridico di impedire l’evento, perchè possa aversi responsabilità del garante, occorre che questi si sia rappresentato l’evento, nella sua portata illecita. Tale rappresentazione può, peraltro, consistere anche nella prospettazione dell’evento come evenienza solo eventuale, allorquando, pur essendosi rappresentato la concreta possibilità di verificazione dell’evento, l’agente si è sottratto consapevolmente all’adempimento dei propri doveri di controllo, accettando il rischio che l’evento si verificasse (Sez. 4, n. 36399 del 23/05/2013, M. Rv.256342). Premesso, poi, che l’elemento soggettivo richiesto per la configurabilità del reato è costituito dal dolo generico bastando a connotarlo la coscienza e volontà di sottoporre la stessa alla propria condotta abitualmente offensiva (ex multis Sez. 6, n. 4933 del 08/01/2004, Catanzaro, Rv. 229514) i motivi che orientano la volontà dell’agente e, così, il fine di maltrattare il soggetto passivo, in mancanza di disposizioni in senso diverso, anche nel caso di imputazione del concorso ai sensi dell’art. 40 c.p., comma 2, sono irrilevanti, sicchè è necessario e sufficiente, ai fini della sussistenza del dolo, che l’agente che si trova in posizione di garanzia abbia conoscenza dei presupposti fattuali del dovere di attivarsi, per impedire l’evento e si astenga, con coscienza e volontà, dall’attivarsi, con ciò volendo o prevedendo l’evento nei delitti dolosi, come quello in esame (Sez.3, n. 6208/1997, Ciciani, Rv. 208804).

La corretta interpretazione esegetica dell’art. 40 c.p., comma 2 secondo la quale “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”, con riferimento ai requisiti del nesso casuale, non indulge a considerazioni meno rigorose, posto che il principio della causalità equivalente fa discendere la responsabilità penale del soggetto garante non da qualsiasi omissione, ma solo dalla mancata adozione di comportamenti in grado di assicurare, in modo efficace, il rispetto del bene giuridicamente protetto (Sez.3, n. 4730 del 14/12/2007, dep. 2008, B, Rv.238698).

17.2. A tali descritte e specifiche coordinate in diritto si è correttamente attenuta la sentenza impugnata.

17.2.1. La Corte genovese, ha compiuto una rigorosa e specifica ricostruzione in fatto – ai fini della individuazione delle condotte vessatorie e violente in danno dei pazienti ascritte, rispettivamente ad A.J., a B.M. ed a V.D., e che sono descritte nei punti che esaminano i motivi di ricorso dei predetti, ai quali si rinvia – ma, soprattutto, una puntuale ed articolata ricostruzione degli elementi fattuali, che denotano la conoscenza di tali episodi da parte della direttrice della struttura Mu.Ma. nonchè di G.S. e di Gi.Ma..

Quanto alla Mu., la Corte genovese si è allineata alla ricostruzione del Tribunale (cfr. pag. 83 della sentenza di primo grado), che, sulla base di convergenti ed univoche dichiarazioni testimoniali, aveva evidenziato che la Mu. era stata destinataria di numerose segnalazioni provenienti dal personale, dalla coimputata G.S., che aveva riferito di avere immediatamente inoltrato alla Mu. le segnalazioni di abusi da lei ricevute, e dalla psicologa della struttura. E, sulla base di tali dichiarazioni – e non del contenuto captativo evidentemente silente al riguardo – e che non afferivano alla sola inadeguatezza di uno o dell’altro operatori ovvero a generiche condotte di ingiuria o episodici aggressioni in danno dell’uno o degli altri ricoverati (cfr. pag. 84 della sentenza di primo grado) ma proprio alle specifiche e reiterate condotte di maltrattamenti ascritte a A.J. e V.D., la Corte ha ritenuto acquisita la piena prova della conoscenza da parte della Mu. delle condotte di abituale sottoposizione dei ricoverati a condotte di maltrattamenti. Secondo le concordi e convergenti dichiarazioni di una teste ( Mu.) e della psicologa della struttura si è accertato che tali condotte erano state oggetto di discussione nel corso delle riunioni alla presenza della Mu. e, proprio la reiterazione di riunioni e discussioni sul punto, osserva il Tribunale, denota che le condotte di tali operatori non erano occasionali ed episodiche. Specifica, pertanto, era stata la conoscenza, da parte della Mu., delle condotte abusanti ascritte al V., nei confronti di tutti gli ospiti, e dei maltrattamenti dell’ A. in danno dello J. sicchè, in presenza di tali notizie, era preciso onere della Mu., titolare del corrispondente potere, licenziare gli operatori autori delle condotte maltrattanti.

Sono evidentemente irrilevanti, in presenza di tale quadro fattuale e della ricostruzione in diritto dei poteri spettantigli, oltre che evocative di un potere di valutazione in fatto non spettante al giudice di legittimità, le allegazioni difensive nella parte in cui (cfr. pagg. 22 e segg. del ricorso) vengono richiamate le dichiarazioni che descrivono l’atteggiamento materno della direttrice nei confronti dei degenti, atteggiamento che non è incompatibile con la conoscenza dei maltrattamenti protratti praticati dal personale e che la Mu. non aveva allontanato dalla struttura, sottoposto a provvedimento disciplinare o relegato in un settore nel quale gli imputati non avrebbero potuto nuocere ai pazienti.

17.2.2. Ad avviso della Corte distrettuale, anche G.S., che in più occasioni aveva girato alla madre le segnalazioni ricevute di maltrattamenti riferibili al V. e ad A., e Gi.Ma. erano a conoscenza delle condotte di abusi ricorrenti e sistematici sulle persone degli assistiti da parte dei predetti.

La Corte ha valorizzato, secondo un criterio di apprezzamento non manifestamente illogico, le ammissioni dell’imputato di essere stato a conoscenza delle segnalazioni che denunciavano maltrattamenti nella struttura perchè riferitigli dalle psicologhe (in particolare riferiva delle segnalazioni provenienti dalla paziente F.A., da Bi.Di. e Ba.Fa.) ed a fronte delle quali egli aveva predisposto un confronto tra l’operatore ed il paziente nonchè l’episodio che lo aveva condotto, in assenza della Mu., ad irrogare la sanzione della sospensione del B. a seguito di una riscontrata lesione sulla persona del ricoverato Be.. Dunque, sulla scorta della precisa disamina delle funzioni in concreto esercitate, la Corte ha ritenuto che l’imputato fosse inserito nella struttura dirigenziale, potendo partecipare alle scelte organizzative e di gestione della struttura, avendo egli partecipato alle scelte relative alla ospitalità di nuovi disabili, ai colloqui con i genitori a quelli relativi alla scelta ed all’assunzione dei dipendenti ed al controllo del loro lavoro, come comprovato dall’esercizio del potere disciplinare in danno del B., per l’episodio del 2010 e non limitati alla gestione sanitaria dei pazienti.

Nè sono suscettibili di valutazione in questa sede le doglianze della difesa della G. (cfr. motivo sub 3.6.1.) che attaccano la persuasività e adeguatezza della valutazione della Corte proponendo una lettura atomistica e scomposta delle notizie che la G. aveva riferito alla madre sulle segnalazioni di abusi del V. e dell’ A.. Nè sono censurabili le argomentazioni della Corte genovese che ha valorizzato il dato documentale – evincibile dallo statuto – di amministratore delegato, con firma libera e disgiunta, della ricorrente, ruolo che, in base alle dichiarazioni dei testi e, in particolare, quelle del teste Beronio e soprattutto della psicologa della struttura, era stato in concreto esercitato dalla G., agevolato dal rapporto di famiglia con la titolare, e che, nel tempo, era divenuto del tutto interscambiabile con quello della Mu.. Tale ruolo le consentiva di esercitare, in piena autonomia, poteri gestionali che ne comportavano l’espletamento nella organizzazione dei turni e della gestione del personale, gestione alla quale accedeva, dunque, il potere disciplinare, e che esulavano dalle sue incombenze limitate, secondo la difesa, alla gestione amministrativa attestata dall’organigramma.

  1. La Corte distrettuale ha ritenuto, dunque, accertata la oggettiva possibilità, in ragione delle cariche e del ruolo rivestiti da G.S. e Gi.Ma., di impedire l’evento, possibilità che, erroneamente, il Tribunale aveva individuato circoscrivendola al potere di licenziare gli infermieri e operatori sanitari, autori degli abusi, e la cui titolarità spettava, secondo la ricostruzione del Tribunale, solo alla Mu..

E’ ben vero che questa Corte ha affermato che in tema di reati omissivi il fondamento della responsabilità è correlato all’esistenza di un dovere giuridico di attivarsi per impedire che l’evento temuto si verifichi; che il dovere giuridico rinviene da una fonte normativa di diritto privato o pubblico, anche non scritta ovvero da una situazione di fatto per precedente condotta illegittima, che costituisca il dovere di intervento e dalla esistenza di un potere (giuridico, ma anche di fatto) attraverso il corretto uso del quale il soggetto garante sia in grado, attivandosi, di impedire l’evento (Sez. 4, n. 8217/1999, Fornari, Rv. 212144; Sez. 4, n. 32298 del 06/07/2006, Abbiati, Rv.235369).

Cionondimeno la individuazione della titolarità della posizione di garanzia non è esclusivamente ravvisabile in capo al titolare formale delle cariche dalle quali discende il potere di gestione ma comporta, nella materia della tutela della integrità personale, la ricostruzione delle funzioni di fatto esercitate dall’agente e l’effettivo esercizio di poteri di gestione secondo principi che, enucleati con riferimento alla materia degli infortuni sul lavoro, sono applicabili in altri settori dell’ordinamento, ove vengano in rilievo i criteri di imputazione della responsabilità penale.

Orbene, sulla scorta delle descritte evidenze probatorie, la Corte di merito ha condivisibilmente ritenuto che la posizione di garanzia, e quindi la possibilità di esercitare il correlativo potere incombeva, in ragione della carica rivestita su Mu.Ma. ma anche, in ragione del ruolo di amministratore delegato della struttura, conferitole dallo statuto, e della situazione di fatto che si era venuta a determinare presso il centro di cura, situazione che la vedeva esercitare di fatto poteri di gestione e amministrazione, su G.S., indicata come vero e proprio alter ego della Mu. e sul direttore sanitario, Gi.Ma..

Congruenti con il descritto quadro normativo e con la ricostruzione in fatto sono le conclusioni alle quali è pervenuta la Corte distrettuale nel confermare il giudizio di responsabilità di Mu.Ma. e condannare G.S. e Gi.Ma. individuati come titolari di una posizione di garanzia in ordine alla tutela dell’integrità psicofisica dei pazienti ricoverati nella struttura posizione di garanzia che, in un contesto residenziale nel quale ai congiunti dei ricoverati ed agli uffici ispettivi sfuggivano comportamenti violenti, offensivi reiterati ed esorbitanti del personale, essi erano viceversa tenuti a verificare, essendo ciascuno titolare del potere di iniziativa volta a rimuovere la condizione di disagio e pericolo per i ricoverati.

Come anticipato, la corretta interpretazione esegetica dell’art. 40 c.p., comma 2 nella ricostruzione del nesso di causalità e del principio di equivalenza fa discendere la responsabilità dell’agente non da qualsiasi omissione, ma solo dalla mancata adozione di comportamenti in grado di assicurare (in modo efficace) il rispetto del bene giuridicamente protetto (cfr. Rv. 238698 innanzi citata). Tuttavia, ai fini dell’operatività della così detta “clausola di equivalenza”, non è necessario che il titolare della posizione di garanzia sia direttamente dotato di tutti i poteri atti ad impedire la lesione del bene garantito, essendo sufficiente che egli disponga dei mezzi idonei a sollecitare gli interventi necessari ad impedire l’evento dannoso (Sez. 4, n. 47794 del 05/10/2018, Sacchetto Tiziano, Rv. 274357).

Rileva il Collegio che il vero tratto distintivo tra la sentenza del Tribunale di Genova e la sentenza impugnata, con riguardo alle posizioni dei ricorrenti G. e Gi. ed in presenza del comportamento inerte dei due ricorrenti, è costituito dalla differente valutazione dell’efficienza casuale da attribuire ai poteri ad essi riconosciuti che, secondo il Tribunale, sono configurabili solo in presenza di un potere tale da consentire all’agente di evitare il verificarsi dell’evento dannoso e che, nel quadro del rapporto lavorativo tra l’ente e il personale ausiliario era solo quello massimo, e, cioè, il potere di licenziamento dell’autore delle condotte illecite.

E’ dunque, corretta la conclusione della Corte genovese, secondo la quale la identità della posizione di garanzia non consentiva di differenziare la posizione dell’imputata G.S. rispetto a quella di Mu.Ma., dal momento che anche G.S. poteva far ricorso ai medesimi poteri.

Ma altrettanto corretta è la ulteriore conclusione secondo la quale tra i suddetti “doverosi” interventi potevano rientrare non solo rimedi estremi, esercitabili in ragione del ruolo apicale rivestito, ma anche rimedi meno stringenti, purchè dotati di efficienza causale onde evitare la protrazione delle condotte illecite già accertate come reiterate ovvero poteri in concreto esigibili dall’agente, secondo una linea interpretativa che, enucleata con riferimento a categorie di pericolo ed eventi riguardanti la pubblica incolumità (Sez. 4, n. 47794 del 05/10/2018, Sacchetto, Rv. 274357; Sez. 4, n. 14550 del 16/2/2018, B., Rv. 272516), sono viepiù configurabili rispetto a situazioni di pericolo connesse all’organizzazione del lavoro e, quindi, correlate agli obblighi di controllo e adozione di misure di prevenzione che in una struttura complessa sono modulabili sulla situazione concreta e nella maggior parte dei casi non sono delineati nè in termini di esercizio di tutti i poteri impeditivi nè di poteri che possano influenzare il corso degli eventi.

La posizione di garanzia impone, infatti, all’agente di porre in essere tutti gli interventi concretamente idonei a far cessare l’attività delittuosa, posto che l’obbligo di tutela di persone incapaci, quali erano i ricoverati e, in specie quelli del reparto numero 4, aveva natura assolutamente prioritaria rispetto a qualsivoglia altra esigenza di organizzazione del lavoro nella struttura.

Ed è questa, correttamente, la causa di imputazione della condotta omissiva a carico di Gi., direttore sanitario della struttura al quale erano assegnati compiti e poteri, relativi alla gestione degli aspetti di carattere medico, individuati da una fonte normativa di carattere legislativo quale la L. 412 del 30/12/1991, poichè il ruolo pubblico rivestito lo investiva dell’esercizio di poteri autoritativi e certificati nei confronti dei pazienti, sicchè il Gi. avrebbe potuto e dovuto denunciare gli illeciti dei quali era venuto a conoscenza all’Azienda Sanitaria, per quanto attiene agli aspetti amministrativi, e all’autorità giudiziaria.

  1. Resta, infine, da esaminare il quarto motivo di ricorso proposto da B.M., con il quale l’imputato ha chiesto espressamente la revoca delle statuizioni civili recate dalla sentenza (condanna generica al risarcimento del danno e assegnazione di una provvisionale) in favore di Ch.El., in proprio e in qualità di amministratrice di sostegno di Ba.Fa.; Ba.An.Gi., in qualità di amministratore di sostegno di Ba.da. e M.R. e Ca.Pi.An. in proprio e in qualità di tutori di Ca.Al., individuati quali vittime di cd. violenza assistita sul rilievo che la previsione normativa di cui all’art. 61 quinquies c.p. non era vigente al momento di commissione dei fatti.

La censura è ripresa nel motivo di ricorso proposto (cfr. 3.12.7) dal Responsabile civile Villa Gritta s.p.a. con argomentazioni che, al di là della revoca delle statuizioni civili relative alle posizioni An. e Ca., impongono le seguenti precisazioni in diritto.

A riguardo vai bene una premessa.

Nelle imputazioni ascritte al B. ed ai coimputati non è richiamata l’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 11 quinquies, aggravante giustappunto introdotta dal D.L. 14 agosto 2013, n. 93 convertito, con modificazioni, nella L. 15 ottobre 2013, n. 119 nè fra le aggravanti applicate essa compare. La disposizione citata prevede un inasprimento del trattamento sanzionatorio, in relazione al delitto di cui all’art. 572 c.p., per avere commesso il fatto in presenza o in danno di un minore degli diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza. La ratio di aggravamento della pena è volta alla protezione della integrità e della serenità del minore e risiede nella valorizzazione degli aspetti negativi della condotta per il sol fatto di essere commessa in presenza o in danno di minori degli diciotto, ovvero di soggetti che, a cagione della incompletezza del loro sviluppo pisco-fisico, risultano più vulnerabili e, dunque, più sensibili, ed esposti ai riverberi negativi degli agiti aggressivi che siano realizzati in loro presenza.

Erronea è, tuttavia, la prospettazione difensiva secondo la quale la fattispecie delle cd. violenza assistita o indiretta costituisce il risultato della introduzione di detta aggravante dal momento che la cd. violenza assistita o indiretta costituisce autonoma figura di reato prevista dall’art. 572 c.p., come tale individuata dalla giurisprudenza di questa Corte, e ravvisabile anche nel caso in cui vittima di reato siano soggetti appartenenti ad una comunità, teatro di fatti di violenza e massimamente verificabile in quelle situazioni di comunitarie nelle quali siano presenti soggetti appartenenti a cd. fasce deboli ovvero, secondo una terminologia più appropriata sulla scorta delle fonti di diritto sovranazionale che si occupano delle problematiche connesse alla tutela della persona ed al rispetto dei diritti fondamentali, soggetti vulnerabili.

La nozione di soggetti vulnerabili è stata elaborata, in particolare, nella Convenzione dell’Aja del 13 gennaio 2000, sulla protezione internazionale degli adulti e nella Raccomandazione del 27 novembre 2013, C/378-8, sulle garanzie procedurali per le persone vulnerabili indagate di imputate in procedimenti penali; nella decisione quadro 2001/220 che contiene un riferimento alla vittime particolarmente vulnerabili, in relazione alla posizione della vittima nel processo penale; nelle Direttive del Parlamento Europeo e del Consiglio del 5 aprile 2011, concernente la prevenzione e repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime e che prescriveva la enucleazione di principi e criteri direttivi specifici ai fini della definizione di “persone vulnerabili”, che tengano conto di aspetti quali “l’età, il genere, le condizioni di salute, le disabilità, anche mentali….”. La nozione ricorre anche nella disciplina di particolari tipologie contrattuali o pratiche commerciali (la Direttiva 90/232/CEE del Consiglio del 14 maggio 1990). La definizione è ripresa nella disciplina nazionale, in materia di libera circolazione dei cittadini comunitari e rimpatrio di soggetti appartenenti a Paesi terzi irregolari, ed è recata alla L. 25 luglio 1998, n. 286, art. 19, comma 2 bis “sulla necessità di una esecuzione individualizzata e compatibile con le condizioni personali accertate, in relazione a persone affette da disabilità, degli anziani, dei minori….”. Emerge, inoltre, nella legislazione che si occupa delle domande di riconoscimento dello status di rifugiato (D.Lgs. n. 25 del 2008; D.Lgs. n. 251 del 2007), ma anche in relazione alla figura, elaborata nella disciplina positiva, dell’amministratore di sostegno, figura che si pone in linea di continuità con la necessità di garantire mezzi di tutela adeguati a fronte di situazioni nelle quali si trovi la persona bisognosa, a cagione di fattori quali l’età, la malattia e la disabilità, di particolare protezione.

Un tratto comune in siffatto parziale panorama è quello di apprestare, rispetto all’esercizio di potestà pubblicistiche, una tutela particolare per garantire al soggetto vulnerabile – per circostanze obiettive, ma di natura indefinita ed eterogenea – una protezione maggiore in presenza di situazioni che non gli consente di spiegare pienamente e liberamente la propria personalità e identità ovvero che, in presenza di atti cruenti commessi alla loro presenza, appaiono più sensibili, ed esposti ai riverberi negativi.

Il reato di cui all’art. 572 c.p. è pacificamente configurabile, dunque, in tutte quelle situazioni di convivenza nell’ambito delle quali si registra, come nella presente fattispecie, la condizione di affidamento di una persona alla cura, vigilanza, custodia o per l’esercizio di una professione, condizioni che implichino o, comunque, comportino l’esercizio di poteri autoritativi da parte dell’agente e massimamente ravvisabili in una struttura destinata al ricovero di soggetti disabili e portatori di disabilità fisiche, psichiche e sensoriali di grado medio alto, quali i pazienti del cd. gruppo 4, al quale appartengono i soggetti passivi delle condotte ascritte agli odierni imputati.

Secondo la costante ermeneusi di questa Corte, lo stato di sofferenza e di umiliazione delle vittime non deve necessariamente collegarsi a specifici comportamenti vessatori posti in essere nei confronti di un determinato soggetto passivo, ma può derivare anche da un clima generalmente instaurato all’interno di una comunità, in conseguenza di atti di sopraffazione indistintamente e variamente commessi a carico delle persone sottoposte al potere dei soggetti attivi, i quali siano consapevoli, a prescindere dall’entità numerica degli atti vessatori e dalla loro riferibilità ad uno qualsiasi dei soggetti passivi. Affermazioni di principio queste, riferibili alla fattispecie astratta di cui all’art. 572 c.p., relative alla continua espressione di frasi ingiuriose e a maltrattamenti fisici da parte delle operatrici di un istituto pubblico di assistenza nei confronti di persone anziane ivi ricoverate nel reparto di lunga degenza (Sez. 6, n. 8592 del 21/12/2009, dep. 2010, Z. e altri, Rv. 246028).

Ritiene, pertanto, il Collegio che, al di fuori delle fattispecie oggetto di tipizzazione, per specificazione, nell’aggravante di cui all’art. 61 quinquies c.p. in cui è oggetto di tutela una situazione, quella della minore età del soggetto passivo del reato, che per pacifica prassi costituisce condizione obiettiva di vulnerabilità della vittima, i connotati suscettibili di integrare il modello di cui all’art. 572 c.p. sono ravvisabili in quelle situazioni nelle quali vengono in rilievo, in presenza di situazioni di cd. istituzionalizzazione, condizioni di personale debolezza dei degenti, a ragione delle loro condizioni psichiche e, quindi, la loro vulnerabilità che ne amplifica la esposizione al potere di cura e controllo del personale, sicchè, in tale caso, sono sussistenti quelle condizioni di fatto che giustificano la protezione della integrità e della serenità delle vittime cd. vulnerabili a fronte di comportamenti commessi non solo in danno, ma anche in presenza, poichè si tratta di vittime secondarie della condotta illecita e che, a cagione della incompletezza del loro sviluppo pisco-fisico, risultano più vulnerabili e, dunque, più sensibili, ed esposti ai riverberi negativi degli agiti aggressivi che siano realizzati in loro presenza.

A tale principio si sono allineati i giudici del merito nel ritenere configurabile il delitto di maltrattamenti con violenza in danno degli ospiti direttamente vittima di aggressioni fisiche e verbali, ma anche di violenza cd. assistita in danno dei degenti del reparto numero quattro che o sono stati destinatari di condotte violente, ma non rieterate, ovvero inermi spettatori delle violenze consumate in danno degli ospiti che ne condividevano la collocazione nel reparto e che, attraverso i filmati ovvero per altre obiettive circostanze, sono risultati spettatori delle violenze in danno dei compagni di degenza. E tale è il caso di Ca.Al. (indicato fin dal capo di imputazione sub b), assorbito in quello di maltrattamenti al capo a) come uno degli ospiti trascinato per i capelli da una stanza all’altra del reparto e vittima delle condotte ascritte a B.M., e di quegli ospiti che, come Ba.Fa. e Ba.da., a lungo degenti nel reparto quattro, che ne frequentavano sia le stanze di ricovero che gli ambienti comuni quali corridoi, antibagno, mensa – sono risultati teatro della aggressioni quotidianamente praticate sugli ospiti dall’ A., dal B. e dal V..

Consegue la indeducibilità e manifesta infondatezza del motivo di ricorso che, al di là del dato espresso nel quale viene richiamata la contestazione dell’aggravante, può ritenersi volto a impugnare la pronuncia di colpevolezza in ordine al reato di maltrattamenti in forma di cd. violenza assistita.

  1. Alla dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi proposti da A.J., B.M., Z.D., V.D. e N.M. consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e, ciascuno al versamento della somma di Euro duemila in favore della cassa della ammende.

  2. Il rigetto dei ricorsi di Mu.Ma., G.S. e Gi.Ma. e del responsabile civile, Villa Gritta s.p.a. comporta la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi di A.J., B.M., Z.D., V.D. e N.M. e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di Euro duemila in favore della cassa della ammende. Rigetta i ricorsi di Mu.Ma., G.S., Gi.Ma., Villa Gritta s.p.a. e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Revoca le statuizioni civili nei confronti di An.Da.Do., An.Fe.Ma., P.M.G., Ca.Pi., M.R., Ca.Al..

Così deciso in Roma, il 28 marzo 2019.

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In particolare, lo sviluppo delle tecnologie informatiche ha permesso di disegnare nuovi scenari che rendono per un verso i singoli utenti più esposti ad essere vittime di illeciti di questo tipo, per l’altro verso aumentano il rischio di violare le varie disposizioni sanzionatorie nello svolgimento della propria attività professionale e commerciale.

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Nel nostro ordinamento le pene seguono una classificazione rigidamente strutturata e si distinguono in:

pene principali e secondarie;

pene per i delitti e pene per le contravvenzioni (v. differenze tra delitti e contravvenzioni);

pene restrittive della libertà personale e quelle pecuniarie.

Le pene principali per i delitti sono (art. 17 c.p.):

l’ergastolo;

la reclusione;

la multa.

Le pene accessorie per i delitti sono (art. 19 c.p.):

l’interdizione dai pubblici uffici;

l’interdizione da una professione o da un’arte;

l’interdizione legale;

l’interdizione dagli uffici direttivi delle perone giuridiche e delle imprese;

l’incapacità di contrarre con la pubblica amministrazione;

l’estinzione del rapporto di impiego o di lavoro;

la decadenza o la sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori.

Le pene principali per le contravvenzioni sono (art. 17 c.p.):

l’arresto;

l’ammenda.

Le pene accessorie per le contravvenzioni sono (art. 19 c.p.):

la sospensione dell’esercizio di una professione o di un’arte;

la sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese.

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Originally posted 2019-10-28 09:31:28.