PENALE MILITARE AVVOCATO ESPERTO: INSUBORDINAZIONE REATO
reato di insubordinazione con ingiuria continuata e aggravata (art. 189 c.p.m.p., comma 2 e art. 47 c.p.m.p., n. 2),
reato di disobbedienza aggravata (art. 173 c.p.m.p., art. 47 c.p.m.p., n. 2),
CASSAZIONE ANNULLA CONDANNA
Non è, dunque, in discussione che, nel reato militare di insubordinazione con ingiuria, integra l’offesa all’onore e al prestigio ogni atto o parola di disprezzo verso il superiore nonchè l’uso di tono arrogante, perchè si tratta di comportamenti contrari alle esigenze della disciplina militare per la quale il soggetto di grado più elevato deve essere tutelato, non solo nell’espressione della sua personalità umana, ma anche nell’ascendente morale di cui ha bisogno per un degno esercizio dell’autorità del grado e della funzione di comando, dovendo considerarsi che la fattispecie di insubordinazione di cui all’art. 189 c.p.m.p. tutela non solo la dignità e l’onore del superiore, ma l’integrità e l’effettività del rapporto gerarchico, che è si coordina con la necessità del mantenimento della compattezza delle forze armate e del ruolo ad esse assegnato dalla Costituzione (Sez. 1, n. 3971 del 28/11/2013, dep. 2014, De Chiara, Rv. 259013; Sez. 1, n. 7957 del 20/12/2006, dep. 2007, Frantuma, Rv. 236355).
E’, però, altrettanto chiaro che la condotta di insubordinazione deve inserirsi in un rapporto di effettiva – e non solo pretesa – subordinazione gerarchica, mentre, nel caso scrutinato, in relazione all’oggetto del contrasto fra il superiore e il subordinato, non è stato chiarito in modo adeguato – ciò che era invece necessario al fine di apprezzare la natura delle condotte contestate – il contesto, se attinente al rapporto di dipendenza funzionale del militare con l’autorità giudiziaria, oppure se riferibile anche al rapporto gerarchico, in cui F. ha tenuto le condotte stesse.
Cassazione Penale
sez. I
Sentenza 18/07/2019, n. 31829
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI TOMASSI Maria Stefania – Presidente –
Dott. SIANI Vincenzo – rel. Consigliere –
Dott. CAPPUCCIO Daniele – Consigliere –
Dott. CAIRO Antonio – Consigliere –
Dott. RENOLDI Carlo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
F.A., nato a (OMISSIS);
avversolalentenza del 11/04/2018 della CORTE MILITARE APPELLO di ROMA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. VINCENZO SIANI;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Procuratore Dr. FLAMINI Luigi Maria, che ha concluso chiedendo quanto segue:
Il P.G.M. conclude chiedendo il rigetto del ricorso.
udito il difensore l’avvocato RADICATI SANDRO si riporta al ricorso e ne chiede l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza in epigrafe, emessa il 24 ottobre – 29 novembre 2017, il Tribunale militare di Verona aveva giudicato F.A., Maresciallo Capo dei Carabinieri, in ordine ai seguenti reati:
– reato di insubordinazione con ingiuria continuata e aggravata (art. 189 c.p.m.p., comma 2 e art. 47 c.p.m.p., n. 2), perchè, nella funzione di Comandante della Stazione Carabinieri di (OMISSIS), con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, offendeva il prestigio, l’onore e la dignità del Comandante della Compagnia Carabinieri di (OMISSIS), Capitano Q.H.G., ponendo in essere le condotte elencate in rubrica, come da sette successivi alinea, contestate come atti di disprezzo della sua persona e della sua autorità, con l’aggravante di essere investito di un comando;
– reato di disobbedienza aggravata (art. 173 c.p.m.p., art. 47 c.p.m.p., n. 2), perchè, nella suddetta qualità, espressamente rifiutava o ometteva di obbedire all’ordine di servizio di firmare per presa visione il provvedimento di avvio del procedimento disciplinare, oggetto di ripetute e inequivoche richieste del Capitano Q., fino al rifiuto formalizzato in apposito verbale; con l’aggravante suindicata;
fatti commessi in (OMISSIS) e (OMISSIS), agli inizi di (OMISSIS).
Il Tribunale aveva ritenuto F. responsabile dei reati a lui ascritti, riuniti in continuazione, e lo aveva condannato alla pena di anni uno di reclusione militare, con sospensione condizionale della pena stessa e non menzione.
Impugnata la decisione dall’imputato, la Corte di appello militare, con sentenza resa in data 11 aprile – 15 maggio 2018, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha assolto F. dal reato di insubordinazione continuata e aggravata – con riferimento agli episodi indicati al primo, secondo, terzo, limitatamente alla prima delle condotte descritte, quarto, quinto e sesto alinea – nonchè dal reato di disobbedienza aggravata, perchè il fatto non sussiste, e, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche prevalenti (sull’aggravante contestata e ritenuta), ha ridotto la pena inflittagli a quella di mesi cinque di reclusione militare, confermando nel resto.
All’esito del vaglio dei giudici di appello, sono state ritenute penalmente rilevanti le seguenti due condotte integrate da F.:
– dopo avere ostacolato il colloquio fra il Cap. Q. e il Brig. R., quando era stato richiesto dall’ufficiale di allontanarsi per potergli consentire di parlare con l’altro militare, aveva replicato al Cap. Q. che doveva essere lui a uscire perchè quello era il suo ufficio: “No, l’ufficio è mio, esca lei”;
– aveva rispedito al Cap. Q. in busta chiusa – per dimostrare di non volerne prendere visione – una missiva contenuta in un plico sigillato che il superiore gli aveva inviato, poi risultato essere un provvedimento di “esortazione ad un più diligente e corretto assolvimento dei compiti di comando riferiti al settore della Polizia Giudiziaria”.
2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso il difensore di F. chiedendone l’annullamento e affidando l’impugnazione a un unico, articolato motivo con cui lamenta violazione dell’art. 81 c.p., art. 189 c.p.m.p., comma 2, art. 47 c.p.m.p., n. 2, in ordine all’erronea interpretazione dei presupposti applicativi delle norme stesse, art. 42 c.p., in riferimento all’accertamento dell’elemento psicologico del reato, e art. 25 Cost., comma 2, per la mancata osservanza del principio di offensività.
Secondo il ricorrente, considerate le residue condotte ascrittegli come reato di insubordinazione con ingiuria, doveva trarsi la conclusione che i giudici di secondo grado, pur dopo aver largamente rimaneggiato il fatto ritenuto penalmente rilevante, avevano erroneamente assunto un ruolo improprio nel configurare come reato le condotte residue.
2.1. In riferimento alla condotta consistita nell’aver risposto all’ufficiale che lo aveva invitato a uscire dal suo ufficio – che invece doveva uscire lui perchè quello era il suo ufficio, era, per il ricorrente, da escludere la valenza offensiva della condotta, perchè era ben possibile che la risposta di F. fosse intesa ad accentuare lo sfogo contro quella che veniva da lui vissuta come una coartazione illegittima, nel contrasto di natura funzionale insorto con il superiore gerarchico in ordine alle indagini di polizia giudiziaria, con conseguente esclusione dell’elemento soggettivo, e perchè la risposta stessa non sembrava aver infranto la soglia del penalmente rilevante, non intravvedendosi in essa alcuna valenza offensiva, bensì una mera rimostranza e l’esercizio del diritto di critica da parte del sottufficiale; quest’ultimo non aveva fatto altro che manifestare in quella forma il suo dissenso rispetto alla posizione autoritaria assunta dall’ufficiale.
Pertanto – argomenta la difesa – i giudici di appello hanno errato nell’attribuire una carica offensiva e denigratoria alla mera rimostranza esternata dal sottufficiale, posto che la norma incriminatrice punisce condotte materiali di natura offensiva, non la mera disobbedienza, che non determina il travalicamento della soglia del penalmente punibile: in questo senso, la Corte militare di appello ha omesso di contestualizzare la condotta messa in essere da F., da valutarsi invece in stretta relazione con le indiscriminate pressioni legate ai continui interventi del superiore gerarchico nell’attività propria della sfera del militare subordinato.
2.2. Con riguardo, poi, alla condotta inerente al fatto di aver rispedito in busta chiusa, per dimostrare di non volerne prendere visione, una missiva contenente un plico sigillato che il superiore gli aveva inviato, poi risultato contenere un provvedimento di esortazione a un più diligente e corretto assolvimento dei compiti di comando riferiti al settore della polizia giudiziaria, secondo il ricorrente, i giudici di appello non hanno svolto un’analisi adeguata circa l’esistenza del dolo generico richiesto per l’integrazione del reato.
La Corte di appello militare ha sostenuto che le modalità dell’azione e la pubblicità degli strumenti utilizzati erano, da soli, tali da concretizzarsi nel chiaro disprezzo nei confronti del superiore procurandogli l’inaccettabile umiliazione di dover subire la restituzione di atti costituenti legittimo esercizio delle sue prerogative di comando, con conseguente mortificazione della sua dignità personale e indebolimento del proprio prestigio, ma – obietta la difesa- queste osservazioni si rivelano inconsistenti, quanto a dimostrazione del carattere offensivo del comportamento dell’imputato, perchè non tengono conto di un punto assolutamente centrale: il plico era formato da una busta gialla dal contenuto sconosciuto al mittente che aveva potuto scorgere soltanto l’indicazione generica riferita alla Compagnia Carabinieri di (OMISSIS), senza alcuna indicazione della persona del Cap. Q..
Pertanto, sottolinea il ricorrente, questa situazione avrebbe dovuto essere valutata, non in astratto, ma in concreto, con riferimento a tutte le circostanze emergenti dagli atti, quali la personalità dell’agente, i suoi rapporti con la persona offesa, le ragioni che avevano indotto all’uso di determinate espressioni e a tutto il contesto ambientale; nè è stato operato un giudizio congruo circa l’effettiva offensività del comportamento ascritto, dal momento che la condotta dell’agente, per essere effettivamente antigiuridica, avrebbe dovuto investire concretamente la qualità della persona, la sfera dei suoi sentimenti e affetti, la sua personalità individuale: pertanto, non sussisteva nella condotta dell’imputato alcun riferimento offensivo all’onorabilità individuale del superiore, senza dire che non ogni condotta censurabile sul piano disciplinare poteva ricondursi anche alla norma penale incriminatrice dei delitto di ingiuria.
Oltre a ciò – segnala il ricorrente – la Corte di appello militare avrebbe dovuto considerare l’occasionalità della condotta serbata dall’imputato, fattore che, insieme agli altri, farebbe propendere per la carenza della necessaria idoneità a offendere e, quindi, per la mancata integrazione dell’elemento oggettivo del contestato reato di insubordinazione con ingiuria, dati i forti dubbi sul fatto che l’imputato fosse consapevole della contestata condotta.
3. Il Procuratore generale ha prospettato il rigetto dell’impugnazione, non potendo ritenersi fondata la complessiva doglianza prospettata dal ricorrente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è, per quanto di ragione, fondato, atteso che la motivazione posta a base della sentenza impugnata non appare adeguata al fine di sorreggere il giudizio di colpevolezza dell’imputato per le due residue condotte, imputategli ai sensi dell’art. 189 c.p.m.p. come altrettanti atti di insubordinazione aggravata, in relazione all’esigenza – rilevante per l’enucleazione e la valutazione del corrispondente profilo di responsabilità penale – di verifica approfondita della sussistenza o meno e, in caso affermativo, della rilevanza dell’interferenza fra gli episodi incriminati e lo svolgimento da parte del militare subordinato di indagini di polizia giudiziaria a lui direttamente demandate dall’autorità giudiziaria.
2. Giova puntualizzare che la Corte di appello militare, mentre ha considerato gli altri episodi non tali da integrare il delitto di insubordinazione con ingiuria e il delitto di disobbedienza aggravata, ha spiegato che, per contro, nei due episodi sopra descritti, la soglia del penalmente rilevante era stata consapevolmente varcata dall’imputato.
Nel primo, di fronte all’esplicita richiesta avanzata dal superiore, F. aveva dato una risposta tale da determinare un’evidente lesione della sfera morale e del prestigio professionale dell’ufficiale – per un surplus di disvalore collegato alla corrispondente carica offensiva e denigratoria, oltre che umiliante e mortificatrice – con la conseguenza che questi sarebbe stato costretto ad allontanarsi dall’ufficio dell’imputato per portare a termine il colloquio di servizio con il Brig. R..
Nel secondo, il gesto di restituire al superiore, tramite posta interna, sia la riservata personale, sia la comunicazione di avvio del procedimento disciplinare, aveva integrato quel profilo di ulteriore offesa della dignità e del prestigio dell’ufficiale, profilo – punito dalla norma contestata – reso evidente dalla gratuità assoluta del gesto e dalla pubblicità dello stesso correlata al mezzo di trasmissione prescelto per la restituzione del documento: elementi che, nella valutazione dei giudici di appello, attribuiscono al comportamento di F. una valenza e una connotazione di chiaro disprezzo nei confronti del superiore, con la volontà di procurargli l’inaccettabile umiliazione di essere costretto a subire la restituzione di atti costituenti il legittimo esercizio delle sue prerogative di comando.
2.1. I giudici di appello hanno anche constatato che il contrasto fra il cap. Q. e il mar. F. si era manifestato a seguito delle ripetute richieste rivolte dal superiore al subordinato, sia presso il Comando della Compagnia Carabinieri di (OMISSIS), sia presso la Stazione dei Carabinieri di (OMISSIS), di fornire chiarimenti sul tema della conduzione da parte del secondo di determinate indagini di polizia giudiziaria, intendendo F. scegliere in modo autonomo le modalità di svolgimento di quel determinato settore dei propri compiti, intendendo invece Q. salvaguardare il suo potere-dovere di impartire e veder osservate, nell’ambito del rapporto gerarchico, le corrispondenti direttive nonchè di veder rispettati i suoi ordini.
In particolare, si dà atto nelle decisioni di merito che F. non aveva inteso deflettere dal compimento dell’indagine già intrapresa e riteneva di non doversi coordinare, per quelle attività di polizia giudiziaria, con i colleghi della Stazione di (OMISSIS), che invece Q. considerava essere competenti per territorio, per cui aveva ripetutamente dato indicazioni nel relativo senso. Era stato proprio il contrasto su questo argomento che aveva determinato la frattura nei rapporti fra i due militari, avendo Q. richiesto al sottoposto delucidazioni sull’attività svolta ed avendo invece F. risposto in modo del tutto oppositivo, anche con il comportamento e con gli atti oggetto di contestazione.
2.2. Tale essendo la scaturigine del contrasto su cui si sono innestate le due condotte incriminate, si profilava – per la verifica inerente alla potenzialità offensiva e ingiuriosa delle condotte, nel più ampio ambito del relativo accertamento, dato che tale potenzialità è contestata dal ricorrente anche sotto il profilo dell’ontologico significato dei rispettivi tratti fattuali – di indubbio rilievo il completo accertamento, nell’ambito dell’emerso contrasto, della natura dell’intervento del superiore gerarchico onde stabilire se esso fosse stato ispirato dalla volontà di compiere un – possibile e, se del caso, doveroso – atto di coordinamento amministrativo fra le unità dipendenti al fine dell’ottimale organizzazione del servizio, oppure se esso si fosse mosso nel senso di interloquire nella dialettica inquirente nell’ambito della quale F. stava effettuando determinate indagini di polizia giudiziaria.
Se lo scenario effettivo dovesse essere quello lumeggiato nel secondo dei casi prospettati, nemmeno sarebbe emerso a quale titolo il superiore intendesse introdursi nel rapporto di dipendenza funzionale, intercorrente in via diretta tra il mar. F. e l’autorità giudiziaria che gli aveva demandato l’espletamento del relativo compito.
Il tema, di sicura importanza, è stato sovente affrontato anche dall’elaborazione svolta dalla giurisprudenza costituzionale quando ha saggiato la conformità di diverse norme con l’art. 109 Cost.: tale disposizione stabilisce che l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria e, così, esprime il preciso, non equivocabile, significato di scolpire i due termini del rapporto di dipendenza funzionale, con riferimento all’autorità giudiziaria e alla polizia giudiziaria, in modo da escludere interferenze di altri poteri nella conduzione delle indagini, pur quando tali poteri promanino dalla medesima scala gerarchica dell’operatore di polizia incaricato della conduzione delle indagini: è proprio in virtù di questa salvaguardia assicurata dalla Carta fondamentale alla dipendenza funzionale che la direzione delle indagini risulta effettivamente riservata all’autonoma iniziativa e determinazione dell’autorità giudiziaria medesima.
Si è, sul punto, sottolineato che il rapporto di dipendenza funzionale non determina, a sua volta, una compressione dell’organico rapporto di dipendenza gerarchica, al pari delle sue articolazioni di ordine anche disciplinare, della polizia giudiziaria nei confronti del potere esecutivo e all’interno di essa, ma non tollera che – foss’anche per comprensibili esigenze di natura informativa ed organizzativa – nella dialettica propria del rapporto gerarchico si sviluppino forme di coordinamento investigativo alternative a quello condotto dalla competente autorità giudiziaria.
In tal senso deve essere sempre evitato il pericolo che ne risultino interferenze nella diretta conduzione delle indagini riservata all’autorità giudiziaria e che si determini una violazione o anche un’elusione di quello che, a giusta ragione, viene definito il “delicato equilibrio scolpito nella disposizione costituzionale in questione” (v. in questa precisa direzione Corte Cost., sent. n. 229 del 2018, la quale ha dichiarato che non spettava al Governo della Repubblica adottare il D.Lgs. n. 177 del 2016, art. 18, comma 5, 19 agosto 2016, n. 177, recante “Disposizioni in materia di razionalizzazione delle funzioni di polizia e assorbimento del Corpo forestale dello Stato”, nella parte in cui prevede che entro il termine ivi stabilito “al fine di rafforzare gli interventi di razionalizzazione volti ad evitare duplicazioni e sovrapposizioni, anche mediante un efficace e omogeneo coordinamento informativo, il capo della polizia-direttore generale della pubblica sicurezza e i vertici delle altre Forze di polizia adottano apposite istruzioni attraverso cui i responsabili di ciascun presidio di polizia interessato trasmettono alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme c.p.p.”, e ha conseguentemente annullato tale disposizione nella parte indicata).
2.3. Posto quanto precede, si rileva che la sentenza impugnata, pur avendo svolto diffuse considerazioni sull’offensività delle due condotte sopra indicate, ha concluso – al di là del rilievo disciplinare annesso alle condotte stesse – per la valenza ingiuriosa di esse, analizzando il contegno del subordinato senza, tuttavia, effettuare una compiuta disamina dell’ambito nel quale il contrasto fra i due militari era insorto.
Essendo il comportamento dell’imputato afferente al suo modo di svolgere le indagini di polizia giudiziaria, era infatti necessario approfondire se l’intervento del superiore si fosse risolto, in relazione a ciascuna delle circostanze di fatto prese in considerazione, nella trattazione di aspetti relativi al solo rapporto gerarchico, sotto il profilo degli atti di coordinamento interno di natura amministrativa, compatibili con le deleghe ricevute dall’autorità giudiziaria, oppure se esso avesse attinto la sfera della dipendenza funzionale, con questa – imponendo – tra l’altro – forme di coordinamento investigativo alternative e inconciliabili con i poteri di direzione e controllo riservati all’autorità giudiziaria.
La necessità di siffatta verifica era ineludibile, poichè, ove le condotte di F. si siano dispiegate in un ambito riservato al rapporto di dipendenza funzionale dell’imputato con l’autorità giudiziaria, sarebbe stato – e sarebbe rilevante l’accertamento della sussistenza o meno del titolo del superiore a intervenire in quell’ambito.
Sia la sede e la natura del colloquio fra il cap. Q. e il Brig. R., sia l’interlocuzione impostata dal cap. Q. con il mar. F. con l’esortazione ad espletare in modo più diligente e corretto i compiti di comando nel settore della polizia giudiziaria integrano, per vero, contesti in relazione ai quali la verifica della concreta offensività penale delle condotte ascritte all’imputato non avrebbe potuto essere effettuata in modo adeguato senza la previa definizione dell’ambito, fra quelli sopra precisati, in cui – e quindi del titolo, se legittimo o meno, per cui – il superiore aveva impostato le rispettive interlocuzioni con il militare subordinato.
2.4. Non è, dunque, in discussione che, nel reato militare di insubordinazione con ingiuria, integra l’offesa all’onore e al prestigio ogni atto o parola di disprezzo verso il superiore nonchè l’uso di tono arrogante, perchè si tratta di comportamenti contrari alle esigenze della disciplina militare per la quale il soggetto di grado più elevato deve essere tutelato, non solo nell’espressione della sua personalità umana, ma anche nell’ascendente morale di cui ha bisogno per un degno esercizio dell’autorità del grado e della funzione di comando, dovendo considerarsi che la fattispecie di insubordinazione di cui all’art. 189 c.p.m.p. tutela non solo la dignità e l’onore del superiore, ma l’integrità e l’effettività del rapporto gerarchico, che è si coordina con la necessità del mantenimento della compattezza delle forze armate e del ruolo ad esse assegnato dalla Costituzione (Sez. 1, n. 3971 del 28/11/2013, dep. 2014, De Chiara, Rv. 259013; Sez. 1, n. 7957 del 20/12/2006, dep. 2007, Frantuma, Rv. 236355).
E’, però, altrettanto chiaro che la condotta di insubordinazione deve inserirsi in un rapporto di effettiva – e non solo pretesa – subordinazione gerarchica, mentre, nel caso scrutinato, in relazione all’oggetto del contrasto fra il superiore e il subordinato, non è stato chiarito in modo adeguato – ciò che era invece necessario al fine di apprezzare la natura delle condotte contestate – il contesto, se attinente al rapporto di dipendenza funzionale del militare con l’autorità giudiziaria, oppure se riferibile anche al rapporto gerarchico, in cui F. ha tenuto le condotte stesse.
3. L’emerso vizio della motivazione mina in modo decisivo la coerenza e logicità del discorso giustificativo e impone, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata, con conseguente rinvio alla Corte di appello militare per il nuovo giudizio, da compiersi nel rispetto del principio dianzi affermato.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio alla Corte di appello militare, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 7 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria, il 18 luglio 2019.
INSUBORDINAZIONE REATO MILITARE
Originally posted 2021-07-29 09:23:25.