ATTI SESSUALI ATTI INDIRIZZATI VERSO ZONE EROGENE CHE COMPROMETTONO LA LIBERA DETERMINAZIONE DELLA SESSUALITA’ DEL SOGGETTO PASSIVO
DIFENDO REATO DI VIOLENZA SESSUALE A BOLOGNA, RAVENNA ,FORLI, MILANO PADOVA ROVIGO VICENZA
Come chiarito in più occasioni da questa corte, in termini generali, devono essere considerati atti sessuali tutti quegli atti indirizzati verso zone erogene, e che siano idonei a compromettere la libera determinazione della sessualità del soggetto passivo e ad entrare nella sua sfera sessuale con modalità connotate esemplificativamente dalla costrizione, sostituzione di persona, abuso di condizioni di inferiorità fisica o psichica. Tra questi vanno ricompresi i toccamenti, palpeggiamenti e sfregamenti sulle parti intime delle vittime, suscettibili di eccitare la concupiscenza sessuale anche in modo non completo e/o di breve durata, essendo del tutto irrilevante, ai fini della consumazione, che il soggetto abbia o meno conseguito la soddisfazione erotica (Sez. 3, n. 7772 del 02/05/2000, Calò G., Rv. 217017 – Sez. 3, n. 4402 del 10/03/2000, Rinaldi M., Rv. 220938 – Sez. 3, n. 3990 del 24/11/2000 Ud. (dep. 01/02/2001), Invidia G., Rv. 218542 – Sez. 3, n. 15488 del 22/02/2002, Obiang Esono Fulgencio, Rv. 221453 – Sez. 3, n. 39718 del 17/06/2009, Baradel e altro, Rv. 244622 – Sez. 3, n. 21336 del 15/04/2010, M., Rv. 247282 – Sez. 3, n. 20754 del 17/04/2013, S., Rv. 255907 – Sez. 3, n. 4913 del 22/10/2014 Ud. (dep. 03/02/2015), P., Rv. 262470 – Sez. 3, n. 21020 del 28/10/2014 Ud. (dep. 21/05/2015), Pg in proc. C., Rv. 263738 – cfr anche Sez. 3, n. 39710 del 21/09/2011, R., Rv. 251318
VIOLENZA SESSUALE AVVOCATO PENALISTA Costituisce, infatti, insegnamento costantemente ribadito quello secondo cui, ai fini dell’integrazione dell’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale, non è necessario che la condotta sia specificamente finalizzata al soddisfacimento del piacere sessuale dell’agente, essendo sufficiente che questi sia consapevole della natura oggettivamente ‘sessuale’ dell’atto posto in essere volontariamente, ossia della sua idoneità a soddisfare il piacere sessuale o a suscitarne lo stimolo, a prescindere dallo scopo perseguito (così, tra le tante: Sez. 3, n. 3648 del 03/10/2017, dep. 2018, T., Rv. 272449-01; Sez. 3, n. 21020 del 28/10/2014, dep. 2015, C., Rv. 263738-01; Sez. 3, n. 20754 del 17/04/2013, S., Rv. 255907-01). Il Collegio condivide questo orientamento, in relazione al quale non sono offerte specifiche ragioni per dissentire, osservando, in particolare, che il testo dell’art. 609-bis c.p. non richiede alcuna specifica finalità dell’agente.
- Problema distinto è quello concernente i limiti alla necessità del consenso per la liceità del compimento di atti invasivi della libertà sessuale di una persona nello svolgimento di attività medica.
È utile premettere, in linea generale, che, secondo l’orientamento ampiamente prevalente della giurisprudenza, citato anche nel ricorso, ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale, è sufficiente che l’agente abbia la consapevolezza dell’assenza di una chiara manifestazione del consenso da parte del soggetto passivo al compimento degli atti sessuali a suo carico, con conseguente irrilevanza dell’eventuale errore sull’espressione del dissenso anche ove questo non sia stato esplicitato, potendo semmai fondarsi il dubbio sulla ricorrenza di un valido elemento soggettivo solamente nel caso in cui l’errore si fondi sul contenuto espressivo, in ipotesi equivoco, di precise e positive manifestazioni di volontà promananti dalla parte offesa (cfr., tra le tante, Sez. 3, n. 49597 del 09/03/2016, S., Rv. 268186-01, e Sez. 3, n. 22127 del 23/06/2016, dep. 2017, S. Rv. 270500-01). Addirittura, non mancano decisioni per le quali l’esimente putativa del consenso dell’avente diritto non è configurabile nel delitto di violenza sessuale, in quanto la mancanza del consenso costituisce requisito esplicito della fattispecie e l’errore sul dissenso si sostanzia, pertanto, in un errore inescusabile sulla legge penale (così Sez. 3, n. 2400 del 05/10/2017, dep. 2018, S., Rv. 272074-01, e Sez. 3, n. 17210 del 10/03/2011, I., Rv. 250141-01). 4.2. Il tema, peraltro, richiede una specifica attenzione per l’ipotesi di atti sessuali compiuti nello svolgimento di attività medica, posto che l’esercizio di questa è, in linea generale, giuridicamente autorizzato nell’interesse pubblico (cfr., in argomento, per tutte, Sez. U, n. 2437 del 18/12/2008, dep. 2009, Giulini, Rv. 241752-01, in motivazione, spec. § 4). 4.2.1. Nella giurisprudenza penale di legittimità si è più volte affermato che deve essere esclusa la possibilità di accertamenti e trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, se questi è in grado di prestare il suo consenso e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità, in forza di quanto previsto dagli artt. 32 e 13 Cost. e della L. n. 833 del 1978, art. 33 (cfr., in questo senso, specificamente, Sez. 4, n. 16375 del 23/01/2008, Di Domenica, Rv. 239806-01, nonché Sez. 4, n. 11335 del 16/01/2008, Huscer, Rv. 238968-01, anche per ulteriori citazioni). Si è precisato, in particolare, che al medico non è attribuibile un generale diritto a curare a prescindere dalla volontà dell’ammalato, salvo il caso di sussistenza delle condizioni dello stato di necessità, perché ‘la legittimità di per sé dell’attività medica richiede per la sua validità e concreta liceità, in principio, la manifestazione del consenso del paziente, il quale costituisce un presupposto di liceità del trattamento medico chirurgico’, in quanto l’atto di assenso ‘afferisce alla libertà morale del soggetto ed alla sua autodeterminazione, nonché alla sua libertà fisica intesa diritto al rispetto della propria integrità corporea, le quali sono tutte profili della libertà personale proclamata inviolabile dall’art. 13 Cost.’ (così Sez. 4, n. 11335 del 2008, Huscer, cit.). Nella medesima prospettiva, si pone anche un’ulteriore decisione, secondo la quale, in presenza di una manifestazione una manifestazione di volontà esplicitamente contraria all’intervento terapeutico, l’atto, asseritamente terapeutico, costituisce un’indebita violazione non solo della libertà di autodeterminazione del paziente, ma anche della sua integrità (cfr. Sez. 4, n. 34521 del 26/05/2010, Huscher, Rv. 249817-01); questa pronuncia, inoltre, ha sì escluso la configurabilità del reato di lesioni volontarie per un intervento chirurgico eseguito nonostante il dissenso del paziente, ma richiedendo, tra gli altri, il presupposto della esistenza di un pericolo grave ed attuale per la vita o la salute di quest’ultimo. Il principio sulla necessità del consenso del paziente, nell’esplicazione dell’attività medico-chirurgica trova conferma anche nella giurisprudenza delle Sezioni Unite, e precisamente in Sez. U, n. 2437 del 18/12/2008, dep. 2009, Giulini, Rv. 241752-01. Questa decisione, infatti, sebbene abbia escluso la configurabilità dei reati di lesione personale volontaria e di violenza privata in relazione alla condotta del medico che sottopone il paziente ad un trattamento chirurgico diverso da quello in relazione al quale era stato prestato il consenso informato, quando l’intervento, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis, si sia concluso con esito fausto, ha però premesso, in linea generale, ‘la sicura illiceità, anche penale, della condotta del medico che abbia operato in corpore vili ‘contro’ la volontà del paziente, direttamente o indirettamente manifestata, e ciò a prescindere dall’esito, fausto o infausto, del trattamento sanitario praticato, trattandosi di condotta che quanto meno realizza una illegittima coazione dell’altrui volere’ (cfr., in motivazione, § 6). A fondamento di tali conclusioni, in particolare, si è richiamata sia l’elaborazione della giurisprudenza costituzionale (in particolare, Corte Cost., sent. n. 438 del 2008), sia la disciplina dei più recenti codici deontologici approvati dal Consiglio Nazionale della Federazione Italiana degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri, a partire da quello del 3 ottobre 1998. 4.2.2. Del tutto in linea con la giurisprudenza penale in ordine alla necessità del consenso informato del paziente per il compimento delle attività mediche, sono anche la giurisprudenza costituzionale e quella civile e la disciplina deontologica. Per quanto attiene alla giurisprudenza costituzionale, è utile fare riferimento alla fondamentale decisione Corte Cost., sent. n. 438 del 2008, richiamata dalle Sezioni Unite. Secondo la sentenza appena citata del Giudice delle Leggi, il ‘consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 Cost., i quali stabiliscono, rispettivamente, che ‘la libertà personale è inviolabile’, e che ‘nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Sempre ad avviso di questa sentenza, il consenso informato presenza una funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: ‘quello all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio per garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all’art. 32 Cost., comma 2. Discende da ciò che il consenso informato deve essere considerato un principio fondamentale in materia di tutela della salute, la cui conformazione è rimessa alla legislazione statale’. Si può aggiungere che i principi appena indicati, successivamente, non solo non risultano superati, ma sono stati richiamati anche da Corte Cost., sent. n. 253 del 2009. Nella giurisprudenza civile, poi, si è affermato che, in tema di responsabilità sanitaria, l’omessa acquisizione del consenso informato preventivo al trattamento sanitario – fuori dai casi in cui lo stesso debba essere praticato in via d’urgenza e il paziente non sia in grado di manifestare la propria volontà determina la lesione in sé della libera determinazione del paziente, quale valore costituzionalmente protetto dagli artt. 32 e 13 Cost., quest’ultimo ricomprendente la libertà di decidere in ordine alla propria salute ed al proprio corpo, a prescindere quindi dalla presenza di conseguenze negative sul piano della salute, e dà luogo ad un danno non patrimoniale autonomamente risarcibile, ai sensi dell’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. (cfr., per tutte, Sez. 3 civ., n. 17022 del 28/06/2018, Rv. 649442-01). In termini ancor più generali, del resto, si è anche rilevato che il diritto al consenso informato del paziente, in quanto diritto irretrattabile della persona, va comunque e sempre rispettato dal sanitario, a meno che non ricorrano casi di urgenza, rinvenuti a seguito di un intervento concordato e programmato, per il quale sia stato richiesto ed ottenuto il consenso, e tali da porre in gravissimo pericolo la vita della persona – bene che riceve e si correda di una tutela primaria nella scala dei valori giuridici a fondamento dell’ordine giuridico e del vivere civile -, o si tratti di trattamento sanitario obbligatorio; tale consenso è talmente inderogabile che non assume alcuna rilevanza, al fine di escluderlo, il fatto che l’intervento absque pactis sia stato effettuato in modo tecnicamente corretto, per la semplice ragione che, a causa del totale deficit di informazione, il paziente non è posto in condizione di assentire al trattamento, consumandosi nei suoi confronti, comunque, una lesione di quella dignità che connota l’esistenza nei momenti cruciali della sofferenza fisica e/o psichica (Sez. 3 civ., n. 16543 del 28/07/2011, Rv. 619495-01). Con riferimento alla disciplina deontologica, ancora, va rilevato che i tre più recenti codici approvati dal Consiglio Nazionale della Federazione Italiana degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri stabiliscono che il medico non debba intraprendere alcuna attività diagnostica o terapeutica senza l’acquisizione del consenso informato del paziente: in questo senso, precisamente, dispongono sia l’art. 32 del codice approvato il 3 ottobre 1998, sia l’art. 35 del codice approvato il 16 dicembre 2006, sia l’art. 35 del codice approvato il 18 maggio 2014. In particolare, secondo l’art. 35 del codice approvato il 16 dicembre 2006, vigente all’epoca dei fatti, commessi tra il gennaio e l’agosto 2013, il ‘medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente’, e, ‘in presenza di un documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona’. Anche l’art. 35 del codice approvato il 18 maggio 2014 prevede: ‘L’acquisizione del consenso o del dissenso è un atto di specifica ed esclusiva competenza del medico, non delegabile. Il medico non intraprende nè prosegue in procedure diagnostiche e/o interventi terapeutici senza la preliminare acquisizione del consenso informato o in presenza di dissenso informato. (…)’. 4.2.3. In sintesi, alla luce dei principi costituzionali di cui agli artt. 13 e 32 Cost., di quello di cui alla L. n. 833 del 1978, art. 33, e dei principi deontologici della professione medica, anche in considerazione dell’elaborazione della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, deve ritenersi esclusa la possibilità di accertamenti e trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, se questi è in grado di prestare il suo consenso e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità. Di conseguenza, così come espressamente puntualizzato dai principi deontologici della professione medica, l’attività diagnostica o terapeutica del sanitario in tanto è legittimamente e lecitamente esercitata in quanto vi è stata ‘l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente’, salvo che non sussista uno stato di necessità; la medesima attività, inoltre, non può essere proseguita in caso di dissenso del paziente, ove il medesimo sia capace di intendere e di volere. 4.3. Le precedenti considerazioni – concernenti, da un lato, il mancato consenso come elemento costitutivo del reato di violenza sessuale e, dall’altro, i presupposti di liceità dell’esercizio di attività medica nell’ambito diagnostico e terapeutico – consentono di raggiungere un approdo utile a definire se, e a quali condizioni, lo svolgimento della professione sanitaria, pur consistendo nel compimento di atti invasivi della libertà sessuale del paziente, costituisce un limite alla configurabilità della fattispecie di cui all’art. 609-bis c.p.. 4.3.1. Deve richiamarsi, innanzitutto, il principio generale secondo cui, per la configurabilità del reato di violenza sessuale, non occorre un espresso dissenso della vittima. Invero, come già evidenziato in precedenza, ai fini della sussistenza dell’elemento psicologico del delitto di cui all’art. 609-bis c.p., è sufficiente la consapevolezza, nell’agente, dell’assenza di una chiara manifestazione del consenso da parte del soggetto passivo al compimento degli atti sessuali a suo carico, tanto che, in relazione a tale fattispecie, il dubbio sulla ricorrenza di un valido elemento soggettivo è configurabile solo nel caso in cui l’errore si fondi sul contenuto espressivo, in ipotesi equivoco, di precise e positive manifestazioni di volontà promananti dalla parte offesa. Si è rilevato, poi, che l’attività diagnostica o terapeutica del medico è legittimamente e lecitamente esercitata solo se vi è stata ‘l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente’, e non può essere proseguita in caso di dissenso del paziente, ove questi sia capace di intendere e di volere. Poste queste premesse, risulta inferibile che il medico, nell’esercizio di attività diagnostica o terapeutica, può lecitamente compiere atti incidenti sulla sfera della libertà sessuale di un paziente solo se abbia acquisito un consenso esplicito ed informato dallo stesso, o se sussistano i presupposti dello stato di necessità, e, inoltre, che il professionista deve immediatamente fermarsi in caso dissenso del paziente. 4.3.2. Muovendo dalla conclusione appena indicata, sembra ragionevole trarre ulteriori conseguenze avendo riguardo al profilo della colpevolezza. Se, infatti, la liceità della condotta del medico, anche in relazione al compimento di atti incidenti sulla libertà sessuale del paziente, dipende dalla sussistenza di presupposti normativamente richiesti, appare corretto osservare che la regola concernente la necessità di acquisire il consenso del paziente integra uno di questi presupposti, e, precisamente, è elemento che concorre a formare la fattispecie normativa che rende giuridicamente ‘consentito’ il suo comportamento. Di conseguenza, la regola sulla necessaria acquisizione del consenso del paziente si configura come requisito costitutivo di una causa di giustificazione che rende giuridicamente ‘consentito’ un comportamento altrimenti integrante il reato di violenza sessuale. Questa conclusione comporta significative conseguenze in tema di rilevanza dell’errore del medico in relazione alla regola concernente la necessità di acquisire il consenso del paziente. Invero, il medico non può addurre, come causa di esclusione del dolo in relazione alla propria condotta conforme alla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 609-bis c.p., l’ignoranza o il dubbio sulla necessità o meno di acquisire il consenso esplicito ed informato del paziente, ove sia possibile richiederlo, e non sussistano i presupposti dello stato di necessità. L’ignoranza o il dubbio appena indicati, infatti, in quanto incidenti su un elemento costitutivo della fattispecie normativa fondante una causa di giustificazione, si traducono in un errore su legge penale, a norma dell’art. 5 c.p., e non invece in un errore sul fatto concretamente realizzato: il medico, che compie atti incidenti sulla sfera della libertà sessuale di un paziente senza acquisirne il consenso perché ritiene insussistente un obbligo normativo in tal senso, agisce comunque con la coscienza e volontà di far ‘subire atti sessuali’ ad una persona in difetto dell’assenso della stessa, e, quindi, di realizzare un fatto conforme a quello previsto dall’art. 609-bis c.p. Di conseguenza, l’ignoranza o il dubbio sulla necessità o meno di acquisire il consenso esplicito ed informato del paziente, ove sia possibile richiederlo, e non sussistano i presupposti dello stato di necessità, escludono la colpevolezza solo in caso di inevitabilità, così come indicato da Corte Cost., sent. n. 364 del 1988. Il medico, piuttosto, può addurre, come causa di esclusione del dolo in relazione alla propria condotta conforme ad una fattispecie incriminatrice, l’errore concernente la sussistenza, in concreto, di un valido consenso del paziente, perché questo costituisce errore sul fatto rilevante a norma dell’art. 59 c.p., comma 4. La conclusione dell’irrilevanza dell’errore su legge extrapenale invocata a presupposto della configurabilità di una causa di giustificazione, salvo il limite di ignoranza inevitabile, si può aggiungere, trova conferma nelle pur risalenti decisioni di legittimità che hanno esaminato la questione. Secondo una pronuncia, infatti, l’errore del pubblico ufficiale su una norma di diritto amministrativo in ordine alla facoltà di disposizione di pubblico denaro non può assumere alcuna efficacia scriminante, perché essa deve intendersi richiamata dalla norma penale, della quale integra il contenuto, con la conseguenza che l’illegittimità della destinazione del denaro, anche se imputabile ad ignoranza dell’agente sui limiti dei propri poteri, non si risolve in un errore di fatto su legge diversa da quella penale, ma costituisce errore o ignoranza della legge penale e, come tale, non vale ad escludere l’elemento soggettivo del reato di peculato (Sez. 6, n. 10458 del 30/06/1994, Diene, Rv. 200162-01, la quale ha anche escluso, nella specie, una situazione di ignoranza inescusabile a norma dell’art. 5 c.p., nel testo vigente per effetto della sentenza Corte Cost. n. 364 del 1988, osservando che, a tal fine, occorre un comportamento degli organi amministrativi o un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale da cui trarre il convincimento della correttezza dell’interpretazione e, di conseguenza, della liceità del comportamento tenuto). Altra decisione, poi, con riferimento alle cause di giustificazione di cui agli artt. 51 e 53 c.p., ha escluso la possibilità di invocare l’errore su norme extrapenali con riferimento ai limiti delle competenze istituzionali e all’uso delle armi, trattandosi di norme integrative dei precetti penali che non possono essere ignorate (Sez. 1, n. 5527 del 28/01/1991, Caporaso, Rv. 187589-01, la quale ha anche escluso, nella specie, una situazione di ignoranza inescusabile a norma dell’art. 5 c.p., nel testo vigente per effetto della sentenza Corte Cost. n. 364 del 1988, osservando, tra l’altro, che la normativa al riguardo non ha formato oggetto di incertezze giurisprudenziali rilevanti o di altri contrasti in sede di applicazione).
– Reati contro la persona (Stalking, maltrattamenti etc.) – Reati contro la libertà sessuale – Reati in materia di sostanze stupefacenti – Responsabilità per colpa medica – Reati contro il patrimonio – Reati contro la Pubblica Amministrazione – Reati contro l’onore e diffamazione a mezzo stampa – Reati in materia di circolazione stradale – Normativa anti infortunistica e di sicurezza sul lavoro- La sentenza impugnata ha ricostruito analiticamente i fatti in contestazione, giungendo alla conclusione che tutti i e tre ‘integrino la condotta oggettiva del delitto di cui all’art. 609 bis c.p.’, e che, però, ‘difetta la prova oltre ogni ragionevole dubbio dell’elemento soggettivo’ richiesto dalla disciplina incriminatrice.
5.1. Per quanto attiene all’elemento oggettivo, la sentenza impugnata premette: ‘emerge, con assoluta certezza, che nelle tre visite il medico ginecologo ha toccato insistentemente una parte del corpo (il clitoride – la vagina) che sono zone erogene, senza preparare le pazienti e senza acquisire il preventivo consenso dell’interessata’. In particolare, si rappresenta che l’imputato, secondo il racconto di A.P. , aveva proceduto ‘una visita non richiesta’, secondo le dichiarazioni di B.A. , ‘aveva inserito due dita nella vagina, muovendole come in un rapporto sessuale’, e, secondo la narrazione di H.R.R. , ‘aveva toccato il clitoride per qualche secondo, cercando di stimolarlo’. Si aggiunge, poi, che tutte e tre le donne ‘hanno descritto in maniera chiara i movimenti operati, che, anche per le esperienze personali, non erano equivocabili’. Si segnala, a questo punto, che ‘dalla attenta lettura delle dichiarazioni rese dai ct di parte (il professor P. ed il dottor Be. ) emerge, tuttavia anche la necessità della preventiva informazione quando sorga l’esigenza di approfondire, in presenza di una determinata sintomatologia, con un ‘certo tipo di visita”. Si evidenzia, inoltre, che il professor P. ha precisato che egli si sarebbe astenuto dal procedere nel caso in cui la paziente si fosse opposta, mentre il dottor Be. , pur affermando la non necessità di un consenso formale, ha ammesso che egli avrebbe preventivamente spiegato alla paziente perché avrebbe toccato alcune ‘zone particolari’. Si conclude che il preventivo chiarimento sulle manovre da effettuare era necessario, come anche il consenso sia pure implicito: ‘In carenza del preventivo chiarimento, e del conseguente anche solo implicito consenso dell’interessata, difetta il presupposto per ritenere legittimo, e privo di valenza sessuale, il movimento che genera il particolare contatto con la zona erogena, anche quando lo stesso sia riconducibile all’anamnesi’. Si osserva, quindi, che: a) nel caso di A.P. , la palpazione del clitoride è stata simultaneamente rappresentata ed attuata, sicché ‘la paziente è stata colta di sorpresa’; b) nel caso di H.R.R. , la donna si era recata dal medico solo per un’ecografia; c) nel caso di B.A. , la visita è stata non richiesta, ed il ‘movimento all’interno della vagina’ ha dato luogo ad una situazione che ‘ha determinato il grave imbarazzo riferito dalla giovane, è stata talmente improvvisa da non rendere possibile un’immediata reazione’ e si è giovata dell’inesperienza della donna, alla sua prima esperienza di visita ginecologica. Si conclude che, ‘in tutti e tre i casi oggetto dei capi a-b-c le modalità con cui ha proceduto il Dott. G. (contatto con la zona erogena eseguito in maniera repentina, senza la dovuta preparazione ed il preventivo consenso, anche solo implicito), tenuto conto del particolare contesto avulso dalla richiesta di una consulenza sessuale, ha costretto ciascuna paziente a subire un atto che ha inciso sulla libertà di autodeterminazione sessuale, ed ai fini della configurabilità del reato è sufficiente il pericolo di ledere il bene tutelato’. Ad ulteriore specificazione, si aggiunge: ‘La breve durata del contatto, in tutti e tre i casi, non è incompatibile con la concreta lesione del bene tutelato, che si è oggettivamente verificata per le sensazioni procurate’. 5.2. Per quanto concerne l’elemento soggettivo, la sentenza impugnata rileva l’esistenza di un ragionevole dubbio. Invero, dopo la premessa circa la necessità del dolo generico, inteso come ‘coscienza e volontà della propria condotta e del pericolo di attentare alla libertà sessuale per l’illegittimità dell’atto’, si segnala che gli indici fattuali da cui è stato desunto il dolo non sono pienamente convincenti. Si rappresenta, in particolare, che: a) l’imputato è un medico specialista in ginecologia ed ostetricia, con esperienze di insegnamento presso l’Università di XXXXXX; b) nell’ambito di una visita ginecologica completa, secondo i consulenti della difesa ‘l’eccitamento del clitoride può dare indicazione e quando non si dispone dello specifico apparecchio, vi sono varie tecniche, tra cui il toccamento manuale’ e, comunque, ‘è una modalità corretta, e non è normale solo ‘se dura due minuti”; c) per quanto concerne la visita nei confronti di A.P. , ‘non emerge, in realtà, un vero e proprio eccitamento a raggiungere l’orgasmo ma piuttosto la richiesta del medico di avvertirlo sulla reazione alla stimolazione (palpazione)’, ed inoltre il tempo di durata riferita della stimolazione pari a ‘due minuti’, ‘non è sicuro’, per l’impossibilità di una obiettiva misurazione e per il significato di generica brevità attribuito, nel linguaggio comune, a tale locuzione; d) per quanto attiene alla visita nei confronti di B.A. , ‘l’asserito incitamento’ dovrebbe ‘essere inteso piuttosto come richiesta di collaborazione rivolta alla paziente per verificare la sensibilità dell’organo durante la manovra, attuata senza adeguata preparazione’, la necessità di una visita era stata desunta dal ricorrente dalla cartella clinica, il medico, secondo le dichiarazioni della donna, aveva ‘smesso appena la giovane gli aveva riferito che non vi era stata una reazione, dopo circa un minuto’, ed il rossore sul viso dell’imputato ‘non è sicuro indice dell’impulso sessuale’, considerando ‘l’uso dei guanti durante tutto il tempo, la brevità della manovra e l’immediata interruzione quando la donna gli aveva riferito che non provava alcun piacere’; e) con riferimento alla visita nei confronti di H.R.R. , il medico, se ‘alla prima reazione della donna’ aveva detto ‘poi ti spiego’ ed aveva proseguito, si era subito arrestato alla nuova reazione, sicché potrebbe ‘avere inteso che la prima richiesta di interruzione fosse stata determinata dal dolore’, e, comunque, ‘non vi è stato un vero e proprio incitamento perché il ginecologo sembra aver richiesto solo una collaborazione, durante l’esame manuale, finalizzata alla diagnosi sul dolore’.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III PENALE – SENTENZA 6 maggio 2019, n.18864 – Pres. Sarno – est. Corbo Ritenuto in fatto 1. Con sentenza emessa in data 19 aprile 2018, la Corte d’appello di Torino, in riforma della sentenza di condanna pronunciata dal Tribunale di Novara, ha assolto G.C. , perché i fatti non costituiscono reato, dalle accuse relative a violenze sessuali commesse in danno di tre pazienti, agendo nella qualità di incaricato di pubblico servizio nell’esercizio delle sue funzioni il 21 gennaio 2013, il 21 agosto 2013 ed il 28 agosto 2013. Secondo la contestazione, l’imputato avrebbe approfittato della sua qualità di medico ginecologo, e nel contesto di una visita ginecologica, per operare atti di masturbazione su tre donne – A.P. , H.R.R. , e B.A. – attraverso stimolazione vaginale con le proprie dita. 2. Ha presentato ricorso per cassazione avverso l’ordinanza indicata in epigrafe il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Torino, articolando un unico motivo, con il quale denuncia violazione di legge, in riferimento all’art. 609-bis c.p., nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), avendo riguardo alla ritenuta non configurabilità del reato di violenza sessuale in danno delle tre persone offese. Si deduce che erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto i fatti in contestazione ‘espressione di un agire colposo’, essendo ragionevole la prospettazione secondo cui l’imputato avrebbe ‘agito con la sola consapevolezza e volontà di curare le pazienti, ritenendo che il loro consenso alla particolare manovra fosse implicito o, addirittura, non necessario perché l’atto era dovuto’. Si premette che le dichiarazioni delle persone offese sono state ritenute attendibili dalla Corte d’appello, e che, anzi, questa, anche alla luce della relazione dei consulenti tecnici della difesa, ha riconosciuto come le attività compiute dall’imputato abbiano superato i limiti delle prestazioni richieste e comunque obiettivamente consentite. Si rappresenta, poi, che contraddittoriamente ed illogicamente, la sentenza impugnata, dopo aver ammesso la necessità di un preventivo chiarimento da parte dell’imputato in ordine alle modalità dell’indagine, anche per consentire alle pazienti di evitare interferenze nell’esercizio della loro libertà di autodeterminazione sessuale, e la natura ‘a sorpresa’ del comportamento posto in essere, ha escluso il dolo perché ‘non vi sono le prove dell’incitamento delle donne a provare piacere, di impulsi sessuali del ginecologo durante i contatti, del fine di libidine’. Si segnala, innanzitutto, che le persone offese, nelle loro dichiarazioni, pur ritenute attendibili, avevano evidenziato un preciso atteggiamento ‘morboso’ dell’imputato mentre commetteva i fatti in contestazione. Si aggiunge, inoltre, che, secondo la consolidata giurisprudenza, ai fini della configurabilità del reato di violenza sessuale, non è necessario il fine libidinoso, o di soddisfacimento sessuale dell’agente (si cita Sez. 3, n. 3648 del 03/10/2017, dep. 2018), ma è sufficiente il dolo generico di compiere un atto invasivo della libertà sessuale di persona non consenziente (si citano Sez. 3, n. 20754 del 17/04/2013 e Sez. 3, n. 49597 del 09/03/2016). Si conclude che anche l’affermazione secondo cui l’imputato avrebbe ‘agito con la sola consapevolezza e volontà di curare le pazienti’ è errata ed illogica perché la manovra compiuta, tra l’altro, era ‘non richiesta dalla diagnosi della malattia, non evidenziata dalla certificazione rilasciata dall’imputato (…)’. 3. Nell’interesse dell’imputato, l’avvocato Luigi Chiappero ha presentato memoria nella quale si chiede dichiararsi l’inammissibilità o, in subordine, rigettarsi il ricorso. Si rappresenta, innanzitutto, che, secondo la stessa giurisprudenza di legittimità citata dal ricorrente, vi può essere un dubbio sulla ricorrenza di un valido elemento soggettivo in presenza di un atto sessuale (il riferimento è a Sez. 3, n. 49597 del 09/03/2016). Si segnala, poi, che la sentenza impugnata non ha escluso il dolo solo in ragione della mancata prova del fine di libidine, avendo anzi affermato anch’essa ‘l’irrilevanza dell’eventuale fine dell’agente’, ma anche ‘a seguito di attenta valutazione del particolare contesto in cui si sono svolti i singoli fatti’, unitamente ‘alla specifica professionalità del G. ‘. Si sottolinea, inoltre, che l’esclusione del dolo in funzione non semplicemente del difetto del fine di libidine, ma anche della specifica professionalità dell’imputato è desumibile dai richiami, in sentenza, al curriculum professionale del medesimo, nonché alla durata ed alla accuratezza della visita, ed all’osservazione secondo cui la stimolazione del clitoride è una ‘modalità corretta’, pur con limiti di durata. Si osserva, ancora, che il giudizio affermativo dell’attendibilità delle dichiarazioni delle persone offese non è contraddittorio con la soluzione adottata, in quanto dal racconto delle tre donne non si evince la prova che nell’imputato vi fosse l’effettiva coscienza e volontà di compiere un atto tale da porre in pericolo la libera autodeterminazione delle stesse, invece che la volontà di fronteggiare un’esigenza di cura delle pazienti. Si rileva, infine, che, secondo la giurisprudenza di legittimità, attingere zone normalmente ritenute erogene non significa automaticamente integrare una fattispecie di violenza sessuale, indipendentemente dal complessivo contesto in cui si colloca il fatto (si cita Sez. 3, n. 24683 del 11/06/2015). Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato e deve essere accolto per le ragioni di seguito precisate. 2. Ai fini della decisione, in considerazione dei motivi proposti, è necessario esaminare le questioni concernenti la necessità del fine di libidine per la configurabilità del reato di violenza sessuale e i limiti alla necessità del consenso per la liceità del compimento di atti invasivi della libertà sessuale di una persona nello svolgimento di attività medica. 3. Per quanto attiene al tema della necessità del fine di libidine per la integrazione del reato di violenza sessuale, la giurisprudenza risulta approdata a soluzioni consolidate. Costituisce, infatti, insegnamento costantemente ribadito quello secondo cui, ai fini dell’integrazione dell’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale, non è necessario che la condotta sia specificamente finalizzata al soddisfacimento del piacere sessuale dell’agente, essendo sufficiente che questi sia consapevole della natura oggettivamente ‘sessuale’ dell’atto posto in essere volontariamente, ossia della sua idoneità a soddisfare il piacere sessuale o a suscitarne lo stimolo, a prescindere dallo scopo perseguito (così, tra le tante: Sez. 3, n. 3648 del 03/10/2017, dep. 2018, T., Rv. 272449-01; Sez. 3, n. 21020 del 28/10/2014, dep. 2015, C., Rv. 263738-01; Sez. 3, n. 20754 del 17/04/2013, S., Rv. 255907-01). Il Collegio condivide questo orientamento, in relazione al quale non sono offerte specifiche ragioni per dissentire, osservando, in particolare, che il testo dell’art. 609-bis c.p. non richiede alcuna specifica finalità dell’agente. 4. Problema distinto è quello concernente i limiti alla necessità del consenso per la liceità del compimento di atti invasivi della libertà sessuale di una persona nello svolgimento di attività medica. 4.1. È utile premettere, in linea generale, che, secondo l’orientamento ampiamente prevalente della giurisprudenza, citato anche nel ricorso, ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale, è sufficiente che l’agente abbia la consapevolezza dell’assenza di una chiara manifestazione del consenso da parte del soggetto passivo al compimento degli atti sessuali a suo carico, con conseguente irrilevanza dell’eventuale errore sull’espressione del dissenso anche ove questo non sia stato esplicitato, potendo semmai fondarsi il dubbio sulla ricorrenza di un valido elemento soggettivo solamente nel caso in cui l’errore si fondi sul contenuto espressivo, in ipotesi equivoco, di precise e positive manifestazioni di volontà promananti dalla parte offesa (cfr., tra le tante, Sez. 3, n. 49597 del 09/03/2016, S., Rv. 268186-01, e Sez. 3, n. 22127 del 23/06/2016, dep. 2017, S. Rv. 270500-01). Addirittura, non mancano decisioni per le quali l’esimente putativa del consenso dell’avente diritto non è configurabile nel delitto di violenza sessuale, in quanto la mancanza del consenso costituisce requisito esplicito della fattispecie e l’errore sul dissenso si sostanzia, pertanto, in un errore inescusabile sulla legge penale (così Sez. 3, n. 2400 del 05/10/2017, dep. 2018, S., Rv. 272074-01, e Sez. 3, n. 17210 del 10/03/2011, I., Rv. 250141-01). 4.2. Il tema, peraltro, richiede una specifica attenzione per l’ipotesi di atti sessuali compiuti nello svolgimento di attività medica, posto che l’esercizio di questa è, in linea generale, giuridicamente autorizzato nell’interesse pubblico (cfr., in argomento, per tutte, Sez. U, n. 2437 del 18/12/2008, dep. 2009, Giulini, Rv. 241752-01, in motivazione, spec. § 4). 4.2.1. Nella giurisprudenza penale di legittimità si è più volte affermato che deve essere esclusa la possibilità di accertamenti e trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, se questi è in grado di prestare il suo consenso e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità, in forza di quanto previsto dagli artt. 32 e 13 Cost. e della L. n. 833 del 1978, art. 33 (cfr., in questo senso, specificamente, Sez. 4, n. 16375 del 23/01/2008, Di Domenica, Rv. 239806-01, nonché Sez. 4, n. 11335 del 16/01/2008, Huscer, Rv. 238968-01, anche per ulteriori citazioni). Si è precisato, in particolare, che al medico non è attribuibile un generale diritto a curare a prescindere dalla volontà dell’ammalato, salvo il caso di sussistenza delle condizioni dello stato di necessità, perché ‘la legittimità di per sé dell’attività medica richiede per la sua validità e concreta liceità, in principio, la manifestazione del consenso del paziente, il quale costituisce un presupposto di liceità del trattamento medico chirurgico’, in quanto l’atto di assenso ‘afferisce alla libertà morale del soggetto ed alla sua autodeterminazione, nonché alla sua libertà fisica intesa diritto al rispetto della propria integrità corporea, le quali sono tutte profili della libertà personale proclamata inviolabile dall’art. 13 Cost.’ (così Sez. 4, n. 11335 del 2008, Huscer, cit.). Nella medesima prospettiva, si pone anche un’ulteriore decisione, secondo la quale, in presenza di una manifestazione una manifestazione di volontà esplicitamente contraria all’intervento terapeutico, l’atto, asseritamente terapeutico, costituisce un’indebita violazione non solo della libertà di autodeterminazione del paziente, ma anche della sua integrità (cfr. Sez. 4, n. 34521 del 26/05/2010, Huscher, Rv. 249817-01); questa pronuncia, inoltre, ha sì escluso la configurabilità del reato di lesioni volontarie per un intervento chirurgico eseguito nonostante il dissenso del paziente, ma richiedendo, tra gli altri, il presupposto della esistenza di un pericolo grave ed attuale per la vita o la salute di quest’ultimo. Il principio sulla necessità del consenso del paziente, nell’esplicazione dell’attività medico-chirurgica trova conferma anche nella giurisprudenza delle Sezioni Unite, e precisamente in Sez. U, n. 2437 del 18/12/2008, dep. 2009, Giulini, Rv. 241752-01. Questa decisione, infatti, sebbene abbia escluso la configurabilità dei reati di lesione personale volontaria e di violenza privata in relazione alla condotta del medico che sottopone il paziente ad un trattamento chirurgico diverso da quello in relazione al quale era stato prestato il consenso informato, quando l’intervento, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis, si sia concluso con esito fausto, ha però premesso, in linea generale, ‘la sicura illiceità, anche penale, della condotta del medico che abbia operato in corpore vili ‘contro’ la volontà del paziente, direttamente o indirettamente manifestata, e ciò a prescindere dall’esito, fausto o infausto, del trattamento sanitario praticato, trattandosi di condotta che quanto meno realizza una illegittima coazione dell’altrui volere’ (cfr., in motivazione, § 6). A fondamento di tali conclusioni, in particolare, si è richiamata sia l’elaborazione della giurisprudenza costituzionale (in particolare, Corte Cost., sent. n. 438 del 2008), sia la disciplina dei più recenti codici deontologici approvati dal Consiglio Nazionale della Federazione Italiana degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri, a partire da quello del 3 ottobre 1998. 4.2.2. Del tutto in linea con la giurisprudenza penale in ordine alla necessità del consenso informato del paziente per il compimento delle attività mediche, sono anche la giurisprudenza costituzionale e quella civile e la disciplina deontologica. Per quanto attiene alla giurisprudenza costituzionale, è utile fare riferimento alla fondamentale decisione Corte Cost., sent. n. 438 del 2008, richiamata dalle Sezioni Unite. Secondo la sentenza appena citata del Giudice delle Leggi, il ‘consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 Cost., i quali stabiliscono, rispettivamente, che ‘la libertà personale è inviolabile’, e che ‘nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Sempre ad avviso di questa sentenza, il consenso informato presenza una funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: ‘quello all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio per garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale, conformemente all’art. 32 Cost., comma 2. Discende da ciò che il consenso informato deve essere considerato un principio fondamentale in materia di tutela della salute, la cui conformazione è rimessa alla legislazione statale’. Si può aggiungere che i principi appena indicati, successivamente, non solo non risultano superati, ma sono stati richiamati anche da Corte Cost., sent. n. 253 del 2009. Nella giurisprudenza civile, poi, si è affermato che, in tema di responsabilità sanitaria, l’omessa acquisizione del consenso informato preventivo al trattamento sanitario – fuori dai casi in cui lo stesso debba essere praticato in via d’urgenza e il paziente non sia in grado di manifestare la propria volontà determina la lesione in sé della libera determinazione del paziente, quale valore costituzionalmente protetto dagli artt. 32 e 13 Cost., quest’ultimo ricomprendente la libertà di decidere in ordine alla propria salute ed al proprio corpo, a prescindere quindi dalla presenza di conseguenze negative sul piano della salute, e dà luogo ad un danno non patrimoniale autonomamente risarcibile, ai sensi dell’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. (cfr., per tutte, Sez. 3 civ., n. 17022 del 28/06/2018, Rv. 649442-01). In termini ancor più generali, del resto, si è anche rilevato che il diritto al consenso informato del paziente, in quanto diritto irretrattabile della persona, va comunque e sempre rispettato dal sanitario, a meno che non ricorrano casi di urgenza, rinvenuti a seguito di un intervento concordato e programmato, per il quale sia stato richiesto ed ottenuto il consenso, e tali da porre in gravissimo pericolo la vita della persona – bene che riceve e si correda di una tutela primaria nella scala dei valori giuridici a fondamento dell’ordine giuridico e del vivere civile -, o si tratti di trattamento sanitario obbligatorio; tale consenso è talmente inderogabile che non assume alcuna rilevanza, al fine di escluderlo, il fatto che l’intervento absque pactis sia stato effettuato in modo
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tecnicamente corretto, per la semplice ragione che, a causa del totale deficit di informazione, il paziente non è posto in condizione di assentire al trattamento, consumandosi nei suoi confronti, comunque, una lesione di quella dignità che connota l’esistenza nei momenti cruciali della sofferenza fisica e/o psichica (Sez. 3 civ., n. 16543 del 28/07/2011, Rv. 619495-01). Con riferimento alla disciplina deontologica, ancora, va rilevato che i tre più recenti codici approvati dal Consiglio Nazionale della Federazione Italiana degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri stabiliscono che il medico non debba intraprendere alcuna attività diagnostica o terapeutica senza l’acquisizione del consenso informato del paziente: in questo senso, precisamente, dispongono sia l’art. 32 del codice approvato il 3 ottobre 1998, sia l’art. 35 del codice approvato il 16 dicembre 2006, sia l’art. 35 del codice approvato il 18 maggio 2014. In particolare, secondo l’art. 35 del codice approvato il 16 dicembre 2006, vigente all’epoca dei fatti, commessi tra il gennaio e l’agosto 2013, il ‘medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente’, e, ‘in presenza di un documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona’. Anche l’art. 35 del codice approvato il 18 maggio 2014 prevede: ‘L’acquisizione del consenso o del dissenso è un atto di specifica ed esclusiva competenza del medico, non delegabile. Il medico non intraprende nè prosegue in procedure diagnostiche e/o interventi terapeutici senza la preliminare acquisizione del consenso informato o in presenza di dissenso informato. (…)’. 4.2.3. In sintesi, alla luce dei principi costituzionali di cui agli artt. 13 e 32 Cost., di quello di cui alla L. n. 833 del 1978, art. 33, e dei principi deontologici della professione medica, anche in considerazione dell’elaborazione della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, deve ritenersi esclusa la possibilità di accertamenti e trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, se questi è in grado di prestare il suo consenso e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità. Di conseguenza, così come espressamente puntualizzato dai principi deontologici della professione medica, l’attività diagnostica o terapeutica del sanitario in tanto è legittimamente e lecitamente esercitata in quanto vi è stata ‘l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente’, salvo che non sussista uno stato di necessità; la medesima attività, inoltre, non può essere proseguita in caso di dissenso del paziente, ove il medesimo sia capace di intendere e di volere. 4.3. Le precedenti considerazioni – concernenti, da un lato, il mancato consenso come elemento costitutivo del reato di violenza sessuale e, dall’altro, i presupposti di liceità dell’esercizio di attività medica nell’ambito diagnostico e terapeutico – consentono di raggiungere un approdo utile a definire se, e a quali condizioni, lo svolgimento della professione sanitaria, pur consistendo nel compimento di atti invasivi della libertà sessuale del paziente, costituisce un limite alla configurabilità della fattispecie di cui all’art. 609-bis c.p.. 4.3.1. Deve richiamarsi, innanzitutto, il principio generale secondo cui, per la configurabilità del reato di violenza sessuale, non occorre un espresso dissenso della vittima. Invero, come già evidenziato in precedenza, ai fini della sussistenza dell’elemento psicologico del delitto di cui all’art. 609-bis c.p., è sufficiente la consapevolezza, nell’agente, dell’assenza di una chiara manifestazione del consenso da parte del soggetto passivo al compimento degli atti sessuali a suo carico, tanto che, in relazione a tale fattispecie, il dubbio sulla ricorrenza di un valido elemento soggettivo è configurabile solo nel caso in cui l’errore si fondi sul contenuto espressivo, in ipotesi equivoco, di precise e positive manifestazioni di volontà promananti dalla parte offesa. Si è rilevato, poi, che l’attività diagnostica o terapeutica del medico è legittimamente e lecitamente esercitata solo se vi è stata ‘l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente’, e non può essere proseguita in caso di dissenso del paziente, ove questi sia capace di intendere e di volere. Poste queste premesse, risulta inferibile che il medico, nell’esercizio di attività diagnostica o terapeutica, può lecitamente compiere atti incidenti sulla sfera della libertà sessuale di un paziente solo se abbia acquisito un consenso esplicito ed informato dallo stesso, o se sussistano i presupposti dello stato di necessità, e, inoltre, che il professionista deve immediatamente fermarsi in caso dissenso del paziente. 4.3.2. Muovendo dalla conclusione appena indicata, sembra ragionevole trarre ulteriori conseguenze avendo riguardo al profilo della colpevolezza. Se, infatti, la liceità della condotta del medico, anche in relazione al compimento di atti incidenti sulla libertà sessuale del paziente, dipende dalla sussistenza di presupposti normativamente richiesti, appare corretto osservare che la regola concernente la necessità di acquisire il consenso del paziente integra uno di questi presupposti, e, precisamente, è elemento che concorre a formare la fattispecie normativa che rende giuridicamente ‘consentito’ il suo comportamento. Di conseguenza, la regola sulla necessaria acquisizione del consenso del paziente si configura come requisito costitutivo di una causa di giustificazione che rende giuridicamente ‘consentito’ un comportamento altrimenti integrante il reato di violenza sessuale. Questa conclusione comporta significative conseguenze in tema di rilevanza dell’errore del medico in relazione alla regola concernente la necessità di acquisire il consenso del paziente. Invero, il medico non può addurre, come causa di esclusione del dolo in relazione alla propria condotta conforme alla fattispecie incriminatrice di cui all’art. 609-bis c.p., l’ignoranza o il dubbio sulla necessità o meno di acquisire il consenso esplicito ed informato del paziente, ove sia possibile richiederlo, e non sussistano i presupposti dello stato di necessità. L’ignoranza o il dubbio appena indicati, infatti, in quanto incidenti su un elemento costitutivo della fattispecie normativa fondante una causa di giustificazione, si traducono in un errore su legge penale, a norma dell’art. 5 c.p., e non invece in un errore sul fatto concretamente realizzato: il medico, che compie atti incidenti sulla sfera della libertà sessuale di un paziente senza acquisirne il consenso perché ritiene insussistente un obbligo normativo in tal senso, agisce comunque con la coscienza e volontà di far ‘subire atti sessuali’ ad una persona in difetto dell’assenso della stessa, e, quindi, di realizzare un fatto conforme a quello previsto dall’art. 609-bis c.p. Di conseguenza, l’ignoranza o il dubbio sulla necessità o meno di acquisire il consenso esplicito ed informato del paziente, ove sia possibile richiederlo, e non sussistano i presupposti dello stato di necessità, escludono la colpevolezza solo in caso di inevitabilità, così come indicato da Corte Cost., sent. n. 364 del 1988. Il medico, piuttosto, può addurre, come causa di esclusione del dolo in relazione alla propria condotta conforme ad una fattispecie incriminatrice, l’errore concernente la sussistenza, in concreto, di un valido consenso del paziente, perché questo costituisce errore sul fatto rilevante a norma dell’art. 59 c.p., comma 4. La conclusione dell’irrilevanza dell’errore su legge extrapenale invocata a presupposto della configurabilità di una causa di giustificazione, salvo il limite di ignoranza inevitabile, si può aggiungere, trova conferma nelle pur risalenti decisioni di legittimità che hanno esaminato la questione. Secondo una pronuncia, infatti, l’errore del pubblico ufficiale su una norma di diritto amministrativo in ordine alla facoltà di disposizione di pubblico denaro non può assumere alcuna efficacia scriminante, perché essa deve intendersi richiamata dalla norma penale, della quale integra il contenuto, con la conseguenza che l’illegittimità della destinazione del denaro, anche se imputabile ad ignoranza dell’agente sui limiti dei propri poteri, non si risolve in un errore di fatto su legge diversa da quella penale, ma costituisce errore o ignoranza della legge penale e, come tale, non vale ad escludere l’elemento soggettivo del reato di peculato (Sez. 6, n. 10458 del 30/06/1994, Diene, Rv. 200162-01, la quale ha anche escluso, nella specie, una situazione di ignoranza inescusabile a norma dell’art. 5 c.p., nel testo vigente per effetto della sentenza Corte Cost. n. 364 del 1988, osservando che, a tal fine, occorre un comportamento degli organi amministrativi o un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale da cui trarre il convincimento della correttezza dell’interpretazione e, di conseguenza, della liceità del comportamento tenuto). Altra decisione, poi, con riferimento alle cause di giustificazione di cui agli artt. 51 e 53 c.p., ha escluso la possibilità di invocare l’errore su norme extrapenali con riferimento ai limiti delle competenze istituzionali e all’uso delle armi, trattandosi di norme integrative dei precetti penali che non possono essere ignorate (Sez. 1, n. 5527 del 28/01/1991, Caporaso, Rv. 187589-01, la quale ha anche escluso, nella specie, una situazione di ignoranza inescusabile a norma dell’art. 5 c.p., nel testo vigente per effetto della sentenza Corte Cost. n. 364 del 1988, osservando, tra l’altro, che la normativa al riguardo non ha formato oggetto di incertezze giurisprudenziali rilevanti o di altri contrasti in sede di applicazione). 5. La sentenza impugnata ha ricostruito analiticamente i fatti in contestazione, giungendo alla conclusione che tutti i e tre ‘integrino la condotta oggettiva del delitto di cui all’art. 609 bis c.p.’, e che, però, ‘difetta la prova oltre ogni ragionevole dubbio dell’elemento soggettivo’ richiesto dalla disciplina incriminatrice. 5.1. Per quanto attiene all’elemento oggettivo, la sentenza impugnata premette: ‘emerge, con assoluta certezza, che nelle tre visite il medico ginecologo ha toccato insistentemente una parte del corpo (il clitoride – la vagina) che sono zone erogene, senza preparare le pazienti e senza acquisire il preventivo consenso dell’interessata’. In particolare, si rappresenta che l’imputato, secondo il racconto di A.P. , aveva proceduto ‘una visita non richiesta’, secondo le dichiarazioni di B.A. , ‘aveva inserito due dita nella vagina, muovendole come in un rapporto sessuale’, e, secondo la narrazione di H.R.R. , ‘aveva toccato il clitoride per qualche secondo, cercando di stimolarlo’. Si aggiunge, poi, che tutte e tre le donne ‘hanno descritto in maniera chiara i movimenti operati, che, anche per le esperienze personali, non erano equivocabili’. Si segnala, a questo punto, che ‘dalla attenta lettura delle dichiarazioni rese dai ct di parte (il professor P. ed il dottor Be. ) emerge, tuttavia anche la necessità della preventiva informazione quando sorga l’esigenza di approfondire, in presenza di una determinata sintomatologia, con un ‘certo tipo di visita”. Si evidenzia, inoltre, che il professor P. ha precisato che egli si sarebbe astenuto dal procedere nel caso in cui la paziente si fosse opposta, mentre il dottor Be. , pur affermando la non necessità di un consenso formale, ha ammesso che egli avrebbe preventivamente spiegato alla paziente perché avrebbe toccato alcune ‘zone particolari’. Si conclude che il preventivo chiarimento sulle manovre da effettuare era necessario, come anche il consenso sia pure implicito: ‘In carenza del preventivo chiarimento, e del conseguente anche solo implicito consenso dell’interessata, difetta il presupposto per ritenere legittimo, e privo di valenza sessuale, il movimento che genera il particolare contatto con la zona erogena, anche quando lo stesso sia riconducibile all’anamnesi’. Si osserva, quindi, che: a) nel caso di A.P. , la palpazione del clitoride è stata simultaneamente rappresentata ed attuata, sicché ‘la paziente è stata colta di sorpresa’; b) nel caso di H.R.R. , la donna si era recata dal medico solo per un’ecografia; c) nel caso di B.A. , la visita è stata non richiesta, ed il ‘movimento all’interno della vagina’ ha dato luogo ad una situazione che ‘ha determinato il grave imbarazzo riferito dalla giovane, è stata talmente improvvisa da non rendere possibile un’immediata reazione’ e si è giovata dell’inesperienza della donna, alla sua prima esperienza di visita ginecologica. Si conclude che, ‘in tutti e tre i casi oggetto dei capi a-b-c le modalità con cui ha proceduto il Dott. G. (contatto con la zona erogena eseguito in maniera repentina, senza la dovuta preparazione ed il preventivo consenso, anche solo implicito), tenuto conto del particolare contesto avulso dalla richiesta di una consulenza sessuale, ha costretto ciascuna paziente a subire un atto che ha inciso sulla libertà di autodeterminazione sessuale, ed ai fini della configurabilità del reato è sufficiente il pericolo di ledere il bene tutelato’. Ad ulteriore specificazione, si aggiunge: ‘La breve durata del contatto, in tutti e tre i casi, non è incompatibile con la concreta lesione del bene tutelato, che si è oggettivamente verificata per le sensazioni procurate’. 5.2. Per quanto concerne l’elemento soggettivo, la sentenza impugnata rileva l’esistenza di un ragionevole dubbio. Invero, dopo la premessa circa la necessità del dolo generico, inteso come ‘coscienza e volontà della propria condotta e del pericolo di attentare alla libertà sessuale per l’illegittimità dell’atto’, si segnala che gli indici fattuali da cui è stato desunto il dolo non sono pienamente convincenti. Si rappresenta, in particolare, che: a) l’imputato è un medico specialista in ginecologia ed ostetricia, con esperienze di insegnamento presso l’Università di XXXXXX; b) nell’ambito di una visita ginecologica completa, secondo i consulenti della difesa ‘l’eccitamento del clitoride può dare indicazione e quando non si dispone dello specifico apparecchio, vi sono varie tecniche, tra cui il toccamento manuale’ e, comunque, ‘è una modalità corretta, e non è normale solo ‘se dura due minuti”; c) per quanto concerne la visita nei confronti di A.P. , ‘non emerge, in realtà, un vero e proprio eccitamento a raggiungere l’orgasmo ma piuttosto la richiesta del medico di avvertirlo sulla reazione alla stimolazione (palpazione)’, ed inoltre il tempo di durata riferita della stimolazione pari a ‘due minuti’, ‘non è sicuro’, per l’impossibilità di una obiettiva misurazione e per il significato di generica brevità attribuito, nel linguaggio comune, a tale locuzione; d) per quanto attiene alla visita nei confronti di B.A. , ‘l’asserito incitamento’ dovrebbe ‘essere inteso piuttosto come richiesta di collaborazione rivolta alla paziente per verificare la sensibilità dell’organo durante la manovra, attuata senza adeguata preparazione’, la necessità di una visita era stata desunta dal ricorrente dalla cartella clinica, il medico, secondo le dichiarazioni della donna, aveva ‘smesso appena la giovane gli aveva riferito che non vi era stata una reazione, dopo circa un minuto’, ed il rossore sul viso dell’imputato ‘non è sicuro indice dell’impulso sessuale’, considerando ‘l’uso dei guanti durante tutto il tempo, la brevità della manovra e l’immediata interruzione quando la donna gli aveva riferito che non provava alcun piacere’; e) con riferimento alla visita nei confronti di H.R.R. , il medico, se ‘alla prima reazione della donna’ aveva detto ‘poi ti spiego’ ed aveva proseguito, si era subito arrestato alla nuova reazione, sicché potrebbe ‘avere inteso che la prima richiesta di interruzione fosse stata determinata dal dolore’, e, comunque, ‘non vi è stato un vero e proprio incitamento perché il ginecologo sembra aver richiesto solo una collaborazione, durante l’esame manuale, finalizzata alla diagnosi sul dolore’. Si conclude: ‘per la Corte è possibile che G. abbia agito con la sola consapevolezza e volontà di curare le pazienti, ritenendo che il loro consenso alla particolare manovra fosse implicito o, addirittura non necessario perché l’atto era dovuto’. Si aggiunge che l’errore nel ‘sottovalutare la situazione’ può essere stato determinato dall’esigenza di assicurare una cura delle pazienti nel breve tempo a disposizione e che l’omessa valutazione preventiva della sensibilità delle pazienti ‘non è sufficiente per ravvisare il dolo di abuso sessuale, e costituisce piuttosto espressione di un agire colposo’. 6. La sentenza impugnata, in considerazione di quanto da essa esposto e dei principi giuridici applicabili alla fattispecie, risulta viziata. Si è osservato che un medico, nell’esercizio di attività diagnostica o terapeutica, può lecitamente compiere atti incidenti sulla sfera della libertà sessuale di un paziente solo se abbia acquisito un consenso esplicito ed informato dallo stesso, o se sussistano i presupposti dello stato di necessità, e, inoltre, deve comunque immediatamente fermarsi in caso dissenso del paziente. Si è rilevato, inoltre, che l’errore del medico in ordine all’esistenza di un obbligo giuridico di acquisire il consenso del paziente prima di procedere al compimento di atti incidenti sulla sfera di autodeterminazione della libertà sessuale di quest’ultimo, a differenza di quello sulla sussistenza, in concreto, di un valido consenso, costituisce errore su legge penale, a norma dell’art. 5 c.p., che non esclude il dolo, ed esclude la colpevolezza solo in caso di ignoranza inevitabile. La sentenza impugnata ha ritenuto l’esistenza di un ragionevole dubbio in ordine alla sussistenza del dolo, ritenendo che quest’ultimo debba intendersi come ‘coscienza e volontà della propria condotta e del pericolo di attentare alla libertà sessuale per l’illegittimità dell’atto’, e concludendo che ‘per la Corte è possibile che G. abbia agito con la sola consapevolezza e volontà di curare le pazienti, ritenendo che il loro consenso alla particolare manovra fosse implicito o, addirittura non necessario perché l’atto era dovuto’. È evidente, quindi, innanzitutto, l’erroneità della decisione nella parte in cui attribuisce rilevanza all’errore dell’imputato sulla non necessità del consenso delle pazienti ‘alla particolare manovra’ quale causa di esclusione del dolo. Questo errore, infatti, come si è osservato, può rilevare solo in caso di ignoranza inevitabile della disciplina giuridicamente vincolante in ordine all’obbligo di acquisire il consenso del paziente prima di procedere ad attività diagnostica o terapeutica incidente sulla sfera di autodeterminazione della libertà sessuale di quest’ultimo. La motivazione della Corte d’appello, inoltre, è viziata, perché contraddittoria o comunque gravemente lacunosa, quando afferma che il ‘consenso (delle pazienti) alla particolare manovra fosse implicito’. Innanzitutto, la sentenza impugnata non spiega perché deve ritenersi sussistere il consenso implicito se poi afferma, ad esempio, che, nel caso di A.P. , ‘la paziente è stata colta di sorpresa’, o che, nel caso di B.A. , la visita è stata non richiesta, ed il ‘movimento all’interno della vagina’ ha dato luogo ad una situazione che ‘ha determinato il grave imbarazzo riferito dalla giovane, è stata talmente improvvisa da non rendere possibile un’immediata reazione’. Allo stesso modo, risulta assertiva, ed anche non risolutiva, l’affermazione secondo cui, nel caso di H.R.R. , il ricorrente, il quale ‘alla prima reazione della donna’ aveva detto ‘poi ti spiego’ ed aveva proseguito, per fermarsi solo dopo la nuova reazione, potrebbe aver equivocato sulle ragioni della reazione, ascrivendole al dolore e non al dissenso: da un lato, non si spiega perché la reazione in questione poteva essere percepita come conseguenza di un dolore; dall’altro, ed in ogni caso, non si spiega perché potesse essere ravvisabile un consenso implicito. In secondo luogo, poi, la pronuncia impugnata risulta addirittura cadere in diretta contraddizione con l’ipotesi del consenso implicito, quando riferisce, per ben due volte, sia pure per affermare la sussistenza oggettiva del reato, che in tutte e tre le vicende, il ‘contatto con la zona erogena (fu) eseguito in maniera repentina, senza la dovuta preparazione ed il preventivo consenso, anche solo implicito’, anche ‘tenuto conto del particolare contesto avulso dalla richiesta di una consulenza sessuale’. In terzo luogo, infine, non è chiaro, in questo contesto motivazionale, il rilievo attribuito al mancato ‘incitamento’ o ‘eccitamento a raggiungere l’orgasmo’, posto che, come si è detto in precedenza, ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 609-bis c.p., non è necessario che la condotta dell’agente sia specificamente finalizzata al soddisfacimento del suo piacere sessuale. 7. All’accoglimento del ricorso segue l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Torino per nuovo giudizio. Il giudice del rinvio, nel rivalutare i fatti in contestazione, si atterrà, innanzitutto, ai seguenti principi: ‘ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 609-bis c.p., non è necessario che la condotta dell’agente sia specificamente finalizzata al soddisfacimento del suo piacere sessuale’; ‘il medico, nell’esercizio di attività diagnostica o terapeutica, può lecitamente compiere atti incidenti sulla sfera della libertà sessuale di un paziente solo se abbia acquisito un consenso esplicito ed informato dallo stesso, o se sussistano i presupposti dello stato di necessità, e, inoltre, deve comunque immediatamente fermarsi in caso di dissenso del paziente’; ‘l’errore del medico in ordine all’esistenza di un obbligo giuridico di acquisire il consenso del paziente prima di procedere al compimento di atti incidenti sulla sfera di autodeterminazione della libertà sessuale di quest’ultimo, a differenza di quello sulla sussistenza di un valido consenso, costituisce errore su legge penale, a norma dell’art. 5 c.p., c’e non esclude il dolo, ed esclude la colpevolezza solo in caso di ignoranza inevitabile’. Il giudice del rinvio, in secondo luogo, nella ricostruzione del fatto, ed ai fini dell’accertamento di un ragionevole dubbio dell’imputato in ordine all’esistenza di un effettivo consenso delle persone offese, offrirà puntuale ragione del proprio convincimento, evitando, in particolare, di incorrere nelle aporie e discrasie logiche precedentemente evidenziate. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Torino. |
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III PENALE – SENTENZA 29 maggio 2015, n.23272 – Pres. Teresi – est. Pezzella Ritenuto in fatto
- La Corte di Appello di Torino, pronunciando nei confronti dell’odierna ricorrente, con sentenza del 20.6.2014, confermava la sentenza con cui in data 25.10.2013 il GUP del Tribunale di Torino, all’esito di giudizio abbreviato, aveva condannato O.L. , con l’attenuante del vizio parziale di mente e le circostanze attenuanti generiche prevalenti sull’aggravante contestata, con la riduzione del rito prescelto, ad anni tre e mesi quattro di reclusione, oltre pene accessorie, spese e risarcimento del danno con provvisionale di Euro 10.000 in favore della parte civile M.V. per il reato di cui:
– agli artt. 81 cpv., 609 octies c.p. in relazione all’art. 609 bis co. I e II e 609 ter co. I n. I c.p. perché, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, ripetutamente commettevano atti di violenza sessuale di gruppo agendo materialmente il T. previo concerto e con la collaborazione materiale della O. , inducevano M.V. , nata il (omissis), figlia della O. affetta da deficit intellettivo di grado lieve e da grave patologia ereditaria di tipo metabolico, a compiere e subire atti sessuali, consistiti nella ripetuta consumazione di rapporti sessuali vaginali completi con il T. dapprima nella comune abitazione e indi, a seguito dell’inizio di degenza ospedaliera della minore, all’interno del bagno annesso alla stanza dell’Ospedale (omissis) ove la medesima trovavasi ricoverata, e ciò abusando delle condizioni di inferiorità psico-fisica della persona offesa al momento del fatto, alla luce del divario di età, del deficit intellettivo e della patologia ereditaria allo stesso connessa affliggente la M. , del rapporto di filiazione e familiarità esistente tra la medesima e i due indagati. Con l’aggravante di aver commesso il fatto in danno di minore di anni 14. In (…), dall’inizio dell’anno (…) e sino al (omissis) , dato di arresto in flagranza della O. e del T. .
- Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, O.L. , deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.:
– Erronea applicazione della legge penale ex art. 606 co. I let. b) c.p.p. in relazione all’art. 609 octies c.p. e carenza, illogicità e manifesta contraddittorietà della motivazione, rilevabile dal testo del provvedimento impugnato, nonché da altri atti del procedimento specificatamente indicati, ex art. 606 co. I let. e) in punto qualificazione giuridica della condotta ex art. 609 octies e non già ex art. 110, 609 quater c.p. o, in difetto, ex art. 110, 609 bis c.p.. La Corte del merito ha ritenuto corretta la qualificazione giuridica del fatto storico, non in discussione, adottata dal primo Giudice ed avvallata in seconde cure, giudicando provata la consapevole (e dunque agevolatrice) presenza dell’imputata quanto meno al rapporto sessuale tra il T. e la p.o. consumato in data (omissis) presso l’Ospedale. Proverebbe l’assunto, anzitutto, l’atteggiamento denotante ‘tranquillità e nessun turbamento’ per il fatto che la figlia fosse da 10 minuti in bagno con il compagno: siffatto atteggiamento troverebbe spiegazione unicamente nella consapevolezza da parte dell’imputata che l’uomo e la ragazza stavano facendo sesso in bagno (pag. 6 sent.). Qui risiederebbe, ad avviso del difensore ricorrente, il primo vizio d’illogicità e carenza motivazionale: la Corte del merito invero avrebbe del tutto omesso di considerare che l’imputata è stata riconosciuta dal CT del PM semiinferma di mente ex art. 89 c.p. per essere affetta da una forma di patologia caratterizzata dalla presenza di ideazione rallentata, apatia e torpidità ideativa di fondo, disfunzioni dell’umore (depressive), con insufficienza di critica e di giudizio e di capacità previsionale e di autodeterminazione consapevole, oggi e all’epoca dei fatti (pag. 19 CT F. , agli atti); continua il consulente asserendo che la palese limitazione di giudizio e la severa disfunzione apatico-aulica, ascrivibili nell’insieme ad infermità psichica, appaiono eziologicamente correlabili ai fatti (nell’ipotesi di reato): una forma di torpidità e di disinteresse cognitivo-affettivo patologico. Orbene, pretermettere una tale situazione di fatto, pacificamente influente sulla sfera cognitiva e di giudizio, non potrebbe che rendere la motivazione illogica, contraddittoria rispetto alla CT del PM, nonché carente per non aver valutato, nell’apodittico assunto della piena consapevolezza, se, quanto e come detta minorazione psichica, peraltro associata ad un deficit cognitivo e di critica, possa aver influito nella determinazione della realtà storica, e nelle piena realizzazione di quanto stesse effettivamente accadendo. Egualmente illogica e contrastante con i risultati probatori, in tal caso con la perizia D.R. , sarebbe la sentenza stessa laddove ritiene pacificamente sussistente un rapporto di supremazia, controllo, e un conseguente indiscusso potere di regolamentazione dell’an, del quomodo e del quando dei rapporti sessuali, in quanto il citato elaborato ha attestato, invece, un’insolita inversione dei ruoli, tale per cui è la figlia che, adulta fra pari, si preoccupava di accudire la madre (pag. 18). Inoltre, ed in ogni caso, proprio le condizioni di deficienza psichica della O. le avrebbero impedito, a parere del ricorrente, che la stessa potesse coscientemente abusare delle condizioni della figlia, in una ritenuta posizione sovraordinata rispetto ad essa, in quanto il rapporto si estrinsecava in maniera conflittuale, in una sorta di costante competizione fra due rivali in amore (vedasi sul punto perizia D.R. , pag. 9); anzi, l’aver ceduto, da parte della O. , a tollerare la relazione tra la figlia ed il compagno paleserebbe, al contrario l’inferiorità della O. , che lungi dall’abusare, avrebbe di fatto subito le scelte altrui, incapace di porvi freno. Del pari, e per le stesse ragioni, ad avviso del ricorrente, deve giudicarsi carente e contraddittoria la sentenza che, a pag. 7, stabilisce apoditticamente, e senza spiegarne in modo alcuno le motivazioni, che le condizioni mentali della O. e le precoci esperienze sessuali della minore non rilevano al fine di configurare un rapporto di sudditanza psichica della madre verso la figlia; detta considerazione sarebbe priva di aggancio probatorio e spunto motivazionale. Né potrebbe ritenersi riscontro alla consapevole ed agevolatrice condotta della madre il tenore delle conversazioni telefoniche riportate in sentenza a pag. 6 ed 8, in particolare la n. 880 del 27.05.2012 (‘mamma ha detto di stare attenti oggi’): l’interpretazione in chiave dissuasiva (la madre avrebbe invero voluto evitare, non già agevolare, l’atto sessuale) proposta dalla difesa sarebbe stata affiancata ad un’interpretazione in chiave agevolatrice senza che essa sia stata sorretta da valida ed esplicata motivazione. Anzi, proprio il tenore del rapporto tra i due amanti, fondato su un reciproco consenso, ma nato nella clandestinità e fatto forzatamente sopportare alla madre, in ciò costretta, porterebbe a giudicare come più logica e verosimile l’interpretazione suggerita dalla difesa stessa, poiché più conforme al dato probatorio ricostruito sulla base delle parole della stessa p.o.. In definitiva, la Corte avrebbe del tutto pretermesso, nella valutazione del grado di consapevole partecipazione della madre, e di conseguente agevolatrice presenza nel locus commissi delicti, i dati desumibili dalle valutazioni tecniche estese dal CT F. e dal perito D.R. , avanzando una ricostruzione basata solo sui dati obiettivi e carente delle deduzioni sullo stato soggettivo dell’imputata che, in ultima analisi, determinano il grado di piena consapevolezza della stessa e conseguente valida partecipazione concorsuale. La Corte avrebbe poi del tutto omesso di considerare le peculiari condizioni in cui detta condotta si sarebbe insinuata: invero sarebbe provato che la minore partecipasse volontariamente ed anzi con entusiasmo alla relazione amorosa, e sessuale, con il compagno della mamma; dunque a monte non v’è alcuna piena costrizione all’atto sessuale, che la madre avrebbe, con la sua presenza, rafforzato ed agevolato. Dunque le valutazioni giurisprudenziali, corrette e condivisibili, sul ruolo del genitore che, con la sua presenza, agevolerebbe la consumazione dell’atto sessuale proibito, andrebbero certamente calate nel caso di ispecie; ed una volta calate, di esse non potrebbe che constatarsi l’impertinenza. Invero la p.o., che sin dall’inizio ha manifestato il proprio sentimento (sbagliato) ed il proprio consenso (non valido per la legge) alla relazione imputata, avrebbe intrapreso detta relazione senza e contro la volontà della madre, che dapprima si è opposta, adirandosi con entrambi, ed in un secondo momento, secondo il racconto della stessa p.o., conforme a quello del T. , l’avrebbe accettato (sbagliando), per l’evidente fondato timore di perdere tutto ciò che aveva, ovvero il compagno e la figlia, il sostentamento e la famiglia, l’affetto di un compagno e l’amore di una figlia. La sentenza impugnata sarebbe, dunque, viziata dalla violazione dell’art. 609 octies c.p. in quanto, senza minimamente attagliare il principio di diritto al caso concreto, apoditticamente ritenendo consapevole e volontaria la presenza della madre nel locus commissi delicti, e per nulla valutando la genesi del rapporto sessuale, da radicarsi in un più ampio rapporto sentimentale con il T. , ha giudicato sussumibile il caso di specie nel più grave delitto indicato e non nelle maglie del meno grave reato di cui all’art. 609 quater o bis c.p.. Ed illogica e contraddittoria, nuovamente in riferimento alla perizia D.R. , apparirebbe laddove esclude il valido consenso della minore esclusivamente sulla scorta della di lei patologia, quando invece appare ipotizzabile lo stesso, proprio sulla base delle conclusioni della stessa perizia, in virtù della di lei precoce adultizzazione, e della attestata precoce maturità sessuale. Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata. Considerato in diritto
- I motivi sopra illustrati appaiono manifestamente infondati e, pertanto, il proposto ricorso va dichiarato inammissibile.
- La ricorrente, non senza evocare in larga misura censure in fatto non proponibili in questa sede, si è nella sostanza limitata a riprodurre le stesse questioni già devolute in appello e da quei giudici puntualmente esaminate e disattese con motivazione del tutto coerente e adeguata che il ricorrente non ha in alcun modo sottoposto ad autonoma e argomentata confutazione.
È ormai pacifica acquisizione della giurisprudenza di questa Suprema Corte come debba essere ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che riproducono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici. La mancanza di specificità del motivo, infatti, va valutata e ritenuta non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, dal momento che quest’ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell’arti. 591 comma 1, lett. e) cod. proc. pen., alla inammissibilità della impugnazione (in tal senso sez. 2, n. 29108 del 15.7.2011, Cannavacciuolo non mass.; conf. sez. 5, n. 28011 del 15.2.2013, Sammarco, rv. 255568; sez. 4, n. 18826 del 9.2.2012, Pezzo, rv. 253849; sez. 2, n. 19951 del 15.5.2008, Lo Piccolo, rv. 240109; sez. 4, n. 34270 del 3.7.2007, Scicchitano, rv. 236945; sez. 1, n. 39598 del 30.9.2004, Burzotta, rv. 230634; sez. 4, n. 15497 del 22.2.2002, Palma, rv. 221693). Ancora di recente, questa Corte di legittimità ha ribadito come sia inammissibile il ricorso per cassazione fondato sugli stessi motivi proposti con l’appello e motivatamente respinti in secondo grado, sia per l’insindacabilità delle valutazioni di merito adeguatamente e logicamente motivate, sia per la genericità delle doglianze che, così prospettate, solo apparentemente denunciano un errore logico o giuridico determinato (sez. 3, n. 44882 del 18.7.2014, Cartolo e altri, rv. 260608).
- Nello specifico, il motivo su cui è imperniato l’odierno ricorso, con il quale si contesta la posizione di supremazia della madre sulla figlia in virtù di problemi di natura psicologica della prima, era stato già proposto ai giudici del gravame del merito e da questi aveva ricevuto in motivazione una confutazione logica, congrua ed assolutamente esaustiva.
Decisivo nel provare la piena consapevolezza della madre e il controllo dell’agire della figlia, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, è il contenuto delle telefonate riportate a pag. 6 della motivazione del provvedimento impugnato. Quel contenuto, per il suo significato esplicito, toglie ogni dubbio che possa residuare dai contenuti di questa o quella perizia. Non solo, dunque, c’è la presenza inerte della madre mentre la figlia si intrattiene nel bagno con il compagno. E sul punto logicamente rileva la corte territoriale che, l’atteggiamento della O. in tale frangente denotava tranquillità e nessun turbamento per il fatto che la figlia era stata sorpresa in bagno con T. , né consta che l’odierna ricorrente avesse in qualche modo cercato Va-lentina, la quale in realtà si trovava in bagno da (a detta dell’imputata) circa 10 minuti. Logicamente è stato ritenuto che siffatto atteggiamento — constatato dagli operanti — trovasse spiegazione unicamente nella consapevolezza da parte dell’imputata che l’uomo e la ragazza stavano facendo sesso nel bagno, sul letto posizionato davanti al quale la donna si era piazzata con funzioni di sorveglianza del regolare svolgimento del convegno sessuale e per imprimere il proprio stigma sul convegno stesso, senza che il volume più o meno alto del televisore possa aver influenzato la percezione del convegno in atto da parte dell’imputata e la vicina presenza di costei da parte della figlia e del convivente, poiché tutti e tre tali soggetti avevano perfetta contezza della situazione in atto. Ma, come detto, a sgombrare ogni dubbio, come da conto la motivazione del provvedimento impugnato, circa la conferma dell’agevolazione, da parte della O. , dell’abuso sessuale sulla figlia da parte del convivente, ci sono il tenore delle telefonate intercettate in prossimità dell’episodio in esame e i contenuti della conversazione tra madre e figlia captata dalle infermiere A.E. e C.C.M. . Queste ultime hanno riferito che il pomeriggio del 27.04.2012 (quindi, un mese prima dell’arresto), udirono l’imputata urlare alla figlia piangente: ‘Ti piace fare l’amore con M. , non te lo faccio fare più!’, e altre frasi percepite non integralmente: ‘Gli fai una sega 100 Euro…200 Euro completo’; due giorni dopo, la Co. e la collega Ve.Sa. scoprirono T. e V. che si erano chiusi in bagno: la ragazza era in mutande e reggiseno e l’uomo, vestito in piedi dinanzi a V. , abbozzò una risibile giustificazione con le infermiere. Nella telefonata n. 292 del (omissis) ore 08.42.10, T. , esortato dalla O. in sottofondo, cerca di convincere V. a ‘non fare niente’, ‘né di baciarci e né di toccarci, perché non si sa mai, se no siamo a rischio tutti e due, ok?’ la domenica e, a fronte del disappunto della ragazza, le dice: ‘Ha detto mamma di non cercare di fare niente’. Nella telefonata n. 663 del (omissis) ore 08.55.44, T. ripete a V. ciò che gli ha detto la O. : ‘di stare attenti oggi’ e V. dice: ‘…lo sappiamo domani.,.quello che abbiamo sempre fatto anche quando non c’era lei’ e, al termine della conversazione, l’imputata interviene intimando alla figlia: ‘Fai attenzione a quello che dici’.
- Dalle sopra riportate telefonate e conversazione coerentemente i giudici del merito fanno discendere la conclusione che la odierna ricorrente esercitasse un indiscusso potere di regolamentazione dell’an, del quomodo e del quando dei rapporti sessuali tra la figlia e il convivente, e che, correlativamente, V. si trovava in condizioni di soggezione psicologica nei confronti della madre.
La telefonata n. 663 lascia intendere che altre volte in precedenza T. e la minore avevano avuto rapporti sessuali in presenza della madre, mentre dai brani di conversazione percepita dal personale dell’ospedale si ricava l’inquietante sospetto che le prestazioni sessuali della minore fossero prezzolate a beneficio dell’imputata, il che rende ininfluente l’eventuale aspetto sentimentale del rapporto fra T. e V. . Logica appare la confutazione dell’assunto difensivo circa il fatto che i convegni intimi fra T. e V. fossero semiclandestini e si tenessero in assenza dell’appellante laddove la si ritiene smentita da tutte le acquisizioni di causa, e, tra l’altro, da quanto riferito dalla stessa minore, di avere scambiato effusioni con l’uomo in discoteca con la madre vicina. La Corte territoriale da conto ampiamente delle perizie espletate, evidenziando tuttavia che le condizioni mentali della O. (dal c.t. del P.M. riscontrata affetta da Disturbo Organico di Personalità o Disturbo di Personalità NAS — Non Altrimenti Specificato — e Ritardo Mentale lieve) e le precoci e esperienze sessuali della minore (documentate anche da alcune conversazioni telefoniche con soggetti di sesso maschile diversi da T. ) non rilevano al fine di configurare un rapporto di sudditanza psichica della madre verso la figlia e il convivente, come si vorrebbe nell’atto di appello. Piuttosto, logicamente viene ritenuto in sentenza che le condizioni psicofisiche anche contingenti di V. (che era stata ricoverata all’Ospedale Infantile (omissis) per una trombosi dovuta all’assunzione della pillola anticoncezionale, controindicata per la rara patologia di cui ella soffriva, e, durante il ricovero, era emerso altresì un sospetto di TBC, sicché la minore era stata trasferita nel reparto di isolamento per i relativi accertamenti) avessero rafforzato la posizione di supremazia della madre verso di lei, specialmente in relazione all’andamento dei rapporti con l’uomo. Coerentemente con quanto già ritenuto dal giudice di primo grado, quelli del gravame del merito ricordano che, secondo la perizia espletata dalla Dott.ssa D.R.P. , V. è affetta da ritardo mentale lieve e ha una struttura di personalità di tipo dipendente, facendone discendere che debba escludersi anzitutto che possa configurarsi un valido consenso ai rapporti sessuali intrattenuti e quindi che i fatti possano esser qualificati sotto l’egida dell’art. 609 quater c.p.. Ciò appare coerente, in punto di diritto, con il costante dictum di questa Corte di legittimità secondo cui in tema di violenza sessuale in danno di persona in stato di inferiorità psichica o fisica, un rapporto consensuale è ammissibile solo se non connotato da induzione od abuso delle condizioni di menomazione, anche dovute a fattori ambientali, di consistenza tale da incidere negativamente sulla volontà e sulla libertà sessuale della vittima, sì da determinare in quest’ultima un’assente o diminuita capacità di resistenza agli stimoli esterni (cfr. questa sez. 3, n. 15910 del 12.2.2009, F., rv. 243403). È stato anche chiarito, in una pronuncia successiva, che l’abuso delle condizioni di inferiorità psichica o fisica consiste nel doloso sfruttamento della menomazione della vittima e si verifica – come appare evidente nel caso che ci occupa – quando le richiamate condizioni sono strumentalizzate per accedere alla sfera intima della persona che, versando in uno stato di difficoltà, viene ridotta ad un mezzo per l’altrui soddisfacimento sessuale (cfr. sez. 3, n. 20766 del 14.4.2010, T. ed altro, rv. 247655).
- Il difensore ricorrente deduce violazione di legge e/o vizio motivazionale, ma, in realtà, sollecita a questa Corte una rivisitazione del fatto, evidentemente non consentita in questa sede.
Sul punto va ricordato che il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia la oggettiva tenuta sotto il profilo logico argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, cfr. vedasi questa sez. 3, n. 12110 del 19.3.2009 n. 12110 e n. 23528 del 6.6.2006). Ancora, la giurisprudenza ha affermato che l’illogicità della motivazione per essere apprezzabile come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (sez. 3, n. 35397 del 20.6.2007; Sez. Unite n. 24 del 24.11.1999, Spina, rv. 214794). Più di recente è stato ribadito come ai sensi di quanto disposto dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene né alla ricostruzione dei fatti né all’apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile: a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento, (sez. 2, n. 21644 del 13.2.2013, Badagliacca e altri, rv. 255542). Il sindacato demandato a questa Corte sulle ragioni giustificative della decisione ha dunque, per esplicita scelta legislativa, un orizzonte circoscritto. Non c’è, in altri termini, come richiesto nel presente ricorso, la possibilità di andare a verificare se la motivazione corrisponda alle acquisizioni processuali. E ciò anche alla luce del vigente testo dell’art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen. come modificato dalla l. 20.2.2006 n. 46. Il giudice di legittimità non può procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice del merito. La Corte territoriale offre una motivazione assolutamente logica e coerente, e spiega poi come nel contesto familiare in cui si sono svolti i fatti e intessute le relazioni tra i soggetti interessati, la personalità dipendente e sottomessa della ragazza sia stata strumentalizzata da T. e controllata dalla O. che proprio in materia sessuale le aveva precocemente impartito direttive e insegnamenti, come riferito da V. alla Dott. R.S. , psicologa dell’Ospedale Infantile (OMISSIS) , la quale non ha mancato di rilevare come la minore, di fronte alla madre, ‘si dimostra impaurila e appare paralizzata, facendo emergere tutto il controllo che la donna esercita sulla figlia, in contrasto con l’apparente disinibizione sessuale che la minore dimostra e che dovrebbe portarla ad essere più aggressiva nei rapporti con gli altri’ (viene richiamato in proposito il verbale di dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria in data 07.05.2012, f. 3), in tal modo cogliendo esattamente l’atteggiarsi dei rapporti tra l’imputata e la persona offesa dal reato. Viene anche evidenziato come le dichiarazioni del T. e della M. non possano poi essere intese nel senso che quest’ultima scoraggiasse il rapporto tra i due, poiché le uniche preoccupazioni della O. vertevano in realtà sulle modalità dell’eiaculazione dell’uomo (che ella raccomandava non avvenisse in vagina: e infatti V. ha precisato che anche al culmine del rapporto consumato il giorno dell’arresto, come sempre in precedenza, M. , inteso T.M. , fece ‘marcia indietro’) e, come emerge dalle telefonate di cui si è detto, sul rischio che la figlia e il convivente fossero scoperti da terzi in flagranza dei convegni tenuti in ospedale. Viene poi ricordato che la M. , in occasione dell’arresto della O. e del T. , aveva riferito che l’odierna ricorrente incentivava i suoi rapporti con l’uomo, considerandoli meno perniciosi di quelli con coetanei della minore stessa, e che lo stesso T. aveva dal suo canto affermato che la sua convivente ben sapeva del suo rapporto con la ragazza e nulla faceva per ostacolarlo. Condivisibile è poi l’assunto, quanto alla telefonata n, 880 del (omissis) ore 08:55:49, in cui T. ripete a V. le parole della O. che è vicina a lui: ‘Mamma ha detto di stare attento oggi’, preannunciando che andrà a trovarla da solo al pomeriggio (dopo che la ragazza gli rappresenta che il padre le farà visita alle 10 mattutine), per cui la stessa non può certo essere interpretata nel senso di un’attività dissuasiva e ammonitrice dell’imputata, poiché costituisce in realtà l’ennesima dimostrazione della preoccupazione della donna che i due amanti non vengano sorpresi, preoccupazione che la indusse, quello stesso pomeriggio, a recarsi anch’essa in ospedale a piantonare il bagno in cui ebbe luogo il convegno sessuale.
- Manifestamente infondata, infine, è la doglianza oggi riproposta circa l’esatta qualificazione giuridica dei fatti.
Ed invero, i giudici del merito appaiono fare buon governo della costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità in materia che il Collegio condivide e che intende riaffermare. È noto che la violenza sessuale di gruppo di cui all’art. 609 octies c.p. si qualifica quale fattispecie criminosa autonoma, caratterizzata dal concorso necessario di più persone alla commissione del reato, in numero di almeno due, nella quale il più grave trattamento sanzionatorio, è conseguenza del maggior disvalore attribuito ad una più odiosa violazione della libertà sessuale della vittima da parte o alla presenza contemporanea di più persone che concorrono nel sopraffarla. È stato, poi, già precisato da questa Suprema Corte, a proposito di tale fattispecie criminosa, che il reato è configurabile anche quando non tutti i componenti del gruppo compiano atti di violenza sessuale, essendo sufficiente che la presenza del compartecipe abbia fornito un contributo causale alla commissione del reato, dovendosi tenere conto della forza intimidatoria che la presenza del gruppo o in genere di più persone esercita sulla vittima dell’abuso sessuale, (sez. 3, 23.3.2005 n. 17843, P.G. in proc. La Fata ed altri, RV 231524; sez. 3, 13.11.2003 n. 3348 del 2004, Pacca e altro, RV 227495; sez. 3, 11.3.2010 n. 11560, RV 246448 anche nel senso del rafforzamento della volontà criminosa dell’autore dei comportamenti tipici di cui all’art. 609 bis c.p.). In tal senso corretto è il richiamo operato dalla Corte territoriale, quanto all’esclusione della necessità del compimento da parte di ciascuno degli atti tipici per configurare la violenza sessuale di gruppo, all’arresto giurisprudenziale costituito dalla sentenza 11560/2010 di questa Corte relativa ad una fattispecie di partecipazione a violenza sessuale di gruppo mediante riprese, con telefono cellulare, di parte degli atti sessuali posti in essere, sulla persona offesa, dal coimputato. Deriva da tali osservazioni che il concorso di persone nel reato di violenza sessuale ai sensi dell’art. 609 bis c.p. può configurarsi solo nella forma del concorso morale con l’autore materiale della condotta criminosa senza che il concorrente sia presente sul luogo del delitto, dovendosi altrimenti configurare la fattispecie prevista dall’art. 609 octies c.p.. Riconducendo i citati principi di diritto alla fattispecie in esame va rilevato essere corretta in punto di diritto l’affermazione operata dai giudici del merito secondo cui il mancato compimento, da parte dell’imputata, di atti sessuali con la figlia non vale a escludere che la predetta, nella consapevolezza dell’abuso e con la propria presenza in occasione dell’episodio del (OMISSIS) , abbia rafforzato la volontà criminosa dell’autore materiale del comportamento tipico e debba quindi rispondere del reato ex art. 609 octies c.p.. Secondo il costante dictum di questa Corte regolatrice, infatti, risponde del reato di violenza sessuale di gruppo il genitore che, pur non partecipando alla commissione di atti sessuali sul figlio minore, sia presente sul luogo del fatto ed agevoli concretamente l’abuso sessuale posto in essere da parte del correo (così questa sez. 3, n. 26369 del 9.6.2011, S., rv. 250624, nella cui motivazione la Corte ha precisato che, diversamente, il genitore risponde, a titolo di concorso, del reato di violenza sessuale materialmente commesso da terzi sul proprio figlio minore quando, pur essendo egli consapevole dell’abuso ma assente dal luogo del fatto, tenga una condotta meramente passiva, essendo a lui ascrivibile la responsabilità per aver violato l’obbligo, derivante dai doveri inerenti alla potestà genitoriale, di impedire il fatto; conf. Sez. 3, n. 36824 dell’8.7,2009, N. ed altro, rv. 244931; sez. 3, n. 42210 del 6.12.2006, R. ed altro, rv. 235469). Coerente con tali principi, sul rilievo che quanto meno nelle ricordate circostanze che condussero all’arresto (ma, come si evince dalle conversazioni intercettate, non solo), la O. non si limitò a tenere una condotta meramente passiva tale da potere farla ritenere corresponsabile del meno grave reato di cui all’art. 609 bis c.p. per aver violato l’obbligo, derivante dalla sua posizione di garanzia quale genitore, di impedire il fatto (art. 40 cpv, c.p.), è la conclusione cui sono pervenuti i giudici del merito di ritenere la stessa responsabile del più grave reato di violenza sessuale di gruppo contestatole.
- Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende. TESTO DELLA SENTENZA
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III PENALE – SENTENZA 2 luglio 2018, n.29613 – Pres. Rosi – est. Ciriello RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 19.04.2017 la Corte d’appello di Bologna ha, per quanto qui rileva, confermato la sentenza del 21.11.2012 del Tribunale di Reggio Emilia, con la quale Q.N. e Q.E. sono stati assolti dai capi di imputazione ascritti in rubrica, poichè i fatti non costituiscono i reati e con la quale è stato dichiarato nei confronti della sola Q.E. di non doversi procedere per il reato di minaccia, di cui al capo C), in seguito all’esclusione della contestata aggravante, per mancanza della condizione di procedibilità, in quanto non era stata sporta querela dalla persona offesa. In particolare gli imputati erano stati tratti in giudizio per i seguenti fatti: il Q.N., poichè, in violazione degli artt. 81 e 609 bis c.p. e art. 609 ter c.p., u.c., in più occasioni abusando della sua autorità di padre, del divario di età e della condizione di immaturità del figlio minore Q.A., con violenza, consistita nell’abbassargli repentinamente i pantaloni, lo costringeva a compiere e subire atti sessuali, quali palpeggiamenti nelle parti intime e rapporti orali; Q.E., poichè, in violazione degli artt. 40,81 e 609 bis c.p. e art. 609 ter c.p., u.c., nonostante l’obbligo giuridico di evitare i gravi abusi perpetrati ai danni del figlio, non interveniva pur essendone a conoscenza e, poichè, in violazione dell’art. 612 c.p., minacciava in strada B.A., ex insegnante del figlio, che aveva segnalato insieme all’insegnante C.C. gli abusi subiti dal minore Q.A., con la seguente frase ‘Hai rovinato la mia famiglia… Ti devo vedere sotto terra a te e all’altra’. 2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il Procuratore Generale della Repubblica, presso la Corte d’appello di Bologna, chiedendone l’annullamento. 2.1. Con il primo motivo il Procuratore Generale ha dedotto il vizio di motivazione in cui sarebbe incorsa la sentenza gravata, che non avrebbe correttamente valutato le dichiarazioni rese dalle testimoni B.A. e C.C., dalle quali si desumeva la condotta (quando le docenti avevano riferito delle confidenze giocose fatte dal minore di anni cinque, quali ad esempio ‘me lo ciuccia come un biberon’, simulando il gesto con un cucchiaino). Avrebbe errato la Corte d’appello (peraltro in contrasto con quanto ritenuto dal Tribunale di Reggio Emilia, che – affermata la natura oggettivamente sessuale del gesto – esclude il reato sulla scorta di un’interpretazione culturalmente orientata) nel pervenire alla assoluzione per l’assenza della componente soggettiva del reato, in quanto il gesto non sarebbe stato volto a soddisfare la concupiscenza dell’aggressore, o ad invadere la sfera sessuale della persona offesa, anche alla luce della dinamica dei fatti e della tradizione culturale del paese d’origine dell’imputato. 2.2. Con il secondo motivo il PG ricorrente ha dedotto il vizio di violazione di legge, in relazione agli artt. 609 bis e 609 ter c.p., per essere pervenuta, la Corte territoriale, pur avendo adottato una concezione soggettivistica di atto sessuale, alla stessa formula assolutoria del giudice di primo grado (il fatto non costituisce reato), escludendo erroneamente il dolo generico, in contrasto con la prevalente giurisprudenza che vi attribuisce rilievo nei reati in discorso, affermando che l’elemento soggettivo sussista quando l’agente sia consapevole di porre in essere un gesto invasivo della sfera e della libertà sessuale della persona offesa e, nel caso di minore, risultando protetto il bene giuridico dell’integrità e dello sviluppo psico-fisico della persona offesa. 2.3. Con il terzo motivo il Pg ricorrente si duole della contraddittorietà della sentenza che, pur avendo escluso il reato sessuale, grazie all’adozione di una nozione soggettivistica, affermi che la condotta sia comunque discutibile; altresì illogicamente la corte di merito avrebbe affermato per un verso, che il minore fosse un bambino autonomo, socievole, sereno e tranquillo, per altro verso, avrebbe escluso la rilevanza delle sue dichiarazioni che non potrebbero, in ragione della immaturità dovuta alla giovane età, essere poste a base della valutazione della condotta dei genitori, con riferimento alla valenza sessuale e l’intrusività del gesto. 2.4. Con il quarto motivo è stato dedotto il vizio di violazione di legge, in relazione all’art. 5 c.p., in cui sarebbe incorsa la Corte di appello, nel pervenire alla esclusione del dolo del reato in ragione delle origini culturali dell’imputato, nel cui contesto tali fatti sarebbero tollerati sulla base di quanto riferito dallo stesso e dai suoi parenti, e su una lettera inviata dal Prefetto della Provincia di (OMISSIS) (Albania), nonostante il documento fosse non verificato e privo di autenticazione (come evidenziato dal primo giudice e dal PM appellante) e che, in tale documento, si riferisse solo come in alcune zone rurali della Albania costituirebbe una tradizione accarezzare il figlio maschio nelle parti intime, quale augurio di prosperità. Deduce altresì, il Pg ricorrente, che la corte avrebbe omesso ogni pronuncia sulle specifiche censure avanzate in appello dal PG e dal PM ricorrenti, con le quali gli appellanti avevano dedotto la violazione dell’art. 5 c.p. che esclude la rilevanza dell’ignoranza della legge penale, evidenziando, altresì come tale ignoranza fosse in concreto da escludere per il ricorrente, che viveva in Italia da molti anni e doveva essere quindi consapevole dalla illiceità della condotta, peraltro sanzionata anche dal codice penale albanese. 2.5. Con il quinto motivo è stato dedotta la violazione di legge, in relazione all’art. 612 c.p., in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata pervenendo all’assoluzione della imputata, sulla base della esclusione della gravità della minaccia che deve essere invece valutata in relazione alle circostanze di fatto, alla gravità della frase proferita, al grado di offensività della condotta, agli effetti che la stessa ha prodotto in capo alla persona offesa (in particolare la persona offesa B.A. aveva dichiarato di essersi sentita in ansia e nel panico, avendo timore di poter incontrare nuovamente l’imputata insieme ad altre persone e che queste potessero metterle le mani addosso). 3. Con memoria del 06.12.2017 gli imputati Q.N. e Q.E. hanno contestato i motivi di ricorso prospettati dalla Procura Generale della Repubblica, presso la Corte d’Appello di Bologna, evidenziandone l’inammissibilità. In particolare, secondo la difesa la corte di appello avrebbe congruamente valutato le dichiarazioni del minore, in relazione anche agli esiti della perizia psicologica e dell’incidente probatorio; entrambe le sentenze sarebbero logicamente e adeguatamente motivate e non contraddittorie, nonostante avessero valutato sotto profili diversi l’assenza dell’elemento soggettivo: la prima sotto il profilo del dolo, la seconda accedendo ad una nozione soggettivistica di atto sessuale. CONSIDERATO IN DIRITTO 3. Il ricorso del procuratore generale è fondato. 3.1. Le sentenze di primo grado e di appello, pur conformi nella assoluzione degli imputati e nella formula prescelta per i reati sessuali (‘perchè il fatto non costituisce reato’), vi pervengono (ferma, dal punto di vista storico, la oggettività dei fatti, in quanto emersi dai filmati delle intercettazioni audiovisive captate all’interno della camera da letto degli imputati) sulla base di argomentazioni sensibilmente diverse, il che induce ad escludere che si sia in presenza, nel caso, di una c.d. doppia conforme (con la conseguente ammissibilità del ricorso del PG quanto ai denunciati vizi di motivazione). 3.1.1. Ed infatti, dalla mera lettura della sentenza di primo grado, emerge che il Tribunale ha sviluppato, per affermare l’innocenza degli imputati, ‘un’interpretazione culturalmente orientata’ dei fatti, riconoscendo rilievo alla cultura di appartenenza degli imputati, nella quale le condotte sarebbero prive di disvalore e dunque consentite o tollerate. In particolare, il giudice di primo grado, ha ritenuto (cfr. pag. 8) quanto all’elemento materiale del reato, che alcun dubbio può esistere circa la sua sussistenza sulla base delle ‘indagini, delle acquisizioni istruttorie dibattimentali, dei dati delle intercettazioni ambientali, ed in particolar modo di quelle eseguite nella sala colloqui del carcere di Reggio Emilia e che nessuna incertezza può porsi circa la qualificazione oggettiva della natura ‘sessuale’ dell’atto contestato, dal momento che ‘quale che sia la concezione di atto sessuale che si adotti, nessuno dubita che nel nostro ordinamento il contatto con l’organo genitale maschile, il bacio o ancor più l’inserimento in bocca del pene integri un atto sessuale in quanto invasivo della sfera sessuale, e integrante un rapporto del corpo dell’agente con parti del corpo della vittima naturalmente idonee a produrre stimolazione sessuale’. Ha tuttavia ritenuto il Tribunale, sul piano dell’elemento soggettivo, che il ‘corretto esame del caso esige un’accurata valutazione della colpevolezza poichè il dolo assume connotazioni differenziate alla luce delle questioni che da tempo la dottrina propone con riferimento alla valenza ‘culturale’ del fatto, fattore che può influire sia sulla coscienza dell’antigiuridicità della condotta, sia sulla comprensione dell’elemento della fattispecie che presenta specifiche caratteristiche culturali, sia in definitiva sull’ignoranza inevitabile del precetto penale’, pervenendo quindi alla assoluzione giacchè mancherebbe alcun ‘elemento aggiuntivo rispetto alla materialità del fatto che induca a pensare che la condotta dell’imputato, nato e cresciuto in un diverso contesto culturale, fosse accompagnata dalla coscienza del carattere oggettivamente sessuale secondo la nostra cultura di riferimento, del bacio e tanto più del succhiotto sul pene del bambino anche quando effettuato dal genitore, per cui detta condotta integra di regola il reato di violenza sessuale salva la ricorrenza di specifiche e univoche circostanze di contorno idonee a provare l’assenza di qualsivoglia stimolo sessuale alla base del comportamento’ (così pag. 11). 3.1.2. Diversamente il giudice di appello, ha escluso il reato (v. pag.20) ritenendo che i fatti anche sul piano materiale si traducessero in meri ‘gesti di affetto e di orgoglio paterno nei confronti del figlio maschio, assolutamente privi di qualsiasi implicazione di carattere sessuale e indicati come rispondenti a tradizioni di zone rurali interne dell’Albania, Paese di origine degli imputati’; tali elementi, inducono la corte di appello ad escludere sia l’elemento soggettivo, in una ‘ concezione soggettivistica della nozione di atto sessuale’ non essendo gli atti diretti in alcuno modo a soddisfare ‘qualche forma di concupiscenza sessuale nei confronti del minore’, che l’elemento oggettivo; ciò in quanto la corte di appello, dopo aver affermato che ‘sotto un profilo meramente oggettivo l’atto, per avere una connotazione sessuale, deve possedere un intrinseco significato sessuale e una obiettiva attitudine offensiva dell’altrui sfera sessuale’ (pag. 13) ritiene che ‘l’atto commesso dall’imputato non ha in sè alcune intrinseco significato sessuale, nè alcuna obiettiva attitudine offensiva dell’altrui sfera sessuale, risultando esso una commistione di abitudini del gruppo sociale di appartenenza con una chiara manifestazione ludica, ultra affettiva e dimostrativa dell’orgoglio per l’unico figlio maschio’ (pag. 14). 3.1.3. In sintesi, mentre il giudice di prime cure ha escluso il configurarsi della fattispecie delittuosa sulla base di una riconosciuta scriminante culturale, per escludere il dolo, il giudice di seconde cure ha invece escluso il reato, mancando nei fatti sia la condotta rilevante penalmente che il dolo, sempre alla luce della tradizione culturale di appartenenza dell’imputato. 3.2. Nè l’una, nè l’altra interpretazione risultano adeguate, incorrendo i giudici di merito nei vizi di motivazione denunciati dal PG ricorrente. 3.3. Appare il caso di premettere, in termini generali, che la categoria dei reati culturalmente orientati, o culturalmente motivati, si è via via imposta all’attenzione dell’interprete, in ragione dell’imponente fenomeno flussi migratori e alla cd. globalizzazione che caratterizzano, in questo periodo storico, l’Europa e il nostro paese. Occorre altresì considerare che il diritto penale, e segnatamente gli elementi integrativi delle fattispecie penali, risentono fortemente del periodo storico e della evoluzione della ‘cultura’ e della sensibilità diffuse. Sotto tale ultimo profilo, la giurisprudenza di questa sezione, anche recentemente, ha ribadito, sia pure con riferimento a diverse fattispecie, che occorre promuovere un approccio esegetico che abbia in considerazione il mutamento del costume e sentire sociale in continuo divenire, di modo che le decisioni si mostrino come il prodotto di una ‘interpretazione contestualizzata in relazione al momento storico, più che una tralatizia ripetizione di concetti (il comune sentire; la pubblica decenza) ritenuti scontati e immutevoli’ (così, Sez. 3, n. 39860 del 23/04/2014 – dep. 26/09/2014, Rv. 26249001, valutando la nozione normativa di ‘pubblica decenza’ sottolinea come la stessa sia stata esaminata e costantemente rivisitata alla luce dell’evolversi dei costumi sociali e del comune senso del decoro e della decenza, dovendosi ricostruire per i casi in cui la norma penale imponga la valutazione di elementi integrativi tratti dal comune sentire sociale, che la interpretazione si evolva conformemente ai principi di ‘civiltà ed elasticità giuridica’). Accanto a tale linea interpretativa, che non rinnega nè esclude la necessità di procedere ad una interpretazione delle norme penali che risenta del momento storico e culturale di riferimento (ivi compreso con riguardo al fenomeno del c.d. ‘multiculturalismo’, quale precipitato della integrazione dei migranti nella compagine sociale) occorre tuttavia tenere presente che nessun sistema penale potrà mai abdicare, in ragione del rispetto di tradizioni culturali, religiose o sociali del cittadino o dello straniero, alla punizione di fatti che colpiscano o mettano in pericolo beni di maggiore rilevanza (quali i diritti inviolabili dell’uomo garantiti e i beni ad essi collegati tutelati dalle fattispecie penali), che costituiscono uno sbarramento invalicabile contro l’introduzione, di diritto e di fatto, nella società civile, di consuetudini, prassi, costumi che tali diritti inviolabili, della persona, cittadino o straniero, pongano in pericolo o danneggino (si veda Cassazione penale, sez. 3, 26/06/2007, n. 34909, per la esclusione della rilevanza della condizione soggettiva dello straniero, pur ignorante della illiceità della condotta di violenza sessuale intra-coniugale). Lo stesso legislatore, del resto, come già posto in rilievo da questa corte (v. Cass. sez. 6, 26/11/2008, (ud. 26/11/2008, dep.16/12/2008), n. 46300) ha considerato la posizione dell’immigrato in termini di integrazione, prevedendo, per esempio quale circostanza aggravante (si veda il D.L. 26 aprile 1993, n. 122, art. 3, comma 1, conv. con modif. in L. 25 giugno 1993, n. 205) la ‘finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso’, al tempo stesso ribadendo la repressione di condotte pure conformi a credenze religiose, sociali e culturali ma confliggenti con beni rilevanti che non tollerano compressione come la salute o l’integrità fisica (in tal senso la norma sulla repressione penale dell’infibulazione, stabilita dall’art. 583 bis c.p., (L. 9 gennaio 2006, n. 7, art. 6, comma 1). 3.4. Sulla scorta di tali considerazioni emerge dunque come la categoria dei reati culturalmente orientati, tutt’altro che uniforme nella casistica, potrà essere valutata dall’interprete solo sulle premesse dell’attento bilanciamento tra il diritto, pure inviolabile, del soggetto agente a non rinnegare le proprie tradizioni culturali, religiose, sociali, ed valori offesi o posti in pericolo dalla sua condotta. Al tempo stesso al fine di valutazione l’incidenza della matrice culturale sulla consapevolezza dell’agente, sarà utile, come suggerito dalla dottrina più recente, la valutazione della natura della norma culturale in adesione alla quale è stato commesso il reato, se di matrice religiosa, o giuridica (come accadrebbe se la norma culturale trovasse un riscontro anche in una corrispondente norma di diritto positivo vigente nell’ordinamento giuridico del Paese di provenienza dell’immigrato, dovendosi ritenere tale circostanza rilevante quanto alla consapevolezza della antigiuridicità della condotta e quindi alla colpevolezza del fatto commesso), e del carattere vincolante della norma culturale (se rispettata in modo omogeneo da tutti i membri del gruppo culturale o, piuttosto, desueta e poco diffusa anche in quel contesto). Infine, assumerà rilievo, come pure evidenziato dalla dottrina, il grado di inserimento dell’immigrato nella cultura e nel tessuto sociale del Paese d’arrivo o il suo grado di perdurante adesione alla cultura d’origine, aspetto relativamente indipendente dal tempo di permanenza nel nuovo Paese. 4. Sulla scorta di tali premesse possono essere dunque valutati i motivi di ricorso. 4.1. Congiuntamente possono essere esaminati i motivi svolti con riguardo alla presunta tradizione culturale e alla sua rilevanza rispetto alla consapevolezza dell’attore, anche con riferimento all’art. 5 c.p.. Non risultando la ratio decidendi delle due sentenze uniforme, come chiarito sub 3, non si può affermare che le stesse si integrino reciprocamente; appare dunque carente la motivazione della sentenza impugnata allorchè non si confronta con le allegazioni del PM e del PG ricorrenti, che avevano evidenziato al fine di escluderne la rilevanza, come la presunta tradizione culturale affermata dalla difesa fosse tutt’altro che dimostrata, ma emergente dalle mere dichiarazioni difensive degli imputati e dei loro congiunti e da una documentazione prodotta dalle parti non riscontrata nè fornita di ufficialità (nota della prefettura di (OMISSIS) che riferirebbe della esistenza di una tradizione per cui un padre manifesta affetto per il proprio figlio, accarezzandolo nelle parti intime esprimendo così la gloria della prosperità e continuità della generazione); tale tradizione, evidenziavano gli appellanti, non solo era stata esclusa dal consulente del p.m. (sia pure sulla base di mere indagini sommarie in letteratura), ma in concreto risultava ridimensionata dal fatto che, nel caso di specie, non di mere occasionali carezze si trattava, ma di vere e proprie fellationes (cfr. atto appello PM pag. 6). A fronte della precisa censura al riguardo formulata dal PG in sede di appello, pure richiamata dalla Corte in premessa (cfr. pag. 12 della sentenza impugnata, ove, riportando i motivi di appello, la stessa corte dà atto del motivo con cui l’appellante, oltre a lamentare la non ufficialità del documento ne evidenziava anche la irrilevanza, giacchè in esso si parlava di carezze e non di ‘succhiotti’), la sentenza non offre alcuna motivazione, assumendo, peraltro in termini dubbiosi, la rilevanza confermativa della documentazione prodotta circa le tradizioni riferite dagli imputati e dai loro congiunti (tradizioni che ‘sembrerebbero trovare conferma’, si legge pag. 21 della sentenza impugnata nella contestata documentazione). Neppure si confronta, la corte, con le specifiche doglianze svolte dal PM appellante, ove si evidenzia che tanto dai filmati acquisiti, che dalle testimonianze delle insegnanti, considerate pienamente attendibili in primo grado, emerge come il bambino, persona offesa, avrebbe testualmente descritto la condotta del padre affermando che costui ‘gli succhiava il pisellino come un biberon’ e avrebbe mimato altresì la condotta mettendosi in bocca un cucchiaino e ‘facendo su e giù’ con lo stesso. 4.2. Ancora, sotto il medesimo profilo, il PG ricorrente ha evidenziato l’omissione di pronuncia in cui sarebbe incorsa la corte territoriale, riguardo la natura della presunta norma culturale in adesione alla quale è stato commesso il reato, giacchè, come esplicitamente dedotto già nell’atto di appello (pag. 9 appello del PG) tale presunta tradizione sarebbe in contrasto anche con le prescrizioni del codice penale albanese (att. 100 e ss.), risulterebbe smentita finanche in Albania (risultando, anche a volere accedere alla tesi difensiva, limitata solo alle zone rurali, e limitata alla mera carezza bene-augurale) e rispetto alla quale non poteva essere neppure ammessa una non consapevolezza della illiceità da parte degli imputati, che erano da tempo residenti in Italia e non potevano ignorarne le leggi, se non inescusabilmente. In termini generali questa corte ha più volte evidenziato, sulla base delle indicazioni fornite dalla Corte Costituzionale con sente. n. 364 del 1988, l’irrilevanza della ignoranza della legge penale, allorchè fondata sulla mera diversità della legge italiana rispetto a quella del proprio paese di origine (Sez. 3, n. 3114 del 07/12/1993 Ud. (dep. 15/03/1994), Tabib, Rv. 196816); tale principio è stato affermato vieppiù nei casi di mere usanze culturali o religiosa (cfr.. Cass. sez. 6, 26/11/2008, (ud. 26/11/2008, dep.16/12/2008), n. 46300), attribuendosi rilevanza all’ignoranza limitatamente e conformemente ai criteri tracciati sub 3, solo con riguardo a tradizioni di sicura e comprovata esistenza (come la circoncisione del neonato) e tenendo presenti le indicazioni fornite dalla Corte Costituzionale, sulla base di un ‘raffronto tra dati oggettivi, che possono avere determinato nell’agente l’ignorantia legis circa l’illiceità del suo comportamento, e dati soggettivi attinenti alle conoscenze e alle capacità dell’agente, che avrebbero potuto consentire al medesimo di non incorrere dell’error iuris.’ (così Sez. 6, n. 43646 del 22/06/2011 – dep. 24/11/2011, S., Rv. 25104401, con riguardo alla condizione di una persona di etnia africana, che, migrata in Italia, non è risultata essere ancora integrata nel relativo tessuto sociale, e nell’ordinamento giuridico del nostro Paese, portatrice di un bagaglio culturale estraneo alla civiltà occidentale, che si sia trovata in una oggettiva condizione di difficoltà nel recepire, con immediatezza, valori e divieti a lei ignoti). Calando nel caso di specie, tali principi, la dichiarata ignoranza da parte degli imputati e della loro famiglia, circa l’offensività della condotta posta in essere ai danni del figlio minore, così come l’ignoranza sull’esistenza della norma penale incriminatrice di essa non appare idonea ad integrare una causa di non colpevolezza degli imputati stessi che oltre a risultare ben integrati nel tessuto sociale ove vivevano e lavoravano da anni (tanto che i fatti emergono nel contesto scolastico ove il proprio figlio era collocato), allegano a propria discolpa una ignoranza che non assumerebbe rilevanza anche nel paese di origine, ove i medesimi fatti risultano sanzionati penalmente.. 4.2. Del pari, con assorbimento degli ulteriori profili di contraddittorietà e travisamento denunciati, deve essere accolto il motivo di ricorso ove si evidenzia come la decisione della corte territoriale incorra nel vizio di violazione di legge in merito alla interpretazione della natura sessuale degli atti posti in essere (sul punto in contrasto evidente con quanto affermato dal giudice di primo grado), fondando il proprio giudizio su una nozione soggettivista di atti sessuali, ed escludendo erroneamente la rilevanza penale del fatto poichè la condotta posta in essere non presenterebbe una valenza sessuale per il soggetto agente, non risultando posta in essere la attività per soddisfare la propria concupiscenza ma solo per esprimere affetto e orgoglio paterno (conformemente alla presunta tradizione). Come chiarito in più occasioni da questa corte, in termini generali, devono essere considerati atti sessuali tutti quegli atti indirizzati verso zone erogene, e che siano idonei a compromettere la libera determinazione della sessualità del soggetto passivo e ad entrare nella sua sfera sessuale con modalità connotate esemplificativamente dalla costrizione, sostituzione di persona, abuso di condizioni di inferiorità fisica o psichica. Tra questi vanno ricompresi i toccamenti, palpeggiamenti e sfregamenti sulle parti intime delle vittime, suscettibili di eccitare la concupiscenza sessuale anche in modo non completo e/o di breve durata, essendo del tutto irrilevante, ai fini della consumazione, che il soggetto abbia o meno conseguito la soddisfazione erotica (Sez. 3, n. 7772 del 02/05/2000, Calò G., Rv. 217017 – Sez. 3, n. 4402 del 10/03/2000, Rinaldi M., Rv. 220938 – Sez. 3, n. 3990 del 24/11/2000 Ud. (dep. 01/02/2001), Invidia G., Rv. 218542 – Sez. 3, n. 15488 del 22/02/2002, Obiang Esono Fulgencio, Rv. 221453 – Sez. 3, n. 39718 del 17/06/2009, Baradel e altro, Rv. 244622 – Sez. 3, n. 21336 del 15/04/2010, M., Rv. 247282 – Sez. 3, n. 20754 del 17/04/2013, S., Rv. 255907 – Sez. 3, n. 4913 del 22/10/2014 Ud. (dep. 03/02/2015), P., Rv. 262470 – Sez. 3, n. 21020 del 28/10/2014 Ud. (dep. 21/05/2015), Pg in proc. C., Rv. 263738 – cfr anche Sez. 3, n. 39710 del 21/09/2011, R., Rv. 251318 dove è massimato il seguente principio: l’intenzionale e prolungata pressione sulla zona genitale della vittima, sia essa protetta o meno dalla biancheria, integra il reato di violenza sessuale anche nel caso in cui sia ispirata da una finalità diversa da quella a sfondo sessuale). In linea generale, i descritti orientamenti, coerenti con le finalità di tutele della libertà di autodeterminazione sessuale, poste a base dell’intervento normativo introduttivo del’art. 609 bis c.p., sono volti a ritenere che ogni atto invasivo della sfera sessuale di un soggetto, in mancanza del consenso di quest’ultimo, leda tale bene giuridico, a prescindere dal motivo per il quale il soggetto agente lo abbia posto in essere. Allorchè, poi, come nel caso di specie, le vittime di violenze sessuali siano minori, l’oggetto di tutela risulta vieppiù rafforzato, giacchè il delitto di cui all’art. 609 quater c.p. (atti sessuali con minorenne) tutela l’integrità fisio-psichica del minore nella prospettiva di un corretto sviluppo della personalità sessuale attraverso una assoluta intangibilità, nell’ipotesi di minore degli anni quattordici (comma primo n. 1), o relativa, con riferimento a specifiche situazioni di parentela o di affidamento del minore stesso (comma primo n. 2) e si configura anche in assenza di pressioni coercitive, atteso che in tali ipotesi si può realizzare una agevolazione del consenso o un impedimento al rifiuto dello stesso. (ex multis, Sez. 3, n. 29662 del 13/05/2004, P.G. in proc. Sonno, Rv. 229358 – Sez. 3, n. 24258 del 27/05/2010, V., Rv. 247289). 5. Infine, fondato è altresì l’ultimo motivo di ricorso, con il quale si deduce il vizio di carente motivazione in cui sarebbe incorsa la corte escludendo la gravità delle minacce, nonostante queste siano state realizzate nei confronti di due testimoni nel processo, poco prima la data prevista per la loro escussione in dibattimento, e a fronte del – pacifico – contenuto letterale delle stesse. Al riguardo questa corte ha chiarito, in materia di reati contro la persona, in come, ai fini della configurabilità del reato di minaccia grave, ex art. 612 c.p., comma 2, rileva l’entità del turbamento psichico che l’atto intimidatorio può determinare sul soggetto passivo; pertanto, non è necessario che la minaccia di morte sia circostanziata, potendo benissimo, ancorchè pronunciata in modo generico, produrre un grave turbamento psichico, avuto riguardo alle personalità dei soggetti (attivo e passivo) del reato (Sez. 5, n. 44382 del 29/05/2015 Ud., Mirabello, Rv. 266055 – Sez. 6, n. 35593 del 16/06/2015 Ud., Romeo, Rv. 264341); tale profilo, nel caso di specie, non risulta esaminato dalla corte di merito che omette di tenere conto del principio riportato, al fine di valutare adeguatamente se le minacce, per le circostanze di tempo e di luogo, oltre che per il tenore letterale, potessero assumere rilevanza penale, anche su questo punto non confrontandosi adeguatamente con i motivi di appello. Pertanto la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Bologna che provvederà a nuovo giudizio. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Bologna e manda al giudice del rinvio per la liquidazione delle somme del presente grado sostenute dalla parte civile. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge. |
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Originally posted 2019-12-22 10:23:48.