l’ordinanza di ammissione al giudizio abbreviato condizionato
ad integrazione probatoria sia revocabile?????
- CASS. PEN. SEZ. UNITE, 19/07/2012, N. 41461
se l’ordinanza di ammissione al giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria sia revocabile nel caso in cui la condizione alla quale il rito è subordinato si riveli non realizzabile per circostanze imprevedibili e sopraggiunte ?
L’ordinanza di ammissione al giudizio abbreviato condizionato
ad integrazione probatoria non è revocabile nel caso in cui
l’acquisizione della prova dedotta in condizione divenga
impossibile per circostanze imprevedibili e sopraggiunte,
atteso che il vincolo di subordinazione insito nella richiesta
condizionata è utilmente assolto con l’instaurazione del rito e
con l’ammissione della prova sollecitata dall’imputato.
il giudice, in mancanza della prova evidente (nel senso della sua “constatazione” e non del suo “apprezzamento”) dell’innocenza, deve pronunciare declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione, senza procedere ad alcun approfondimento nella valutazione del materiale probatorio agli atti. Inoltre, intervenuta la causa estintiva del reato di cui all’imputazione, il giudice, all’esito dell’istruttoria dibattimentale e in presenza di un compendio probatorio insufficiente o contraddittorio, non può esercitare i poteri officiosi ex art. 507 26 cod. proc. pen. (possibilità ammessa anche per il giudice ritiratosi in camera di consiglio per la deliberazione della sentenza), ma deve dichiarare l’estinzione del reato enunciandone la causa nel dispositivo. Qualora, a fronte di una causa estintiva, si privilegiasse una formula liberatoria nel merito in presenza di una prova insufficiente o contraddittoria, si perverrebbe al risultato paradossale per cui la “evidenza” ex art. 129 cpv. cod. proc. pen. ricorrerebbe anche nel caso di ambiguità probatoria (art. 530 cod. proc. pen., comma 2). Si determinerebbe, in tal modo, una non consentita equiparazione tra due situazioni tra loro profondamente diverse: l’evidenza della innocenza dell’imputato, l’incertezza del quadro probatorio in ordine alla sua responsabilità. Le considerazioni sinora svolte consentono di affermare che la regola di giudizio dettata dall’art. 129 cod. proc. pen., comma 2, rimane subordinata ad una situazione di evidenza probatoria risultante obiettivamente dagli atti nel momento in cui si verifica il fatto estintivo, mentre la regola probatoria contenuta nell’art. 530 cod. proc. pen., comma 2, (dovere di pronunciare sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova della responsabilità) è riferibile soltanto all’epilogo decisorio conseguente alla formazione e acquisizione delle prove nel contraddittorio fra le parti e ad un’approfondita valutazione di tutto il compendio probatorio acquisito (Sez. U, n. 35490 del 2009, Tettamanti, cit.). Questo approdo interpretativo appare connotato da intrinseca razionalità anche sotto i seguenti ulteriori profili
AVVOCATO PENALISTA BOLOGNA RAVENNA RIMINI
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Qualora, in presenza di una causa estintiva del reato già maturata, si ammettesse la rilevabilità, da parte del giudice di legittimità, del vizio di motivazione della sentenza impugnata, il rinvio al giudice del merito sarebbe incompatibile con il principio dell’immediata applicabilità della causa estintiva e, in ogni caso, il giudice di merito destinatario del processo in sede di rinvio sarebbe obbligato a rilevarla e a dichiararla immediatamente (Sez. U, n. 17179 del 2002, Conti, cit.; Sez. U, n. 1021 del 28/11/2001, dep. 2002, Cremonese, Rv. 220511). In assenza di elementi “evidenti” dell’innocenza sostanziale dell’imputato (elementi positivi della sua estraneità rispetto all’addebito contestato o mancanza assoluta di prove a suo carico), l’obbligo di immediata declaratoria di estinzione del reato non contrasta con esigenze di tutela dei diritti fondamentali della persona che consentano di derogare alla regola generale dettata dall’art. 129 cod. proc. pen., comma 2. Infatti, attraverso la rinunzia alla causa di estinzione del reato, l’imputato può riespandere il suo diritto costituzionalmente garantito ad una decisione penale sul merito dell’addebito a lui mosso, provare la sua innocenza e tutelare la sua onorabilità. Si porrebbe, invece, in contrasto con i principi di razionalità, di ordine e di economia processuale ammettere che, pur in mancanza di una rinuncia alla causa estintiva, il processo debba proseguire per consentire, come prospettato dal ricorrente, che l’imputato possa, in ipotesi, giovarsi dell’efficacia preclusiva connessa alla sentenza penale dall’art. 653 cod. proc. pen., comma 1. Infine, in assenza di specifiche previsioni legislative di più ampia portata e avuto riguardo al peculiare ambito applicativo dell’art. 578 cod. proc. pen., non si può inferire da tale disposizione, grazie ad un’interpretazione di tipo analogico o estensivo, una regola generale che, pur in presenza di una causa estintiva del reato e in assenza di elementi obiettivi comprovanti, all’evidenza, l’innocenza dell’imputato, imponga al giudice una valutazione di merito del compendio probatorio ogniqualvolta alla sentenza penale si ricolleghino conseguenze sul piano della responsabilità disciplinare. Tali considerazioni, oltre ad essere rispettose del quadro costituzionale di riferimento (artt. 3, 24, 25, 111 Cost.) e dei principi del giusto processo (artt. 111, 117 Cost, art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo), non contrastano neppure con i criteri direttivi fissati dalla L. n. 81 del 1987, contenente la delega per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale. L’art. 2, comma 1, n. 1 stabilisce, infatti, l’esigenza di “massima semplificazione e di eliminazione di atti e di attività non essenziali” e il successivo punto n. 11 correla l’obbligo del proscioglimento nel merito, pur in presenza di una causa estintiva del reato, alla sussistenza dei relativi presupposti. Anche sotto questo profilo, dunque, la disciplina contenuta nell’art. 129 cod. proc. pen., comma 2, appare rispettosa, da un lato, delle esigenze di razionalità del sistema processuale, di speditezza e di economia del giudizio e, dall’altro, delle esigenze di difesa, in quanto la prevalenza della causa estintiva del reato è ancorata a ben precisi e tipizzati presupposti e, in ogni caso, non può trovare applicazione in presenza di una contraria manifestazione di volontà espressa personalmente dall’imputato che voglia beneficiare di una decisione nel merito. 27 15.2. La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di questi principi, in quanto, con ampio e puntuale richiamo delle emergenze processuali, ha argomentato l’insussistenza di elementi comprovanti all’evidenza l’estraneità dei ricorrenti agli addebiti loro mossi e ha richiamato, quali dati dimostrativi della loro responsabilità in ordine al reato previsto dall’art. 424 cod. pen. (così riqualificata l’originaria contestazione ex art. 423 cod. pen.) le prove dichiarative acquisite ( O., C., A., Re., F., S., C., G.), le risultanze documentali in ordine ai controlli subiti da O. ad opera della Polizia di Stato, le due relazioni di servizio redatte dai Carabinieri rispettivamente il 27 e il 28 giugno 1998 in ordine ai fatti accaduti la notte in cui si verificarono gli incendi, il contenuto delle schede di intervento redatte dai Vigili di fuoco, fatti intervenire su richiesta di appartenenti all’Arma dei Carabinieri, nonchè l’esito delle investigazioni svolte nell’immediatezza e compendiate nelle annotazioni redatte dalla Polizia di Stato il 29 e il 30 giugno 1998. Di conseguenza in ordine ai fatti contestati, ricondotti alla previsione della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 424 cod. pen., è stata correttamente pronunziata sentenza di non doversi procedere per prescrizione in assenza di atti espressi di rinuncia all’applicazione della causa estintiva manifestati personalmente dagli imputati
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Cass. pen. Sez. Unite, Sent., (ud. 19-07-2012) 24-10-2012, n. 41461 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE PENALI Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. LUPO Ernesto – Presidente – Dott. DE ROBERTO Giovanni – Consigliere – 10 Dott. MILO Nicola – Consigliere – Dott. MARASCA Gennaro – Consigliere – Dott. LOMBARDI Alfredo Maria – Consigliere – Dott. ROMIS Vincenzo – Consigliere – Dott. CONTI Giovanni – Consigliere – Dott. FIANDANESE Franco – Consigliere – Dott. CASSANO Margheri – rel. Consigliere – ha pronunciato la seguente: sentenza sui ricorsi proposti da: 1. B.G., nato a (OMISSIS); 2. D.G., nato a (OMISSIS); 3. M.S., nata a (OMISSIS); 4. R.S., nato a (OMISSIS); 5.
P.M., nato a (OMISSIS); avverso la sentenza del 29/12/2009 della Corte di appello di Catania; visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal consigliere Margherita Cassano; udito il Pubblico ministero, in persona dell’Avvocato generale Dr. FEDELI Massimo, che ha concluso chiedendo dichiararsi manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dedotta e il rigetto dei ricorsi; uditi per gli imputati l’avv. Enrico Trantino per B., D., M. e R., e l’avv. Carmelo Calì per P., che hanno concluso chiedendo l’accoglimento dei rispettivi ricorsi. Svolgimento del processo 1. Il 29 dicembre 2009 la Corte di appello di Catania confermava la sentenza pronunziata in data 1 giugno 2006 dal locale Tribunale che, all’esito di giudizio abbreviato, aveva condannato P. M., vice-ispettore della Polizia di Stato, alla pena di tre anni e quattro mesi di reclusione, con interdizione perpetua dai pubblici uffici, per il reato di concussione continuata (commesso in (OMISSIS)), e aveva dichiarato l’estinzione per intervenuta prescrizione del reato di danneggiamento seguito da incendio (art. 424 cod. pen.), così derubricata l’originaria imputazione ex art. 423 cod. pen.. 2. In fase di appello, al processo a carico di P. veniva riunito, per ragioni di connessione oggettiva e soggettiva, quello instaurato nei confronti di B.G., D. G., M.S. e R.S., condannati, in primo grado, il 23 febbraio 2005, all’esito di giudizio abbreviato, in ordine al delitto di incendio (art. 423 cod. pen.). La Corte di appello, in riforma della decisione di primo grado, previa riqualificazione dell’originaria imputazione di incendio (art. 423 cod. pen.) in quella di danneggiamento 11 seguito da incendio (art. 424 cod. pen.), dichiarava non doversi procedere, per intervenuta prescrizione, con riferimento al suddetto reato. 3.
Preliminarmente la Corte di appello respingeva le eccezioni proposte dagli imputati. Relativamente all’eccezione di nullità del verbale di sommarie informazioni rese dal teste O. nella fase delle indagini preliminari – sollevata dalla difesa di P. – in ragione della mancata compiuta identificazione del medesimo mediante un documento di identità, il giudice d’appello osservava che non sussisteva in proposito alcuna incertezza. Il verbale riportava, infatti, le generalità dichiarate dalla persona informata sui fatti, dava atto della sua provenienza e della sua residenza temporanea; al contempo le dichiarazioni rese dalle altre persone escusse confortavano tali dati e la effettiva conoscenza dei fatti di causa da parte di O.. Con riguardo all’ulteriore eccezione – anch’essa avanzata dalla difesa di P. – di inutilizzabilità, per violazione dell’art. 512 cod. proc. pen., delle dichiarazioni rese da O. (successivamente divenuto irreperibile) alla cui assunzione era stata subordinata la richiesta di rito semplificato, i giudici di merito osservavano che la suddetta disposizione non si applica nel giudizio abbreviato; diversamente opinando, all’imputato verrebbe attribuita la facoltà di paralizzare l’attitudine probatoria degli atti di indagine – alla cui utilizzazione ha prestato il consenso aderendo al rito speciale – mediante la sola apposizione della condizione della loro nuova assunzione, anche quando la stessa sia divenuta impossibile. La Corte territoriale riteneva del pari non fondata l’eccezione, proposta dalla difesa di P., riguardante la celebrazione del giudizio nelle forme del rito abbreviato, nonostante l’integrazione probatoria dedotta in condizione nella richiesta presentata ai sensi dell’art. 438 cod. proc. pen., comma 5, non potesse più essere utilmente assunta. In proposito osservava che, in realtà, l’imputato non aveva formulato alcuna domanda di retrocessione del rito, pur se a conoscenza dell’impossibilità di assumere la prova, accettando la prosecuzione del processo nelle forme del giudizio abbreviato anche a condizione probatoria insoddisfatta. I giudici d’appello respingevano, inoltre, le censure avanzate dalla difesa in ordine alla qualificazione dei fatti come concussione (art. 317 cod. pen.) e all’attendibilità delle prove dichiarative poste a fondamento della prova del suddetto reato, ritenendole intrinsecamente affidabili ed estrinsecamente riscontrate dagli altri elementi acquisiti al processo. Respingeva, infine, le ulteriori doglianze mosse da P. in merito al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e alla determinazione del trattamento sanzionatorio.
Con riguardo all’appello presentato congiuntamente dagli altri imputati, la Corte territoriale respingeva l’unico motivo articolato a sostegno dell’impugnazione, concernente l’attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona informata sui fatti O. e, come già accennato, in assenza di elementi evidenti della loro innocenza, riteneva che la posizione degli imputati dovesse essere valutata secondo i parametri di economia processuale sanciti dall’art. 129 cod. proc. pen. e che, pertanto, dovesse essere dichiarato prescritto il delitto previsto dall’art. 424 cod. pen. alla stregua del quale era stato riqualificato il delitto di incendio (art. 423 cod. pen.) originariamente contestato. 4. Avverso la suddetta sentenza ricorrono, con separati atti, l’avv. Carmelo Calì, difensore di P., e l’av. Enrico Trantino, difensore degli altri quattro imputati. 4.1. P. articola cinque motivi di ricorso
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Con il primo motivo denunzia la nullità ex art. 142 cod. proc. pen. del verbale di sommarie informazioni rese dal sedicente O. in data 27 giugno 1998 a causa dell’omessa compiuta identificazione del medesimo ad opera dei soggetti verbalizzanti e la conseguente inutilizzabilità patologica delle dichiarazioni rese dal teste, nonchè l’insufficienza della motivazione resa sul punto dalla Corte territoriale che avrebbe altresì travisato le risultanze del verbale menzionato, affermando che l’ O. avrebbe indicato la propria residenza, mentre in realtà lo stesso nell’occasione si era dichiarato senza fissa dimora, come comprovato dal verbale allegato al ricorso.
Con la seconda censura eccepisce l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dal menzionato O. nel corso delle indagini preliminari per violazione dell’art. 512 cod. proc. pen. in relazione all’art. 438, comma 5, del citato codice, in quanto la prova era divenuta irripetibile per la sopravvenuta irreperibilità del teste, nel mentre l’audizione del medesimo era stata apposta come condizione alla richiesta di giudizio abbreviato presentata dall’imputato. In proposito il ricorrente osservava che, contrariamente a quanto sostenuto nel provvedimento impugnato, l’inutilizzabilità delle sommarie 12 informazioni non poteva ritenersi in qualche modo sanata dall’adesione al rito abbreviato, che non comporta un effetto abdicativo di tale portata, come si evince dal disposto dell’art. 438 cod. proc. pen., comma 5 che impone al giudice di valutare la richiesta di abbreviato condizionato tenendo conto degli atti già acquisiti ed utilizzabili.
Nell’ambito del secondo motivo il ricorrente censura anche la mancata revoca del giudizio abbreviato una volta divenuto impossibile procedere all’acquisizione dell’integrazione probatoria richiesta, rilevando che, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte territoriale, la difesa, all’udienza del 20 ottobre 2005, aveva avanzato espressa richiesta di retrocessione dal rito per il mancato avveramento della condizione. Osserva anche, sviluppando le argomentazioni già svolte, che l’impossibilità sopravvenuta dell’assunzione della prova doveva considerarsi prevedibile e, dunque, tale da portare all’applicazione, anche nel giudizio speciale, del disposto dell’art. 512 cod. proc. pen., atteso che lo stesso costituisce espressione del principio generale per cui l’imputato ha il diritto di confrontarsi con le prove d’accusa. Con il terzo motivo denuncia carenze motivazionali della sentenza impugnata in ordine alla ritenuta sussistenza della prova del reato di concussione continuata, nonostante le contraddizioni, rilevate nell’atto d’appello, nelle dichiarazioni rese dai testimoni d’accusa e poste dalla Corte territoriale e dal giudice di primo grado a fondamento dell’affermazione di responsabilità per tale reato.
Lamenta, altresì, il travisamento delle risultanze della deposizione (allegata al ricorso) della Re., assunta nel corso del giudizio abbreviato, e delle altre testimonianze acquisite
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Deduce, inoltre, il malgoverno delle regole di valutazione della prova, in quanto, alla luce della qualità di persona offesa dal reato rivestita dalla Re., la Corte territoriale avrebbe dovuto esercitare ogni controllo teso alla verifica della sua attendibilità secondo i tradizionali principi prudenziali fissati in proposito dalla giurisprudenza di legittimità. Con il quarto motivo eccepisce l’errata qualificazione del fatto come concussione, atteso che, in concreto, non sarebbe rilevabile alcun metus publicae potestatis (che la stessa teste Re. avrebbe escluso), ma al più una trattativa tra l’imputato e la prostituta per scambiare prestazioni sessuali in cambio di un atteggiamento favorevole sulla posizione irregolare di quest’ultima, che peraltro non avrebbe avuto seguito, atteso che la donna non si era recata all’appuntamento fissato dal P. per riscuotere la prestazione promessa. Con il quinto motivo il ricorrente eccepisce l’omessa decisione e la conseguente mancanza assoluta di motivazione sul motivo di gravame riguardante il reato di incendio doloso, riqualificato dal Tribunale di Catania come danneggiamento seguito da incendio e, quindi, dichiarato prescritto, nonchè ulteriori carenze motivazionali del provvedimento impugnato in ordine alla svalutazione degli elementi prospettati dalla difesa per fondare la richiesta di un più benevolo trattamento sanzionatorio.
Con un unico motivo B.G., D.G., M.S. e R.S. censurano il ricorso operato dalla Corte territoriale alla regola di giudizio stabilita dall’art. 129 cod. proc. pen..
Il principio affermato recentemente dalle Sezioni Unite – che hanno stabilito che “all’esito del giudizio, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, salvo che, in sede di appello, sopravvenuta una causa estintiva del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili, oppure ritenga infondata nel merito l’impugnazione del P.M. proposta avverso una sentenza di assoluzione in primo grado ai sensi dell’art. 530 cod. proc. pen., comma 2” (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244273) – deve, infatti, essere esteso a tutte quelle situazioni in cui, accordando prevalenza alla causa estintiva, si determina (come nel caso di specie) un pregiudizio per l’imputato, in quanto il proscioglimento per intervenuta prescrizione non è sufficiente a sottrarre i ricorrenti (tutti agenti della Polizia di Stato) a conseguenze disciplinari. In subordine prospetta l’illegittimità costituzionale dell’art. 129 cod. proc. pen., comma 2, nella parte in cui, maturata una causa estintiva del reato, limita il potere di proscioglimento nel merito al solo caso di evidenza di non colpevolezza, per il contrasto con gli artt. 3, 24, 25, 111 e 112 Cost., con gli artt. 76 e 77 Cost. in riferimento all’eccesso di delega relativo alla direttiva n. 11 dell’art. 2 L. n. 81 del 1987, nonchè con gli art. 117 Cost. e art. 6 Cedu.
Il ricorso denunzia, Inoltre, carenze motivazionali dell’impugnata sentenza in ordine alla ritenuta attendibilità ed idoneità probatoria delle dichiarazioni del teste O.. 5. I ricorsi venivano assegnati alla Sesta sezione penale, che, con ordinanza del 30 marzo 2012, li rimetteva alle Sezioni Unite, rilevando la potenziale insorgenza di un contrasto interpretativo in merito alla questione, sollevato nel secondo 13 motivo del ricorso di P., della revocabilità del provvedimento di ammissione del giudizio abbreviato condizionato, qualora divenga impossibile assumere l’integrazione probatoria dedotta in condizione dall’imputato. In proposito i giudici rimettenti rilevano come sulla questione non sussista alcun contrasto interpretativo in atto, atteso che nella giurisprudenza di legittimità è costante l’affermazione per cui il giudice non ha il potere di revocare l’ordinanza di ammissione del rito alternativo solo perchè l’integrazione probatoria, cui l’imputato ha subordinato la relativa richiesta, non può aver luogo per circostanze imprevedibili, sebbene il problema sia stato sempre affrontato ex parte iudicis. Tale orientamento costituirebbe espressione del più generale principio – anch’esso pacifico nella giurisprudenza della Corte – della non revocabilità del giudizio abbreviato, salvo nei casi espressamente stabiliti dall’art. 441 bis cod. proc. pen., ancorchè, osserva ancora l’ordinanza di rimessione, si registrino in alcune isolate pronunzie affermazioni incidentali che sembrerebbero evocare la facoltà del giudice di disporre la retrocessione del rito con il consenso dell’imputato. I giudici rimettenti affermano, peraltro, di non poter condividere il principio dell’irrevocabilità del giudizio abbreviato, qualora, essendo stato lo stesso instaurato nella forma condizionata, divenga impossibile soddisfare la condizione probatoria apposta dall’imputato all’atto della richiesta. Rilevano come in tal senso non possa prescindersi dalla volontà dello stesso imputato non solo al momento dell’ammissione del rito, ma altresì in relazione alla sua prosecuzione nelle condizioni illustrate, in quanto il fondamento costituzionale del giudizio abbreviato risiede nella previsione dell’art. 111 Cost., comma 4, il quale autorizza la deroga al principio della formazione della prova nel contraddittorio delle parti proprio sul presupposto che l’imputato vi consenta (salvo, ovviamente, che non ricorrano le ulteriori Ipotesi configurate dalla disposizione menzionata)
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Non di meno, osserva ancora l’ordinanza, la compatibilità del giudizio abbreviato con i principi sanciti dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo è stata riconosciuta dalla Corte di Strasburgo esclusivamente sulla base della spontanea rinunzia dell’imputato alle garanzie del rito ordinario. In tal senso, concludono i giudici rimettenti, la subordinazione della volontà di accettare il rito semplificato ad una integrazione probatoria assume natura essenziale e la mancata realizzazione di tale condizione, qualora non addebitabile allo stesso imputato, impedirebbe, in ossequio ai sopra ricordati principi, la prosecuzione del giudizio abbreviato senza il suo consenso, sia esso espresso o tacito.
Con decreto in data 6 aprile 2012, il Primo Presidente assegnava il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna udienza pubblica.
Motivi della decisione 1. La questione di diritto devoluta alle Sezioni Unite può essere riassunta nei seguenti termini: “se l’ordinanza di ammissione al giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria sia revocabile nel caso in cui la condizione alla quale il rito è subordinato si riveli non realizzabile per circostanze imprevedibili e sopraggiunte”.
Sulla problematica sottoposta all’esame del Collegio non si registra un contrasto interpretativo. Con indirizzo esegetico univoco, infatti, la giurisprudenza di questa Corte ritiene che la sopravvenuta impossibilità di assunzione dell’integrazione probatoria, cui l’imputato abbia subordinato la richiesta di accesso al rito abbreviato condizionato, non incida sulla sua corretta instaurazione e sulla sua celebrazione, in quanto, alla luce delle regole generali che disciplinano l’istituto, non è configurabile un diritto dell’imputato ad ottenere, in questo caso, la retrocessione del giudizio nè, tanto meno, un potere del giudice di disporla (Sez. 1, n. 13544 del 22/01/2009, Xie, Rv. 243130; Sez. 2, n. 15117 del 02/04/2007, Polverino, Rv. 236391; Sez. 5, n. 40580 del 23/09/2002, Einaudi, Rv. 222970). Tale approdo ermeneutico muove dall’implicito presupposto che il vincolo discendente dalla condizione posta dall’imputato con la richiesta di accesso al giudizio abbreviato riguardi l’ammissione dell’integrazione probatoria invocata, ma che, una volta disposto il rito con la condizione chiesta dall’imputato, non possa configurarsi una sorta di retroattiva perdita di efficacia dell’atto d’impulso qualora la prova non venga concretamente assunta per cause indipendenti dalla volontà del giudice. Tale premessa generale viene desunta, in primo luogo, dall’interpretazione letterale e logico-sistematica dell’art. 438, comma 5, e art. 441 bis cod. proc. pen..
L’art. 438 cod. proc. pen., comma 5, fa espressamente salva – anche nell’ipotesi di giudizio abbreviato condizionato – la utilizzabilità ai fini della prova degli atti di cui all’art. 442, comma 1 bis, fra i quali sono inclusi quelli indicati all’art. 416 cod. proc. pen., comma 2, (fascicolo contenente la notizia di reato, documentazione relativa alle indagini espletate, verbali di atti eventualmente compiuti davanti al g.i.p.). Pertanto, l’eventuale integrazione probatoria, oltre a non mutare la natura e le caratteristiche proprie del giudizio abbreviato, non esplica la sua influenza sulle acquisizioni già esistenti, 14 ma contribuisce ad arricchire il materiale probatorio di cui il giudice deve tener conto e può eventualmente incidere sulla valenza probatoria degli altri elementi già ottenuti, ma non sulla utilizzabilità di questi ultimi. Il mancato conseguimento del risultato probatorio dedotto in condizione non compromette, quindi, il valore del consenso prestato dall’imputato alla piena utilizzazione degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero.
L’art. 441 bis cod. proc. pen., a sua volta, indica tassativamente le ipotesi di revoca del provvedimento di ammissione del giudizio abbreviato, tra cui non è compreso il caso della sopravvenuta impossibilità, per circostanze imprevedibili, dell’assunzione dell’integrazione probatoria, cui l’imputato abbia subordinato la richiesta. In questa ipotesi non è, quindi, prevista dal sistema processuale l’adozione della revoca del provvedimento ammissivo del rito. Qualora, poi, la richiesta di giudizio abbreviato sia stata subordinata ad integrazione probatoria non può trovare applicazione l’art. 526 cod. proc. pen., comma 1 bis. Tale norma si riferisce esclusivamente al processo dibattimentale, come si desume dalla collocazione della disposizione nel libro settimo concernente il giudizio ordinario e dalla lettura coordinata della disposizione in esame con l’art. 438 cod proc. pen., caratterizzato dalla delineazione di un ambito particolarmente ristretto dell’integrazione che deve risultare compatibile con le finalità di economia processuale propria del procedimento (Sez. 5, n. 40580 del 2002, Einaudi, cit.).
Con specifico riguardo ad una delle decisioni in precedenza richiamate (Sez. 2, n. 15117 del 2007, Polverino), non pare condivisibile la lettura della stessa prospettata dall’ordinanza di rimessione che, estrapolandolo dall’intero contesto argomentativo, ha valorizzato il richiamo all’assenza di un potere unilaterale e officioso di revoca del giudizio condizionato da parte del giudice e all’eventuale attribuzione al solo imputato della valutazione di opportunità circa la retrocessione del rito. Lo sviluppo della motivazione, infatti, è incentrato sulla riaffermazione del principio di tassatività delle ipotesi di revoca del giudizio abbreviato e sulla considerazione che in ogni caso – anche qualora si volesse accogliere la tesi della possibilità di retrocessione per impossibilità sopravvenuta dell’integrazione probatoria (che la sentenza in esame sembra, peraltro, respingere) – sarebbe necessaria una manifestazione di volontà dell’imputato che, nella concreta fattispecie, era mancata.
Un’ulteriore decisione di questa Corte (Sez. 1, n. 17317 dell’11/03/2004, Pawlak, Rv. 228652), richiamata nell’ordinanza di rimessione, non ha espressamente affrontato la questione dell’ammissibilità della retrocessione del rito in caso di impossibilità o superfluità sopravvenuta della prova, ma si è limitata a ritenere abnorme il provvedimento con il quale il giudice dell’udienza preliminare, dopo avere ammesso gli imputati al rito abbreviato condizionato – valutando, quindi, l’integrazione probatoria richiesta e ritenendola implicitamente necessaria e compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento, come previsto dall’art. 435 cod. proc. pen., comma 5, – ha revocato unilateralmente l’ordinanza ammissiva del rito stesso in ragione di presunte difficoltà nell’ottenere la comparizione del testimone (residente all’estero) richiesto dall’imputato e del rischio di scadenza dei termini di fase della custodia cautelare. 3. Il Collegio ritiene che l’orientamento illustrato al paragrafo che precede debba essere confermato sulla base delle seguenti argomentazioni.
. L’introduzione, a seguito delle modifiche introdotte dalla L. 16 dicembre 1999, n. 479, di un modello “condizionato” di instaurazione del rito abbreviato accanto alla procedura fondata sulla richiesta di essere giudicati senza integrazione probatoria non ha inciso sulla natura dell’istituto che ha mantenuto una fisionomia unitaria, la cui caratteristica fondamentale e unificante è costituita dalla disponibilità manifestata dall’imputato all’utilizzo degli atti di indagine ai fini della decisione, accompagnata dalla contestuale rinuncia al contraddittorio dibattimentale. Pertanto il giudizio abbreviato “condizionato” e quello “semplice” rappresentano modalità differenziate di sviluppo di un unico modello processuale e non espressione di istituti diversi (Sez. 1, n. 38595 del 17/09/2003, Mores, Rv. 225997).
L’imputato, nel formulare la richiesta di accesso al rito “condizionato”, subordina l’efficacia della domanda all’assunzione di elementi di prova specificamente indicati, tanto che il giudice deve ammettere le prove sollecitate o, in alternativa, rigettare in toto la richiesta. Si può, pertanto, affermare che la domanda condizionata di rito abbreviato ha una struttura composita, in quanto comprende una richiesta principale, funzionale ad introdurre il rito, e una accessoria, volta all’ammissione di determinati mezzi di prova; il mantenimento della richiesta principale è subordinato all’accoglimento di quella accessoria. 15 La richiesta (come già detto) deve essere specificamente condizionata all’ammissione della prova integrativa e in presenza – come nel caso in esame -di una molteplicità dei mezzi proposti – all’assunzione di ciascuno tra essi. Qualora, infatti, l’imputato e il suo difensore considerino irrinunciabili solo alcune delle integrazioni sollecitate, la restante parte della domanda degrada a mera istanza di ammissione delle prove aggiuntive, che il giudice ben può respingere, pur disponendo la definizione del giudizio con il rito speciale. In ogni caso, la domanda dell’imputato deve essere analitica, dovendo indicare non solo il mezzo da utilizzarsi per l’integrazione probatoria, ma anche le circostanze di fatto sulle quali investigare. Solo in tal modo, infatti, il giudice è posto in condizione di compiere una compiuta valutazione circa la necessità dell’integrazione e può essere correttamente circoscritto il diritto del pubblico ministero alla controprova. 3.2.
Nell’ambito di questi principi generali, si tratta di stabilire se fatti imprevedibili e sopravvenuti alla introduzione del rito esplichino una qualche influenza sui presupposti costituenti l’oggetto della condizione dedotta dall’imputato per accedervi e sulla verifica effettuata dal giudice per ammetterlo. Il Collegio ritiene che al quesito debba essere data risposta negativa. L’ordinamento processuale non contempla la possibilità di revocare il giudizio abbreviato, già ammesso, al di fuori delle ipotesi espressamente regolate dalla legge. L’unico caso disciplinato in proposito dal legislatore è quello di cui all’art. 441 bis cod. proc. pen., comma 4, che prevede un’ipotesi di revoca obbligatoria dell’ordinanza su richiesta dell’imputato in presenza di nuove contestazioni ai sensi dell’art. 423 cod. proc. pen., comma 1.
Il carattere eccezionale della disposizione si ricava, in primo luogo, dalla sua esegesi letterale, evidenziante una precisa correlazione procedimentale tra nuova contestazione, conseguenti possibili determinazioni dell’imputato, provvedimento di revoca dell’ordinanza ammissiva del giudizio abbreviato, fissazione (o prosecuzione) dell’udienza preliminare, preclusione alla riproposizione della richiesta del rito.
Da un punto di vista logico-sistematico è, inoltre, significativa la circostanza che nessuna delle disposizioni che precedono, anche topograficamente, l’art. 441 bis cod. proc. pen. si occupi dell’eventuale revoca dell’ordinanza introduttiva del giudizio abbreviato e che tale eventualità sia contemplata solo in presenza di nuove contestazioni formulate dal pubblico ministero all’esito dell’integrazione probatoria sollecitata dall’imputato o all’ipotesi dell’esercizio officioso di tale potere da parte del giudice. Il combinato disposto dell’art. 441 bis, comma 1, art. 438, comma 5, art. 441 cod. proc. pen., comma 5, rende, quindi, evidente che solo in questo caso può determinarsi una regressione del processo alla fase e allo stato in cui si trovava al momento della presentazione della richiesta di giudizio abbreviato. Il richiamo del canone ermeneutico ubi voluit dixit assume, quindi, in tale contesto, una precisa e significativa valenza: esso consente di affermare che il legislatore ha voluto prevedere casi tipi di revoca dell’ordinanza introduttiva del rito e ha voluto escludere la revocabilità del giudizio al di fuori della situazione esplicitamente regolata nell’art. 441 bis cod. proc. pen.. Quest’ultima disposizione è una norma di carattere eccezionale e, dunque, non suscettibile di generalizzazione o di applicazione in via analogica. Dall’interpretazione letterale dell’art. 438 cod. proc. pen., comma 5, si ricava, inoltre, univocamente che il vincolo di subordinazione insito nella domanda avanzata dall’imputato e oggetto della delibazione giudiziale attiene all’ammissione della integrazione probatoria e non alla effettiva assunzione delle ulteriori acquisizioni probatorie.
Di conseguenza il vincolo di subordinazione insito nella richiesta dell’imputato deve ritenersi utilmente assolto con l’instaurazione del rito e l’ammissione delle prove sollecitate dalla difesa; il relativo atto di impulso processuale non può essere influenzato dalle vicende correlate al distinto e successivo momento della effettiva assunzione della prova – che può essere influenzata da diversi fattori – e non può subire una retroattiva perdita di efficacia quando, per qualunque motivo, la prova non venga concretamente assunta. L’attenta lettura del complessivo quadro normativo consente di delineare il limite naturale delle ulteriori acquisizioni probatorie che, come si evince dall’incipit dell’art. 438 cod. proc. pen., comma 5 (“ferma restando la utilizzabilità ai fini della prova degli atti indicati nell’art. 442, comma 1 bis”), debbono essere soltanto integrative, e non già sostitutive, del materiale già acquisito ed utilizzabile come base cognitiva, ponendosi, siccome circoscritte e strumentali ai fini della decisione di merito, quale essenziale e indefettibile supporto logico della stessa. La norma parla coerentemente di “integrazione probatoria”, evidenziando così, anche sul piano terminologico, il carattere aggiuntivo (“integrazione”) e non già sostitutivo, rispetto agli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, della prova che l’imputato intende far assumere nell’udienza preliminare.
L’impossibilità di revocare l’ordinanza ammissiva del giudizio abbreviato, qualora l’integrazione probatoria cui è stata subordinata la domanda si riveli non realizzabile per circostanze imprevedibili e sopravvenute, non si pone in conflitto neppure, sotto un profilo logico-sistematico, con la pregressa valutazione di necessità ai fini della decisione compiuta dal giudice nell’ambito dell’ordinanza che ammette il rito. L’ostacolo obiettivo all’acquisizione della prova opera, infatti, in ugual misura per il giudice dinanzi al quale si celebra il rito abbreviato e per quello del dibattimento dinanzi al quale – ammettendo la revocabilità dell’ordinanza introduttiva del rito in caso di impossibilità sopravvenuta dell’acquisizione probatoria per fattori imprevedibili – il giudizio dovrebbe svolgersi. Pertanto, l’eventuale retrocessione del processo, oltre a non porre rimedio a tale situazione, provocherebbe un’ingiustificata e irrazionale dilatazione dei tempi di definizione del processo che non sarebbe giustificata da maggiori garanzie dell’imputato. 3.3. Il sistema così ricostruito non contrasta con i principi generali e non menoma i diritti di difesa dell’imputato. Il valore probatorio dell’elemento da acquisire, cui fa riferimento l’art. 438 cod. proc. pen., comma 5, va sussunto nell’oggettiva e sicura utilità/idoneità del probabile risultato probatorio ad assicurare il completo accertamento dei fatti rilevanti nel giudizio, nell’ambito dell’intero perimetro disegnato per l’oggetto della prova dalla disposizione generale di cui all’art. 187 cod. proc. pen..
La doverosità dell’ammissione della richiesta integrazione probatoria ne riflette il connotato di indispensabilità al fini della decisione e trova il suo limite nella circostanza che un qualsiasi aspetto di rilievo della regiudicanda non rimanga privo di solido e decisivo supporto logico-valutativo (Sez. U, n. 44711 del 27/10/2004, Wajib, Rv. 229173).
Ciò posto, è appena il caso di precisare che la richiesta condizionata non fornisce all’imputato il mezzo per un controllo sullo sviluppo della base cognitiva della decisione che dovrà essere assunta in esito al giudizio abbreviato. Da un lato, infatti, l’Imputato, nel momento in cui formula la domanda, accetta consapevolmente l’eventualità che la prova non possa essere assunta per cause che possono determinarsi anche nel giudizio ordinario: basti pensare, a questo proposito, alla sopravvenuta irreperibilità del teste (circostanza verificatasi nel caso in esame) oppure all’esercizio della facoltà di non rispondere di cui si avvalga l’imputato di reato connesso ex art. 210 cod. proc. pen..
Sotto altro profilo occorre ricordare che l’integrazione officiosa a norma dell’art. 441 cod. proc. pen., comma 5, può essere disposta dal giudice anche quando vi siano già state acquisizioni in accoglimento della domanda difensiva. Quindi, con la richiesta condizionata, l’imputato assume tanto il rischio che l’integrazione probatoria non sia in concreto esperibile quanto che nuove prove vengano assunte fuori del suo controllo. Inoltre, come osservato da un’autorevole dottrina, o l’assunzione della prova risulta effettivamente impossibile e, come tale, non determina alcuna lesione del diritto di difesa, poichè (come già accennato), l’impossibilità connoterebbe anche il giudizio celebrato nelle forme ordinarie, oppure la decisione del giudice di soprassedere all’assunzione della prova risulta illegittima e, in quanto tale, sindacabile in sede di gravame ed emendabile con l’assunzione della relativa prova in grado d’appello
Considerato, quindi, che le vicende concernenti l’effettiva acquisizione della prova dopo la rituale instaurazione del rito condizionato sono ininfluenti rispetto alla stabilità del giudizio, l’eventuale retrocessione del processo deve ritenersi non consentita e, quindi, illegittima, pur se sollecitata dallo stesso imputato. 4. Questo approdo ermeneutico trova un ulteriore avallo nell’orientamento espresso dalla giurisprudenza di questa Corte sulla più generale questione della revocabilità del provvedimento che introduce il rito abbreviato. Già prima della riforma che ha introdotto la possibilità per il giudice di integrare anche d’ufficio la base cognitiva per il giudizio, era prevalsa la tesi contraria a qualsiasi ipotesi di revoca dell’ordinanza introduttiva del rito abbreviato (Sez. 1, n. 5352 del 14/04/1993, Sammartino, Rv. 194216-194217) ed era oggetto di difformi valutazioni solo la sanzione processuale da collegare al provvedimento. La giurisprudenza di legittimità aveva tendenzialmente escluso che un’eventuale revoca del provvedimento di instaurazione del rito potesse essere ritenuto un atto abnorme, preferendo invece ritenere che all’illegittimità della revoca disposta dal giudice dovesse essere posto rimedio attraverso il recupero post-dibattimentale dello sconto di pena (Sez. 5, n. 3395 del 14/12/2004, dep. 2005, Di Ponio, Rv. 231408, relativa ad un giudizio abbreviato celebrato secondo le regole previgenti del rito; Sez. 5, n. 874 del 22/02/1999, Cusenza, Rv. 212930; Sez. 1, n. 3600 del 27/05/1996, Grassi, Rv 205683). 17
Successivamente alla riforma introdotta dalla L. n. 479 del 1999 l’irrevocabilità del provvedimento introduttivo del rito, salvo quando espressamente prevista, è stata costantemente ribadita da questa Corte. Con riguardo all’abbreviato instaurato nella modalità non condizionata si è precisato (Sez. 1, n. 25858 del 15/06/2006, Miccio, Rv 235260) che la possibilità di revocare l’ammissione al rito non insorge nemmeno nel caso in cui l’imputato abbia a sua volta revocato la relativa richiesta, trattandosi di facoltà non attribuitagli dall’ordinamento processuale se non nell’ipotesi disciplinata dall’art. 441 bis cod. proc. pen.. Quanto all’abbreviato condizionato il principio della non retrocedibilità del rito è stato affermato da molteplici decisioni (Sez. 1, n. 27578 del 23/06/2010, Azouz, Rv. 247733; Sez. 3, n. 9921 del 12/11/2009, dep. 2010, Majouri, Rv. 246326; Sez. 1, n. 32905 del 09/07/2008, De Silva, Rv 240683; Sez. 6, n. 21168 del 28/03/2007, Argese, Rv. 237081; Sez. 1, n. 33965 del 17/06/2004, Gurliaccio, Rv. 228707; Sez. 1, n. 17317 dell’11/03/2004, Pawlak, Rv. 228652) le quali fanno indistintamente riferimento alla mancata previsione, salvo che nell’ipotesi disciplinata dal citato art. 441-bis, del potere del giudice di disporre la revoca del provvedimento introduttivo del rito. Deve essere anche sottolineata la circostanza che le richiamate pronunzie hanno concluso nel senso illustrato sia nel caso in cui la revoca era stata disposta unilateralmente dal giudice sia nell’ipotesi in cui, invece, tale decisione era stata assunta su implicita sollecitazione dell’imputato che aveva dichiarato di rinunziare al rito (cfr., a quest’ultimo proposito, Sez. 1, n. 32905 del 09/07/2008, De Silva, Rv 240683). Un’ulteriore decisione (Sez. 2, n. 12954 del 09/03/2007, Butini, Rv 236388), nel ribadire che la revoca del giudizio abbreviato già ammesso non è in linea di principio consentita, ha però precisato come non possa fondatamente parlarsi d’illegittimità della revoca, quando l’ordinanza ammissiva del rito sia essa stessa illegittima per violazione di norme inderogabili (nel caso di specie si trattava della rilevata originaria intempestività della richiesta di accesso al rito). In tale ipotesi, infatti, la revoca interverrebbe a ripristinare la legalità processuale e non potrebbe essere, perciò, censurata sotto alcun profilo, nemmeno quale mera irregolarità. A proposito del vizio che affligge l’eventuale provvedimento di revoca del rito adottato dal giudice, con orientamento consolidato e di segno opposto a quello formatosi nella vigenza dello statuto originario del rito, si è ritenuto che l’ordinanza di revoca del giudizio abbreviato è affetta da abnormità (Sez. 3, n. 9921 del 2009, Majouri, cit; Sez. 1, n. 32905 del 2008, De Silva, cit; Sez. 6, n. 21168 del 2007, Argese, cit.; Sez. 1, n. 33965 del 2004, Gurliaccio, cit.; Sez. 1, n. 17317 del 2004, Pawlak, cit.). 5. La irrevocabilità dell’ordinanza di ammissione al giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria nel caso in cui, per circostanze imprevedibili e sopravvenute, l’integrazione non sia realizzabile, non contrasta, contrariamente a quanto argomentato nell’ordinanza di rimessione, con i principi della Carta fondamentale.
A fronte dell’inequivoco dato normativo contenuto nell’art. 438 cod. proc. pen., comma 5, è di tutta evidenza che, nel momento in cui formula richiesta di giudizio abbreviato, sia pure “condizionata”, l’imputato – come “contropartita” ad una riduzione di pena nel caso di condanna – accetta l’utilizzabilità, ai fini della decisione di merito, dell’intero materiale probatorio raccolto nelle indagini preliminari fuori del contraddittorio tra le parti, senza alcuna eccezione. In tale ottica, la violazione dell’art. 111 Cost., comma 5, prospettata nell’ordinanza di rimessione è stata ritenuta manifestamente insussistente, posto che il consenso all’utilizzazione degli atti di indagine, insito nella richiesta di giudizio abbreviato, ricade nell’ambito delle ipotesi di deroga al principio di formazione della prova in contraddittorio considerata dal citato art. 111 Cost., comma 5, con la conseguente esclusione di ogni contrasto tra la nuova disciplina dell’abbreviato e i principi del “giusto processo” (Corte Cost., ord. n. 326 del 2001).
E’ stata ritenuta priva di consistenza anche la denuncia della presunta violazione dell’art. 3 Cost., stante la palese eterogeneità – quanto a presupposti e disciplina – dei due moduli processuali posti a confronto (rito ordinario, con piene garanzie dibattimentali, e rito abbreviato, che presuppone la rinuncia dell’imputato alle stesse in cambio di uno “sconto” di pena in caso di condanna). La Corte Costituzionale, pur non essendosi espressamente pronunciata sulla revocabilità del giudizio abbreviato, ha, però, affermato l’irrilevanza della sopravvenuta impossibilità “soggettiva” di assunzione della prova dedotta in condizione all’atto della richiesta del rito, ritenendo implicitamente come tale impossibilità non pregiudichi la sua prosecuzione e l’utilizzabilità ai fini della decisione di tutti gli atti in precedenza acquisiti ed integranti quello “stato degli atti” accettato dall’imputato nel momento in cui ha aderito al giudizio speciale.
Sembra, dunque, potersi dedurre 18 che anche per il giudice delle leggi la modalità di innesco del rito abbreviato descritta nell’art. 438 cod. proc. pen., comma 5, debba essere interpretata nel senso che la condizione apposta dall’imputato riguardi esclusivamente l’ammissione dell’integrazione probatoria richiesta, senza estendersi all’effettiva assunzione della medesima, qualora ciò non risulti possibile (giuridicamente o materialmente) per vicende sopravvenute e indipendenti dalla volontà del giudice. Un ulteriore avallo alla tesi della irrevocabilità dell’ordinanza introduttiva del rito abbreviato – sia pure con riguardo all’impianto originario dell’istituto – è fornito da un’altra decisione della Corte Costituzionale (sent. n. 318 del 1992) che, su tale presupposto, ha ritenuto inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 440 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevedeva la revocabilità dell’ordinanza ammissiva del giudizio abbreviato in caso di modifica dello stato degli atti conseguenti all’interrogatorio dell’imputato, in riferimento all’art. 25, comma 1, art. 101, comma 2, art. 111 Cost., comma 1. 6.
La soluzione interpretativa accolta dal Collegio si armonizza anche con i principi espressi dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo che, pur non affrontando ex professo la questione, ha affermato la complessiva compatibilità della disciplina contenuta negli artt. 438 e ss. cod. proc. proc. con la Convenzione. La domanda di accesso al giudizio abbreviato rappresenta, infatti, l’espressione di una scelta consapevole e ponderata caratterizzata dalla volontaria accettazione della riduzione delle garanzie conseguente all’adesione al rito speciale in cambio di una consistente riduzione della pena in caso di condanna: “l’istante, assistito da due difensori di fiducia, è stato indubitabilmente in grado di rendersi conto delle conseguenze della sua richiesta di adozione della procedura abbreviata” (Corte EDU 18/10/2006, Hermi c. Italia, p. 78).
Nelle sue decisioni la Corte attribuisce, inoltre, particolare rilievo alla circostanza che l’instaurazione del giudizio abbreviato comporta rilevanti limiti al diritto del pubblico ministero di appellare le sentenze di condanna (Corte EDU 18/10/2006, Hermi c. Italia, p. 78; Corte EDU, 17/09/2009, Scoppola c. Italia, p. 134 e ss.). Tali innegabili vantaggi insiti nella procedura richiesta dall’imputato giustificano, quindi, un’attenuazione delle garanzie processuali offerte dal diritto interno, quali, in particolare, la pubblicità del dibattimento, la possibilità di chiedere la produzione di elementi di prova e di ottenere la convocazione di testimoni (Corte EDU, 30/11/2000, Kwiatkowska c. Italia). Infatti, nell’ambito del giudizio abbreviato, la produzione di nuove prove, in linea di massima, è esclusa, poichè la decisione deve essere presa, salvo eccezioni, sulla base degli atti contenuti nel fascicolo della procura (sent. Hermi, dt., p. 87). Al riguardo la Corte (sent. Scoppola, cit, p. 135 e ss.) osserva che “le garanzie sopra indicate costituiscono degli aspetti fondamentali del diritto a un processo equo sancito dall’art. 6 della Convenzione. Nè il testo nè lo spirito di questa disposizione impediscono che una persona vi rinunci spontaneamente In maniera espressa o tacita.
Tuttavia, per essere presa in considerazione sotto il profilo della Convenzione, tale rinuncia deve essere stabilita in maniera non equivoca ed essere accompagnata da un minimo di garanzie corrispondenti alla sua importanza (Poitrimol c. Francia, 23 novembre 1993, p. 31, serie A n. 277- A, e Hermi, già cit., p. 73). Inoltre, essa non deve essere contraria ad alcun interesse pubblico importante (Hcikansson e Sturesson c. Svezia, 21 febbraio 1990, p. 66, serie A n. 171-A, e Sejdovic, cit., p. 86)”.
E’ indubbio, infine, che, a fronte di una rinuncia spontanea ed inequivoca a talune garanzie processuali da parte dell’imputato, sorge in capo a questo un’aspettativa a che lo Stato agisca in buona fede e rispettando le sue scelte. Pertanto, non è consentita alcuna forma di riduzione unilaterale del contenuto dell’accordo sul rito (Corte EDU, sent. Scoppola, cit., p. 134 e ss. che ha ritenuta lesiva del diritto del fair trial la modifica unilaterale in peius dei benefici sostanziali). 7. Sulla base di tutte le considerazioni sinora svolte può, quindi, conclusivamente affermarsi il seguente principio di diritto: “l’ordinanza di ammissione al giudizio abbreviato condizionato ad integrazione probatoria non è revocabile nel caso in cui la condizione alla quale il rito è stato subordinato si riveli non realizzabile per circostanze imprevedibili e sopraggiunte”. 8. Nel caso di specie, dall’esame degli atti – consentito, trattandosi di denuncia di un error in procedendo ex art. 606 cod. proc. pen., comma 1 lett. c), rispetto al quale la Corte di cassazione è “giudice anche del fatto” (Sez. U, n, 42792 del 31/10/2001, Pollastro, Rv. 220092) – risultano le seguenti circostanze. 19 All’udienza preliminare del 29 giugno 2004, celebrata dinanzi al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Catania e rinviata per impedimento di un coimputato, il difensore di P. formulava, nell’interesse del suo assistito, richiesta di ammissione al rito abbreviato condizionato ad integrazione probatoria. Alla successiva udienza del 5 ottobre 2004 i difensori di B., P., D., M., R. eccepivano la nullità delle dichiarazioni rese da O. nella fase delle indagini preliminari a seguito di sua omessa compiuta identificazione ai sensi degli artt. 131, 142 cod. proc. pen. e art. 115 disp. att. cod. proc. pen.; e sottolineavano la rilevanza della questione posta in relazione alla scelta dei riti alternativi. Il giudice riservava la decisione alla successiva udienza del 3 novembre 2004. In tale data rigettava l’eccezione proposta argomentando che l’omessa esibizione di un documento di riconoscimento da parte del soggetto escusso non determinava un’incertezza assoluta sulla sua identità, cui si poteva comunque risalire dagli atti di indagine compiuti. Subito dopo la lettura del provvedimento, i difensori di B., D., M., R., P. avanzavano richiesta di giudizio abbreviato che veniva subordinata, da parte del difensore dei primi quattro imputati, all’esame di O. e, da parte del legale di fiducia di P., anche all’escussione del teste Re..
Nel corso della medesima udienza il giudice respingeva la richiesta di integrazione probatoria, osservando che O. e Re. avevano reso ampie ed esaustive dichiarazioni nella fase delle indagini preliminari, che la difesa degli imputati non aveva precisato le circostanze in merito alle quali si rendeva necessario il loro ulteriore esame e che, pertanto, l’integrazione probatoria richiesta non appariva necessaria ai fini della decisione. Il provvedimento veniva confermato anche all’esito delle ulteriori argomentazioni sviluppate dalle difese degli imputati in ordine alla necessità di verificare l’attendibilità dei testi, di cui era stata rispettivamente sollecitata l’escussione alla luce delle ulteriori acquisizioni investigative. All’esito di tale decisione, B., D., M., R., sia personalmente sia tramite i loro difensori di fiducia, formulavano richiesta di giudizio abbreviato.
Al contrario P. e i suoi legali dichiaravano espressamente di non volere accedere ad alcun tipo di rito alternativo. Introdotta la fase dibattimentale, all’udienza del 30 giugno 2005 la difesa di P. reiterava la richiesta di giudizio abbreviato, subordinandola all’integrazione probatoria costituita dall’assunzione delle dichiarazioni di O. e Re. per le ragioni già illustrate nel corso dell’udienza preliminare. In tale sede il difensore precisava che, qualora i testi fossero risultati irreperibili, si sarebbe dovuti ritornare all'”attività ordinaria” (f. 40 del verbale stenotipico). Alla successiva udienza del 20 ottobre 2005, P. e il suo difensore venivano resi edotti della circostanza che era stata effettuata positivamente la sola citazione di Re. (in seguito effettivamente escussa).
Preso atto di ciò il legale di P., dopo avere premesso che l’irreperibilità di O. incideva sulla condizione cui aveva subordinato la richiesta di rito alternativo, non affermava di volere proseguire il giudizio nelle forme ordinarie, bensì dichiarava che, ferma restando la richiesta in precedenza formulata, dovevano ritenersi inutilizzabili le dichiarazioni rese da O. nella fase delle indagini preliminari.
Sulla base di questi elementi obiettivi è indubbio che P. e il suo difensore, una volta resi edotti della sopravvenuta irreperibilità di uno dei due testimoni ( O.), al cui esame avevano subordinato la richiesta di giudizio abbreviato condizionato, non hanno revocato la domanda di giudizio abbreviato in precedenza formulata nè hanno espressamente dichiarato di volere proseguire il giudizio nelle forme ordinarie, bensì hanno reiterato la volontà di accedere al rito semplificato, limitandosi a formulare rilievi circa l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da O. nella fase delle indagini preliminari.
Tale eccezione non può essere ricondotta al paradigma del rito abbreviato condizionato, in quanto l’interpretazione letterale dell’art. 438 cod. proc. pen., comma 5, evidenzia in modo inequivoco che la subordinazione della richiesta di giudizio abbreviato riguarda esclusivamente l’integrazione probatoria e che non è prevista una richiesta di rito abbreviato sottoposta alla condizione sospensiva del riconoscimento della inutilizzabilità di una prova acquisita in fase di indagini preliminari (Sez. 4, n. 21803 del 26/05/2011, Ciotti, Rv. 250712). La mancata esplicita manifestazione, da parte dell’imputato e del suo difensore di fiducia, della volontà di celebrare il giudizio ordinario a seguito della sopravvenuta impossibilità dell’esame di uno dei testi cui era stata condizionata la domanda di giudizio abbreviato, la contestuale conferma della volontà di rito semplificato in precedenza manifestata e la sola formulazione di un’eccezione di inutilizzabilità delle dichiarazioni acquisite nella fase delle indagini preliminari costituiscono altrettanti elementi obiettivi ed univoci per affermare che, nel caso di specie, non si verte, certamente, in un’ipotesi di modifica unilaterale, da parte del giudice, della condizione processuale alla quale l’imputato aveva subordinato l’atto abdicativo. 20 Sotto tutti questi profili, dunque, le censure prospettate dalla difesa di P. in ordine alla mancata revoca del giudizio abbreviato, una volta accertata l’impossibilità di procedere all’integrazione probatoria cui era stata subordinata la domanda, non sono meritevoli di accoglimento. 9. Non sono fondate neppure le ulteriori doglianze proposte dal difensore di P. con riferimento alla utilizzazione delle dichiarazioni rese nella fase delle indagini da O. nella veste di persona informata dei fatti. Come già in precedenza accennato, il giudizio abbreviato viene definito con una decisione allo stato di atti contenenti prove non formatesi con il metodo dibattimentale. La richiesta di giudizio abbreviato è atto di rinuncia da parte dell’imputato alle garanzie del dibattimento, in particolare al contraddittorio nella formazione della prova, e consente di attribuire agli elementi raccolti nella fase delle indagini (oltre che nel giudizio abbreviato stesso) quel valore probatorio di cui essi sono normalmente sprovvisti nel giudizio che si svolge nelle forme ordinarie del dibattimento.
Tuttavia, tale atto processuale di tipo abdicativo non può essere inteso come rinuncia ad eccepire e a far rilevare l’esistenza di atti viziati da nullità assoluta o da “patologica” inutilizzabilità a fini di prova. Rientrano in tale categoria tanto le prove oggettivamente vietate, quanto le prove comunque formate o acquisite in violazione – o con modalità lesive – dei diritti fondamentali della persona tutelati dalla Costituzione e, perciò, assoluti e irrinunciabili, a prescindere dall’esistenza di un espresso o tacito divieto al loro impiego nel procedimento contenuto nella legge processuale (Sez. U, n. 16 del 21/06/2000, Tammaro, Rv.216246; Sez. U, n. 6 del 23/02/2000, D’Amuri, Rv. 215841, 215842; Sez. U, n. 21 del 13/07/1998, Gallieri, Rv. 211195-97; Sez. U, n. 9 del 25/03/1998, D’Abramo, Rv. 210800, 210803; Sez. U, n. 10 del 25/03/1998, Savino, Rv. 210804; Sez. U, n. 21 del 20/11/1996, dep. 1997, Glicora, Rv. 206954-55; Sez. U, n. 3 del 27/03/1996, Monteleone, Rv. 204811; Sez. U, n. 5021 del 27/03/1996, Sala, Rv. 204643, 204644). Al contrario, nel giudizio abbreviato non rileva l’inutilizzabilità “fisiologica” della prova, cioè quella coessenziale ai peculiari connotati del processo accusatorio, in virtù del quale il giudice non può utilizzare prove, pure assunte secundum legem, ma diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento secondo l’art. 526 cod. proc. pen., con i correlati divieti di lettura di cui all’art. 514 cod. proc. pen. In tal caso il vizio-sanzione dell’atto probatorio è neutralizzato dalla scelta di tipo abdicativo, che fa assurgere a dignità di prova gli atti d’indagine compiuti senza le forme del contraddittorio dibattimentale, così paralizzando l’operatività dell’ordinario regime di impermeabilità della fase dibattimentale agli elementi di prova raccolti nella fase procedimentale delle indagini preliminari. La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di questo principio, ritenendo utilizzabili le dichiarazioni rese da O., persona informata sui fatti, potenziale testimone, alla polizia giudiziaria e al pubblico ministero, anche se resosi successivamente irreperibile (Sez. 3, n. 7432 del 15/01/2002, Deda. Rv. 221489; Sez. 4, n. 42949 del 02/10/2001, Spaccavento, Rv. 220858). I limiti di lettura di atti per sopravvenuta impossibilità di ripetizione sono, quindi, destinati al dibattimento e non riguardano la fase delle indagini in quanto posti a presidio della formazione della prova in contraddittorio (cfr., con riferimento al giudizio abbreviato condizionato, Sez. 2, n. 15117 del 2007, Polverino, cit.; Sez. 5, n. 40580 del 2002, Einaudi, cit.; Sez. 5, n. 45994 del 08/07/2004, Fontana, Rv. 231391; Sez. 4, n. 599 del 28/02/1997, Campaci, Rv. 207255; Sez. 1, n. 4836 dell’11/12/1991, dep. 1992, Loiodice, Rv. 189132). Non si verte, quindi, in ipotesi di inutilizzabilità “patologica”, inerente cioè ad atti probatori assunti contra legem, il cui impiego è vietato in modo assoluto (Sez. U, n. 16 del 2000, Tammaro, cit.; v. anche Sez. U, n. 930 del 13/12/1995, dep. 1996, Clarke, Rv. 203427; cfr. anche, con riferimento ai rapporti tra rito speciale e disciplina dell’art. 513 cod. proc. pen. nel testo introdotto dalla L. n. 267 del 1997, Sez. 1, n. 29435 del 24/04/2003, Barone, Rv. 225034; Sez. 4, n. 1962 del 25/11/1998, dep. 1999, Orrù, Rv. 213228). Nel giudizio abbreviato non vige, quindi, il principio del contraddittorio affermato nell’art. 111 Cost., comma 4, secondo cui la colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore. Infatti, secondo il citato art. 111 Cost., comma 5, la legge può regolare casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato. Si tratta di una riserva di legge rafforzata, perchè stabilisce espressamente le possibili deroghe al principio del contraddittorio, destinate ad essere specificate con legge ordinaria. Mediante la disciplina del rito abbreviato e degli atti utilizzabili nell’ambito di esso ai fini della decisione, la legge processuale 21 regola appunto un’ipotesi in cui l’imputato, in cambio di una diminuzione di pena, accetta come prova quella formata senza contraddittorio, durante le indagini preliminari, davanti al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria. In altri termini, nel giudizio abbreviato è applicabile non l’art. 111 Cost., comma 4, che afferma il principio del contraddittorio nella formazione della prova, ma il comma 5 del citato articolo, che prevede una deroga al principio su consenso dell’imputato. Ciò è anche confermato dalla circostanza che il legislatore ordinario, nel dare attuazione a quel principio fa chiaramente riferimento al rito dibattimentale ordinario, in particolare laddove, nella L. 1 marzo 2001, n. 63, art. 26 richiama espressamente il fascicolo del dibattimento, in cui devono essere inserite le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari per poter essere in qualche modo valutate a fini probatori. Nel rito abbreviato, invece, non si procede alla formazione di un fascicolo del dibattimento, ma si acquisisce per l’utilizzazione probatoria il fascicolo del pubblico ministero (art. 442, comma 1 bis, in relazione all’art. 416 cod. proc. pen., comma 2). I principi sinora illustrati ben si armonizzano, infine, con quelli enunciati dalla Corte Costituzionale che, chiamata a pronunziarsi sui rapporti tra il rito speciale e la disciplina dell’art. 513 cod. proc. pen. (nel testo introdotto dalla L. n. 267 del 1997), ha osservato che quest’ultima deve ritenersi ontologicamente estranea al giudizio abbreviato, che si svolge allo stato degli atti con conseguente riconoscimento della immediata e diretta utilizzabilità ai fini della prova di tutto quanto da essi risultante (sent. n. 361 del 1998; ord. n. 262 del 2001; ord. n. 358 del 2004). Per queste ragioni, deve essere disatteso il secondo motivo del ricorso con cui P. ha contestato la utilizzazione, nell’ambito del giudizio abbreviato, delle dichiarazioni rese da O. nella fase delle indagini preliminari. 10. Insussistente è pure la dedotta violazione dell’art. 142 cod. proc. pen. prospettata dalla difesa di P.. L’interpretazione letterale e logico-sistematica dell’art. 142 cod. proc. pen., avvalorata dall’analisi dei lavori preparatori, consente di affermare che il legislatore ha inteso comprimere al massimo la sfera delle situazioni con effetti invalidanti sul verbale, con relativa espansione delle mere irregolarità formali. La disposizione secondo la quale il verbale è nullo “se vi è incertezza assoluta sulle persone che sono intervenute” deve essere pertanto interpretata restrittivamente ed intesa nel senso che i requisiti indispensabili ai fini della legittimità di un verbale sono la certezza che l’ufficio che ha proceduto alla redazione sia stato effettivamente ricoperto e che siano stati assolti i compiti istituzionali (Sez. 3, n. 17801 del 20/01/2011, R., Rv. 249987; Sez. 2, n. 3513 del 22/05/1997, Acampora, Rv. 208074; Sez. 6, n. 936 del 31/03/1993, Irrera, Rv. 194379). Pertanto la nullità del verbale si verifica solo in quei casi nei quali vi è una incertezza assoluta, tale cioè da impedire qualsiasi possibilità di identificazione delle persone intervenute, ovvero una mancanza della sottoscrizione da parte del pubblico ufficiale che ha redatto il verbale (Sez. 5, n. 6399 del 06/11/2009, dep. 2010, Marcomini, Rv. 246057). Affinchè sussista incertezza assoluta sulla persona intervenuta, è necessario che l’identità del soggetto che partecipa all’atto non solo non sia documentata nella parte del verbale specificamente destinata a tale attestazione, ma non sia neppure desumibile da altri dati contenuti nello stesso nè da altri atti processuali richiamati dal verbale o che a questo siano, comunque, riconducibili. Nel caso in esame correttamente i giudici di merito hanno escluso la violazione dell’art. 142 cod. proc. pen., laddove hanno evidenziato, con specifico richiamo del compendio probatorio acquisito, che la circostanza che O.F.M.A. non fosse in grado di esibire un documento di riconoscimento in occasione del verbale delle sommarie informazioni rese il 27 giugno 1998 ad ufficiali di polizia giudiziaria della Squadra Mobile di Catania non determinava una incertezza assoluta sulla sua identità, essendo la stessa desumibile in maniera univoca dal complesso delle altre attività investigative svolte. 11. Non merita accoglimento il terzo motivo di ricorso con il quale la difesa di P. denuncia la violazione dei canoni di valutazione probatoria e carenza motivazionale della sentenza impugnata con riferimento al giudizio di complessiva attendibilità delle dichiarazioni rese da una delle persona offese dal reato ( Re.), nonchè la carenza, l’illogicità della motivazione e il travisamento della prova. 11.1. Il Collegio ritiene di dovere riaffermare in questa sede il principio, espresso da un consolidato indirizzo esegetico, per il quale le regole dettate dall’art. 192 cod. proc. pen., comma 3, non trovano applicazione relativamente alle dichiarazioni della parte offesa: queste ultime possono essere legittimamente poste da sole a base dell’affermazione di 22 penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della loro credibilità soggettiva e dell’attendibilità intrinseca del racconto (cfr. ex multis e tra le più recenti Sez. 4, n. 44644 del 18/10/2011, F., Rv. 251661; Sez. 3, n. 28913 del 03/05/2011, C, Rv. 251075; Sez. 3, n. 1818 del 03/12/2010, dep. 2011, L. C, Rv. 249136; Sez. 6, n. 27322 del 14/04/2008, De Ritis, Rv. 240524). Il vaglio positivo dell’attendibilità del dichiarante deve essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello generico cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone, di talchè tale deposizione può essere assunta da sola come fonte di prova unicamente se venga sottoposta a detto riscontro di credibilità oggettiva e soggettiva. Può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi qualora la persona offesa si sia anche costituita parte civile e sia, perciò, portatrice di una specifica pretesa economica la cui soddisfazione discenda dal riconoscimento della responsabilità dell’imputato (Sez. 1, n. 29372 del 24/06/2010, Stefanini, Rv. 248016; Sez. 6, n. 33162 del 03/06/2004, Patella, Rv. 229755). Costituisce, infine, principio incontroverso nella giurisprudenza di legittimità l’affermazione che la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni (cfr. ex plurimis Sez. 6, n. 27322 del 2008, De Ritis, cit.; Sez. 3, n. 8382 del 22/01/2008, Finazzo, Rv. 239342; Sez. 6, n. 443 del 04/11/2004, dep. 2005, Zamberlan, Rv. 230899; Sez. 3, n. 3348 del 13/11/2003, dep. 2004, Pacca, Rv. 227493; Sez. 3, n. 22848 del 27/03/2003, Assenza, Rv. 225232). Orbene, i giudici di merito – tenendo doverosamente ed accuratamente conto di tutti gli elementi emersi nel corso del processo – hanno spiegato, con iter argomentativo esaustivo, logico, correttamente sviluppato e saldamente ancorato all’esame delle singole emergenze processuali, le ragioni per le quali le dichiarazioni rese da Re., persona offesa dal reato, sono da ritenere intrinsecamente e oggettivamente attendibili e trovano univoci e significativi elementi di convergenza negli altri elementi investigativi acquisiti e, in particolare, nel contenuto della conversazione intercettata il 20 maggio 1998 tra l’agente Bi. ed una prostituta, nelle dichiarazioni rese dalle persone informate sui fatti ( O., Be., Z., A., C., G.), nelle schede di intervento dei Vigili del fuoco e nelle annotazioni di servizio redatte dai Carabinieri riguardanti le azioni di danneggiamento e incendio, costituenti la concretizzazione delle ritorsioni prospettate per la mancata adesione alle prestazioni sessuali richieste. 11.2. Con riguardo alle restanti censure, il Collegio osserva che sussiste il vizio di travisamento della prova quando sussista una incontrovertibile antinomia tra i risultati obiettivamente derivanti dalla prova assunta e le conseguenze che il giudice di merito ne abbia tratto. Tale vizio è configurabile soltanto quando l’accertata distorsione tra il risultato probatorio posto a base dell’argomentazione del giudice e l’atto processuale o probatorio (definito in termini di “contraddittorietà processuale” diversa e distinta da quella “logica”) disarticoli effettivamente l’intero ragionamento probatorio e, alla stregua dei parametri di rilevanza e decisività, renda illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato probatorio trascurato o travisato. Il vizio della prova travisata in tanto è sindacabile in sede di legittimità in quanto sia dimostrata da parte del ricorrente l’avvenuta rappresentazione al giudice della precedente fase di impugnazione degli elementi dai quali quest’ultimo avrebbe dovuto rilevare detto travisamento, sicchè la Corte possa, a sua volta, desumere dal testo del provvedimento impugnato se e come quegli elementi siano stati valutati (Sez. U, n. 45276 del 30/10/2003, Andreotti, Rv.226094, 226098; Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207941, 207946; cfr. inoltre, ex multis, Sez. 6, n. 8342 del 18/11/2010, dep. 2011, Greco, Rv. 249583; Sez. 6, n. 10951 del 15/03/2006, Casula, Rv. 233708, 233710). Alla luce dei principi sinora esposti, nel caso in esame il dedotto vizio non sussiste. Il ricorrente non deduce, infatti, una discrasia tra il contenuto delle prove e il risultato probatorio, bensì l’erronea valutazione di attendibilità e concludenza dell’elemento probatorio e, postulando un preteso travisamento del fatto sulla base di mirate estrapolazioni di singoli brani dei verbali delle prove dichiarative, sollecita, in realtà, la rilettura del quadro probatorio e, con esso, il sostanziale riesame nel merito, inammissibile in sede d’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione, allorquando la struttura razionale della sentenza impugnata abbia – come nella specie – una sua chiara e puntuale coerenza argomentativa e sia saldamente ancorata, nel rispetto delle regole della logica, alle risultanze del quadro probatorio, indicative univocamente della coscienza e volontà del ricorrente di costringere, mediante abuso della sua qualità di Ispettore di Polizia, varie prostitute extracomunitarie ad avere rapporti sessuali, prospettando loro, in caso di rifiuto, la revoca del permesso di soggiorno e gravi azioni di danneggiamento degli immobili ove si svolgeva l’attività di meretricio. 23 12. Non fondate sono anche le censure avanzate dalla difesa di P. in ordine alla qualificazione giuridica del fatto. 12.1. Elemento essenziale del delitto di concussione (art. 317 cod. pen.) è l’abuso dei poteri – cioè l’esercizio delle potestà funzionali per uno scopo diverso da quello per il quale il pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio è stato investito – o l’abuso della qualità pubblica – ossia l’utilizzazione per tornaconto personale del ruolo che l’agente ha assunto nell’ambito dell’organizzazione amministrativa e, quindi, dell’ufficio – per effetto dei quali la volontà del soggetto passivo si determina sotto l’influenza del c.d. metus publicae potestatis (Sez. 6, n. 2972 del 10/10/1979, dep. 1980, Biagetti, Rv. 144524). Per tale deve intendersi, lo stato di paura o di timore ingenerato nel privato dalla situazione di preminenza di cui usufruisce il pubblico ufficiale. Il metus deve consistere non nella generica posizione di supremazia, sempre connaturata alla qualifica di pubblico ufficiale, bensì nel concreto abuso della veste pubblica, idoneo a far sì che la indebita promessa o dazione da parte del privato sia collegata alla pressione connessa a detto abuso e alla correlata posizione non paritaria con il pubblico ufficiale (Sez. 6, n. 21508 del 14/04/2008, Valentini, Rv. 240071; Sez. 6, n. 6073 del 20/11/2003, dep. 2004, Filippi, Rv. 227846; Sez. 6, n. 9389 del 18/04/1994, Russo, Rv. 199522). Lo stato di soggezione del soggetto passivo non deve tradursi necessariamente in un’eliminazione totale della sua volontà, essendo sufficiente che la stessa sia, comunque, condizionata dal metus publicae potestatis. Quest’ultimo, quindi, è configurabile non solo quando la volontà del privato sia coartata dall’esplicita minaccia di un danno ovvero fuorviata dall’inganno, ma altresì qualora venga repressa dalla posizione di preminenza del pubblico ufficiale, il quale, pur senza avanzare esplicite ed aperte pretese, di fatto agisca in modo da ingenerare nella vittima la fondata convinzione di dover sottostare alle decisioni del pubblico ufficiale per evitare il pericolo di subire un pregiudizio, inducendolo così a dare o promettere denaro o altra utilità (Sez. 6, n. 46514 del 23/10/2009, Tisci, Rv. 245335; Sez. 6, n. 5548 del 22/03/2000, Pifani, Rv.220557). Ai fini della configurabilità del metus è irrilevante la circostanza che sia stato lo stesso privato, in conseguenza del comportamento subdolo e malizioso del pubblico ufficiale, ad offrire al medesimo denaro od altra utilità (Sez. 6, n. 24401 dell’11/03/2008, Carrano, Rv. 240355). Le modalità della condotta di concussione sfuggono alla possibilità di una rigorosa delimitazione in chiave descrittiva attraverso predeterminate regole comunicative (Sez. 6, n. 2725 del 17/01/1994, Lentini, Rv. 197094), potendo tale condotta estrinsecarsi attraverso qualsiasi atteggiamento, anche implicito (Sez. 6, n. 2303 del 22/10/1997, dep. 1998, Nicolazzi, Rv. 209977), che sia comunque in grado, tenuto conto anche delle particolari condizioni in cui si svolge, di turbare o diminuire la libertà psichica dei soggetto passivo che ne sia destinatario (Sez. 6, n. 833 del 13/11/1986, dep. 1987, Grimaudo, Rv. 174933), indipendentemente dalla verifica della sua idoneità potenziale a produrre i medesimi effetti nei confronti di qualsiasi altro soggetto (Sez. 6, n. 6385 del 09/02/1996, Fatone, Rv. 205099). La circostanza che l’atto, oggetto del mercimonio, del pubblico ufficiale sia illegittimo e contrario ai doveri di ufficio non comporta, di per sè, la qualificazione giuridica del fatto come corruzione piuttosto che come concussione neppure quando il soggetto passivo versi già in una situazione di illiceità e sia consapevole dell’illegittimità dell’atto, in quanto, ai fini della sussistenza del delitto di cui all’art. 317 cod. pen., è sufficiente che rimanga inalterata la posizione di preminenza prevaricatrice del pubblico ufficiale sulla intimorita volizione del privato (Sez. 6, n. 8651 del 01/02/1993, Cardillo, Rv. 195529), indotta dall’abuso delle qualità o delle funzioni del primo (Sez. 6, n. 5991 del 09/03/1984, Avalle, Rv. 164976), tale da escludere che la volontà del secondo si sia liberamente determinata (Sez. 6, n. 6100 del 04/05/1983, Alfonso, Rv.159675). Il criterio discretivo tra la fattispecie di concussione e quella di corruzione deve essere individuato nel rapporto tra le volontà dei soggetti, che, nella corruzione, si configura come paritario ed implica la libera convergenza delle medesime verso la realizzazione di un comune obiettivo illecito, mentre nella concussione è caratterizzato dalla presenza di una volontà costrittiva o induttiva del pubblico ufficiale, condizionante la libera formazione di quella del privato, il quale si determina alla dazione, ovvero alla promessa, soggiacendo all’ingiusta pretesa del primo solo per evitare un pregiudizio maggiore (cfr. ex multis Sez. 6 n. 38650 del 05/10/2010, Di Stasi, Rv. 248522; Sez. 6, n. 2265 del 13/01/2000, Lattanzio, Rv. 215639; Sez. 6, n. 8651 del 01/02/1993, Cardillo, Rv.195530). 12.2. Nel caso in esame i giudici di merito hanno fatto corretta applicazione dei principi in precedenza illustrati, ravvisando, nella relazione fra le cittadine extracomunitarie dedite ad attività di prostituzione e l’Ispettore di Polizia P., addetto alla verifica della regolarità delle presenze nel territorio dello Stato delle donne, una situazione di palese squilibrio prevaricatorio, tale da determinare nelle donne – destinatane della minaccia della revoca del permesso di soggiorno e di gravi azioni di danneggiamento degli immobili, ove veniva svolta l’attività di meretricio – uno stato di 24 soggezione idoneo a condizionarne le volontà (cfr., per un’analoga fattispecie, Sez. 6, n. 9528 del 09/01/2009, Romando, Rv. 243047). La sentenza impugnata è, pertanto, immune dai vizi denunziati, laddove ha qualificato il comportamento posto in essere dal P. come concussione e non come corruzione. 13. Manifestamente infondato è il dedotto vizio di mancanza della motivazione riguardante l’omesso proscioglimento ampio nel merito dell’imputato dal delitto di cui all’art. 424 cod. pen. in relazione al quale il giudice di primo grado, previa riqualificazione dell’originaria contestazione ex art. 423 cod. pen., aveva dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione. L’atto di appello era, infatti, sul punto privo del requisito di specificità (art. 581 cod. proc. pen., lett. c), atteso che la censura era stata semplicemente enunciata e la parte non aveva assolto all’onere di indicare, in modo chiaro e preciso, gli elementi posti a base dei rilievi difensivi al fine di consentire al giudice dell’impugnazione di individuare i rilievi mossi e di esercitare il proprio sindacato (cfr. ex plurimis Sez. 3, n. 5020 del 17/12/2009, dep. 2010, Valentini, Rv. 245907; Sez. 4, n. 24054 del 01/04/2004, Distante, Rv. 228586). 14. Non fondata è la doglianza con la quale la difesa di P. denuncia carenza della motivazione in ordine all’omessa concessione delle circostanze attenuanti generiche e alla dosimetria della pena. I giudici di merito, nel rispetto dei principi costantemente enunciati dalla giurisprudenza di legittimità, con motivazione immune da vizi logici e giuridici, hanno correttamente valorizzato, ai fini del diniego delle circostanze attenuanti generiche e della dosimetria della pena, la gravità delle condotte reiteratamente poste in essere dall’imputato, la intensità della inosservanza dei doveri inerenti alla pubblica funzione rivestita, il discredito derivato dalla violazione dei doveri di legalità, imparzialità, buon andamento della Pubblica amministrazione. 15. Non è meritevole di accoglimento neppure il ricorso proposto dagli imputati B., D., M., R.. Gli stessi lamentano la mancata estensione dei principi enunciati dalle Sezioni Unite di questa Corte (sent. n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244273, 244274) all’ipotesi in cui dall’immediata declaratoria di una causa di non punibilità ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. possa conseguire un pregiudizio per l’imputato (nella fattispecie identificato nell’inidoneità di tale pronunzia a sottrarre i ricorrenti alla sanzione disciplinare); in via subordinata eccepiscono l’illegittimità costituzionale della norma da ultima richiamata. 15.1. La questione sottoposta all’esame del Collegio deve essere inquadrata sul più ampio sfondo dei principi enunciati dalla Corte Costituzionale e dalle Sezioni Unite di questa Corte La Corte costituzionale, con plurime decisioni, ha evidenziato che il principio della prevalenza delle formule assolutorie di merito su quelle dichiarative dell’estinzione del reato è razionalmente contemperato, anche a fini di economia processuale, con l’esigenza che appaia del tutto evidente dalle risultanze probatorie che “il fatto non sussiste” o che “l’imputato non lo ha commesso” o che “il fatto non costituisce reato” o “non è previsto dalla legge come reato”; tale esigenza dovendo necessariamente essere valutata in rapporto allo stato del procedimento (sent. n. 5 del 1975). Con specifico riferimento alla disciplina in tema di amnistia, la Corte costituzionale ha sottolineato la particolare valenza della rinunziabilità della causa estintiva che – costituendo esplicazione del diritto di difesa – è posta a tutela del diritto “di chi sia perseguito penalmente ad ottenere non già solo una qualsiasi sentenza che lo sottragga alla irrogazione della pena, ma precisamente quella sentenza che nella sua formulazione documenti la non colpevolezza” (ordd. nn. 300 e 362 del 1991). Le decisioni della Corte Costituzionale hanno inoltre evidenziato – sempre con riferimento alla rinunzia all’amnistia – che il diritto di difesa ricomprende non solo la pretesa al regolare svolgimento di un giudizio che consenta libertà di dedurre ogni prova a discolpa e garantisca piena esplicazione del contraddittorio, ma anche il diritto al riconoscimento della completa innocenza, da considerare il bene della vita costituente l’ultimo e vero oggetto della difesa, rispetto al quale le altre pretese al giusto procedimento assumono funzione strumentale (sentt. n. 175 del 1971 e n. 275 del 1990). In tale contesto hanno, altresì, argomentato che all’Interesse morale ad una sentenza di assoluzione con formula piena si affianca quello patrimoniale, in quanto l’assoluzione da amnistia lascia integra – oltre ad eventuali responsabilità amministrative – l’azione civile al risarcimento del danno, laddove “corrisponde all’interesse dell’imputato di ottenere dal 25 giudice penale una pronuncia che, ricorrendone i presupposti, renda improponibile l’azione civile” (sent. n. 175 del 1971). Le Sezioni Unite di questa Corte hanno, a loro volta, sottolineato che l’art. 129 cod. proc. pen. – norma riferita ai giudizio in senso tecnico in cui si instaura la piena dialettica processuale tra le parti e si dispone di tutti gli elementi per la scelta delle formule assolutorie più opportune, rispettando le legittime aspettative dell’imputato (sent. n. 3027 del 19/12/2001, Angelucci, Rv. 220555) – non attribuisce al giudice un potere di giudizio ulteriore ed autonomo rispetto a quello già riconosciutogli dalle specifiche norme che regolano l’epilogo decisionale di proscioglimento nelle varie fasi e nei diversi gradi del processo (artt. 425, 469, 529, 530 e 531 cod. proc. pen.), ma enuncia “una regola di condotta rivolta al giudice che, operando in ogni stato e grado del processo, presuppone un esercizio della giurisdizione con effettiva pienezza del contraddittorio” (sent. n. 12283 del 25/01/2005, De Rosa, Rv. 230529- 31). In presenza di determinate e tassative condizioni, che svuotano di contenuto – per ragioni di merito – l’imputazione, o ne fanno venire meno – per la presenza di ostacoli processuali (difetto di condizioni di procedibilità) o per l’avverarsi di una causa estintiva – la effettiva ragion d’essere, il dovere dell’immediata declaratoria, anche d’ufficio, di determinate cause di non punibilità che il giudice “riconosce” come già acquisite agli atti costituisce, quindi, l’espressione di una “prescrizione generale di tenuta del sistema” (Sez. U, sent. n. 3027 Angelucci, cit.) ed è funzionale a garantire le esigenze di economia processuale, di speditezza del processo e ad attuare il principio del favor rei (Sez. U, n, 18 del 09/06/1995, Cardoni, Rv. 202374, 202375). Tali finalità si collocano sullo sfondo del più ampio principio di legalità, di cui l’art. 129 cod. proc. pen. rappresenta la proiezione sul piano processuale: la disposizione in esame, infatti, in presenza di una causa di non punibilità, vuole evitare il compimento di ulteriori attività processuali e vuole favorire una pronta definizione del giudizio, anche se fondato su elementi incompleti ai fini di un compiuto accertamento della verità da un punto di vista storico (Sez. U, n. 17179 del 27/02/2002, Conti, Rv.211401, 211403). La dizione letterale della rubrica dell’art. 129 cod. proc. pen. (“Immediata declaratoria”) non richiama una connotazione di “tempestività temporale” assoluta, ma vuole, piuttosto, significare che, qualora ne sussistano le condizioni, la disposizione opera, nel corso dell’intero iter processuale, con carattere di pregiudizialità su altri eventuali provvedimenti decisori suscettibili di adozione da parte del giudice (Sez. U, n. 17179 del 2002, Conti, cit.). Con riferimento all’interpretazione letterale dell’art. 129 cod. proc. pen. e alla nozione di “evidenza della prova” dell’innocenza dell’imputato in esso contenuta – ai fini della prevalenza della formula di proscioglimento sulla causa estintiva del reato – si è osservato che il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’art. 129 cod. proc. pen., comma 2, soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la sua rilevanza penale e la non commissione del medesimo da parte dell’imputato emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, al punto che la valutazione da compiersi in proposito appartiene più al concetto di “constatazione” (percezione ictu oculi), che a quello di “apprezzamento”, incompatibile, dunque, con qualsiasi necessità di accertamento o approfondimento (Sez. U, n. 35490 del 2009, Tettamanti, cit.). L’inapplicabilità della formula di proscioglimento nel merito a fronte della dichiarazione immediata della causa di non punibilità nel caso di contraddittorietà o insufficienza della prova (art. 530 cod. proc. pen., comma 2) è desumibile, oltre che dall’argomento letterale in precedenza richiamato, dalla lettura logico-sistematica dell’art. 129 alla luce dell’art. 531 cod. proc. pen.. Quest’ultima disposizione, in presenza di una causa estintiva del reato, sancisce l’obbligo della pronunzia della sentenza di non doversi procedere, salvo che nel caso in cui dagli atti risulti evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o, infine, che non è previsto dalla legge come reato (“salvo quanto disposto dall’art. 129, comma 2”). Solo all’esito dell’istruttoria dibattimentale, ossia al momento della valutazione del compendio probatorio acquisito, il giudice può disporre di tutti gli elementi per addivenire anche all’esatta qualificazione giuridica del fatto: pertanto, nel caso di ritenuta configurabilità di un reato diverso e meno grave rispetto a quello contestato, tale da risultare prescritto, il giudice, in mancanza della prova evidente (nel senso della sua “constatazione” e non del suo “apprezzamento”) dell’innocenza, deve pronunciare declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione, senza procedere ad alcun approfondimento nella valutazione del materiale probatorio agli atti. Inoltre, intervenuta la causa estintiva del reato di cui all’imputazione, il giudice, all’esito dell’istruttoria dibattimentale e in presenza di un compendio probatorio insufficiente o contraddittorio, non può esercitare i poteri officiosi ex art. 507 26 cod. proc. pen. (possibilità ammessa anche per il giudice ritiratosi in camera di consiglio per la deliberazione della sentenza), ma deve dichiarare l’estinzione del reato enunciandone la causa nel dispositivo. Qualora, a fronte di una causa estintiva, si privilegiasse una formula liberatoria nel merito in presenza di una prova insufficiente o contraddittoria, si perverrebbe al risultato paradossale per cui la “evidenza” ex art. 129 cpv. cod. proc. pen. ricorrerebbe anche nel caso di ambiguità probatoria (art. 530 cod. proc. pen., comma 2). Si determinerebbe, in tal modo, una non consentita equiparazione tra due situazioni tra loro profondamente diverse: l’evidenza della innocenza dell’imputato, l’incertezza del quadro probatorio in ordine alla sua responsabilità. Le considerazioni sinora svolte consentono di affermare che la regola di giudizio dettata dall’art. 129 cod. proc. pen., comma 2, rimane subordinata ad una situazione di evidenza probatoria risultante obiettivamente dagli atti nel momento in cui si verifica il fatto estintivo, mentre la regola probatoria contenuta nell’art. 530 cod. proc. pen., comma 2, (dovere di pronunciare sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova della responsabilità) è riferibile soltanto all’epilogo decisorio conseguente alla formazione e acquisizione delle prove nel contraddittorio fra le parti e ad un’approfondita valutazione di tutto il compendio probatorio acquisito (Sez. U, n. 35490 del 2009, Tettamanti, cit.). Questo approdo interpretativo appare connotato da intrinseca razionalità anche sotto i seguenti ulteriori profili. Qualora, in presenza di una causa estintiva del reato già maturata, si ammettesse la rilevabilità, da parte del giudice di legittimità, del vizio di motivazione della sentenza impugnata, il rinvio al giudice del merito sarebbe incompatibile con il principio dell’immediata applicabilità della causa estintiva e, in ogni caso, il giudice di merito destinatario del processo in sede di rinvio sarebbe obbligato a rilevarla e a dichiararla immediatamente (Sez. U, n. 17179 del 2002, Conti, cit.; Sez. U, n. 1021 del 28/11/2001, dep. 2002, Cremonese, Rv. 220511). In assenza di elementi “evidenti” dell’innocenza sostanziale dell’imputato (elementi positivi della sua estraneità rispetto all’addebito contestato o mancanza assoluta di prove a suo carico), l’obbligo di immediata declaratoria di estinzione del reato non contrasta con esigenze di tutela dei diritti fondamentali della persona che consentano di derogare alla regola generale dettata dall’art. 129 cod. proc. pen., comma 2. Infatti, attraverso la rinunzia alla causa di estinzione del reato, l’imputato può riespandere il suo diritto costituzionalmente garantito ad una decisione penale sul merito dell’addebito a lui mosso, provare la sua innocenza e tutelare la sua onorabilità. Si porrebbe, invece, in contrasto con i principi di razionalità, di ordine e di economia processuale ammettere che, pur in mancanza di una rinuncia alla causa estintiva, il processo debba proseguire per consentire, come prospettato dal ricorrente, che l’imputato possa, in ipotesi, giovarsi dell’efficacia preclusiva connessa alla sentenza penale dall’art. 653 cod. proc. pen., comma 1. Infine, in assenza di specifiche previsioni legislative di più ampia portata e avuto riguardo al peculiare ambito applicativo dell’art. 578 cod. proc. pen., non si può inferire da tale disposizione, grazie ad un’interpretazione di tipo analogico o estensivo, una regola generale che, pur in presenza di una causa estintiva del reato e in assenza di elementi obiettivi comprovanti, all’evidenza, l’innocenza dell’imputato, imponga al giudice una valutazione di merito del compendio probatorio ogniqualvolta alla sentenza penale si ricolleghino conseguenze sul piano della responsabilità disciplinare. Tali considerazioni, oltre ad essere rispettose del quadro costituzionale di riferimento (artt. 3, 24, 25, 111 Cost.) e dei principi del giusto processo (artt. 111, 117 Cost, art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo), non contrastano neppure con i criteri direttivi fissati dalla L. n. 81 del 1987, contenente la delega per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale. L’art. 2, comma 1, n. 1 stabilisce, infatti, l’esigenza di “massima semplificazione e di eliminazione di atti e di attività non essenziali” e il successivo punto n. 11 correla l’obbligo del proscioglimento nel merito, pur in presenza di una causa estintiva del reato, alla sussistenza dei relativi presupposti. Anche sotto questo profilo, dunque, la disciplina contenuta nell’art. 129 cod. proc. pen., comma 2, appare rispettosa, da un lato, delle esigenze di razionalità del sistema processuale, di speditezza e di economia del giudizio e, dall’altro, delle esigenze di difesa, in quanto la prevalenza della causa estintiva del reato è ancorata a ben precisi e tipizzati presupposti e, in ogni caso, non può trovare applicazione in presenza di una contraria manifestazione di volontà espressa personalmente dall’imputato che voglia beneficiare di una decisione nel merito. 27 15.2. La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione di questi principi, in quanto, con ampio e puntuale richiamo delle emergenze processuali, ha argomentato l’insussistenza di elementi comprovanti all’evidenza l’estraneità dei ricorrenti agli addebiti loro mossi e ha richiamato, quali dati dimostrativi della loro responsabilità in ordine al reato previsto dall’art. 424 cod. pen. (così riqualificata l’originaria contestazione ex art. 423 cod. pen.) le prove dichiarative acquisite ( O., C., A., Re., F., S., C., G.), le risultanze documentali in ordine ai controlli subiti da O. ad opera della Polizia di Stato, le due relazioni di servizio redatte dai Carabinieri rispettivamente il 27 e il 28 giugno 1998 in ordine ai fatti accaduti la notte in cui si verificarono gli incendi, il contenuto delle schede di intervento redatte dai Vigili di fuoco, fatti intervenire su richiesta di appartenenti all’Arma dei Carabinieri, nonchè l’esito delle investigazioni svolte nell’immediatezza e compendiate nelle annotazioni redatte dalla Polizia di Stato il 29 e il 30 giugno 1998. Di conseguenza in ordine ai fatti contestati, ricondotti alla previsione della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 424 cod. pen., è stata correttamente pronunziata sentenza di non doversi procedere per prescrizione in assenza di atti espressi di rinuncia all’applicazione della causa estintiva manifestati personalmente dagli imputati. Per tutte le ragioni sinora esposte, dunque, il ricorso di B., D., M., R. non merita accoglimento. Sulla base di quanto osservato deve essere dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale – prospettata in subordine dai ricorrenti – dell’art. 129 cod. proc. pen., comma 2, per contrasto con gli artt. 3, 24, 25, 111, 112 e 117 Cost., in relazione anche all’art. 6 della CEDU, 76 e 77 in riferimento all’eccesso di delega relativo alla direttiva n. 11 della L. n. 81 del 1987, art. 2 nella parte in cui limita il potere di proscioglimento nel merito al solo caso di evidenza di non colpevolezza. 16. Al rigetto dei ricorsi degli imputati consegue di diritto la condanna degli stessi al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 19 luglio 2012. Depositato in Cancelleria il 24 ottobre 2012
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