ART 20 CPP REATO COMMESSO ALL’ESTERO DA CITTADINO STRANIERO CONNESSIONE REATO ITALIANO
ART 20 CPP REATO COMMESSO ALL’ESTERO DA CITTADINO STRANIERO
la verifica della giurisdizione, che precede logicamente ogni altro tipo di indagine rimesso alla cognizione del giudice, ha carattere dinamico, dovendo il difetto di giurisdizione essere rilevato, anche di ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, secondo la disciplina dettata dall’art. 20 c.p.p., ed implica il potere-dovere del giudice di controllare costantemente, per tutto il corso del processo, se i fatti che formano il contenuto dell’imputazione rientrino nell’ambito della propria giurisdizione, dovendo dichiararne il difetto non appena gli elementi di prova raccolti modifichino la struttura e l’impianto originari dell’imputazione facendola esorbitare dalla sfera cognitiva assegnatagli dall’ordinamento (Sez. 5, n. 32372 del 06/04/2017, Fall Sidiya, Rv. 270538; Sez. 1, n. 23372 del 15/05/2015, Miceli, Rv. 263616).
il reato commesso all’estero non può rientrare nella giurisdizione del giudice italiano per il solo fatto che sia legato dal vincolo della continuazione con altro reato commesso in Italia, trattandosi di ipotesi non compresa tra quelle che, ai sensi degli artt. da 7 a 10 del c.p., comportano deroga al principio di territorialità sul quale si basa la giurisdizione dello Stato italiano
Ciò posto, osserva il Collegio che – secondo l’imputazione – gli atti sessuali fatti oggetto di contestazione sono stati compiuti “in Romania e in Trezzano sul Naviglio dal 2005 al 2013”. Dalle sentenze di merito si ricava che sia la persona offesa, sia il cugino imputato – nati in Romania da famiglie rumene – risultano essersi trasferiti in Italia, con le famiglie, nel 2007, allorquando la ragazzina aveva 11 anni.
Le sentenze di merito non danno atto che essi avessero in allora ottenuto la cittadinanza italiana – e si ignora, per vero, se ciò sia in seguito accaduto essendo verosimile, secondo massime di comune di esperienza e in difetto di diversa attestazione da parte dei giudici di merito, che sia fondata l’allegazione contenuta in ricorso circa il fatto che si trattasse di persone aventi esclusivamente la cittadinanza rumena.
Ed invero, per un verso, trattandosi di delitto comune (vale a dire, non politico), commesso all’estero da cittadino straniero in danno cittadino straniero, non ricorrendo alcuna delle ipotesi previste dall’art. 7 c.p., per radicare la giurisdizione italiana sarebbe stata necessaria, tra l’altro, la richiesta del Ministro della giustizia, a norma dell’art. 10 c.p., comma 2, ciò che nel caso di specie non consta essere avvenuto. In particolare, la giurisdizione nazionale non è ravvisabile neppure a norma dell’art. 7 c.p., n. 5), che, nel prevedere l’applicazione della legge italiana anche nei confronti del cittadino straniero che commetta un reato all’estero quando ricorra una speciale previsione di legge, con riguardo al reato nella specie ritenuto rimanda implicitamente all’art. 604 c.p., il quale richiede pur sempre o che la persona offesa sia cittadino italiano, ovvero che l’autore del reato straniero abbia commesso il fatto in concorso con cittadino italiano, purché, in quest’ultima ipotesi – soddisfatto essendo il requisito della gravità del trattamento sanzionatorio parimenti stabilito – via sia stata richiesta del Ministero della giustizia.
Va pertanto affermato il principio secondo cui – in disparte le altre condizioni pure previste dalla legge – non sussiste la giurisdizione del giudice italiano per il reato previsto dall’art. 609 quater c.p., commesso all’estero da uno straniero in danno di cittadino straniero, quando manchi la richiesta del Ministro della giustizia.
Corte di Cassazione
sez. III Penale, sentenza 6 novembre 2019 – 11 febbraio 2020, n. 5413
Presidente Ramacci – Relatore Reynaud
Ritenuto in fatto
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Con sentenza del 1 aprile 2019, la Corte d’appello di Milano giudicando sul gravame proposto dall’odierno ricorrente, per quanto qui interessa ha parzialmente riformato la sentenza con la quale il Tribunale di Milano lo aveva condannato alle pene di legge per il reato continuato di cui all’art. 609 quater c.p., per aver ripetutamente compiuto atti sessuali con la cugina minorenne. In particolare, dichiarando la prescrizione con riguardo ai fatti commessi sino al (omissis) e rideterminando conseguentemente la pena, la Corte territoriale ha nel resto confermato l’impugnata pronuncia.
2. Avverso la sentenza di appello, ha proposto ricorso il difensore dell’imputato, deducendo, con il primo motivo, la nullità della sentenza per violazione degli artt. 125, 130, 546 e 547 c.p.p. e per contraddittorietà tra motivazione e dispositivo.
Si lamenta, in particolare, che, a fronte di una sentenza di primo grado il cui dispositivo assolveva l’imputato “dai reati a lui ascritti in data successiva al 22.1.2010 perché il fatto non sussiste”, la Corte territoriale abbia ritenuto frutto di mero errore materiale l’indicata data, reputando di doverla leggere come “22.1.2012” in forza del contenuto della motivazione della sentenza.
In primo luogo, il ricorrente rileva che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale – che ha valorizzato soltanto un passaggio della motivazione, trascurandole altri – la volontà del primo giudice ricostruibile dall’atto integrale era quella di assolvere l’imputato da tutti i fatti commessi dopo che la persona offesa aveva compiuto i quattordici anni. In ogni caso, laddove fosse davvero sussistente un contrasto tra dispositivo e motivazione, si sarebbe dovuto dare prevalenza al primo, non essendovi elementi certi e logici che ne rilevassero l’erroneità e, comunque, trattandosi di una modificazione essenziale dell’atto in malam partem, non si sarebbe potuto ricorrere al procedimento di correzione di errore materiale e si sarebbe dovuto procedere all’annullamento della sentenza di primo grado per insuperabile ed insanabile divergenza tra dispositivo e motivazione.
Inoltre, avendo la sentenza impugnata confermato quella di primo grado, pur argomentando, in motivazione, che la condanna riguarda fatti commessi sino al (OMISSIS), questa contraddittorietà vizierebbe anche la pronuncia impugnata.
3. In relazione a quanto appena osservato, con il secondo motivo di ricorso si deduce violazione dell’art. 597 c.p.p., comma 3, per aver la Corte territoriale affermato la penale responsabilità dell’imputato sino a tale ultima data, laddove quella di primo grado si era arrestata a due anni prima, con violazione del principio di reformatio in peius, non essendovi stata impugnazione del pubblico ministero.
4. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta violazione di legge in relazione alla ritenuta applicabilità della legge italiana – in violazione degli artt. 604 e 6 c.p. – per fatti avvenuti in Romania fino al 2007, pur in assenza di alcun criterio di collegamento che consentisse l’espansione della giurisdizione italiana, essendo di nazionalità rumena sia l’imputato, sia la persona offesa.
5. Con il quarto motivo di ricorso si deduce vizio di motivazione per essere stata ritenuta l’attendibilità della persona offesa, costituitasi parte civile, senza operare quel rigoroso vaglio di credibilità, con necessità di riscontri, richiesto dalla giurisprudenza, tenuto anche conto del fatto che una parte del narrato quella relativa alla consumazione di rapporti sessuali completi violenti – era stata ritenuta inattendibile, con conseguente assoluzione dal reato di cui all’art. 609 bis c.p. Confermando la penale responsabilità per il reato di cui all’art. 609 quater c.p. con riferimento ai contestati fatti di toccamento reciproco, si era operata una valutazione frazionata delle dichiarazioni della persona offesa benché tra quelle oggetto di diversa valutazione vi fosse un’interferenza fattuale e logica e benché la restante parte del narrato non fosse intrinsecamente credibile e fosse priva di riscontri.
A tale ultimo proposito, il ricorrente lamenta che la Corte territoriale non abbia adeguatamente analizzato e logicamente considerato quegli aspetti di merito della vicenda – fatti oggetto di specifica doglianza con il gravame – che avrebbero invece impedito l’affermazione di responsabilità al di là di ogni ragionevole dubbio. Ci si riferisce, in particolare: ai tempi e ai modi della denuncia (non essendo credibile che la ragazza abbia così a lungo taciuto sui fatti); al contenuto delle fotografie prodotte in atti, che attestavano un affettuoso e felice rapporto tra imputato e persona offesa; all’atteggiamento provocante che quest’ultima teneva nei confronti del cugino; al fatto che ella non avesse riportato alcuna conseguenza sul piano psicologico, tanto da avere, sin dall’adolescenza, rapporti sentimentali e sessuali con altri uomini.
6. Con il quinto motivo di ricorso si lamentano violazione dell’art. 609 quater c.p., comma 4, e vizio di motivazione – sul punto assolutamente mancante – per non aver ritenuto, d’ufficio, la sussistenza della circostanza attenuante del fatto di minor gravità, benché l’imputato avesse dedotto elementi fattuali che ne avrebbero imposto il riconoscimento con riguardo al non grave disvalore penale della condotta, all’assenza di particolari conseguenze pregiudizievoli in capo alla persona offesa, alla scarsa intensità del dolo, stante il rapporto di affetto e promiscuità che era intercorso tra i due giovani cugini.
7. Con gli ultimi due motivi di ricorso si lamenta vizio di motivazione quanto, rispettivamente, alla determinazione della pena (effettuata in misura superiore al minimo edittale sull’errato rilievo che non potessero a tal fine valorizzarsi quelle circostanze favorevoli che già erano state utilizzate per concedere le circostanze attenuanti generiche) e quanto all’aumento di pena a titolo di continuazione, effettuato senza neppure richiamare genericamente criteri di adeguatezza e congruità.
Considerato in diritto
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Avendo carattere pregiudiziale – quanto meno per una parte della condotta contestata – occorre muovere dall’esame del terzo motivo di ricorso, che è ammissibile e, nei limiti di cui si dirà, fondato.
Pur trattandosi di violazione di legge non dedotta nel gravame di merito, non opera infatti la preclusione di cui all’art. 606 c.p.p., comma 3, u.p., trattandosi di questione rilevabile anche d’ufficio.
Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, la verifica della giurisdizione, che precede logicamente ogni altro tipo di indagine rimesso alla cognizione del giudice, ha carattere dinamico, dovendo il difetto di giurisdizione essere rilevato, anche di ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, secondo la disciplina dettata dall’art. 20 c.p.p., ed implica il potere-dovere del giudice di controllare costantemente, per tutto il corso del processo, se i fatti che formano il contenuto dell’imputazione rientrino nell’ambito della propria giurisdizione, dovendo dichiararne il difetto non appena gli elementi di prova raccolti modifichino la struttura e l’impianto originari dell’imputazione facendola esorbitare dalla sfera cognitiva assegnatagli dall’ordinamento(Sez. 5, n. 32372 del 06/04/2017, Fall Sidiya, Rv. 270538; Sez. 1, n. 23372 del 15/05/2015, Miceli, Rv. 263616).
Ciò posto, osserva il Collegio che – secondo l’imputazione – gli atti sessuali fatti oggetto di contestazione sono stati compiuti “in Romania e in Trezzano sul Naviglio dal 2005 al 2013”. Dalle sentenze di merito si ricava che sia la persona offesa, sia il cugino imputato – nati in Romania da famiglie rumene – risultano essersi trasferiti in Italia, con le famiglie, nel 2007, allorquando la ragazzina aveva 11 anni.
Le sentenze di merito non danno atto che essi avessero in allora ottenuto la cittadinanza italiana – e si ignora, per vero, se ciò sia in seguito accaduto essendo verosimile, secondo massime di comune di esperienza e in difetto di diversa attestazione da parte dei giudici di merito, che sia fondata l’allegazione contenuta in ricorso circa il fatto che si trattasse di persone aventi esclusivamente la cittadinanza rumena.
1.1. Se così fosse, come correttamente argomenta il ricorrente (pag. 13 del ricorso) non vi sarebbe dunque giurisdizione del giudice italiano “per gli episodi avvenuti prima del 2007, allorché le parti vivevano in Romania ed erano entrambi cittadini rumeni, non sussistendo alcun valido criterio atto ad estendere a tali fatti l’applicazione della legge penale italiana”.
Ed invero, per un verso, trattandosi di delitto comune (vale a dire, non politico), commesso all’estero da cittadino straniero in danno cittadino straniero, non ricorrendo alcuna delle ipotesi previste dall’art. 7 c.p., per radicare la giurisdizione italiana sarebbe stata necessaria, tra l’altro, la richiesta del Ministro della giustizia, a norma dell’art. 10 c.p., comma 2, ciò che nel caso di specie non consta essere avvenuto. In particolare, la giurisdizione nazionale non è ravvisabile neppure a norma dell’art. 7 c.p., n. 5), che, nel prevedere l’applicazione della legge italiana anche nei confronti del cittadino straniero che commetta un reato all’estero quando ricorra una speciale previsione di legge, con riguardo al reato nella specie ritenuto rimanda implicitamente all’art. 604 c.p., il quale richiede pur sempre o che la persona offesa sia cittadino italiano, ovvero che l’autore del reato straniero abbia commesso il fatto in concorso con cittadino italiano, purché, in quest’ultima ipotesi – soddisfatto essendo il requisito della gravità del trattamento sanzionatorio parimenti stabilito – via sia stata richiesta del Ministero della giustizia.
Va pertanto affermato il principio secondo cui – in disparte le altre condizioni pure previste dalla legge – non sussiste la giurisdizione del giudice italiano per il reato previsto dall’art. 609 quater c.p., commesso all’estero da uno straniero in danno di cittadino straniero, quando manchi la richiesta del Ministro della giustizia.
Nè rileva in contrario, ovviamente, il fatto che i reati commessi in Romania siano stati riuniti nel vincolo della continuazione con gli analoghi delitti successivamente commessi in territorio nazionale, poiché il reato commesso all’estero non può rientrare nella giurisdizione del giudice italiano per il solo fatto che sia legato dal vincolo della continuazione con altro reato commesso in Italia, trattandosi di ipotesi non compresa tra quelle che, ai sensi degli artt. da 7 a 10 del c.p., comportano deroga al principio di territorialità sul quale si basa la giurisdizione dello Stato italiano (Sez. 3, n. 2986 del 10/12/2015, dep. 2016, M., Rv. 266087; Sez. 6, n. 25889 del 23/06/2006, Manzato, Rv. 234843).
1.2. Ciò posto, nel caso di specie – trattandosi di questione sollevata per la prima volta con il ricorso per cassazione e non devoluta al giudice di merito – la sentenza impugnata dovrebbe essere annullata con rinvio affinché si accerti, con giudizio in fatto precluso in questa sede, se davvero, come pare, la persona offesa e l’imputato fossero cittadini stranieri e, in tal caso, se l’azione penale sia stata esercitata in presenza della richiesta del Ministro della giustizia (oltre che, eventualmente soddisfatto tale requisito, delle altre condizioni previste dalla legge, in particolare dall’art. 10 c.p., comma 2).
1.2.1. Sul piano penale, tuttavia, la fondatezza del ricorso sul punto implica che debba tenersi conto, ai fini del giudizio sulla prescrizione del reato, del tempo trascorso successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata, che già aveva dichiarato la prescrizione dei fatti commessi anteriormente al (OMISSIS) per decorso del termine massimo di dodici anni e mezzo (comprese le interruzioni ed in assenza di sospensioni del corso della prescrizione). Non risultando l’evidenza di cause di proscioglimento più favorevoli – essendo per il resto infondato il ricorso, come più oltre meglio si dirà – agli effetti penali, la sentenza va pertanto annullata senza rinvio per prescrizione del reato con riguardo ai fatti commessi sino al (OMISSIS) , periodo che – stando a quanto si ricava dalle sentenze di merito, che attestano come la persona offesa e l’imputato si siano trasferiti in Italia quando la ragazzina aveva compiuto 11 anni, ciò che appunto avvenne nel gennaio 2007 – copre tutti i fatti illeciti contestati come commessi in Romania. Essendo gli stessi stati considerati nella determinazione della pena inflitta per il reato continuato, la sentenza dev’essere annullata anche in punto trattamento sanzionatorio, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Milano per la rideterminazione della pena, ciò che pure implica un accertamento in fatto precluso in questa sede.
1.2.2. Agli effetti civili, continua invece a rilevare la questione circa l’accertamento dell’eventuale difetto di giurisdizione del giudice italiano, posto che, laddove l’eccezione fosse fondata, nella liquidazione del danno definitivamente quantificato dal giudice penale – non potrebbe tenersi conto dei fatti commessi in Romania. Sul punto, dunque, la sentenza impugnata dev’essere annullata con rinvio per nuovo esame alla medesima corte territoriale.
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Passando all’esame degli altri motivi di ricorso, che riguardano anche fatti non prescritti, rileva innanzitutto il Collegio che i primi due motivi – da esaminarsi congiuntamente perché obiettivamente connessi – non sono fondati.
Secondo il prevalente orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio, in caso di contrasto tra dispositivo e motivazione della sentenza, la regola della prevalenza del dispositivo, in quanto immediata espressione della volontà decisoria del giudice, non è assoluta, ma va contemperata, tenendo conto del caso specifico, con la valutazione degli elementi tratti dalla motivazione, che conserva la sua funzione di spiegazione e chiarimento delle ragioni della decisione e che, pertanto, ben può contenere elementi certi e logici che facciano ritenere errato il dispositivo o parte di esso (Sez. 3, n. 3969 del 25/09/2018, B., Rv. 275690).
Di fatti, il carattere unitario della sentenza, in conformità al quale il dispositivo e la motivazione, quali sue parti, si integrano naturalmente a vicenda, non sempre determina l’applicazione del principio generale della prevalenza del primo in funzione della sua natura di immediata espressione della volontà decisoria del giudice; invero, laddove nel dispositivo ricorra un errore materiale obiettivamente riconoscibile, il contrasto con la motivazione è meramente apparente, con la conseguenza che è consentito fare riferimento a quest’ultima per determinare l’effettiva portata del dispositivo, individuare l’errore che lo affligge ed eliminarne gli effetti, giacché essa, permettendo di ricostruire chiaramente ed inequivocabilmente la volontà del giudice, conserva la sua funzione di spiegazione e chiarimento delle ragioni fondanti la decisione (Sez. F, n. 47576 del 09/09/2014, Savini, Rv. 261402; Sez. 2, n. 3186 del 28/11/2013, dep. 2014, Fu Fenglou, Rv. 258533).
2.1. Nel caso di specie, come ha condivisibilmente ritenuto la Corte d’appello, il dispositivo della sentenza di primo grado, nell’indicare la data del “22.1.2010” – allorquando la persona offesa ebbe a compiere quattordici anni quale spartiacque temporale tra l’affermazione di penale responsabilità per il reato di cui all’art. 609 quater c.p. commesso in precedenza e l’assoluzione per insussistenza del fatto quanto alle successive condotte è da ritenersi quale mero errore materiale, dovendo invece leggersi “(OMISSIS)”, data in cui la persona offesa compì sedici anni. Che tale fosse la volontà del primo giudice emerge con chiarezza, in più passi, dalla motivazione della sentenza del tribunale: a pag. 6 si legge che l’accertamento in fatto, effettuato in base alle dichiarazioni rese dalla persona offesa nell’incidente probatorio, è nel senso che “la parte dei toccamenti e dei palpeggiamenti avvenuti sia in Romania che in Italia” si è protratta “fino a due anni fa”, rispetto all’audizione protetta del 23 giugno 2014 e quindi circa tra il 2005 e il 2012″; a pag. 12 si ribadisce che occorre “distinguere due grandi classi di comportamenti: da un lato, i toccamenti subiti e fatti dal lontano 2005 all’estate 2012; dall’altro i rapporti sessuali completi iniziati per la prima volta in Romania nella stessa estate 2012 e proseguiti fino a gennaio 2013”; a pag. 14, conseguentemente, la sentenza di primo grado trae la conclusione secondo cui “i fatti ascritti all’imputato sono riconducibili all’ipotesi di atti sessuali con minorenne degli anni dieci e quattordici, di cui all’art. 609 quater c.p., comma 1, n. 1) e comma 5. A causa della relazione di convivenza, sono compresi in tali condotte ed uniti dal vincolo della continuazione anche i fatti commessi tra i quattordici e i sedici anni di V. , di cui all’art. 609 quater c.p., comma 1, n. 2) e quindi fino al (OMISSIS)”. Proprio quest’ultima valutazione – che si correla alle due precedenti ed è chiarissima – è stata logicamente valorizzata dalla sentenza impugnata per attestare il mero errore materiale in relazione all’anno 2010 invece indicato in dispositivo, ciò che trova definitiva conferma nel fatto che il prosieguo della motivazione (pagg. 1416) prende in esame, per argomentare la pronuncia assolutoria per insussistenza del fatto, i soli episodi di congiunzione carnale che si sarebbero verificati a partire dall’estate del 2012.
La Corte territoriale ha dunque correttamente ricostruito la chiara volontà decisoria emergente dalla sentenza di primo grado, a prescindere dal non sempre corretto richiamo delle disposizioni incriminatrici che in essa viene fatto e che il ricorrente utilizza per tentare di argomentare – senza fondamento – la contraria conclusione. Si aggiunga che non è al proposito dirimente – a fronte del lineare percorso argomentativo esposto – il richiamo al reato di “atti sessuali con persona minore degli anni quattordici e quindi commessi fino al (OMISSIS)” che si legge a pag. 17 della sentenza di primo grado, dovendo lo stesso essere riferito all’ipotesi di reato ritenuta in concreto più grave al fine di quantificare la pena nell’ambito dei limiti edittali previsti dall’art. 609 quater c.p., comma 1, una volta operato il giudizio di bilanciamento con le circostanze attenuanti generiche ritenute prevalenti sull’aggravante di cui all’art. 609 quater c.p., u.c..
2.2. Così ricostruita la evidente volontà del giudice di primo grado, in base ai principi di diritto più sopra affermati – che, a ben vedere, nemmeno il ricorrente specificamente contesta – correttamente il giudice d’appello non ha proceduto ad annullare la sentenza impugnata, non essendo in alcun modo necessario un nuovo giudizio di primo grado, stante la indiscutibile espressione della volontà decisoria espressa in sentenza.
La chiarezza del giudizio operato dalla Corte territoriale negli indicati termini, poi, rende manifestamente infondata la censura di contraddittorietà mossa alla sentenza impugnata sul rilievo che essa avrebbe “paradossalmente” confermato una sentenza di assoluzione per i fatti intervenuti prima del (omissis), tesi insostenibile alla luce della correzione di tale errore materiale esplicitata in sentenza: “l’indicazione all’interno del dispositivo della sentenza impugnata del termine temporale del (omissis) deve essere ritenuto un mero errore materiale e va inteso come (omissis)” (pag. 4).
2.3. È conseguentemente infondato anche il secondo motivo ricorso, non essendovi stata alcuna reformatio in peius alla luce di quanto sopra osservato.
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Inammissibili per manifesta infondatezza sono le doglianze relative al vizio di motivazione sull’affermazione della penale responsabilità.
3.1. Va innanzitutto premesso che la sentenza impugnata ha esattamente applicato il consolidato principio per cui le regole dettate dall’art. 192 c.p.p., comma 3, non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte e aa., Rv. 253214; Sez. 5, n. 1666 del 08/07/2014, dep. 2015, Pirajo e aa., Rv. 261730; Sez. 2, n. 43278 del 24/09/2015, Manzini, Rv. 265104).
Del resto, proprio nell’ambito dell’accertamento di reati sessuali, la deposizione della persona offesa, seppure non equiparabile a quella del testimone estraneo, può essere assunta anche da sola come fonte di prova della colpevolezza, ove venga sottoposta ad un’indagine positiva sulla credibilità soggettiva ed oggettiva di chi l’ha resa, dato che in tale contesto processuale il più delle volte l’accertamento dei fatti dipende necessariamente dalla valutazione del contrasto delle opposte versioni di imputato e parte offesa, soli protagonisti dei fatti, in assenza, non di rado, anche di riscontri oggettivi o di altri elementi atti ad attribuire maggiore credibilità, dall’esterno, all’una o all’altra tesi (Sez. 4, n. 44644 del 18/10/2011, F., Rv. 251661; Sez. 4, n. 30422 del 21/06/2005, Poggi, Rv. 232018).
3.2. In secondo luogo, diversamente da quanto allega il ricorrente, reputa il Collegio che la Corte territoriale abbia fatto buon governo del principio sovente affermato quando si tratti di valutare con maggior scrupolo deposizioni rese da soggetti non indifferenti, come i correi o le vittime del reato – secondo cui è legittima una valutazione frazionata delle dichiarazioni, purché il giudizio di inattendibilità, riferito soltanto ad alcune circostanze, non comprometta per intero la stessa credibilità del dichiarante ovvero non infici la plausibilità delle altre parti del racconto (Sez. 6, n. 20037 del 19/03/2014, L., Rv. 260160) e purché non sussista un’interferenza fattuale e logica tra la parte del narrato ritenuta falsa e le rimanenti parti, l’inattendibilità non sia talmente macroscopica, per conclamato contrasto con altre sicure emergenze probatorie, da compromettere la stessa credibilità del dichiarante, sia data una spiegazione alla parte della narrazione risultata smentita (Sez. 6, n. 25266 del 03/04/2017, Polimeni e a., Rv. 270153).
Ed invero, occorre rilevare che i reati rispetto ai quali è intervenuta condanna (toccamenti e palpeggiamenti commessi sino al (omissis) con il consenso della minore e ricondotti al reato di cui all’art. 609 quater c.p.) sono ontologicamente diversi e si collocano in un contesto temporale antecedente rispetto ai diversi reati per cui è intervenuta assoluzione (episodi di congiunzione carnale violenta, rubricati sub art. 609 bis c.p., il primo dei quali si sarebbe verificato nell’estate del 2012).
La sentenza impugnata, inoltre – richiamando anche le conformi valutazioni del primo giudice – logicamente argomenta come l’assoluzione dell’imputato dal reato di violenza sessuale sia stata non già conseguenza di un negativo giudizio di credibilità della persona offesa, ma decisione dipesa dalla indeterminatezza e genericità delle dichiarazioni accusatorie al proposito rese in giudizio, le quali, in assenza di riscontri ed in omaggio ai criteri di rigoroso vaglio probatorio al riguardo richiesto, non hanno consentito di concludere al di là di ogni ragionevole dubbio per l’affermazione di responsabilità.
3.3. Per contro, diversamente da quanto allega il ricorrente, la sentenza impugnata – in uno con la conforme decisione di primo grado – ha reso una motivazione tutt’altro che illogica sulla credibilità intrinseca ed estrinseca della persona offesa con riguardo alle dichiarazioni rese in ordine al reato di cui all’art. 609 quater c.p., anche in relazione ai profili fatti oggetto di specifica censura con il ricorso.
Ed invero, la sentenza (pagg. 4 e 5) spiega per quali ragioni la ragazza non abbia raccontato nulla a nessuno per molti anni sui rapporti sessuali intercorsi con il cugino, continuando anche con lui ad intrattenere normali rapporti in ambito familiare (pag. 4), facendo poi emergere del tutto occasionalmente quelle vicende nella redazione di un tema scolastico che le aveva fatto rivivere quei traumi infantili, senza che fossero in alcun modo ravvisabili sentimenti di rancore o acredine nei confronti dell’imputato, oramai sposato e divenuto padre. Del pari si argomentano le ragioni per cui non è stata apprezzata la dichiarazione dello zio dell’imputato circa l’atteggiamento provocante che la persona offesa avrebbe tenuto, in una particolare occasione, nei confronti del cugino (che lo stesso testimone aveva specificato essere una sua personale opinione, come più volte in effetti affermato nell’esame, il cui testo è stato allegato al ricorso). Come pure si chiarisce, anche con il richiamo alla relazione della psicologa che poi seguì la ragazza (pag. 6), come ella avesse senza dubbio riportato conseguenze sul piano psicologico, trovando esse coerente spiegazione nei fatti narrati, così come coerente, anche secondo l’id quod plerumque accidit, è la reazione di sofferto silenzio che per anni aveva caratterizzato la sua adolescenza.
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Il quinto motivo di ricorso è inammissibile, giusta la preclusione di cui all’art. 606 c.p.p., comma 3, u.p., non essendovi stata impugnazione della sentenza di primo grado in ordine al mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 609 quater c.p., comma 5.
Benché sia esatto che, ai sensi dell’art. 597 c.p.p., comma 5, il giudice d’appello possa applicare anche d’ufficio le circostanze attenuanti, l’imputato appellante che non abbia devoluto il tema con i motivi d’appello – nè abbia sollecitato almeno in udienza, come nella specie, il potere officioso del giudice – non può dolersi della mancata applicazione, nè del vizio di motivazione sul punto.
Secondo il condivisibile indirizzo di questa Corte, nel caso di conferma di sentenza di condanna, il mancato esercizio del potere-dovere del giudice di appello di applicare di ufficio i benefici di legge e una o più circostanze attenuanti, non accompagnato da alcuna motivazione, non può costituire motivo di ricorso per cassazione per violazione di legge o difetto di motivazione, se l’effettivo espletamento del medesimo potere-dovere non sia stato sollecitato da una delle parti, almeno in sede di conclusioni nel giudizio di appello(Sez. 4, n. 29538 del 28/05/2019, Calcinoni, Rv. 276596-02; Sez. 5, n. 37569 del 08/07/2015, Tota e a., Rv. 264552; Sez. 7, ord. n. 16746 del 13/01/2015, Ciaccia, Rv. 263361). Questa consolidata interpretazione è peraltro in linea con il recente arresto con cui le Sezioni unite – nel disattendere il diverso orientamento richiamato in ricorso (Sez. 3, n. 47828 del 12/07/2017, E., Rv. 271815) hanno affermato che in tema di sospensione condizionale della pena resta fermo l’obbligo del giudice d’appello di motivare circa il mancato esercizio del potere-dovere di applicazione di detto beneficio in presenza delle condizioni che ne consentono il riconoscimento, ma l’imputato non può dolersi, con ricorso per cassazione, della sua mancata concessione, qualora non ne abbia fatto richiesta nel corso del giudizio di merito(Sez. U, n. 22533 del 25/10/2018, dep. 2019, Salerno, Rv. 275376).
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Del pari inammissibili per manifesta infondatezza sono gli ultimi due motivi di ricorso, attinenti al trattamento sanzionatorio.
5.1. Quanto al sesto motivo è ben vero che ai fini della determinazione della pena, il giudice può tenere conto più volte del medesimo dato di fatto sotto differenti profili e per distinti fini (Sez. 3, n. 17054 del 13/12/2018, M., Rv. 275904), ma la Corte territoriale non lo ha ritenuto precluso, avendo invece affermato – con valutazione di fatto insindacabile – che gli elementi favorevoli erano stati adeguatamente valutati con il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e che la pena base doveva essere fissata in termini leggermente superiori al minimo edittale in relazione alla reiterazione delle condotte per un periodo esteso sin da quando la persona offesa era bambina. Posto che la pena base è stata fissata in anni cinque e mesi sei di reclusione, vale a dire in termini leggermente superiori al minimo e ben inferiori alla media edittale, la doglianza al proposito mossa è dunque inammissibile visto che la determinazione della pena tra il minimo ed il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito (Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Serratore, Rv. 256197), sicché può essere censurata in sede di legittimità soltanto sul piano del soddisfacimento dell’obbligo di motivazione, per assolvere il quale, nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale, è sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 c.p. (Sez. 4, n. 46412 del 05/11/2015, Scaramozzino, Rv. 265283; Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Serratore, Rv. 256197).
5.2. Quanto alla doglianza proposta con l’ultimo motivo di ricorso, osserva il Collegio che, diversamente da quanto allegato dal ricorrente, il giudizio di congruità del trattamento sanzionatorio affermato dalla sentenza impugnata è riferito anche all’aumento per la continuazione, peraltro contenuto in termini davvero minimi (due mesi di reclusione in tutto).
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alle condotte poste in essere fino al (omissis) perché il reato è estinto per prescrizione e con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Milano per la rideterminazione della pena e quanto alle statuizioni civilistiche.
Rigetta il ricorso nel resto.
Dispone, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, art. 52, che – a tutela dei diritti o della dignità degli interessati – sia apposta a cura della cancelleria, sull’originale della sentenza, un’annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli interessati riportati sulla sentenza.
Originally posted 2022-10-04 06:37:36.