bancarotta fraudolenta impropria da reato societario
La Quinta Sezione, con la sentenza n. 33774 del 16/06/2015, Crespi, Rv. 264868, ha affermato, in tema di bancarotta fraudolenta impropria da reato societario (L. Fall., art. 223, comma 2, n. 1), che la nuova formulazione degli artt. 2621 e 2622 c.c., introdotta dalla L. 27 maggio 2015, n. 69, ha determinato – eliminando l’inciso “ancorchè oggetto di valutazioni” ed inserendo il riferimento, quale oggetto anche della condotta omissiva, ai “fatti materiali non rispondenti al vero” – una vera e propria successione di leggi, con effetto abrogativo, limitato, ovviamente, alle condotte di falsa valutazione di una realtà effettivamente sussistente.
La medesima Sezione, poi, con la pronuncia n. 6916 del 08/01/2016, Banca Popolare dell’Alto Adige, Rv. 265492, ha ribadito l’affermazione di parziale abrogazione riferita ai reati di cui agli artt. 2621 e 2622 c.c., ritenendo, tuttavia, escluse da tale effetto abrogativo l’esposizione di crediti materialmente falsi, perchè indicati con un valore difforme dal dato reale o perchè descritti come certi, laddove, invece, essi avevano natura solo potenziale, in quanto oggetto di contenzioso.
D’altra parte, la stessa sentenza Crespi aveva escluso dall’effetto parzialmente abrogativo l’esposizione di crediti inesistenti perchè originati da contratti fittizi, nonchè l’esposizione di crediti concernenti i ricavi di competenza dell’esercizio successivo, così come l’esposizione di crediti relativi ad una fattura emessa a fronte di operazioni inesistenti; ciò in quanto trattasi di ipotesi, tutte, riferibili a condotte sussumibili nella categoria dei falsi materiali e non già di quelli cd. “valutativi”.
- Entrambe le sentenze sopra indicate valorizzano innanzitutto il dato testuale della nuova disposizione normativa, confrontato con il precedente testo di legge e con quello dell’art. 2638c.c.. Esse assumono che “la scomparsa” dell’inciso “ancorchè oggetto di valutazioni” (che, nel previgente testo, ineriva alla espressione “fatti materiali non rispondenti al vero”) appare altamente significativa, atteso che, oltretutto, il legislatore ha mantenuto fermo l’inciso nel successivo art. 2638, così manifestando uno specifico intento, mirato ad escludere la rilevanza penale delle stesse nella sola ipotesi delle false comunicazioni sociali e non anche nel reato di ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza. Si osserva poi che la nuova versione non si limita alla semplice elisione del predetto inciso, ma richiede che i fatti materiali siano anche rilevanti (“fatti materiali rilevanti, non rispondenti al vero”). Non si tratterebbe, dunque, della semplice applicazione del criterio dell’ubi voluit dixit, atteso che proprio l’aggiunta dell’aggettivazione “rilevanti” vincola ulteriormente l’interprete ad una lettura più restrittiva della portata della norma incriminatrice.
D’altra parte, si osserva che la recente modifica della fattispecie omissiva dell’art. 2621 c.c., rende manifesta la volontà del legislatore di circoscrivere l’area del penalmente perseguibile alle sole condotte non integranti “falsi valutativi”. E ciò si deduce, secondo le ricordate sentenze, anche dal fatto che il nuovo testo non fa più riferimento ad “informazioni”, come nel previgente articolato (che recava: “ovvero omettono informazioni la cui comunicazione è imposta dalla legge”), ma, ancora una volta, a “fatti materiali rilevanti”, la cui comunicazione è imposta dalla legge e la cui omissione determina la punibilità della condotta. Dunque:
l’espunzione delle “valutazioni” dalla disposizione normativa non può non essere priva di significato, anche – e soprattutto perchè la valutazione è connaturata al concetto di informazione, termine quest’ultimo che, non a caso, è stato espressamente sostituito nella nuova formulazione normativa.
Invero l’incidente probatorio altro non è che una “anticipazione” del momento dibattimentale. Esso dunque si svolge con i tempi, le modalità, le cadenze e le procedure del dibattimento, assicurando il contraddittorio tra le parti e mirando alla raccolta di vere e proprie prove. Tanto ciò è vero che gli atti che tale fase procedimentale riflettono confluiscono, ai sensi dell’art. 431 c.p.p., direttamente nel fascicolo del dibattimento. E’ allora evidente che l’assunzione della perizia in incidente probatorio deve avvenire con le modalità ex art. 392 c.p.p., comma 1, lett. f), art. 220 c.p.p. e ss., con la conseguenza che non vi è alcuna ragione di esaminare – nuovamente – il perito in dibattimento prima di acquisire il suo elaborato, il quale è già stato acquisito. Invero il predente giurisprudenziale segnalato dal ricorrente (Sez. 6, n. 40971 del 26/09/2008, Camber) non è affatto pertinente; va viceversa fatto riferimento a Sez. 4, 04/04/1997, Minestrina, Rv 207483, esattamente in termini, in base alla quale, in tema di incidente probatorio, quantunque l’art. 401 c.p.p., comma 5, richiami le forme di assunzione delle prove stabilite per il dibattimento, non può ritenersi applicabile l’art. 511 c.p.p., comma 3, all’udienza del procedimento incidentale probatorio. Ciò in quanto di “lettura di atti” ex art. 511 c.p.p., ha senso parlare solo per le attività svolte prima del giudizio, con riferimento a quelle formalità attraverso le quali gli atti medesimi proprio nel giudizio vengono immessi in contraddittorio tra le parti (nella fattispecie la Corte ha respinto l’assunto difensivo secondo cui è inutilizzabile la perizia raccolta in sede di incidente probatorio nel caso di mancato preliminare esame orale dei periti, giusta la disposizione dell’art. 511 c.p.p., comma 3).
- Conclusivamente il ricorso dello I. va rigettato, in quanto complessivamente infondato.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CANZIO Giovanni – Presidente –
Dott. FIALE Aldo – Consigliere –
Dott. CONTI Giovanni – Consigliere –
Dott. BIANCHI Luisa – Consigliere –
Dott. FUMO Maurizio – rel. Consigliere –
Dott. DIOTALLEVI Giovanni – Consigliere –
Dott. VESSICHELLI Maria – Consigliere –
Dott. FIDELBO Giorgio – Consigliere –
Dott. RAMACCI Luca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
- P.M., nato a (OMISSIS);
- I.E., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 24/03/2014 della Corte di appello dell’Aquila;
visti gli atti, la sentenza impugnata e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal componente Maurizio Fumo;
udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato generale Dott. STABILE Carmine, che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi;
uditi i difensori del ricorrente I., avv.ti Cristiana Valentini e Massimo Manieri, che hanno concluso per l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
- La Corte di appello dell’Aquila, con sentenza in data 24 marzo 2014, ha parzialmente riformato la pronunzia di primo grado nei confronti di P.M. ed I.E., imputati entrambi di bancarotta fraudolenta distrattiva e documentale e, il solo P., di bancarotta da reato societario, per i quali le pene sono state rideterminate in melius.
1.1. Il giudice di primo grado aveva dichiarato i predetti colpevoli dei reati rispettivamente loro ascritti ai capi A ( P.:
artt. 216, primo comma, nn. 1 e 2, 219, primo comma e secondo comma, n. 1, 223 l. fall), B ( P.: L. Fall., art. 223, comma 2, n. 1, con riferimento all’art. 2621 c.c.); C ( I.: L. Fall., art. 216, comma 1, n. 2, art. 219, commi 1 e 2, L. Fall., art. 223) e D (entrambi: L. Fall. art. 216, comma 1, n. 2, art. 219, commi 1 e 2, art. 223).
1.2. La vicenda riguarda il fallimento della s.p.a. L’Aquila Calcio, dichiarato con sentenza del (OMISSIS).
Secondo quanto si legge in sentenza, P., nella sua qualità di amministratore della società L’Aquila Calcio, dal 12 aprile 1999 al 30 gennaio 2004, e I., quale amministratore di fatto dal luglio 2003, distraevano somme di denaro, sia prelevandole direttamente (invero alcuni prelevamenti di cassa – si assume – non avevano giustificazione), sia emettendo sine titulo assegni della s.p.a., sia incassando assegni destinati alla società, ma non lasciando traccia del relativo importo nelle scritture contabili (utilizzando la somma per scopi estranei a quelli aziendali), sia appostando in bilancio falsi esborsi. E invero il Tribunale aquilano, prima, e la Corte di appello, poi, hanno evidenziato, tra l’altro (con particolare riferimento alla posizione di P.), la falsità di una fattura, apparentemente emessa dalla società Alcatraz per la copertura del manto erboso del campo di calcio.
Secondo i giudici di merito, si era trattato di una prestazione inesistente. Inoltre, non veniva annotato in contabilità il rilevante importo di Euro 327.775, per altro da considerare come contropartita di spese, a loro volta, non documentate. Vi erano poi stati bonifici a favore della ditta Elledi per servizi eseguiti non per conto della fallita, bonifici effettuati in realtà per estinguere debiti personali del P..
Sempre il P., poi, si legge in sentenza, poneva in essere false comunicazioni sociali, in modo da ingannare i destinatari delle stesse (e al fine di conseguire l’ingiusto profitto pari alle consumate distrazioni), cagionando oltretutto, in tal modo, il dissesto della società, conseguenza diretta – dunque della condotta falsificatoria (L. Fall., art. 223, comma 2, n. 1, e art. 2621 c.c.), consistita: a) nel riportare, tra i costi di produzione del bilancio 2003, voci fittizie, per un importo di Euro 513.675,62; b) nell’informare il pubblico dell’avvenuta ricostituzione del capitale sociale della società L’Aquila Calcio contrariamente al vero – per l’importo di Euro 1.217.675,00, ricostituzione, in realtà, mai avvenuta per tale entità, dal momento che venivano fittiziamente indicate come ricomprese in tale “operazione” anche somme già indicate quali “anticipazioni soci” negli anni 2001, 2002 e 2003, per un ammontare complessivo di Euro 288.217,2.
1.3. Gli imputati sono stati riconosciuti colpevoli anche di bancarotta fraudolenta documentale, poichè tenevano le scritture contabili in modo da non consentire la ricostruzione del movimento degli affari, annotando crediti inesistenti, facendo risultare fittizie operazioni di anticipazioni soci, omettendo di annotare introiti ed altro. Invero, si legge nella sentenza di primo grado, confermata sul punto, in appello, che venivano sistematicamente annotati, a far tempo dal bilancio 2001, crediti inesistenti; altre false annotazioni venivano effettuate per mascherare singole condotte distrattive di prelevamento di somme di denaro.
- I. e P. ricorrono per cassazione avverso la sentenza d’appello.
- Gli avvocati Massimo Manieri e Cristiana Valentini, nell’interesse dello I., articolano quattro motivi.
3.1. Censurano, innanzitutto, la mancata assunzione di prove decisive. Invero il Tribunale aveva, a suo tempo, ammesso l’esame di tutti gli imputati, ma non vi aveva poi proceduto. Gli altri coimputati, a vario titolo prosciolti, dovevano essere considerati “testimoni puri” e il contributo di conoscenza che avrebbero potuto offrire per la ricostruzione della complessa vicenda processuale non avrebbe dovuto essere ignorato. Viene anche denunciato vizio di motivazione della sentenza di secondo grado, la quale non fornisce risposta adeguata, poichè si limita a rilevare che gli imputati erano rimasti contumaci. Ma tale circostanza non precludeva la possibilità che gli stessi fossero citati in giudizio per rendere o negare il consenso all’esame dibattimentale. Ai sensi dell’art. 603 c.p.p., la invocata decisione della Corte territoriale avrebbe dovuto essere considerata propedeutica alla richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale.
3.2. Con il secondo motivo, si deduce travisamento degli atti e mancanza di motivazione, essendo state erroneamente valutate le dichiarazioni della teste F.; da tali dichiarazioni non poteva certo dedursi il ruolo di amministratore di fatto in capo allo I.. Peraltro, anche i contributi provenienti dagli altri testi sarebbero stati non correttamente interpretati dai giudici del merito, come risulta evidente dal raffronto del testo della decisione impugnata con i verbali della istruzione dibattimentale. Invero, il solo testimone B. ebbe a dichiarare di essere stato assunto direttamente da I., come medico sociale della squadra di calcio.
3.3. Con il terzo motivo, si assume che la condotta attribuita allo I. non sarebbe comunque integrativa degli estremi della figura dell’amministratore di fatto. I difensori fanno, in particolare, riferimento: a) a quanto la Corte distrettuale crede di poter desumere dal verbale assembleare del 31 ottobre 2003 (in cui si dava atto dell’intervenuto passaggio delle quote sociali dal P. allo I. e della sua attività di controllo del bilancio), atteso che la prima circostanza è del tutto neutra e la seconda è pienamente giustificata dall’interesse del futuro acquirente circa le reali condizioni della società della quale si accingeva ad acquisire quote; b) al fatto che, da un certo momento in poi, lo stesso fosse apostrofato dai dipendenti come “presidente” della società e che tale qualifica apparisse anche sul sito internet della stessa, atteso che è noto che, in determinati contesti socio-culturali, si abbonda nell’attribuire titoli onorifici e si indulge nelle iperboli encomiastiche; c) alla sottoscrizione da parte sua di un importante contratto di sponsorizzazione per la società sportiva, quasi che solo il presidente o il dominus della compagine possano attivarsi in tal senso.
In sintesi: tali emergenze non sarebbero per nulla significative di attività di gestione da parte del ricorrente.
3.4. Con il quarto motivo, si denunzia l’inutilizzabilità, ovvero la nullità, della perizia contabile, acquisita al fascicolo del dibattimento, poichè tale acquisizione non era stata preceduta dal necessario esame del perito, nonostante quest’ultimo fosse stato ascoltato in sede di incidente probatorio.
3.5. In data 15 febbraio 2016 è stata depositata dalla difesa di I. uno scritto intestato “motivi nuovi”, con il quale si ribadisce l’asserito “completo travisamento” delle risultanze dell’istruttoria dibattimentale, soprattutto nella valutazione della prova testimoniale a carico del ricorrente, segnalando ulteriormente alcune incongruenze tra quanto risultante dai verbali di udienza e quanto desunto dalla sentenza d’appello circa il ruolo di amministratore di fatto di I.. Invero, i testi M., R. e Ia. ebbero a chiarire di essere stati assunti ben prima che il ricorrente entrasse in contatto con la squadra di calcio. Il solo B., come premesso, ha affermato di essere stato assunto dallo I., precisando tuttavia che ciò era avvenuto in quanto l’imputato era in procinto di acquistare la società.
- Nell’interesse del P. sono stati proposti due ricorsi.
4.1. L’avvocato Antonio Valentini deduce un unico motivo, con il quale sostiene, da un lato, che la sentenza impugnata non avrebbe adeguatamente considerato che il ricorrente aveva lasciato la gestione della società oltre un anno prima della dichiarazione di fallimento, di talchè non gli si poteva addebitare alcun fatto di bancarotta fraudolenta; dall’altro, che il giudice di appello avrebbe operato una erronea valutazione della sussistenza dell’elemento psicologico, mancando l’indicazione della consapevolezza che il fatto distrattivo fosse commesso in danno dei creditori.
4.2. L’avvocato Fabrizio Giancarli, a sua volta, deduce violazione di legge processuale per quel che riguarda le notifiche del decreto di citazione in appello e dell’estratto contumaciale della sentenza di secondo grado, evidenziando, che il ricorrente aveva, in un primo tempo, eletto domicilio presso il proprio difensore di fiducia, per poi – subito dopo la condanna ad opera della sentenza di primo grado – revocare detta elezione. Tuttavia le notifiche sopra indicate erano state erroneamente eseguite presso il primo domicilio, e cioè presso lo studio dell’avv. Giancarli. Ciò ha determinato, secondo il ricorrente, nullità assoluta ed insanabile.
- I ricorsi sono stati assegnati ratione materiae alla Quinta Sezione penale, la quale, all’udienza del 2 marzo 2016, ha rilevato che, tra i reati per i quali è intervenuta condanna del P. e in relazione ai quali è stato proposto ricorso, vi è anche quello previsto e punito dal combinato disposto della L. Fall., art. 223, comma 2, e art. 2621 c.c., (capo B della imputazione), sulla cui eventuale, sopravvenuta, parziale abrogazione è di recente sorto un contrasto interpretativo nella giurisprudenza di legittimità.
Per tale ragione, con ordinanza depositata in data 4 marzo 2016, la Quinta Sezione ha rimesso alle Sezioni Unite la questione in ordine al seguente quesito:
“Se, in tema di false comunicazioni sociali, la modifica con cui la L. 27 maggio 2015, n. 69, art. 9, che ha eliminato, nell’art. 2621 c.c., l’inciso ancorchè oggetto di valutazioni, abbia determinato un effetto parzialmente abrogativo della fattispecie, ovvero se tale effetto non si sia verificato”.
5.1. L’ordinanza passa in rassegna gli arresti giurisprudenziali contrapposti, che hanno dato luogo al contrasto (peraltro interno alla medesima Quinta Sezione e concentrato nei primi mesi dopo l’entrata in vigore del nuovo testo normativo). Da un lato, si pongono le sentenze n. 33774 del 16/06/2015, ric. Crespi, Rv. 264868 e n. 6916 del 08/01/2016, ric. Banca Popolare dell’Alto Adige, Rv.
265492; dall’altro, la sentenza n. 890 del 12/11/2015, dep. 2016, ric. Giovagnoli, Rv. 265491.
Secondo le prime due pronunzie, che sottolineano la incidenza del dato letterale, la significativa eliminazione dell’inciso predetto ha determinato l’abrogazione parziale del reato di falso in bilancio con riferimento ai così detti falsi “valutativi” (o “estimativi”). Si sarebbe dunque verificata una vera e propria successione di leggi penali con effetto abrogativo e l’esplicito riferimento ai “fatti materiali” contenuto nell’art. 2621 cod. civ. starebbe ulteriormente a provare che il legislatore ha voluto escludere dal perimetro della repressione penale le attestazioni conseguenti a processi intellettuali di carattere, appunto, valutativo.
Secondo la sentenza Giovagnoli (che, temporalmente, si interpone tra le due sopra citate e che predilige un criterio ermeneutico di tipo storico-sistematico), la soppressione dell’inciso deve ritenersi priva di conseguenze, atteso che esso era, già nelle precedenti “versioni” della norma incriminatrice, da considerare non essenziale, in quanto semplicemente atto a meglio descrivere e specificare ad abundantiam la condotta di reato.
5.2. L’ordinanza in questione, che si interroga anche sugli effettivi confini concettuali del “falso valutativo”, ribadisce, infine, che le anomalie di bilancio, attraverso le quali – secondo la ipotesi di accusa, condivisa dai giudici del merito – si è consentito alla società fallita di evitare l’adozione delle necessarie deliberazioni di messa in liquidazione e scioglimento, coinvolgono inevitabilmente la questione dell’interpretazione del nuovo dettato dell’art. 2621 c.c., in quanto, se si aderisse al primo orientamento giurisprudenziale, dovrebbe rilevarsi, immediatamente, da parte della Corte di cassazione, una causa di esclusione del reato, ai sensi dell’art. 129 c.p.p., destinata ad emergere – in ogni caso – in sede di esecuzione ex art. 673 c.p.p..
- Il Primo Presidente, con decreto del 4 marzo 2016, ha assegnato i ricorsi alle Sezioni Unite, destinando per la trattazione la odierna udienza.
- Risulta depositata successivamente al predetto provvedimento, in data 30 marzo 2016, altra sentenza della Quinta Sezione penale (n. 12793, ric. Beccari e altri, deliberata il 2 marzo scorso), che riprende e approfondisce il percorso argomentativo della sentenza Giovagnoli.
- Il Procuratore generale ha fatto pervenire memoria scritta, con la quale, argomentando articolatamente, conclude per il rigetto dei ricorsi.
- E’ stata irritualmente presentata dai difensori di I. ulteriore memoria difensiva, datata 31 marzo 2016 e quindi intempestiva.
Motivi della decisione
- Appare necessario, ancor prima di esaminare le censure specificamente proposte con i ricorsi del P. e dello I., affrontare il quesito per il quale i ricorsi stessi sono stati rimessi alle Sezioni Unite penali della Corte di cassazione.
Invero, pur se il delitto di bancarotta da reato societario non è stato oggetto di specifiche censure da parte dei difensori del P., non di meno, come correttamente si osserva nell’ordinanza di rimessione, l’accertamento della eventuale, parziale eliminazione della rilevanza penale del così detto falso valutativo nell’ambito della fattispecie criminosa di cui all’art. 2621 cod. civ., comporterebbe, quale conseguenza della abolitio criminis, la immediata declaratoria di annullamento senza rinvio in parte qua, senza possibilità di ulteriori approfondimenti.
1.2. Il quesito, dunque, ben può essere sintetizzato come segue:
“se, in tema di false comunicazioni sociali, abbia ancora rilievo il falso valutativo”.
Si tratta di chiarire se la modifica con cui la L. 27 maggio 2015, n. 69, art. 9, che ha eliminato, nell’art. 2621 c.c., e nell’art. 2622 c.c., (limitatamente alla ipotesi commissiva), l’inciso “ancorchè oggetto di valutazioni”, abbia determinato, o non, un effetto parzialmente abrogativo della fattispecie.
- Allo scopo, è indispensabile, innanzitutto, richiamare i termini in cui il contrasto si è manifestato.
- La Quinta Sezione, con la sentenza n. 33774 del 16/06/2015, Crespi, Rv. 264868, ha affermato, in tema di bancarotta fraudolenta impropria da reato societario (L. Fall., art. 223, comma 2, n. 1), che la nuova formulazione degli artt. 2621e 2622c.c., introdotta dalla L. 27 maggio 2015, n. 69, ha determinato – eliminando l’inciso “ancorchè oggetto di valutazioni” ed inserendo il riferimento, quale oggetto anche della condotta omissiva, ai “fatti materiali non rispondenti al vero” – una vera e propria successione di leggi, con effetto abrogativo, limitato, ovviamente, alle condotte di falsa valutazione di una realtà effettivamente sussistente.
La medesima Sezione, poi, con la pronuncia n. 6916 del 08/01/2016, Banca Popolare dell’Alto Adige, Rv. 265492, ha ribadito l’affermazione di parziale abrogazione riferita ai reati di cui agli artt. 2621 e 2622 c.c., ritenendo, tuttavia, escluse da tale effetto abrogativo l’esposizione di crediti materialmente falsi, perchè indicati con un valore difforme dal dato reale o perchè descritti come certi, laddove, invece, essi avevano natura solo potenziale, in quanto oggetto di contenzioso.
D’altra parte, la stessa sentenza Crespi aveva escluso dall’effetto parzialmente abrogativo l’esposizione di crediti inesistenti perchè originati da contratti fittizi, nonchè l’esposizione di crediti concernenti i ricavi di competenza dell’esercizio successivo, così come l’esposizione di crediti relativi ad una fattura emessa a fronte di operazioni inesistenti; ciò in quanto trattasi di ipotesi, tutte, riferibili a condotte sussumibili nella categoria dei falsi materiali e non già di quelli cd. “valutativi”.
- Entrambe le sentenze sopra indicate valorizzano innanzitutto il dato testuale della nuova disposizione normativa, confrontato con il precedente testo di legge e con quello dell’art. 2638c.c.. Esse assumono che “la scomparsa” dell’inciso “ancorchè oggetto di valutazioni” (che, nel previgente testo, ineriva alla espressione “fatti materiali non rispondenti al vero”) appare altamente significativa, atteso che, oltretutto, il legislatore ha mantenuto fermo l’inciso nel successivo art. 2638, così manifestando uno specifico intento, mirato ad escludere la rilevanza penale delle stesse nella sola ipotesi delle false comunicazioni sociali e non anche nel reato di ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza. Si osserva poi che la nuova versione non si limita alla semplice elisione del predetto inciso, ma richiede che i fatti materiali siano anche rilevanti (“fatti materiali rilevanti, non rispondenti al vero”). Non si tratterebbe, dunque, della semplice applicazione del criterio dell’ubi voluit dixit, atteso che proprio l’aggiunta dell’aggettivazione “rilevanti” vincola ulteriormente l’interprete ad una lettura più restrittiva della portata della norma incriminatrice.
D’altra parte, si osserva che la recente modifica della fattispecie omissiva dell’art. 2621 c.c., rende manifesta la volontà del legislatore di circoscrivere l’area del penalmente perseguibile alle sole condotte non integranti “falsi valutativi”. E ciò si deduce, secondo le ricordate sentenze, anche dal fatto che il nuovo testo non fa più riferimento ad “informazioni”, come nel previgente articolato (che recava: “ovvero omettono informazioni la cui comunicazione è imposta dalla legge”), ma, ancora una volta, a “fatti materiali rilevanti”, la cui comunicazione è imposta dalla legge e la cui omissione determina la punibilità della condotta. Dunque:
l’espunzione delle “valutazioni” dalla disposizione normativa non può non essere priva di significato, anche – e soprattutto perchè la valutazione è connaturata al concetto di informazione, termine quest’ultimo che, non a caso, è stato espressamente sostituito nella nuova formulazione normativa.
4.1. Peraltro, secondo la tesi “abrogazionista”, ulteriore elemento indicativo, utilizzabile quale canone ermeneutico deriverebbe dalla “parallela” lettura della normativa in tema di frode fiscale (L. n. 516 del 1982, art. 4, lett. t), e succ. L. n. 154 del 1991), nella quale l’inserimento della espressione “fatti materiali” rispondeva all’intento – pacificamente ammesso – di evitare conseguenze penali derivanti da “valutazioni”; e ciò in ragione della possibilità di errore o di interpretazioni opinabili, in conseguenza della complessità della normativa tributaria.
In particolare, poi, nella sentenza n. 6916 del 2016 si osserva che l’aggettivo “materiali”, riferito ai “fatti non rispondenti al vero”, oggetto delle false comunicazioni sociali, non va inteso semplicemente come antitetico al termine “immateriali”, in quanto, in realtà, esso sottintende un’accezione riconducibile alla stretta oggettività dei fatti, vale a dire ad un dato che, in quanto tale, è estraneo ai risultati valutativi. Si argomenta: il legislatore ha indicato i fatti penalmente rilevanti utilizzando l’espressione “fatti materiali rilevanti”. Dunque: “materialità” e “rilevanza” dei fatti, a meno di non voler ritenere la precisazione normativa del tutto superflua, devono necessariamente stare a significare concetti distinti e non impropri sinonimi.
4.2. Conclusivamente si sostiene nella pronunzia da ultimo indicata che la soppressione dell’inciso più volte ricordato “ha ridotto l’estensione incriminatrice della norma alle appostazioni contabili che attingono fatti economici materiali, escludendone quelle prodotte da valutazioni, pur se moventi da dati oggettivi”.
- Tra le due sentenze sopra citate (n. 33774 del 2015, Crespi e n. 6916 del 2016, Banca Alto Adige) si colloca la pronunzia di segno contrario, sempre della Quinta Sezione, n. 890 del 12/11/2015, dep. 2016, Giovagnoli, Rv. 265491, secondo la quale, viceversa, vi è piena sovrapponibilità, quanto alle condotte punibili, tra il testo della disposizione di cui all’art. 2621c.c., nella sua formulazione antecedente alla novella del 2015, e quello successivo. Si sostiene che il falso “valutativo” è tuttora penalmente rilevante, nonostante la L. n. 69 del 2015, abbia eliminato dal testo della disposizione l’inciso “ancorchè oggetto di valutazioni”. Invero l’esclusivo riferimento ai “fatti materiali”, oggetto di falsa rappresentazione, non ha avuto l’effetto di escludere dal perimetro della repressione penale gli enunciati valutativi, i quali, viceversa, ben possono esser definiti falsi, quando si pongano in contrasto con criteri di valutazione normativamente determinati, ovvero tecnicamente indiscussi.
5.1. Secondo l’assunto di tale sentenza, la precedente fisionomia della fattispecie delle false comunicazioni sociali ha subito un complessivo e significativo riordino; invero, a fronte delle due distinte, precedenti ipotesi (la prima, prevista dall’originario art. 2621 cod. civ., in termini di reato contravvenzionale; la seconda come delitto di danno), sono state configurate distinte tipologie di reato, a seconda che si tratti di società non quotate (odierno art. 2621 c.c.) o quotate (odierno art. 2622 c.c.). Si tratta, in entrambi i casi, di delitti di pericolo, connotati da dolo specifico e punibili di ufficio.
Si fa poi menzione della introduzione di due nuovi articoli, e cioè gli artt. 2621 bis e 2621 ter c.c.. L’art. 2621 bis, prevede, al comma 1, una pena ridotta (reclusione da sei mesi a tre anni), nel caso in cui i fatti di cui all’art. 2621, siano di lieve entità, “tenuto conto della natura e delle dimensioni della società e delle modalità o degli effetti della condotta”; il medesimo regime sanzionatorio è previsto dal comma 2, per i fatti di cui allo stesso art. 2621 c.c. – salvo che costituiscano più grave reato – se riguardanti società che non superino i limiti indicati dal R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 1, comma 2, stabilendo che, in ipotesi siffatta, la procedibilità è a querela da parte della società, dei soci, dei creditori o degli altri destinatari della comunicazione sociale. L’art. 2621 ter, stabilisce, invece, la non punibilità, ex art. 131 bis c.p., per particolare tenuità del fatto, qualora il giudice valuti “in modo prevalente, l’entità dell’eventuale danno cagionato alla società, ai soci o ai creditori conseguente ai fatti di cui agli artt. 2621 e 2621 bis”.
5.2. Dopo un sintetico excursus storico, la sentenza Giovagnoli, in un’ottica “prospettica” della volontà della legge (eventualmente non coincidente con la intenzione del legislatore), affronta il problema in chiave strettamente sistematica, muovendo, comunque, dal canone ermeneutico di riferimento, individuato nell’art. 12 “preleggi”. Al proposito, si afferma che l’inciso “ancorchè oggetto di valutazioni” si sostanzia in una proposizione di natura tipicamente concessiva, introdotta da congiunzione “ancorchè”, notoriamente equivalente ad altre tipiche e similari (“sebbene”, “benchè”, “quantunque”, “anche se” ecc.). Le si attribuisce, conseguentemente, finalità “ancillare”, con funzione esplicativa e chiarificatrice del nucleo sostanziale della proposizione principale. In altre parole, si sostiene che il legislatore dell’epoca volle semplicemente significare che, nei “fatti materiali” oggetto di esposizione nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali, dirette ai soci o al pubblico, erano (sono) da intendersi ricompresi anche quelli “oggetto di valutazione”.
Si tratterebbe, dunque, di una mera specificazione/chiarificazione, la cui soppressione lascerebbe intatta la portata della norma incriminatrice.
5.3. D’altra parte, si sostiene nella sentenza in questione, “materialità” e “rilevanza” dei fatti economici da rappresentare in bilancio sono semplicemente connotazioni gemelle ed esprimono l’esigenza della corretta informazione cui è tenuto il redattore. I termini predetti non andrebbero assunti nella loro accezione comune, in quanto si tratta di espressioni del linguaggio contabile, derivanti dalla terminologia anglosassone (in un’ottica di adeguamento, anche lessicale, alla normativa Europea e sovrannazionale in genere).
“Materialità”, pertanto, altro non vuol significare che essenzialità, nel senso che, nella redazione del bilancio, devono essere riportati (e valutati) solo dati informativi essenziali, cioè significativi ai fini dell’informazione: quelli utili e necessari per garantire la “rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale, finanziaria ed economica della società e del risultato economico di esercizio” (art. 2423 c.c.).
“Rilevanza”, a sua volta, è concetto relativo (di origine comunitaria: cfr. art. 2, punto 16, della Direttiva 2013/34/UE, relativa ai bilanci di esercizio, ai bilanci consolidati ed alle relative relazioni di talune tipologie di imprese, direttiva recepita nel nostro ordinamento con decreto legislativo 14/08/2015, n. 136, entrato in vigore il 16/09/2015), in quanto essa deve essere apprezzata in rapporto alla funzione precipua dell’informazione, cui sono preordinati i bilanci e le altre comunicazioni sociali, dirette ai soci ed al pubblico. Vale a dire che l’informazione, per essere giudicata corretta, non deve essere tale da influenzare, in modo distorto, le decisioni dei destinatari, non deve, cioè, essere ingannevole e fuorviante. Dunque, l’informazione è rilevante “quando la sua omissione o errata indicazione potrebbe ragionevolmente influenzare le decisioni prese dagli utilizzatori sulla base del bilancio dell’impresa”, con la precisazione che “la rilevanza delle singole voci è giudicata nel contesto di altre voci analoghe”.
5.4. D’altronde, la L. 27 maggio 2015, n. 69, recante “Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio”, si iscrive nell’ambito di una “strategia anticorruzione”, atteso che proprio il falso in bilancio viene considerato come un “reato-spia” dei fenomeni corruttivi. Invero, attraverso l’appostazione contabile di false fatturazioni vengono costituiti i cc.dd. “fondi neri”, che ben possono essere destinati al pagamento di tangenti o alla consumazione di altre attività contra legem. Escludere dal novero dei falsi punibili quello valutativo significherebbe frustrare le finalità della legge, volte a perseguire ogni illecita attività, preordinata ad alimentare o ad occultare il fenomeno della corruzione.
5.5. Quanto al fatto che l’inciso più volte ricordato (“ancorchè oggetto di valutazione”) sia stato conservato nel corpo dell’art. 2638 c.c., mentre è stato eliminato dall’art. 2621, la sentenza n. 890 del 2016 contesta in radice la lettura proposta dalle sentenze nn. 33774/2015 e 6916/2016 (ubi voluit dixit), trattandosi di due fattispecie (artt. 2621 e 2638) non comparabili per natura ed obiettività giuridica e per le finalità, non omologhe, che perseguono. A voler seguire l’opposta tesi, si profilerebbe una opzione interpretativa probabilmente incostituzionale, in quanto la redazione del medesimo bilancio, recante falsi valutativi, sarebbe penalmente irrilevante se il documento è diretto ai soci ed al pubblico e sarebbe, viceversa, penalmente rilevante se rivolto alle autorità pubbliche di vigilanza.
- Come premesso, dopo il decreto del Primo Presidente, che assegnava il ricorso alle Sezioni Unite e prima della odierna udienza, è stata depositata il 30 marzo 2016 altra sentenza, deliberata dalla Quinta Sezione in data 2 marzo (ricorrenti: Beccari e altri), che si allinea con la pronunzia Giovagnoli, ulteriormente argomentando sul punto.
Dopo aver riassunto i termini della questione e dopo aver ricordato le contrapposte pronunzie, la sentenza prende posizione nel senso della permanente rilevanza penale del falso valutativo, osservando che “negare la possibilità che il falso possa realizzarsi mediante valutazioni significa negare lo stesso veicolo con il quale si realizza il falso, posto che il bilancio si struttura di per sè necessariamente anche in un procedimento valutativo, i cui criteri sono indicati dalla legge, come chiaramente evincibile dal disposto di cui all’art. 2426 c.c.”. Viene tuttavia precisato che non qualsiasi difformità dal modello legale di bilancio determina – quasi si tratti di un meccanismo automatico – la falsità del bilancio stesso. Si deve, viceversa, fare riferimento alla idoneità del dato falsamente esposto ad indurre concretamente in errore il lettore del documento “in una dimensione di significativa valorizzazione della qualità del falso”. In ciò, d’altra parte, e non in altro, consisterebbe quel requisito della “rilevanza” preteso dal legislatore del 2015.
6.1. Quanto all’aggettivazione “materiali” (riferita a “fatti”), la sentenza de qua concorda con quanto sostenuto nella sentenza Giovagnoli, sostenendo che si tratta di espressione priva di un reale valore innovativo e atta ad “escludere dalla sfera della punibilità le sole opinioni di natura soggettiva, i pronostici, le previsioni, i progetti, le dichiarazioni di intenti ecc.”.
6.2. Non significativa, viceversa, per la questione in discussione appare altra sentenza della Quinta Sezione (n. 37570 del 08/07/2015, Fiorini, Rv. 265020), la quale, pur affermando la sussistenza di un rapporto di continuità normativa della nuova fattispecie di cui all’art. 2622 c.c., con quella previgente (e la conseguente successione di leggi penali ai sensi dell’art. 2 c.p.), fa riferimento alla condotta di mancata esposizione in bilancio di poste attive effettivamente esistenti nel patrimonio sociale e, dunque, a una ipotesi di falso omissivo certamente non valutativo, ma consistente in una vera e propria preterizione della annotazione di una voce di bilancio.
- Allo scopo di affrontare – con la doverosa sistematicità – la problematica sottoposta all’esame delle Sezioni Unite, è necessario procedere ad una, sia pur sintetica, ricognizione della stratificazione normativa che, nel corso degli anni, ha connotato la fattispecie del falso in bilancio, concentrando, innanzitutto, l’attenzione sull’adozione della formula verbale utilizzata per descrivere l’oggetto della condotta di falsificazione.
7.1. Nel codice di commercio del 1882 (Zanardelli) era utilizzata l’espressione “fatti falsi”; il legislatore del 1942 preferì indicare la falsità con una litote (“fatti non rispondenti al vero”), espressione rimasta in vigore sino al 2002, quando, con il D.Lgs. n. 61 del 2002, fu sostituita da “fatti materiali non rispondenti al vero, ancorchè oggetto di valutazioni” (adottata, come si è visto, anche nella formulazione del delitto di ostacolo all’esercizio delle funzioni di vigilanza, di cui all’art. 2638 c.c.); infine, la L. n. 69 del 2015, ha preferito “fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero”, eliminando l’inciso “ancorchè oggetto di valutazioni” ed aggiungendo l’aggettivo “rilevanti” al sintagma “fatti materiali”. La legge da ultimo evocata ha anche eliminato il riferimento alla omissione di “informazioni” la cui comunicazione sia imposta per legge, espressione sostituita, a sua volta, dalla previsione della omissione della comunicazione (ancora una volta) di “fatti materiali” sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria, quando tale comunicazione sia dovuta per legge.
7.2. Per altro, finalità dichiarata di tale ultimo intervento legislativo è stata quella di ripristinare una significativa risposta sanzionatoria ai fatti di falsità in bilancio, ritenendosi non adeguato l’assetto repressivo introdotto dal D.Lgs. n. 61 del 2002, connotato dalla introduzione, accanto alla ipotesi delittuosa (art. 2622), di una figura contravvenzionale (art. 2621 c.c., nella precedente versione, con conseguente, considerevole, abbreviazione del termine di prescrizione), dalla procedibilità a querela (prevista, nell’ipotesi delittuosa, in relazione alle società non quotate, ai sensi dell’art. 2622, comma 1), oltre che da scelte tecniche quantomeno innovative, quali il sistema delle “soglie di rilevanza”, scandite da precisi riferimenti percentuali, al di sotto delle quali la falsità realizzata diveniva, per previsione legislativa, “quantità trascurabile”.
7.3. Ebbene, la riforma introdotta dalla L. 27 maggio 2015, n. 69, ha perseguito il dichiarato fine di tendere al ripristino della “trasparenza societaria”, eliminando la precedente bipartizione tra contravvenzione di pericolo (art. 2621, nella versione precedente) e delitto di danno (art. 2622) e sostituendola con la previsione di una fattispecie “generale” delittuosa (di pericolo) per le società non quotate (art. 2621), e con la introduzione di una ipotesi “speciale” (sempre delittuosa), concernente le false comunicazioni sociali delle società quotate, punita più severamente (art. 2622 c.c.).
Vengono poi previsti un’ipotesi “minore” ed un caso di irrilevanza penale (artt. 2621 bis e 2621 ter c.c.).
Risultano così significativamente rideterminati tanto la condotta punibile, quanto l’elemento psicologico che deve sostenerla; viene poi ripristinata la procedibilità d’ufficio (salvo che per le falsità minori, realizzate in seno a “società che non superano i limiti indicati dal R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 1, comma 2″, che, ai sensi dell’art. 2621 bis c.c., comma 2, rimangono procedibili a querela). Sono state inoltre eliminate le “soglie di rilevanza” ed è stata, infine, inasprita la risposta sanzionatoria (con conseguente applicabilità di misure cautelari – coercitive ed interdittive – ed adottabilità di mezzi di ricerca della prova particolarmente penetranti, quali le intercettazioni telefoniche e ambientali).
7.4. All’esito del ricordato intervento riformatore, la condotta, pertanto, risulta essere quella di colui (amministratore, direttore generale, dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari, sindaco o liquidatore) il quale, “nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico, previste dalla legge”, espone “fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero”, ovvero omette “fatti materiali rilevanti, la cui comunicazione è imposta dalla legge, sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore”.
In particolare, è da notare che i “fatti materiali” (senza ulteriore specificazione) costituiscono l’oggetto della sola condotta (commissiva) di esposizione, contemplata dall’art. 2622 c.c.;
viceversa, i fatti materiali “rilevanti” costituiscono l’oggetto tipico dell’omessa esposizione nel medesimo art. 2622 c.c., e rappresentano anche l’oggetto della condotta tipica – sia nella forma commissiva, sia nella forma omissiva – nell’art. 2621 c.c..
Scomparse le ipotesi contravvenzionali, il delitto di cui all’art. 2622 c.c., (relativo alle società che emettono strumenti finanziari ammessi alla negoziazione nel mercato regolamentato italiano o di altro paese aderente alla Unione Europea), punito con pena ben più elevata rispetto al passato (così come il reato-base ex art. 2621), si è trasformato da fattispecie di danno in fattispecie di pericolo, e come reato di pericolo è stata plasmata la fattispecie ex art. 2621 c.c.. Ciò non toglie, ovviamente, che la alterazione del bilancio ben possa causare anche un immediato danno (si pensi ad esempio al dettato dell’art. 2433 c.c., per il quale, come è noto, non possono essere pagati dividendi se non per utili realmente conseguiti). Sono poi state abolite le soglie di punibilità, ma è stato introdotto il requisito della “rilevanza” della alterazione di bilancio. Per quel che riguarda l’elemento soggettivo, l’avverbio “consapevolmente” precisa e delimita ulteriormente il dolo, che si atteggia certamente come diretto. Sul versante processuale, l’aumento della pena edittale comporta la possibilità di far ricorso a più incisivi e penetranti mezzi di ricerca della prova (in pratica, alle intercettazioni).
Può allora dirsi che ratio della norma è – riconoscibilmente – la tutela tanto della veridicità, quanto della completezza (che, d’altronde, della veridicità costituisce un presupposto) dell’informazione societaria, sempre avendo come referente finale le potenziali ripercussioni negative delle falsità sulle sfere patrimoniali della società, dei soci, dei creditori e del pubblico.
- Come si è visto, le quattro sentenze sopra illustrate (nn. 33774/2015, Crespi; 890/2015, dep. 2016, Giovagnoli; 6916/2016, Banca Popolare dell’Alto Adige; 12793/2016, Beccari) concentrano la loro attenzione, innanzitutto, sul dato letterale della norma, operando, in particolare, un’analisi comparativa tra il testo attualmente vigente (dopo la modifica operata dalla legge 69/2015) e quello immediatamente precedente. Grande rilievo viene attribuito alla soppressione dell’inciso “ancorchè oggetto di valutazioni”, nonchè alla sostituzione, con riferimento alla condotta omissiva, del termine “informazioni”.
Al proposito, va subito detto che eccessiva appare l’enfatizzazione di tale strumento ermeneutico, atteso che l’interpretazione letterale altro non è che un (indispensabile) “passaggio” funzionale verso la completa ed esaustiva intelligenza del comando legislativo. E invero, è certamente corretto l’assunto per il quale, in base all’art. 12 “preleggi”, “nell’applicare la legge, non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole, secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore”; tuttavia non può certo negarsi che proprio l’intenzione del legislatore deve essere “estratta” dall’involucro verbale (“le parole”), attraverso il quale essa è resa nota ai destinatari e all’interprete. Che poi detta intenzione non si identifichi con quella dell’Organo o dell’Ufficio che ha predisposto il testo, ma vada ricercata nella volontà statuale, finalisticamente intesa (come correttamente sostiene la sentenza Giovagnoli) è fuor di dubbio.
8.1. Quando, come nel caso in esame, un nuovo testo normativo prende il posto di uno precedente, operando, non un’aggiunta o una sostituzione di un’espressione verbale ad un’altra, ma una mera soppressione di una frase (peraltro, sintatticamente subordinata), è di tutta evidenza che uno sforzo ermeneutico che si arrestasse, appunto, all’involucro verbale e si risolvesse in un’analisi lessicale non potrebbe dare risultati soddisfacenti. E invero, poichè sarebbe paradossale chiedersi quale sia il significato proprio di parole soppresse, non resta che interrogarsi sul significato della frase come risulta dopo la soppressione. Nessuna norma può essere presa in considerazione isolatamente, ma va valutata come componente di un “insieme”, tendenzialmente unitario e le cui “parti” siano reciprocamente coerenti.
8.2 Se dunque, per una corretta interpretazione delle norme, non è sufficiente verba earum tenere, sed vim ac potestatem, allora appare necessario, concentrandosi sul caso in scrutinio, soffermarsi, principalmente, a riflettere, da un lato, sul complessivo impianto dell’assetto societario come tracciato nel codice civile (e in parte ridisegnato dalla L. n. 69 del 2015), in una visione logico- sistematica della materia, dall’altro, sulle conseguenze derivanti dall’una o dall’altra interpretazione, non essendo dubbio che la valutazione di tali conseguenze costituisce una sorta di controprova della (correttezza della) necessaria interpretazione teleologica.
- Orbene, in ragione di quanto sopra premesso, sembra opportuno, anzichè partire dalla esegesi testuale (e comparativa) degli articolati normativi che si sono succeduti nel tempo, affrontare il problema, innanzitutto, sotto l’aspetto sistematico, vale a dire in una visione – organica e tendenzialmente unitaria e coerente – dell’intera materia societaria in tema di bilancio e del sottosistema delle norme penali poste a tutela della corretta redazione del predetto documento, partendo dal presupposto – non contestabile – che l’oggetto della tutela penale è da individuarsi nella “trasparenza societaria”.
Il codice civile regolamenta la redazione del bilancio nella Sezione Nona, Capo Quinto, Titolo Quinto, Libro Quinto. Vengono in particolare rilievo gli artt. da 2423 a 2427. Il legislatore non solo si fa carico di indicare la struttura e il contenuto del bilancio, ma detta i criteri di redazione dello stesso e – per quel che in questa sede maggiormente interessa – impone canoni di valutazione e indica quale debba essere il contenuto della nota integrativa. Di talchè non può che sottoscriversi, alla luce del descritto impianto normativo, l’affermazione in base alla quale il bilancio, in tutte le sue componenti (stato patrimoniale, conto economico, rendiconto finanziario, nota integrativa), è un documento dal contenuto essenzialmente valutativo; un documento in cui confluiscono dati certi (es. il costo di acquisto di un bene), dati stimati (es. il prezzo di mercato di una merce) e dati congetturali (es. le quote di ammortamento). Il bilancio è dunque un documento composito e complesso, la cui lettura e intelligenza presuppone una specifica preparazione, che abbraccia la conoscenza dei criteri (tanto legali, quanto tecnici) vigenti per la sua redazione. Il redattore di tale documento, a sua volta, non può non operare valutazioni. Si tratta peraltro di valutazioni “guidate” dai suddetti criteri. Vale a dire che egli necessariamente deve effettuare una stima ponderale delle singole componenti del bilancio, attribuendo – alla fine un valore in denaro a ciascuna di esse. Solo la “traduzione” in valuta (oggi in Euro: art. 2423 c.c., u.c.) consente la comparazione di entità eterogenee, quali possono essere, ad esempio, un immobile, un macchinario o una materia prima. E tale reductio ad unitatem è (ritenuta) indispensabile per descrivere lo “stato di salute” di un operatore economico. Invero non si può seriamente dubitare che la funzione del bilancio sia essenzialmente una funzione informativa/comunicativa. Attraverso il bilancio, si forniscono, infatti, notizie sulla consistenza e sulle prospettive di un’azienda e ciò, evidentemente, non solo a garanzia dei diretti (e attuali) interessati, vale a dire i soci e i creditori, ma anche a tutela dei futuri ed ipotetici soggetti che potrebbero entrare in contatto con la predetta azienda. Si pensi solo, a titolo di esempio, a una banca richiesta di aprire una linea di credito o ai potenziali investitori, eventualmente interessati all’acquisto di azioni, obbligazioni e quant’altro. Ebbene, i destinatari della informazione (i lettori del bilancio) devono essere posti in grado di effettuare le loro valutazioni, vale a dire di valutare un documento, già in sè di contenuto essenzialmente valutativo. Ma tale “valutazione su di una valutazione” non sarebbe possibile (ovvero sarebbe assolutamente aleatoria) se non esistessero criteri – obbligatori e/o largamente condivisi – per eseguire tale operazione intellettuale. Tali criteri esistono e sono, in gran parte, imposti dallo stesso legislatore nazionale (cfr. i già citati art. 2423 c.c. e ss.), dalle direttive Europee (cfr. Direttiva 2013/34/UE, relativa ai bilanci di esercizio ai bilanci consolidati e alle relative relazioni di talune tipologie di imprese, recepita dal D.Lgs. 18 agosto 2015, n. 139), ovvero sono frutto della elaborazione dottrinale nelle materie di competenza (e sono ufficializzate ad opera di soggetti “certificatori”: Organismo italiano di contabilità e, a livello sovrannazionale, International Financial Reporting Standard).
9.1. In sintesi: tutta la normativa civilistica presuppone e/o prescrive il momento valutativo nella redazione del bilancio, anzi ne detta (in gran parte) i criteri, delineando un vero e proprio metodo convenzionale di valutazione. Basti riflettere sulla esistenza di voci quali “ammortamenti”, “svalutazioni”, “crediti”, “partecipazioni”, “costi di sviluppo” ecc..
D’altra parte, l’art. 2423 c.c., al comma 3, cita esplicitamente, accanto alla “rilevazione”, la “valutazione” dei dati da riportare in bilancio. Il medesimo articolo, poi, nell’imporre al redattore del bilancio la elaborazione di un documento che rappresenti “in modo veritiero e corretto” tanto la situazione patrimoniale e quella finanziaria della società, quanto il risultato economico dell’esercizio, consente, inoltre, da un lato (comma 3), di trascurare “i dati irrilevanti” ai fini della predetta rappresentazione, dall’altro (comma 4), di discostarsi, “in casi eccezionali”, dai criteri valutativi fissati per legge (negli articoli seguenti), se ciò possa essere di ostacolo proprio a quella esposizione veritiera e corretta dell’assetto societario. Ma, è il caso di notare subito, tale deroga non solo deve essere giustificata dalla situazione contingente, ma deve trovare esauriente spiegazione nella nota integrativa (art. 2427 c.c.), la quale ha la funzione di “motivare la deroga e deve indicarne l’influenza sulla rappresentazione della situazione patrimoniale, finanziaria e del risultato economico”. Inoltre, “gli eventuali utili derivanti dalla deroga devono essere iscritti in una riserva non distribuibile, se non in misura corrispondente al valore recuperato”. Se dunque la nota integrativa rappresenta la chiave di lettura del bilancio e la esplicitazione dei criteri (e della eventuale deroga a tali criteri) di redazione dello stesso, non può esservi alcun dubbio sulla natura prevalentemente (e quasi esclusivamente) valutativa del predetto documento contabile.
E dunque, “sterilizzare” il bilancio con riferimento al suo contenuto valutativo significherebbe negarne la funzione e stravolgerne la natura.
9.2. Una volta chiarito ciò, appare evidente la fallacia della opzione ermeneutica che intende contrapporre “i fatti materiali”, da esporsi in bilancio, alle valutazioni, che pure nel bilancio compaiono; e ciò per l’ottima ragione che un bilancio non contiene “fatti”, ma “il racconto” di tali fatti. Vale a dire: un fatto, per quanto “materiale”, deve comunque, per trovare collocazione in un bilancio, essere “raccontato” in unità monetarie e, dunque, valutato (o se si vuole apprezzato). Solo ciò che è già espresso in Euro (la giacenza di cassa, il saldo di un conto corrente bancario) non necessita di tale conversione, non occorrendo omologare ciò che corrisponde alla unità di misura prevista dal legislatore.
9.3. Per la tesi abrogazionista, “materiale” sarebbe sinonimo di “oggettivo” (e comunque di “a-valutativo”). Così certamente non è, per le ragioni che si sono appena esposte. Si può anche far ricorso a un ulteriore dato testuale, atteso che l’invariato (e già menzionato) art. 2638 c.c. (“ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza”) prevede esplicitamente la condotta del soggetto attivo che esponga “fatti materiali non rispondenti al vero, ancorchè oggetto di valutazioni, sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria ecc.”. Dunque, per il legislatore, un “fatto materiale” ben può essere (e quasi sempre è) oggetto di valutazione in sede di bilancio.
D’altra parte, già sotto la vigenza della precedente normativa, questa Corte di legittimità non aveva mai dubitato della valenza meramente concessiva del sintagma “ancorchè oggetto di valutazioni”.
Conseguentemente il reato di cui all’art. 2638 c.c., fu ritenuto (con la sentenza Sez. 5, n. 44702 del 28/09/2005, Mangiapane, Rv. 232535) sussistente anche nel caso in cui la falsità fosse contenuta in giudizi estimativi delle poste di bilancio, “atteso che dal novero dei “fatti materiali” indicati dalla attuale norma incriminatrice come possibile oggetto di falsità vanno escluse soltanto le previsioni o congetture prospettate come tali, vale a dire quali apprezzamenti di carattere squisitamente soggettivo e l’espressione, riferita agli stessi fatti, “ancorchè oggetto di valutazioni”, va intesa in senso concessivo, per cui, in ultima analisi, l’oggetto della vigente norma incriminatrice viene a corrispondere a quello della precedente, che prevedeva come reato la comunicazione all’autorità di vigilanza di fatti non corrispondenti al vero”. Nel caso allora in esame, invero, la Quinta Sezione annullò la decisione di merito che aveva escluso la configurabilità del reato in una ipotesi in cui la falsità era stata ravvisata nella dolosa sopravvalutazione della posta di bilancio di un istituto bancario, relativa ai crediti vantati nei confronti della clientela per avvenuta concessione di mutui e risultati, in effetti, di difficile o impossibile recupero (nello stesso senso, più recentemente, Sez. 6, n. 17290 del 13/01/2006, Marino, Rv 234533; Sez. 5, n. 49362 del 07/12/2012, Banco, in motivazione).
La norma (art. 2638 c.c.) è rimasta invariata, per cui delle due l’una: o la cancellazione dal testo dell’art. 2621 c.c., della espressione “ancorchè oggetto di valutazioni” comporta che essa sia considerata tamquam non esset anche nell’art. 2638, (ma non si vede come ciò possa essere), ovvero, considerata la natura meramente concessiva/specificativa del sintagma e dunque – sostanzialmente – la sua superfluità, la scomparsa delle ricordate quattro parole dal testo dell’art. 2621 c.c. (e dall’art. 2622, e la sua non riproduzione nell’art. 2621 bis) non comporta una diversa (rispetto a quella previgente) configurazione della norma incriminatrice.
D’altronde, la giurisprudenza antecedente alla riforma del 2015 era costante nel ritenere la sostanziale superfluità dell’inciso in questione (oltre alle sentenze sopra citate, si veda, sia pure implicitamente, Sez. 5, n. 8984 del 18/05/2000, Patrucco, Rv 217767;
Sez. 5, n. 40833 del 07/07/2004, Preantoni, Rv 230258). Andrebbe allora chiarito perchè mai la sua soppressione, nella nuova formulazione, dovrebbe in qualche modo vincolare l’interprete, quando (in precedenza) la sua presenza non lo vincolava.
Quanto al parallelo con la normativa fiscale, è agevole replicare, condividendo autorevole dottrina, che detto “accostamento” ha perso significato, atteso che, già quando entrò in vigore la riforma del falso in bilancio introdotta dal D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61 (poi modificato dalla L. 28 dicembre 2005, n. 262, art. 30), la L. 7 agosto 1982, n. 516, art. 4, lett. t), era stato sostituito dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 7, comma 2, (“Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma della L. 25 giugno 1999, n. 205, art. 9“), che ha sancito, anche in campo tributario, la rilevanza penale delle valutazioni che differiscano di oltre il 10 per cento rispetto a quelle corrette.
9.4. Una volta chiarita la irrilevanza della soppressione dell’inciso, perde rilievo, a sua volta, anche la questione su cosa si debba intendere per “materialità” del fatto, espressione atecnica che non può essere intesa come antitetica alla soggettività delle valutazioni. Infatti, in bilancio vanno certamente esposti tutti quei “fatti” passibili di “traduzione” in termini contabili e monetari e, dunque, gli elementi di composizione del patrimonio aziendale, come valutati dal redattore del bilancio secondo i parametri – legali e scientifici – che lo stesso deve rispettare.
E, sotto tale aspetto, non può non convenirsi con l’assunto delle sentenze Giovagnoli e Beccari, per le quali, se si accedesse alla tesi della non punibilità del falso valutativo, si sarebbe in pratica al cospetto di una interpretatio abrogans del delitto di false comunicazioni sociali e il corpus normativo denominato “Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio” finirebbe per presentare una significativa falla nella sua trama costitutiva, prestandosi a una lettura depotenziata proprio nella parte che dovrebbe essere una delle più qualificanti: quella della trasparenza aziendale, quale strumento di contrasto alla economia sommersa e all’accumulo di fondi occulti, destinati non raramente ad attività corruttive.
9.5. Per altro, nel panorama giurisprudenziale di legittimità, la figura del falso valutativo è solidamente incardinata e i suoi confini (oltre che il suo contenuto) sono sufficientemente tracciati.
La giurisprudenza della Suprema Corte, ed in particolare quella della Quinta Sezione penale, ha già avuto modo di chiarire che è certamente possibile ipotizzare la falsità di enunciati valutativi, sia in tema di falso ideologico ex art. 479 c.p., sia in tema di falsa perizia ex art. 373 c.p.. Analoghe statuizioni, come si è visto, erano state enunciate anche in tema di false comunicazioni sociali, alla luce della normativa previgente (per tutte si può ricordare la già menzionata sentenza Patrucco del 2000, per la quale, nell’espressione “fatti non rispondenti al vero”, vanno ricomprese anche “le stime di entità economiche non precisamente calcolabili”). E ciò quando la attestazione sia resa in un contesto implicante la necessaria accettazione di parametri di valutazione normativamente determinati o tecnicamente indiscussi (ex plurimis, Sez. 5, n. 15773 del 24/01/2007, Marigliano, Rv. 236550; Sez. 5, n. 7067 del 12/01/2011, Sabolo, Rv. 249836; Sez. 5, n. 35104 del 22/06/2013, Baldini, Rv 25712; Sez. 6, n. 8588 del 06/12/2000, dep. 2001, Ciarletta, Rv. 219039; Sez. 1, n. 45373 del 10/06/2013, Capogrosso, Rv. 257895).
9.6. Si sostiene in particolare nella sentenza Andronico (Sez. 5, n. 3552 del 09/02/1999, Rv. 213366) che la valutazione – se fa obbligatorio riferimento a criteri vincolanti e predeterminati – è un modo di rappresentare la realtà non dissimile dalla descrizione o dalla constatazione, sebbene l’ambito di una sua possibile qualificazione in termini di verità o di falsità sia variabile e risulti, di regola, meno ampio, dipendendo “dal grado di specificità e di elasticità dei criteri di riferimento”. Nella sentenza in questione viene in sostanza operata una equiparazione tra la falsità di un enunciato valutativo fondato su false premesse e la falsità di un enunciato (parimenti valutativo) che sia in aperta contraddizione con criteri di valutazione indiscussi e indiscutibili.
Con la sentenza Marigliano, poi (Sez. 5, n. 15773 del 24/01/2007, Rv.
236550), in tema di “falsità medica”, la Corte ha avuto modo di chiarire che la diagnosi compiuta dal sanitario ben può configurarsi come errata o addirittura falsa (a seconda dell’elemento psicologico che la supporta), in quanto tale valutazione è elaborata in contesti implicanti l’accettazione di parametri valutativi normativamente determinati o tecnicamente certi; e dunque sarà falsa (ovvero errata) se da tali parametri si discosti; ciò in quanto, laddove il giudizio faccia riferimento a criteri predeterminati, esso è certamente un modo di rappresentare la realtà, analogo alla descrizione o alla constatazione. Conseguentemente può dirsi falso l’enunciato valutativo che contraddica criteri indiscussi o indiscutibili e/o sia fondato su premesse contenenti false attestazioni.
Il predetto orientamento, peraltro, appare autorevolmente condiviso da una recente sentenza di queste Sezioni Unite (n. 51824 del 25/09/2014, Giudici, non mass. sul punto), che, a seguito della sentenza Corte cost. n. 163 del 2014, citando puntualmente la giurisprudenza sopra ricordata, afferma che “le norme positive ammettono talora la configurabilità del falso ideologico, anche in enunciati valutativi e qualificatori, come avviene, ad esempio, nell’art. 2529 cod. civ. (valutazione esagerata dei conferimenti e degli acquisti delle società)”, quando, si fa “riferimento a criteri predeterminati”. In tali casi, “anche in relazione ai giudizi di natura squisitamente tecnico-scientifica, può essere svolta una valutazione in termini di verità – falsità”.
Particolare rilievo assume la recente sentenza Sez. F., n. 39843 del 04/08/2015, Di Napoli, Rv. 264364, in tema di falso ideologico in atto pubblico e in particolare di provvedimenti urbanistici di tipo abilitativo e con riferimento alla omessa indicazione – da parte di funzionari e dirigenti comunali – della reale consistenza delle opere, della loro incidenza sulla realtà territoriale e della normativa correttamente applicabile nel caso concreto. La Corte opera, innanzitutto, una importante distinzione tra due ipotesi.
Nella prima, il pubblico ufficiale, chiamato ad esprimere un giudizio, è libero anche nella scelta dei criteri di valutazione;
nella seconda (che era poi quella, in materia urbanistica, in concreto sottoposta al vaglio dei giudici di legittimità), sussiste, viceversa, un riferimento (eventualmente anche implicito) a previsioni normative, le quali dettano criteri di valutazione. Nel primo caso, la attività di apprezzamento del pubblico ufficiale è assolutamente discrezionale e, conseguentemente, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di alcun fatto; nel secondo, viceversa, si è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati.
Ne deriva che l’atto potrà risultare falso se detto giudizio di conformità non sia rispondente ai parametri cui esso è (anche implicitamente) vincolato.
9.7. A ben vedere, insomma, l’atto valutativo comporta necessariamente un apprezzamento discrezionale del valutatore, ma si tratta – nel caso dei bilanci, non meno che in quello della materia urbanistica – di una discrezionalità tecnica.
Ebbene, le scienze contabilistiche appartengono senz’altro al novero delle scienze a ridotto margine di opinabilità; pertanto la “valutazione” dei fatti oggetto di falso investe la loro “materialità”. Ciò senza trascurare il fatto che gran parte dei parametri valutativi sono stabiliti per legge. Ne consegue che la redazione del bilancio è certamente attività sindacabile anche con riferimento al suo momento valutativo; e ciò appunto in quanto tali valutazioni non sono “libere”, ma vincolate normativamente e/o tecnicamente.
- Le varie fattispecie di false comunicazioni sociali integrano, ad evidenza, reati di pura condotta. Per esplicito dettato normativo, inoltre, tale condotta che dà luogo ad una attività falsificatoria del redattore del bilancio, deve riguardare fatti (materiali) rilevanti quali oggetto del comportamento commissivo ed omissivo dell’art. 2621c.c. (e, per richiamo, anche quella di cui all’art. 2621 bis), mentre, per quel che riguardale le false comunicazioni sociali delle società quotate (art. 2622), la rilevanza viene in rilievo solo per la condotta omissiva, essendo, viceversa, comunque sempre penalmente perseguibile – in tal caso – la condotta commissiva (anche se il “fatto” esposto non sia ritenuto “rilevante”, trattandosi, evidentemente, di una valutazione eseguita, in astratto, dal legislatore e non demandata al giudice).
10.1. Va dunque, per completezza, definito il concetto di “rilevanza” ai fini del falso in bilancio. Esso, come evidenziato, tra le altre, dalla sentenza Giovagnoli, ha la sua riconoscibile origine nella normativa comunitaria (art. 2 punto 16 Direttiva UE 2013/34/UE, relativa ai bilanci di esercizio, ai bilanci consolidati ed alle relative relazioni e tipologie di imprese, recepito con D.Lgs. 14 agosto 2015, n. 136), che definisce rilevante l’informazione “quando la sua omissione o errata indicazione potrebbe ragionevolmente influenzare le decisioni prese dagli utilizzatori, sulla base del bilancio dell’impresa”.
Il requisito risulta aver sostituito il previgente parametro della idoneità “ad indurre in errore i destinatari” (oltre alle soglie percentuali di punibilità) in relazione alla situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società. Ma, a ben vedere, la idoneità ad indurre in errore, altro non è che il riflesso soggettivo della rilevanza della alterazione (conseguente a una condotta commissiva od omissiva) dei dati di bilancio e si risolve nella efficacia decettiva o fuorviante dell’informazione omessa o falsa. Il falso insomma deve essere tale da alterare in misura apprezzabile il quadro d’insieme e deve avere la capacità di influire sulle determinazioni dei soci, dei creditori o del pubblico.
Da questo punto di vista, la rilevanza altro non è che la pericolosità conseguente alla falsificazione; il che suggella, se pur ce ne fosse bisogno, la natura, appunto di reato di pericolo (concreto) delle “nuove” false comunicazioni sociali.
10.2 Eliminato quindi ogni riferimento a soglie percentuali di rilevanza (chiaro indice di un criterio valutativo agganciato al dato quantitativo), la nuova normativa affida al giudice la valutazione – in concreto – della incidenza della falsa appostazione o della arbitraria preterizione della stessa; dovrà dunque il giudice operare una valutazione di causalità ex ante, vale a dire che dovrà valutare la potenzialità decettiva della informazione falsa contenuta nel bilancio e, in ultima analisi, dovrà esprimere un giudizio prognostico sulla idoneità degli artifizi e raggiri contenuti nel predetto documento contabile, nell’ottica di una potenziale induzione in errore in incertam personam. Tale rilevanza, proprio perchè non più ancorata a soglie numeriche predeterminate, ma apprezzata dal giudicante in relazione alle scelte che i destinatari dell’informazione (soci, creditori, potenziali investitori) potrebbero effettuare, connota la falsità di cui agli artt. 2621, 2621 bis 2622 c.c.. Essa, dunque, deve riguardare dati informativi essenziali, idonei a ingannare e a determinare scelte potenzialmente pregiudizievoli per i destinatari. Ed è ovvio, in base a ciò che si è premesso, che tale potenzialità ingannatoria ben può derivare, oltre che dalla esposizione in bilancio di un bene inesistente o dalla omissione di un bene esistente, dalla falsa valutazione di un bene che pure è presente nel patrimonio sociale.
L’alterazione di tali dati, per altro, non deve necessariamente incidere solo sul versante quantitativo, ben potendo anche il c.d.
“falso qualitativo” avere una attitudine ingannatoria e una efficacia fuorviante nei confronti del lettore del bilancio. Invero, la impropria appostazione di dati veri, l’impropria giustificazione causale di “voci”, pur reali ed esistenti, ben possono avere effetto decettivo (ad esempio: mostrando una situazione di liquidità fittizia) e quindi incidere negativamente su quel bene della trasparenza societaria, che si è visto costituire il fondamento della tutela penalistica del bilancio.
- Poichè poi il soggetto attivo (gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci, i liquidatori) deve avere agito “consapevolmente” ed “al fine di conseguire per sè o per altri un ingiusto profitto”, il delitto è connotato da dolo specifico.
- A conclusione delle argomentazioni sopra svolte, si deve – dunque affermare che, pur dopo le modifiche apportate dalla L. n. 69 del 2015, (anche) in tema di false comunicazioni sociali, il falso valutativo mantiene il suo rilievo penale. Precisamente deve essere enunciato il seguente principio di diritto:
“Sussiste il delitto di false comunicazioni sociali, con riguardo alla esposizione o alla omissione di fatti oggetto di valutazione, se, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, l’agente da tali criteri si discosti consapevolmente e senza darne adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni”.
- Tanto premesso, si può passare all’esame delle singole censure formulate nell’interesse dei ricorrenti.
- Manifestamente infondata è la prima censura del ricorso I.. Invero gli attuali imputati ( I. e P.) hanno tenuto una condotta processuale in aperta contraddizione con la richiesta formulata dai difensori del primo, i quali si lamentano del fatto che gli stessi non siano stati esaminati in dibattimento. I ricorrenti, invero, non si sono mai presentati in dibattimento innanzi ai loro giudici (nè in primo, nè in secondo grado), neanche per rendere spontanee dichiarazioni ai sensi dell’art. 494c.p.p..
Nè nei loro confronti avrebbe potuto essere disposto accompagnamento ai sensi dell’art. 132 del medesimo codice. Macchinosa (oltre che fantasiosa) è poi la procedura suggerita nel ricorso, in base alla quale i due avrebbero dovuto essere citati per rendere o negare il consenso al loro esame; esame richiesto – come si è appena anticipato – dai difensori dello stesso I.. Ma a tale richiesta è stata negata qualsiasi attualità dalla stessa condotta di I. (e del suo coimputato). E’ evidente, invero, che, per facta concludentia, tanto I., quanto P. hanno mostrato di non avere interesse ad essere esaminati in dibattimento.
14.1. Per altro, dalla lettura del suddetto primo motivo, si evince che i difensori di I. avrebbero voluto che fossero ascoltati tutti gli originari imputati (dunque tanto quello assolto con formula piena, quanto gli altri, nei cui confronti è stata dichiarata la prescrizione dei reati loro ascritti). La richiesta, si legge, fu formulata innanzi al giudice di primo grado in data 3 giugno 2010 ed accolta nella medesima data. Ad essa tuttavia il Tribunale non dette corso. Ma, a dire il vero, tale richiesta (di audizione di tutti gli originari imputati) non risulta riportata con i motivi di appello, ma solo “ripresa” in una “memoria riassuntiva della discussione orale” nel corpo della quale, per vero, non si chiariva l’incidenza sul decisum della omessa audizione. Peraltro singolare appare che solo in sede di discussione innanzi al giudice di appello ci si ricordi di richieste istruttorie formulate in primo grado. D’altro canto, neanche con il ricorso per cassazione viene chiarito quale sarebbe la rilevanza di tale (omesso) atto istruttorio, atteso che ci si limita a sostenere che “l’esame dei vari imputati avrebbe certamente addotto una serie di dati conoscitivi difficilmente ignorabili”. Dunque la decisività della prova richiesta e non raccolta non viene minimamente individuata e la censura – conseguentemente – appare affetta da palese genericità.
- La seconda e la terza censura del ricorso I., cui si ricollegano i “motivi nuovi”, sono infondate. Invero la Corte di appello ha ritenuto che lo stesso fosse amministratore di fatto della società fallita sulla base di plurimi e significativi indici.
- infatti: a) veniva individuato sul sito web ufficiale della società come Presidente di “L’Aquila Calcio”; b) veniva chiamato “presidente” da dipendenti ed atleti; c) aveva concluso un importante contratto di sponsorizzazione per la squadra di calcio; d) si occupava del pagamento degli stipendi; e) aveva aperto un conto corrente sui cui confluivano gli importi degli abbonamenti, importi che gestiva direttamente; f) aveva conferito un incarico ad un avvocato per conto della società; g) aveva certamente assunto personalmente il dott. B. quale medico della società calcistica (e poco conta che ciò abbia fatto nella prospettiva di divenire il dominus di “L’Aquila Calcio”, atteso che la proprietà va certamente tenuta distinta dall’amministrazione). A fronte di tale convergente quadro probatorio, il ricorso, per un verso, sostiene la non corretta lettura delle dichiarazioni della teste F., per l’altro, suggerisce una diversa lettura delle dichiarazioni degli altri testi (ma non del B.), per altro verso ancora, sostiene che gli elementi sopra elencati (da “a” a “g”) non avrebbero significato univoco. Orbene, è evidente che, mentre, da un lato, l’offerta di una diversa interpretazione del materiale probatorio (testi R., M. e Ia.) è improponibile in sede di giudizio di legittimità, dall’altro, appare metodologicamente erroneo l’approccio che si vorrebbe tenere nei confronti degli altri dati processuali; approccio certamente viziato da una impostazione “atomistica”, che non considera i singoli elementi (anche) nella loro globalità e non ne apprezza, quindi, per così dire, “la direzione” univoca. Correttamente, viceversa, hanno operato i giudici del merito, i quali hanno ritenuto – non illogicamente – che una tale significativa convergenza di dati non potesse avere altra spiegazione se non quella in base alla quale I., da un certo momento in poi, era divenuto gestore della società.
- Infondata è anche la quarta censura del ricorso del predetto.
Invero l’incidente probatorio altro non è che una “anticipazione” del momento dibattimentale. Esso dunque si svolge con i tempi, le modalità, le cadenze e le procedure del dibattimento, assicurando il contraddittorio tra le parti e mirando alla raccolta di vere e proprie prove. Tanto ciò è vero che gli atti che tale fase procedimentale riflettono confluiscono, ai sensi dell’art. 431 c.p.p., direttamente nel fascicolo del dibattimento. E’ allora evidente che l’assunzione della perizia in incidente probatorio deve avvenire con le modalità ex art. 392 c.p.p., comma 1, lett. f), art. 220 c.p.p. e ss., con la conseguenza che non vi è alcuna ragione di esaminare – nuovamente – il perito in dibattimento prima di acquisire il suo elaborato, il quale è già stato acquisito. Invero il predente giurisprudenziale segnalato dal ricorrente (Sez. 6, n. 40971 del 26/09/2008, Camber) non è affatto pertinente; va viceversa fatto riferimento a Sez. 4, 04/04/1997, Minestrina, Rv 207483, esattamente in termini, in base alla quale, in tema di incidente probatorio, quantunque l’art. 401 c.p.p., comma 5, richiami le forme di assunzione delle prove stabilite per il dibattimento, non può ritenersi applicabile l’art. 511 c.p.p., comma 3, all’udienza del procedimento incidentale probatorio. Ciò in quanto di “lettura di atti” ex art. 511 c.p.p., ha senso parlare solo per le attività svolte prima del giudizio, con riferimento a quelle formalità attraverso le quali gli atti medesimi proprio nel giudizio vengono immessi in contraddittorio tra le parti (nella fattispecie la Corte ha respinto l’assunto difensivo secondo cui è inutilizzabile la perizia raccolta in sede di incidente probatorio nel caso di mancato preliminare esame orale dei periti, giusta la disposizione dell’art. 511 c.p.p., comma 3).
- Conclusivamente il ricorso dello I. va rigettato, in quanto complessivamente infondato.
- Identica sorte va riservata ai ricorsi proposti nell’interesse del P..
18.1. Per quel che riguarda la censura formulata dal primo difensore (avv. Antonio Valentini), è il caso di ricordare che i fatti di distrazione, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, assumono rilevanza penale in qualsiasi momento essi siano stati commessi e quindi anche se la condotta si è realizzata quando ancora l’impresa non versava in condizioni di insolvenza. Non si richiede alcun nesso (causale o psichico) tra la condotta dell’autore e il dissesto dell’impresa, essendo sufficiente che l’agente abbia cagionato il depauperamento dell’impresa destinandone le risorse ad impieghi estranei alla sua attività (tra le più recenti: Sez. 5, n. 47616 del 17/07/2014, Simone, Rv 261683). La condotta, in altre parole, si perfeziona con la distrazione, mentre la punibilità della stessa è subordinata alla dichiarazione di fallimento, che, ovviamente, consistendo in una pronunzia giudiziaria, si pone come evento successivo (in caso, appunto, di bancarotta distrattiva prefallimentare) e comunque esterno alla condotta stessa.
18.2. Quanto all’elemento psicologico della bancarotta distrattiva esso consiste nel dolo generico per la cui sussistenza non è necessaria la consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, nè lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, essendo sufficiente la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte (tra le tante: Sez. 5, n. 52077 del 04/11/2014, Lelli, Rv 261348).
18.3. Per quel che attiene alla bancarotta documentale, non sono state proposte, con il ricorso per cassazione, specifiche censure.
- Quanto alla censura formulata dal secondo difensore del P. (avv. Fabrizio Giancarli), essa è, a sua volta, infondata. La revoca della elezione di domicilio presso il difensore, avvenuta, secondo quel che si legge nel ricorso, dopo la sentenza di primo grado e prima della citazione in appello, ha determinato che detta citazione fosse effettuata (come le precedenti) presso il predetto difensore. Non si sostiene tuttavia che, in presenza di una notificazione non omessa, ma effettuata con modalità difformi da quelle previste, il P. non abbia avuto cognizione dell’atto, ed è noto che la nullità assoluta e insanabile prevista dall’art. 179c.p.p., ricorre soltanto nel caso in cui la notificazione della citazione sia stata omessa o quando, essendo stata eseguita in forme diverse da quelle prescritte, risulti inidonea a determinare la conoscenza effettiva dell’atto da parte dell’imputato; la medesima nullità non ricorre invece nei casi in cui vi sia stata esclusivamente la violazione delle regole sulle modalità di esecuzione, alla quale consegue la applicabilità della sanatoria di cui all’art. 184cod. proc. pen. (Sez. U, n. 119 del 27/10/2004, dep. 2005, Palumbo, Rv 229539, 229541).
Nel caso in esame, dalla lettura del processo verbale di dibattimento in appello, si rileva che il difensore di fiducia presente (l’avv. Antonio Valentini, anche in sostituzione dell’avv. Fabrizio Giancarli) nulla fece rilevare circa la pretesa irregolarità della notifica della citazione, nè rappresentò che il suo assistito non avesse avuto cognizione della stessa.
- Consegue al rigetto dei ricorsi di I. e P. la condanna di ciascuno di essi al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 31 marzo 2016.
Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2016
In tema di bancarotta fraudolenta documentale, l’occultamento delle scritture contabili, per la cui sussistenza è necessario il dolo specifico di recare pregiudizio ai creditori, consistendo nella fisica sottrazione delle stesse alla disponibilità degli organi fallimentari, anche sotto forma della loro omessa tenuta, costituisce una fattispecie autonoma ed alternativa – in seno all’art. 216, comma 1, lett. b), l. fall.
Cassazione penale sez. V, 08/10/2020, n.33114
In tema di bancarotta fraudolenta documentale, l’occultamento delle scritture contabili, per la cui sussistenza è necessario il dolo specifico di recare pregiudizio ai creditori, consistendo nella fisica sottrazione delle stesse alla disponibilità degli organi fallimentari, anche sotto forma della loro omessa tenuta, costituisce una fattispecie autonoma ed alternativa – in seno all’art. 216, comma 1, lett. b), l. fall. – rispetto alla fraudolenta tenuta di tali scritture, in quanto quest’ultima integra un’ipotesi di reato a dolo generico, che presuppone un accertamento condotto su libri contabili effettivamente rinvenuti ed esaminati dai predetti organi. (Nella specie, la Corte ha ritenuto corretta l’individuazione della prova del dolo specifico sufficiente ad integrare la condotta di occultamento nell’approvazione, da parte del liquidatore della società, di due bilanci successivi senza avere la disponibilità delle scritture contabili).
l’occultamento delle scritture contabili, per la cui sussistenza è necessario il dolo specifico di recare pregiudizio ai creditori, consistendo nella fisica sottrazione delle stesse alla disponibilità degli organi fallimentari, anche sotto forma della loro omessa tenuta, costituisce una fattispecie autonoma ed alternativa – in seno all’art. 216, comma 1, n. 2), l. fall. – rispetto alla fraudolenta tenuta di tali scritture che, invece, integra un’ipotesi di reato a dolo generico e presuppone un accertamento condotto su libri contabili effettivamente rinvenuti ed esaminati dai predetti organi. (Nella specie, la Corte ha annullato con rinvio la sentenza che, a fronte della contestazione di un’ipotesi di sottrazione o distruzione della contabilità, aveva affermato la responsabilità dell’imputato per la diversa ipotesi di concorso nell’omessa regolare tenuta delle scritture contabili, dando peraltro atto nella motivazione dell’assenza della prova di una «sia pur parziale tenuta delle scritture contabili») .
Cassazione penale sez. V, 01/02/2017, n.18634
In tema di bancarotta fraudolenta documentale, l’occultamento delle scritture contabili, per la cui sussistenza è necessario il dolo specifico di recare pregiudizio ai creditori, consistendo nella fisica sottrazione delle stesse alla disponibilità degli organi fallimentari, anche sotto forma della loro omessa tenuta, costituisce una fattispecie autonoma ed alternativa – in seno all’art. 216, comma primo, lett. b), l. fall. – rispetto alla fraudolenta tenuta di tali scritture, in quanto quest’ultima integra un’ipotesi di reato a dolo generico, che presuppone un accertamento condotto su libri contabili effettivamente rinvenuti ed esaminati dai predetti organi. (Nella specie, la Corte ha censurato la sentenza impugnata che, a fronte di una contestazione di occultamento “ovvero” di irregolare tenuta delle scritture contabili, pur ritenendo consumato il primo, ne aveva motivato la sussistenza attraverso una “fusione” con la seconda, trasformandola in evento della condotta di occultamento e sostituendo il dolo generico sufficiente ad integrare la stessa a quello specifico necessario per l’occultamento).
Cassazione penale sez. V, 30/11/2020, n.36870
In tema di bancarotta fraudolenta documentale, l’imprenditore non è esente da responsabilità per il fatto che la contabilità sia stata affidata a soggetti forniti di specifiche cognizioni tecniche, in quanto, non essendo egli esonerato dall’obbligo di vigilare e controllare le attività svolte dai delegati, sussiste una presunzione semplice, superabile solo con una rigorosa prova contraria, che i dati siano stati trascritti secondo le indicazioni fornite dal titolare dell’impresa.
Cassazione penale sez. V, 05/02/2021, n.11420
In tema di reati fallimentari, l’articolo 216, comma 1, numero 2, della legge Fallimentare configura due diverse, alternative ipotesi di bancarotta fraudolenta documentale. La prima consiste nella sottrazione o distruzione (cui è parificata l’omessa tenuta) dei libri e delle altre scritture contabili, che richiede il dolo specifico di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori. La seconda è quella di tenuta della contabilità in modo da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari, che, diversamente dalla prima ipotesi, presuppone un accertamento condotto sui libri contabili effettivamente rinvenuti ed esaminati dagli organi fallimentari e richiede il dolo generico. Trattandosi di ipotesi alternative, qualora venga contestata la fisica sottrazione delle scritture contabili alla disponibilità degli organi fallimentari (anche eventualmente nella forma della loro omessa tenuta), non può essere addebitata all’agente anche la fraudolenta tenuta delle medesime, giacché tale ultima ipotesi presuppone un accertamento condotto su libri contabili effettivamente rinvenuti ed esaminati dagli stessi organi fallimentari.
Cassazione penale sez. V, 25/01/2021, n.13059
In tema di bancarotta documentale, qualora sia assente o insufficiente l’accertamento in ordine allo scopo eventualmente propostosi dall’agente ed in ordine alla oggettiva finalizzazione di tale carenza, la mera mancanza dei libri e delle scritture contabili deve essere ricondotta alla ipotesi criminosa della bancarotta semplice.
Cassazione penale sez. V, 19/01/2021, n.8902
È ammissibile la contestazione alternativa dei delitti di bancarotta fraudolenta documentale per sottrazione, distruzione o occultamento di scritture contabili, per la cui sussistenza è necessario il dolo specifico di recare pregiudizio ai creditori, e di fraudolenta tenuta delle stesse, che integra una ipotesi di reato a dolo generico, non determinando tale modalità alcun vizio di indeterminatezza dell’imputazione.
Cass. pen. n. 29586/2014
In tema di bancarotta fraudolenta fallimentare, le operazioni dolose di cui all’art. 223, comma secondo n. 2, l. fall., possono consistere nel compimento di qualunque atto intrinsecamente pericoloso per la salute economica e finanziaria della impresa e, quindi, anche in una condotta omissiva produttiva di un depauperamento non giustificabile in termini di interesse per l’impresa. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la decisione impugnata che aveva qualificato come operazione dolosa il mancato versamento dei contributi previdenziali con carattere di sistematicità).
(Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 29586 del 7 luglio 2014)
Cass. pen. n. 24051/2014
I reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale (artt. 216 e 223, comma primo, L.F.) e quello di bancarotta impropria di cui all’ art. 223 comma secondo, n. 2, L.F. hanno ambiti diversi: il primo postula il compimento di atti di distrazione o dissipazione di beni societari ovvero di occultamento, distruzione o tenuta di libri e scritture contabili in modo da non consentire la ricostruzione delle vicende societarie, atti tali da creare pericolo per le ragioni creditorie, a prescindere dalla circostanza che abbiano prodotto il fallimento, essendo sufficiente che questo sia effettivamente intervenuto; il secondo concerne, invece, condotte dolose che non costituiscono distrazione o dissipazione di attività – né si risolvono in un pregiudizio per le verifiche concernenti il patrimonio sociale da operarsi tramite le scritture contabili – ma che devono porsi in nesso eziologico con il fallimento. Ne consegue che, in relazione ai suddetti reati, mentre è da escludere il concorso formale è, invece, possibile il concorso materiale qualora, oltre ad azioni ricomprese nello specifico schema della bancarotta ex art. 216 L.F., si siano verificati differenti ed autonomi comportamenti dolosi i quali – concretandosi in abuso o infedeltà nell’esercizio della carica ricoperta o in un atto intrinsecamente pericoloso per l’andamento economico finanziario della società – siano stati causa del fallimento.
(Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 24051 del 9 giugno 2014)
Cass. pen. n. 45672/2015
In tema di bancarotta fraudolenta impropria, nell’ipotesi di fallimento causato da operazioni dolose non determinanti un immediato depauperamento della società, la condotta di reato è configurabile quando la realizzazione di tali operazioni si accompagni, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, alla prevedibilità del dissesto come effetto della condotta antidoverosa.
(Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 45672 del 17 novembre 2015)
Cass. pen. n. 33774/2015
In tema di bancarotta fraudolenta impropria “da reato societario”, di cui all’art. 223, secondo comma, n. 1, R.D. 16 marzo 1942 n. 267, la nuova formulazione degli artt. 2621 e 2622 cod. civ., introdotta dalla L. 27 maggio 2015, n. 69, ha determinato – eliminando l’inciso “ancorchè oggetto di valutazioni”, ed inserendo il riferimento, quale oggetto anche della condotta omissiva, ai “fatti materiali non rispondenti al vero” – una successione di leggi con effetto abrogativo, peraltro limitato alle condotte di errata valutazione di una realtà effettivamente sussistente. (In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto escluse dall’effetto parzialmente abrogativo l’esposizione di crediti inesistenti perché originati da contratti fittizi, l’esposizione di crediti concernenti i ricavi di competenza dell’esercizio successivo, l’esposizione di crediti relativi ad una fattura emessa per operazioni inesistenti).
(Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 33774 del 30 luglio 2015)
Cass. pen. n. 18775/2015
È legittima la revoca del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente qualora il reato di infedeltà patrimoniale (art. 2634), originariamente contestato all’imputato, sia assorbito dal delitto di bancarotta fraudolenta impropria c.d. societaria, per il quale non è prevista la confisca per equivalente, né può essergli, comunque, estesa in via interpretativa, in ragione del principio di tassatività e del divieto di analogia in “malam partem”.
(Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 18775 del 6 maggio 2015)
Cass. pen. n. 15613/2015
In tema di reati fallimentari, la proroga di un finanziamento a condizioni onerose, in luogo della restituzione della somma maturata, può integrare un’operazione dolosa di cui all’art. 223, comma secondo n. 2, l. fall. rimproverabile ai gestori della società debitrice che ne abbiano fatto richiesta; tuttavia, affinché possa addebitarsene la responsabilità anche al creditore, non è sufficiente la mera decisione di concedere la proroga ovvero di pretendere condizioni più gravose piuttosto che richiedere l’immediato rientro ovvero il fallimento, e ciò anche quando questi è consapevole dello stato di dissesto del debitore, ma è, invece, necessario che il comportamento del creditore presenti, in forma diversa ed ulteriore, i caratteri del contributo causale alla consumazione del reato, come quando vi sia una istigazione, nella consapevolezza dell’impatto della proroga sull’equilibrio economico dell’impresa, a porre in essere l’operazione ritenuta illecita . (Fattispecie in cui la Corte ha annullato con rinvio la sentenza impugnata per non avere il giudice di merito identificato il contributo causale prestato dal creditore in una operazione di differimento della restituzione di un prestito che il debitore aveva precedentemente veicolato, su indicazione del primo, a società già in stato di decozione e che era stato frazionato in quattro autonome linee di debito con scadenze progressive e con tassi differenziati e crescenti).
(Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 15613 del 15 aprile 2015)
Cass. pen. n. 17408/2014
In tema di bancarotta fraudolenta, le operazioni dolose di cui all’art 223, comma secondo n. 2, l. fall., attengono alla commissione di abusi di gestione o di infedeltà ai doveri imposti dalla legge all’organo amministrativo nell’esercizio della carica ricoperta, ovvero ad atti intrinsecamente pericolosi per la “salute” economico-finanziaria della impresa e postulano una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all’esito divisato.
(Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 17408 del 18 aprile 2014)
Cass. pen. n. 12426/2014
In tema di bancarotta fraudolenta fallimentare, le operazioni dolose di cui all’art. 223, comma secondo n. 2, l. fall., possono consistere nel compimento di qualunque atto intrinsecamente pericoloso per la salute economica e finanziaria della impresa individuabile e, quindi, anche in una condotta omissiva produttiva di un depauperamento non giustificabile in termini di interesse per l’impresa. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la decisione impugnata che aveva considerato qualificabile come operazione dolosa a norma dell’art. 223, secondo comma, n. 2 l. fall., il mancato versamento dei contributi previdenziali con carattere di sistematicità).
(Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 12426 del 17 marzo 2014)
Cass. pen. n. 11624/2012
In tema di bancarotta fraudolenta impropria, nell’ipotesi del fallimento cagionato per effetto di operazioni dolose, il concorso dell'”extraneus” istigatore e beneficiario delle operazioni è configurabile qualora questi risulti consapevole del rischio che le suddette operazioni determinano per le ragioni dei creditori della società, non essendo invece necessario che egli abbia voluto causare un danno ai creditori medesimi.
(Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 11624 del 26 marzo 2012)
Cass. pen. n. 17978/2010
Il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale (artt. 216 e 223, comma primo, L.F.) e quello di bancarotta impropria (art. 223 comma secondo, n. 2), concernono ambiti diversi: il primo postula il compimento di atti di distrazione o dissipazione di beni societari ovvero di occultamento, distruzione o tenuta di libri e scritture contabili in modo da non consentire la ricostruzione delle vicende societarie, atti tali da creare pericolo per le ragioni creditorie, a prescindere dalla circostanza che abbiano prodotto il fallimento, essendo sufficiente che questo sia effettivamente intervenuto; il secondo concerne, invece, condotte dolose che non costituiscono distrazione o dissipazione di attività né si risolvono in un pregiudizio per le verifiche concernenti il patrimonio sociale da operarsi tramite le scritture contabili, ma che devono porsi in nesso eziologico con il fallimento. Ne consegue che, in relazione ai suddetti reati, mentre è da escludere il concorso formale è, invece, possibile il concorso materiale qualora, oltre ad azioni ricomprese nello specifico schema della bancarotta ex art. 216 L.F., si siano verificati differenti ed autonomi comportamenti dolosi i quali – concretandosi in abuso o infedeltà nell’esercizio della carica ricoperta o in un atto intrinsecamente pericoloso per l’andamento economico finanziario della società – siano stati causa del fallimento.
(Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 17978 del 11 maggio 2010)
Cass. pen. n. 17690/2010
In tema di fallimento determinato da operazioni dolose, che si sostanzia in un’eccezionale ipotesi di fattispecie a sfondo preterintenzionale, l’onere probatorio dell’accusa si esaurisce nella dimostrazione della consapevolezza e volontà della natura “dolosa” dell’operazione alla quale segue il dissesto, nonché dell’astratta prevedibilità di tale evento quale effetto dell’azione antidoverosa, non essendo necessarie, ai fini dell’integrazione dell’elemento soggettivo, la rappresentazione e la volontà dell’evento fallimentare. (In motivazione, la S.C. ha precisato che per la configurabilità del reato è necessaria la rappresentazione dell’azione nei suoi elementi naturalistici e nel suo contrasto con i doveri propri del soggetto societario a fronte degli interessi della società).
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In tema di fallimento determinato da operazioni dolose, non interrompono il nesso di causalità tra l’operazione dolosa e l’evento fallimentare né la preesistenza alla condotta di una causa in sé efficiente verso il dissesto, valendo la disciplina del concorso causale di cui all’art. 41 c.p., né l’aggravamento di un dissesto già in atto.
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La fattispecie di fallimento determinato da operazioni dolose si distingue dalle ipotesi generali di bancarotta fraudolenta patrimoniale, di cui al combinato disposto degli artt. 223, comma primo, e 216, comma primo, n. 1), l. fall., in quanto la nozione di “operazione” postula una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all’esito divisato.
(Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 17690 del 7 maggio 2010)
Cass. pen. n. 15360/2010
Ai fini dell’adozione di una misura cautelare personale nei confronti del sindaco di una società per il reato di bancarotta fraudolenta, la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza non può essere desunta solo dalla sua posizione di garanzia e dal mancato esercizio dei relativi doveri di controllo, ma postula l’esistenza di elementi, dotati del necessario spessore indiziario, sintomatici della partecipazione, in qualsiasi modo, del sindaco stesso all’attività dell’amministratore ovvero dell’effettiva incidenza causale dell’omesso esercizio dei doveri di controllo rispetto alla commissione del reato da parte dell’amministratore.
(Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 15360 del 21 aprile 2010)
Cass. pen. n. 11938/2010
In tema di bancarotta fraudolenta, l’amministratore in carica risponde penalmente dei reati commessi dall’amministratore di fatto, dal punto di vista oggettivo ai sensi dell’art. 40, comma secondo, cod. pen., per non avere impedito l’evento che aveva l’obbligo giuridico (art. 2392 cod. civ.) di impedire, e, dal punto di vista soggettivo, se sia raggiunta la prova che egli aveva la generica consapevolezza che l’amministratore effettivo distraeva, occultava, dissimulava, distruggeva o dissipava i beni sociali, esponeva o riconosceva passività inesistenti. (Nella specie la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di merito ha ampiamente argomentato in ordine all’effettiva consapevolezza da parte degli amministratori di diritto delle condotte dell’imputato, desumendone la prova dagli stessi verbali del consiglio di amministrazione).
(Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 11938 del 26 marzo 2010)
Cass. pen. n. 32164/2009
Il delitto di bancarotta fraudolenta impropria (art. 223, comma secondo, n. 1 L.fall.) è strutturato come reato complesso, rispetto al quale un reato societario tra quelli espressamente previsti dal legislatore ed assunto come elemento costitutivo deve essere causa o concausa del dissesto societario; tuttavia, il momento consumativo del reato è da individuarsi nella dichiarazione di fallimento, che fissa anche il “dies a quo” da cui decorre la prescrizione.
(Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 32164 del 6 agosto 2009)
Cass. pen. n. 9736/2009
La responsabilità del mero consigliere d’amministrazione di società per fatti di bancarotta fraudolenta, materialmente posti in essere dal presidente, presuppone la rappresentazione dell’evento, nella sua portata illecita, desunta da segnali perspicui e peculiari, e la volontaria omissione nell’impedirlo, sì che possa affermarsi che egli abbia quanto meno accettato il rischio di verificazione dello stesso.
(Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 9736 del 3 marzo 2009)
Cass. pen. n. 1694/2009
In tema di bancarotta fraudolenta societaria, la nuova formulazione dell’art. 223, comma secondo, L. fall., introdotta dall’art. 4 D.L.vo n. 61 del 2002 che richiede il nesso di causalità tra l’operato dell’amministratore e il fallimento della società non riguarda l’art. 223, comma primo, L. fall. che, ai fini della condotta incriminata, fa riferimento al disposto di cui all’art. 216 L. fall., il quale prescinde da qualsiasi nesso eziologico in rapporto al fallimento.
(Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 1694 del 16 gennaio 2009)
Cass. pen. n. 7203/2008
L’amministratore «di fatto» in base alla disciplina dettata dal novellato art. 2639 c.c., è da ritenere gravato dell’intera gamma dei doveri cui è soggetto l’amministratore «di diritto» per cui, ove concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, egli assume la penale responsabilità per tutti i comportamenti penalmente rilevanti a lui addebitabili, anche nel caso di colpevole e consapevole inerzia a fronte di tali comportamenti, in applicazione della regola dettata dall’art. 40, comma secondo, c.p. (principio affermato, nella specie, con riguardo ad ipotesi di bancarotta per distrazione).
(Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 7203 del 14 febbraio 2008)
Cass. pen. n. 3942/2008
In tema di bancarotta fraudolenta dell’amministratore di fatto della società, poiché il fallimento non deve necessariamente e intenzionalmente essere voluto quale conseguenza della condotta, non sussiste contrasto logico tra compimento di operazioni dolose (nella specie emissione di fatture per operazioni inesistenti e false comunicazioni sociali), per effetto delle quali sia stato cagionato il fallimento e interesse alla società poi fallita, stante la diversità concettuale tra l’elemento psicologico delle predette operazioni e il rapporto causale con il fallimento stesso, ben potendo coesistere la mera consapevolezza di quest’ultimo quale possibile esito (anche) della propria condotta, e quindi l’assunzione del relativo rischio, con un soggettivo interesse ad esiti meno infausti.
(Cassazione penale, Sez. I, sentenza n. 3942 del 24 gennaio 2008)
Cass. pen. n. 46962/2007
In tema di reati fallimentari, la previsione di cui all’art. 2639 c.c. — nel testo modificato dal D.L.vo n. 61 del 2002 — non esclude che l’esercizio dei poteri o delle funzioni dell’amministratore di fatto possa verificarsi in concomitanza con l’esplicazione dell’attività di altri soggetti di diritto, i quali — in tempi successivi o anche contemporaneamente — esercitino in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione.
(Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 46962 del 18 dicembre 2007)
Cassazione penale sez. III, 20/10/2020, n.6164
Concorre, in qualità di concorso dell’extraneus, nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale, il consulente che – consapevole dei propositi distrattivi dell’imprenditore o dell’amministratore di una società in dissesto – fornisca a questi consigli o suggerimenti sui mezzi giuridici idonei a sottrarre i beni ai creditori o lo assista nella conclusione dei relativi negozi, ovvero ancora svolga un’attività diretta a garantire l’impunità o a rafforzare, con il proprio ausilio e con le proprie preventive assicurazioni, l’altrui progetto delittuoso.
Cassazione penale sez. V, 08/10/2020, n.33114
In tema di bancarotta fraudolenta documentale, l’occultamento delle scritture contabili, per la cui sussistenza è necessario il dolo specifico di recare pregiudizio ai creditori, consistendo nella fisica sottrazione delle stesse alla disponibilità degli organi fallimentari, anche sotto forma della loro omessa tenuta, costituisce una fattispecie autonoma ed alternativa – in seno all’art. 216, comma 1, lett. b), l. fall. – rispetto alla fraudolenta tenuta di tali scritture, in quanto quest’ultima integra un’ipotesi di reato a dolo generico, che presuppone un accertamento condotto su libri contabili effettivamente rinvenuti ed esaminati dai predetti organi. (Nella specie, la Corte ha ritenuto corretta l’individuazione della prova del dolo specifico sufficiente ad integrare la condotta di occultamento nell’approvazione, da parte del liquidatore della società, di due bilanci successivi senza avere la disponibilità delle scritture contabili).
Cassazione penale sez. V, 08/02/2021, n.18677
Concorre in qualità di “extraneus” nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale, il legale o il consulente contabile che, consapevole dei propositi distrattivi dell’imprenditore o dell’amministratore di una società in dissesto, fornisca a questi consigli o suggerimenti sui mezzi giuridici idonei a sottrarre i beni ai creditori o li assista nella conclusione dei relativi negozi, ovvero svolga un’attività diretta a garantire l’impunità o a rafforzare, con il proprio ausilio e con le proprie preventive assicurazioni, l’altrui progetto delittuoso. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto esente da censure la sentenza che aveva affermato la responsabilità dell’imputato che, quale consulente di una società, era stato l’ideatore di complesse operazioni di fusione per incorporazione finalizzate alla dismissione del patrimonio della fallita, predisponendo il contenuto degli atti negoziali e gestendo la definizione dei relativi rapporti economici).
Legge 27 maggio 2015, n. 69
Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio
(G.U. 30 maggio 2015, n. 124)
Capo I – Disposizioni in materia di delitti contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso, nonché ulteriori modifiche al codice di procedura penale, alle relative norme di attuazione e alla legge 6 novembre 2012, n. 190.
Art. 1. Modifiche alla disciplina sanzionatoria in materia di delitti contro la pubblica amministrazione
1. Al codice penale sono apportate le seguenti modificazioni:
1) al primo comma, le parole: «da quattro a dieci anni» sono sostituite dalle seguenti: «da sei a dodici anni»;
2) al secondo comma, le parole: «da cinque a dodici anni» sono sostituite dalle seguenti: «da sei a quattordici anni» e le parole: «da sei a venti anni» sono sostituite dalle seguenti: «da otto a venti anni»;h) all’articolo 319-quater, primo comma, le parole: «da tre a otto anni» sono sostituite dalle seguenti: «da sei anni a dieci anni e sei mesi»;
i) all’articolo 323-bis:1) è aggiunto, in fine, il seguente comma:
«Per i delitti previsti dagli articoli 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322 e 322-bis, per chi si sia efficacemente adoperato per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati e per l’individuazione degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite, la pena è diminuita da un terzo a due terzi»;
2) la rubrica è sostituita dalla seguente: «Circostanze attenuanti».
Art.2. Modifica all’articolo 165 del codice penale, in materia di sospensione condizionale della pena
1. Dopo il terzo comma dell’articolo 165 del codice penale è inserito il seguente:
«Nei casi di condanna per i reati previsti dagli articoli 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320 e 322-bis, la sospensione condizionale della pena è comunque subordinata al pagamento di una somma equivalente al profitto del reato ovvero all’ammontare di quanto indebitamente percepito dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio, a titolo di riparazione pecunaria in favore dell’amministrazione lesa dalla condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, ovvero, nel caso di cui all’articolo 319-ter, in favore dell’amministrazione della giustizia, fermo restando il diritto all’ulteriore eventuale risarcimento del danno».
Art 3. Modifica dell’articolo 317 del codice penale, in materia di concussione
1. L’articolo 317 del codice penale è sostituito dal seguente:
«Art. 317 (Concussione)
Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità, è punito con la reclusione da sei a dodici anni».
Art. 4. Introduzione dell’articolo 322-quater del codice penale, in materia di riparazione pecuniaria
1. Dopo l’articolo 322-ter del codice penale è inserito il seguente:
«Art. 322-quater (Riparazione pecuniaria)
Con la sentenza di condanna per i reati previsti dagli articoli 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320 e 322-bis, è sempre ordinato il pagamento di una somma pari all’ammontare di quanto indebitamente ricevuto dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio a titolo di riparazione pecuniaria in favore dell’amministrazione cui il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio appartiene, ovvero, nel caso di cui all’articolo 319-ter, in favore dell’amministrazione della giustizia, restando impregiudicato il diritto al risarcimento del danno».
Art. 5. Associazioni di tipo mafioso, anche straniere
1. All’articolo 416-bis del codice penale sono apportate le seguenti modificazioni:
a) al primo comma, le parole: «da sette a dodici anni» sono sostituite dalle seguenti: «da dieci a quindici anni»;
b) al secondo comma, le parole: «da nove a quattordici anni» sono sostituite dalle seguenti: «da dodici a diciotto anni»;
c) al quarto comma, le parole: «da nove a quindici anni» sono sostituite dalle seguenti: «da dodici a venti anni» e le parole: «da dodici a ventiquattro anni» sono sostituite dalle seguenti: «da quindici a ventisei anni».
Art. 6. Integrazione dell’articolo 444 del codice di procedura penale, in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti
1. All’articolo 444 del codice di procedura penale, dopo il comma 1-bis è inserito il seguente:
«1-ter. Nei procedimenti per i delitti previsti dagli articoli 314, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater e 322-bis del codice penale, l’ammissibilità della richiesta di cui al comma 1 è subordinata alla restituzione integrale del prezzo o del profitto del reato».
Art. 7. Informazione sull’esercizio dell’azione penale per i fatti di corruzione
1. All’articolo 129, comma 3, delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Quando esercita l’azione penale per i delitti di cui agli articoli 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322, 322-bis, 346-bis, 353 e 353-bis del codice penale, il pubblico ministero informa il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, dando notizia dell’imputazione».
Art. 8. Modifiche alla legge 6 novembre 2012, n. 190
1. All’articolo 1, comma 2, della legge 6 novembre 2012, n. 190, dopo la lettera f) è inserita la seguente:
«f-bis) esercita la vigilanza e il controllo sui contratti di cui agli articoli 17 e seguenti del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163».
2. All’articolo 1, comma 32, della legge 6 novembre 2012, n. 190, dopo il primo periodo è inserito il seguente: «Le stazioni appaltanti sono tenute altresì a trasmettere le predette informazioni ogni semestre alla commissione di cui al comma 2».
3. All’articolo 1 della legge 6 novembre 2012, n. 190, dopo il comma 32 è inserito il seguente:
«32-bis. Nelle controversie concernenti le materie di cui al comma 1, lettera e), dell’articolo 133 del codice di cui all’allegato 1 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, il giudice amministrativo trasmette alla commissione ogni informazione o notizia rilevante emersa nel corso del giudizio che, anche in esito a una sommaria valutazione, ponga in evidenza condotte o atti contrastanti con le regole della trasparenza».
Capo II – Disposizioni penali in materia di società e consorzi
Art. 9. Modifica dell’articolo 2621 del codice civile
1. L’articolo 2621 del codice civile è sostituito dal seguente:
«Art. 2621 (False comunicazioni sociali)
Fuori dai casi previsti dall’art. 2622, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, i quali, al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico, previste dalla legge, consapevolmente espongono fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero ovvero omettono fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore, sono puniti con la pena della reclusione da uno a cinque anni.
La stessa pena si applica anche se le falsità o le omissioni riguardano beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi».
Art. 10. Introduzione degli articoli 2621-bis e 2621-ter del codice civile
1. Dopo l’articolo 2621 del codice civile sono inseriti i seguenti:
«Art. 2621-bis (Fatti di lieve entità)
Salvo che costituiscano più grave reato, si applica la pena da sei mesi a tre anni di reclusione se i fatti di cui all’articolo 2621 sono di lieve entità, tenuto conto della natura e delle dimensioni della società e delle modalità o degli effetti della condotta.
Salvo che costituiscano più grave reato, si applica la stessa pena di cui al comma precedente quando i fatti di cui all’articolo 2621 riguardano società che non superano i limiti indicati dal secondo comma dell’articolo 1 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267. In tale caso, il delitto è procedibile a querela della società, dei soci, dei creditori o degli altri destinatari della comunicazione sociale.
Art. 2621-ter (Non punibilità per particolare tenuità)
Ai fini della non punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’articolo 131-bis del codice penale, il giudice valuta, in modo prevalente, l’entità dell’eventuale danno cagionato alla società, ai soci o ai creditori conseguente ai fatti di cui agli articoli 2621 e 2621-bis».
Art. 11. Modifica dell’articolo 2622 del codice civile
1. L’articolo 2622 del codice civile è sostituito dal seguente:
«Art. 2622 (False comunicazioni sociali delle società quotate)
Gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori di società emittenti strumenti finanziari ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato italiano o di altro Paese dell’Unione europea, i quali, al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico consapevolmente espongono fatti materiali non rispondenti al vero ovvero omettono fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore, sono puniti con la pena della reclusione da tre a otto anni».
Alle società indicate nel comma precedente sono equiparate:
1) le società emittenti strumenti finanziari per i quali è stata presentata una richiesta di ammissione alla negoziazione in un mercato regolamentato italiano o di altro Paese dell’Unione europea;
2) le società emittenti strumenti finanziari ammessi alla negoziazione in un sistema multilaterale di negoziazione italiano;
3) le società che controllano società emittenti strumenti finanziari ammessi alla negoziazione in un mercato regolamentato italiano o di altro Paese dell’Unione europea;
4) le società che fanno appello al pubblico risparmio o che comunque lo gestiscono.
Le disposizioni di cui ai commi precedenti si applicano anche se le falsità o le omissioni riguardano beni posseduti o amministrati dalla società per conto di terzi».
Art. 12. Modifiche alle disposizioni sulla responsabilità amministrativa degli enti in relazione ai reati societari
1. All’articolo 25-ter, comma 1, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) l’alinea è sostituito dal seguente: «In relazione ai reati in materia societaria previsti dal codice civile, si applicano all’ente le seguenti sanzioni pecuniarie:»;
b) la lettera a) è sostituita dalla seguente: «a) per il delitto di false comunicazioni sociali previsto dall’articolo 2621 del codice civile, la sanzione pecuniaria da duecento a quattrocento quote»;
c) dopo la lettera a) è inserita la seguente: «a-bis) per il delitto di false comunicazioni sociali previsto dall’articolo 2621-bis del codice civile, la sanzione pecuniaria da cento a duecento quote»;
d) la lettera b) è sostituita dalla seguente: «b) per il delitto di false comunicazioni sociali previsto dall’articolo 2622 del codice civile, la sanzione pecuniaria da quattrocento a seicento quote»;
e) la lettera c) è abrogata.
La presente legge, munita del sigillo dello Stato, sarà inserita nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. E’ fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.
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Originally posted 2021-08-16 15:56:46.