ART 609 CP VIOLENZA SESSUALE RIMINI BOLOGNA ANCONA PESARO MACERATA AVVOCATO DIFENDE
PENALISTA ESPERTO AVVOCATO SERGIO ARMAROLI CON SEDE A BOLOGNA DIFENDE REATO VIOLENZA SESSUALE IN PRIMO GRADO APPELLO E CASSAZIONE
- Sentenza n. 42821 del 22 novembre 2024: La Terza Sezione Penale ha affrontato il tema dello “stato di tanatosi” della vittima durante l’atto sessuale. La Corte ha stabilito che tale stato, descritto come una condizione di assoluta passività simile a quella di alcuni animali che si fingono morti per sfuggire ai predatori, non esclude la costrizione esercitata dall’imputato. Questo comportamento passivo della vittima è considerato una conseguenza evidente di una condotta violenta subita contro la propria volontà.
- Sentenza n. 33342 del 3 settembre 2024: In questo caso, la Corte si è pronunciata su una situazione in cui l’imputato aveva compiuto atti sessuali su una persona dormiente. È stato ribadito che non può presumersi alcuna forma di consenso da parte della vittima che non abbia consapevolezza degli atti compiuti sulla sua persona. La mancanza di una manifestazione esplicita di dissenso non implica un consenso tacito, soprattutto quando la vittima è in uno stato di incoscienza o sonno.
- Sentenza n. 42465 del 21 novembre 2024: I giudici hanno accertato che l’imputato aveva commesso plurime violenze sessuali nei confronti della figlia, iniziate quando la vittima era ancora minorenne. La Corte ha confermato la condanna dell’imputato, sottolineando la gravità della condotta e l’abuso della relazione familiare.
- Sentenza n. 10649 del 14 marzo 2024: La Corte ha esaminato un caso di violenza sessuale di gruppo, evidenziando che anche coloro che non partecipano attivamente agli atti di violenza ma che, con la loro presenza e comportamento, rafforzano l’azione del gruppo, possono essere ritenuti responsabili. In questo caso, gli imputati avevano agevolato la commissione della violenza sessuale di gruppo senza esprimere dissenso, contribuendo all’effetto intimidatorio sulla vittima.
- Se il soggetto passivo non ha consapevolezza della materialità degli atti compiuti sulla sua persona, non può pertanto presumersi alcuna forma di adesione agli atti sessuali che si trova a subire, con conseguente sussistenza dell’elemento materiale del reato, realizzato per effetto della condotta clandestinamente posta in essere dall’agente
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- La suprema corte ha chiarito la circostanza che un atto sessuale compiuto presupponga la necessaria collaborazione fattiva della vittima non si traduce, per questo solo, in un consenso alla pratica erotica: molteplici, infatti, possono essere gli stati d’animo che inducono quest’ultima ad assecondare il suo aggressore, come ad esempio – secondo la variegata elaborazione giurisprudenziale – la condizione di inferiorità psicologica del soggetto passivo, la repentinità degli approcci da parte dell’agente,
- la sottostante situazione di vessazione della vittima nel timore di subire più violente reazioni, lo sgomento provato di fronte a condotte di cui neppure viene percepita appieno dalla vittima la portata e/o la finalità, stante la sua non completa maturità sessuale.
Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 01/02/2024) 03-09-2024, n. 33342 VIOLENZA SESSUALE In genere Composta da Dott. RAMACCI Luca – Presidente Dott. GALTERIO Donatella – Consigliere-Relatore Dott. GENTILI Andrea – Consigliere Dott. ACETO Aldo – Consigliere Dott. GALANTI Alberto – Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da A.A., nato a C il (Omissis) nei confronti di B.B., nato a B il (Omissis) avverso la sentenza in data 11.7.2022 della Corte di Appello di Bologna visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Donatella Galterio; Fatto Diritto P.Q.M. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Luigi Orsi, che ha concluso per il rigetto del ricorso Svolgimento del processo 1. Con sentenza in data 11.7.2022 la Corte di Appello di Bologna, ad integrale riforma della condanna pronunciata all’esito del primo grado di giudizio di giudizio nei confronti di B.B. ritenuto responsabile del reato continuato di violenza sessuale, compiuto nella notte del 7.6.2017 in danno del diciassettenne A.A. che aveva ripetutamente molestato infilandosi nel letto dove il ragazzo dormiva, ha assolto l’imputato, in accoglimento del gravame dal medesimo proposto, con la formula “il fatto non sussiste”. 2. Avverso il suddetto provvedimento la vittima, costituitasi parte civile ha proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione articolando un unico motivo con il quale deduce la manifesta illogicità del ragionamento seguito dalla Corte di appello che, senza negare gli approcci sessuali posti in essere dall’imputato, ha ritenuto non credibile la versione resa dalla p.o. in ordine alla propria incapacità di reazione nel timore di suscitare comportamenti ancor più pericolosi da parte del suo aggressore, forieri di più gravi conseguenze, reputando che il rapporto strettamente amicale intercorrente tra i due e la mancanza di violenza o minaccia non gli avrebbero in alcun modo impedito di manifestare la sua contrarietà alle suddette condotte ove non volute. Censura l’apoditticità di tale conclusione fondata su un assioma non corrispondente all’ordinaria esperienza ma soltanto alle personali aspettative dei giudici distrettuali rilevando che non tutte le persone reagiscono in eguale maniera e che nello specifico l’inerzia della vittima era stata indotta dalla condizione di paura, fatto questo di cui l’istruttoria aveva fornito riscontro posto che la stessa madre aveva descritto il figlio come un bambino sia nel modo di pensare che nelle sue fattezze fisiche, e che ben plausibile doveva essere ritenuta, riguardata con gli occhi della vittima, la sensazione di timore di essere sopraffatto da parte di un uomo ben più grade di lui oltre alla sorpresa di fronte a quello che per lui era un approccio del tutto inaspettato e certamente traumatico. Contesta inoltre la conclusione tratta dalla Corte di appello, secondo la quale l’imputato non potendo ritenere che il ragazzo dormisse aveva tratto dalla sua condotta inerte il convincimento dell’esistenza del consenso, laddove il giudice di primo grado aveva facendo corretta applicazione degli insegnamenti giurisprudenziali escluso che, in assenza di un’esplicita manifestazione di assenso, possa ritenersi l’adesione tacita della vittima, vieppiù contraddicendosi nell’escludere che, fingendo volutamente di dormire, il giovane potesse essere in stato di shock, posto che proprio tale messa in scena escludeva che l’imputato fosse consapevole del fatto che la vittima fosse sveglia. Né d’altra parte, secondo la difesa, l’avere il ragazzo a sua disposizione il cellulare, risultanza emersa solo a seguito di un’infedele verbalizzazione, e il dormire nel letto accanto a quello di un suo compagno escludeva la sua condizione di annichilimento che gli aveva, invece, impedito ogni capacità di reazione durante gli approcci sessuali, benché al momento in cui il B.B. si era allontanato avesse cercato, a riprova della sua mancanza di consenso, di svegliare l’amico senza tuttavia riuscirvi essendo questi nel sonno profondo stante l’ingestione di alcolici della sera prima. Evidenzia come invece proprio la condotta dell’imputato per come descritta dalla p.o. il quale controllava ripetutamente che l’amico non si svegliasse e che si guardava intorno per verificare che nessuno sopraggiungesse, evidenzia la consapevolezza da parte di costui della mancanza di consenso del ragazzo in quanto in preda al sonno e come anche la linea difensiva seguita, ovverosia il fatto di essere affetto da una forma di parafilia atipica consistente nell’essere attratto dalle persone dormienti, costituisce la conferma che egli fosse convinto che il ragazzo fosse addormentato. Del resto, anche le dichiarazioni rilasciate il giorno seguente dall’imputato che afferma di non sapere perché si fosse comportato così, così come il fatto che si sia dato alla fuga non appena resosi conto la p.o. stava per inoltrare una denuncia nei suoi confronti, configurano altrettanti riscontri dell’impossibilità che l’imputato potesse aver percepito qualunque forma di consenso da parte della vittima. Altro punto di caduta del ragionamento seguito dai giudici di appello è, come sostiene il ricorrente, l’affermazione secondo la quale egli avrebbe potuto agevolmente ribellarsi sapendo che analoga vicenda era stata subita da un altro ragazzo, tale C.C., che aveva cacciato via l’imputato senza che questi avesse avuto reazioni di sorta: al contrario viene evidenziato come nulla il giovane potesse sapere in ordine a tale precedente che il C.C. come dallo stesso dichiarato non aveva mai confidato a nessuno, ma che solo quando aveva appreso dell’aggressione subita dal B.B. aveva raccontato a quest’ultimo. Motivi della decisione Il ricorso deve essere ritenuto meritevole di accoglimento. Appare opportuno, nello sviluppo delle tematiche rimesse allo scrutinio di questa Corte in presenza di un ribaltamento in senso assolutorio da parte del giudice di appello della condanna pronunciata dalla sentenza di primo grado, in assenza di rinnovazione della istruzione dibattimentale in quanto effettuato sulla base di una diversa valutazione del medesimo compendio probatorio, preliminarmente ripercorrere le linee portanti del ragionamento seguito dalla prima pronuncia: indagine questa che si profila come imprescindibile al fine di verificare la tenuta sul piano logico argomentativo della sentenza che ad essa si sovrappone, che, per essere tale, deve intessere una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione, pur nelle comprensibili cautele cui induce il quanto mai delicato asse cognitivo fondato sulle dichiarazioni della vittima abusata, delle difformi conclusioni raggiunte. Il verdetto di colpevolezza dell’imputato si fonda, come del resto dà atto nelle premesse la stessa pronuncia di secondo grado, sulla mancanza di consenso della vittima agli approcci sessuali posti in essere dall’imputato, infilatosi nel suo letto durante la notte nel mentre il ragazzo dormiva. Secondo la versione della p.o., ritenuta dal Tribunale ampiamente attendibile, il giovane stagista, che dormiva in una stanza a due letti insieme al suo compagno di corso Thomas Bellani, si era svegliato nel cuore della notte trovando steso su di lui l’imputato, che dormiva in una camera diversa sia pur attigua alla propria, e quando si era reso conto che costui gli stava praticando sesso orale manipolando il suo organo genitale, era rimasto, vuoi per la paura, vuoi per la sorpresa di fronte ad un contesto tanto anomalo, letteralmente “pietrificato” e, nell’incapacità di trovare alternative che gli permettessero di uscire indenne dalla situazione, aveva finto di essere ancora addormentato fino a quando lo stesso imputato non aveva, dopo averlo baciato sulle labbra, fatto ritorno al suo letto. A tale primo approccio, successivamente al quale il ragazzino aveva cercato di svegliare il compagno di stanza senza riuscirci né fare troppo rumore nel timore di possibili reazioni del suo aggressore che avrebbe potuto sentirlo dalla camera accanto, ne aveva fatto seguito nel corso di quella stessa notte, a distanza di qualche tempo dal primo, un altro: il B.B. era rientrato ed aveva ripreso l’approccio sessuale con le stesse modalità pregresse, ovverosia praticando di nuovo sesso orale, pur tuttavia questa volta spingendosi ad afferrare la mano della vittima, rimasta fino ad allora immobile, così da fargli praticare un atto di autoerotismo, e subito dopo tentare di penetrarlo nell’ano con un dito, condotta questa che aveva invece causato l’irrigidimento del ragazzo, constatato il quale aveva desistito allontanandosi definitivamente dalla stanza. Sulla scorta di tali risultanze il Tribunale estense ha ravvisato la configurabilità della violenza sessuale per costrizione integrata dalla consapevolezza in capo all’imputato della mancanza di consenso della vittima, non espresso neppure in forma tacita, non avendo quest’ultima, sorpresa nel sonno, avuto, quanto meno nella fase iniziale dell’approccio, alcuna possibilità di rendersi conto della strumentalizzazione subita al fine di appagare le pulsioni libidinose dell’aggressore. Rimasta immutata la dinamica dei fatti anche nella ricostruzione della sentenza impugnata, ritiene, invece, la Corte bolognese l’inverosimiglianza della versione fornita dalla p.o., secondo cui, pur essendo stata svegliata dagli iniziali toccamenti e palpeggiamenti posti in essere sul suo corpo dall’amico, non sarebbe stata in grado di reagire nel timore di più gravi e scomposte reazioni del suo aggressore: osservano al riguardo i giudici del gravame come il rapporto di assoluta confidenza venutosi ad instaurare nei giorni precedenti tra il ragazzo e l’aiuto cuoco impegnato nello stage, con il quale era uscito quella stessa sera a bere trattenendosi insieme a lui e al compagno di stanza fino a notte fonda, unitamente alla presenza del compagno di corso che dormiva nel letto accanto al suo, non giustificassero, in assenza di condotte violente o minacciose poste in essere in quel frangente dal prevenuto, la riferita impossibilità di reagire invitando l’asserito aggressore ad allontanarsi e che peraltro la stessa tattica seguita dal ragazzo, che aveva finto di continuare a dormire, collidesse con lo stato di shock che lo avrebbe, a sua detta, immobilizzato. Evidenziano come, al contrario, la necessaria partecipazione ad alcuni degli atti sessuali, quali i baci sulla bocca e la masturbazione praticata con la sua stessa mano rivelassero la sua adesione al rapporto, che aveva invece, in preda ad un successivo turbamento, il giorno dopo rielaborato in termini di abuso sessuale, inoltrando la denuncia nei confronti dell’amico. Va in primo luogo chiarito che, secondo quanto già affermato da questa Corte, il ribaltamento in senso assolutorio del giudizio di condanna operato dal giudice di appello pur senza rinnovazione della istruzione dibattimentale è perfettamente in linea con la presunzione di innocenza, presidiata dai criteri di giudizio di cui all’art. 533 cod. proc. pen., ma che in tal caso incombe, tuttavia, sul giudice che riformi in tal senso la sentenza di primo grado l’obbligo di strutturare la motivazione della propria decisione in maniera rafforzata, dando puntuale ragione delle difformi conclusioni assunte. Ove infatti si consideri che l’onere motivazionale da parte del giudice della impugnazione in caso di dissenso rispetto alla decisione di primo grado si salda sul medesimo asse cognitivo e decisionale, la motivazione rafforzata altro non è che l’espressione del ragionamento alternativo seguito nell’interpretazione delle risultanze di prove che, seppur non nuovamente espletate, vengono ciò nondimeno nuovamente riconsiderate, postulando perciò la pronuncia riformatrice non solo l’indicazione delle linee portanti del diverso ragionamento probatorio, ma altresì la specifica confutazione dei più rilevanti argomenti della pronuncia del Tribunale, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza od incoerenza, tali da giustificare il ribaltamento della decisione impugnata (Sez. 4, Sentenza n. 24439 del 16/06/2021 – dep. 22/06/2021, Frigerio, Rv. 281404; Sez. 3, n. 29253 del 05/05/2017 – dep. 13/06/2017, P.C. in proc. C, Rv. 270149; Sez. 4, Sentenza n. 4222 del 20/12/2016 – dep. 30/01/2017, P.C. in proc. Mangano, Rv. 268948). Principio questo che si riallaccia all’approdo cui è pervenuta questa Corte nel suo supremo consesso, secondo il quale, il giudice d’appello che riformi in senso assolutorio la sentenza di condanna di primo grado non ha l’obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale mediante l’esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive, ma deve offrire una motivazione puntuale e adeguata, che fornisca una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata, anche riassumendo, se necessario, la prova dichiarativa decisiva e che comunque metta in luce carenze e aporie di quella decisione sulla base di uno sviluppo argomentativo che si confronti con le ragioni addotte a sostegno del decisum impugnato, dando alla decisione, pertanto, una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni raggiunte (Sez. U, Sentenza n. 14800 del 21/12/2017 – dep. 03/04/2018, Troise, Rv. 272430 -01; nonché Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679 relativamente ai più generali principi cui deve uniformarsi in caso di totale riforma della decisione di primo grado il giudice dell’appello). Orbene, non soltanto la pronuncia in esame lascia aperte una serie di questioni in ordine alla valutazione di attendibilità del minore e alla condotta tenuta post factum dall’imputato, che pure avevano costituito oggetto di approfondita disamina da parte del Tribunale estense, ma risulta altresì essere incorsa in una palese contraddizione in ordine al consenso asseritamente prestato. Pur senza confutare il fatto che, come ritenuto dal primo giudice, l’imputato, quantomeno in occasione della parte iniziale dell’ approccio sessuale, avesse approfittato che la persona offesa dormisse per sorprenderla ed iniziare il rapporto orale senza incontrare alcuna reazione, viene tuttavia del tutto tralasciata la condotta in prosieguo tenuta dal ragazzo che, ancorché svegliatosi quando l’uomo lo sovrastava manipolandone l’organo sessuale, aveva continuato a fingere di dormire fino a quando il B.B. non aveva sua sponte cessato ogni pratica tornandosene nella sua stanza. In questo primo passaggio si annida un chiaro vulnus della sentenza impugnata, non potendo ritenersi la sussistenza del consenso a fronte della condotta di chi, simulatamente o meno, appaia dormiente. Ed invero non è ravvisabile in alcuna fra le disposizioni legislative in materia di delitti sessuali un qualche indice normativo che possa imporre, a carico del soggetto passivo del reato, onde ritenerne sussistenti gli elementi costitutivi, un onere di espressione del dissenso alla intromissione di soggetti terzi nella sua sfera sessuale, dovendosi al contrario ritenere, proprio in ragione dell’intimità della dimensione personale attinta, che tale dissenso sia da presumersi e che pertanto sia necessaria, ai fini dell’esclusione dell’offensività della condotta, una manifestazione di consenso del soggetto passivo che, quand’anche non espresso, presenti segni chiari ed univoci che consentano di ritenerlo esplicitato in forma tacita. Nel caso in cui quest’ultimo non abbia consapevolezza della materialità degli atti compiuti sulla sua persona non può pertanto presumersi alcuna forma di adesione agli atti sessuali che si trova a subire (Sez. 3, Sentenza n. 22127 del 23/06/2016, Rv. 270500) con conseguente sussistenza dell’elemento materiale del reato realizzato per effetto della condotta clandestinamente posta in essere dall’agente, mentre la circostanza che la vittima abbia successivamente, sia pure in forma soltanto di finzione, simulato la condizione di dormiente, si riflette inevitabilmente sull’elemento soggettivo del delitto, non potendo in tal caso l’imputato addurre, neppure in via putativa, la sussistenza del consenso della p.o., ricorrente allorquando l’agente sia ragionevolmente convinto di agire con l’approvazione della persona destinataria delle sue avanches sessuali (Sez. 3, n. 37166 del 18/05/2016 – dep. 07/09/2016, B e altri, Rv 268311). Anche a voler ritenere che la condotta attiva tenuta dal ragazzo nel secondo episodio ne escludesse la condizione di dormiente, certo è che quanto accaduto durante il primo approccio, nel corso del quale risulta incontestato che, ancorché svegliatosi nel corso degli approcci fisici posti in essere dall’imputato, abbia continuato a fingere, tenendo gli occhi chiusi, di dormire, rimane un tema del tutto inesplorato dalla sentenza impugnata che si traduce in una grave carenza motivazionale in ordine alla presenza del consenso. Ma anche con riferimento al secondo episodio, le risultanze processuali passate in rassegna dalla sentenza impugnata non evidenziano affatto che la condotta tenuta dalla p.o. potesse rivelarne una qualche forma di adesione agli atti invasivi della sua sfera sessuale, non potendo prescindersi non solo dalla mancanza di una manifestazione palese in tal senso, ma soprattutto dalla disamina delle modalità del fatto e della personalità della vittima. Nell’escludere che l’aver assecondato con la sua condotta gli atti sessuali posti in essere dal suo aggressore, implicanti la collaborazione fattiva della vittima, potesse corrispondere ad un’incapacità di reazione come, invece, dichiarato dalla p.o. che descrive il suo stato di paura, tale da averlo lasciato “pietrificato”, la Corte distrettuale finisce con il confondere l’assenza di una manifestazione di conclamato dissenso con un tacito assenso, senza che vengano in alcun modo evidenziati i segni chiari ed univoci che, secondo l’elaborazione giurisprudenziale richiamata, consentano di ritenerlo sussistente. Il fatto che l’atto sessuale compiuto presupponesse la necessaria collaborazione fattiva della vittima non si traduce per questo in un consenso alla pratica erotica, molteplici potendo essere gli stati d’animo che inducono quest’ultima ad assecondare il suo aggressore, i quali vanno, secondo la variegata elaborazione datane da questa Corte, dalla condizione di inferiorità psicologica del soggetto passivo, alla repentinità degli approcci da parte dell’agente, dalla sottostante situazione di vessazione della vittima nel timore di subire più violente reazioni, allo sgomento provato di fronte a condotte di cui neppure viene percepita appieno da quest’ultima, stante la non completa maturità sessuale, la portata e/o la finalità. Né d’altra parte alla mancata esternazione del consenso iniziale attesa la condizione di dormiente della p.o. può ritenersi subentrata, nella sua condizione di veglia quale sembra essere stata quella del secondo episodio, una successiva automatica manifestazione di adesione al rapporto sessuale non essendo di certo equiparabile ad un sopravvenuto consenso e dunque ad un radicale mutato atteggiamento della vittima la mera soggezione al volere dell’agente, neppure integrato in via putativa ove si consideri che, costituendo il dissenso della persona offesa un elemento costitutivo, sia pure implicito, della fattispecie, necessario perché sussista la condotta tipica, l’errore su di esso rileva come errore di fatto, sicché incombe sull’imputato l’onere fornirne la relativa prova (Sez. 3, Sentenza n. 3326 del 25/11/2021, Rv. 282715) A tali rilievi in punto di diritto si aggiunge, in violazione del principio della motivazione rafforzata cui deve essere improntata la sentenza di riforma della pronuncia di condanna resa in primo grado, la mancata valutazione della condotta tenuta dall’imputato post delictum. La spiegazione data dalla Corte distrettuale, secondo cui il ragazzo, dopo aver prestato il suo consenso agli sessuali praticati quella notte dall’amico ne sarebbe invece a posteriori rimasto turbato rielaborandoli il mattino seguente come una subita violenza, non chiarisce quali fossero le ragioni che avevano indotto l’imputato nell’imminenza della rivelazione ad avere un comportamento implicitamente ammissivo dei fatti e del turbamento provocato alla p.o., quale emerge dalle deposizioni della madre, del responsabile dello stage e del titolare del ristorante presso il quale era stato organizzato il tirocinio. Condotta questa in ogni caso del tutto dissonante rispetto alle dichiarazioni rese dall’imputato in dibattimento, dove ha affermato, contraddicendo le sue prime propalazioni nonché la stessa linea difensiva inizialmente seguita che lo aveva portato a richiedere una perizia volta ad accertare la sua capacità di intendere e di volere, che nulla era successo, essendo stato il A.A. ad inventarsi tutto, verosimilmente per vendicarsi del fatto di essere stato sfruttato sul piano lavorativo nei giorni precedenti. È evidente come la ricostruzione effettuata dalla Corte di merito, secondo cui i rapporti sessuali riferiti dalla vittima erano stati compiuti, sia pure senza il suo consenso, si ponga in stridente antitesi con la negazione di ogni rapporto da parte del prevenuto, cadendo i giudici di secondo grado in un vero e proprio corto circuito motivazionale che, paradossalmente, fornisce una ricostruzione dei fatti diversa da quella di entrambi i protagonisti della stessa vicenda in contestazione, omettendo in ogni caso il necessario confronto con le argomentazioni spese sul punto dalla pronunciata riformata. Si impone pertanto, in accoglimento del ricorso della parte civile, l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente agli effetti civili ai sensi dell’art. 622 cod. proc. pen. con rinvio al giudice civile competente in grado di appello che dovrà procedere a nuovo giudizio, provvedendo altresì alla liquidazione delle spese sostenute dalle parti nella presente fase di legittimità. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente agli effetti civili, con rinvio per nuovo giudizio al giudice civile competente per valore in grado di appello, cui rimette anche la liquidazione delle spese tra le parti per questo grado di legittimità. Così deciso in data 1 febbraio 2024. Depositato in Cancelleria il 3 settembre 2024.