Responsabilità medica – Professione sanitaria – Attività medico-chirurgica – Colpa –

Responsabilità medica – Professione sanitaria – Attività medico-chirurgica – Colpa –

Responsabilità medicaProfessione sanitaria – Attività medico-chirurgica – Colpa – Legge Gelli-Bianco – Linee guida – Ambito di applicazione Corte di Cassazione|Sezione U|Penale|Sentenza|22 febbraio 2018| n. 8770 AVVOCATO BOLOGNA  CREMONA BERGAMO PAVIA BRESCIA

 

L’interpretazione letterale della riforma induce a ritenere che la nuova causa di non punibilita’ e’ operativa in ogni caso in cui risultino rispettate le raccomandazioni previste dalle linee-guida pertinenti. Anche l’andamento dei lavori parlamentari starebbe a dimostrare che la colpa grave non viene ritenuta ragione di inoperativita’ della causa che esclude la punibilita’.

Secondo la nuova normativa, il parametro di verifica della colpa e’ il rispetto, constatato ex post, della adeguatezza delle raccomandazioni contenute nelle linee-guida, non anche le modalita’ di applicazione in concreto delle stesse, altrimenti non comprendendosi quale possa essere l’area di operativita’ della causa di non punibilita’ introdotta dall’articolo 590-sexies cod. pen. e riferita espressamente all’imperizia.

Nel caso di specie, le linee-guida erano state correttamente individuate, e cioe’ il medico aveva fatto una scelta attendista in assenza di sintomi rivelatori della “sindrome della cauda”; quando invece tali sintomi egli aveva percepito, aveva correttamente avviato il paziente al Pronto soccorso per l’espletamento dell’attivita’ diagnostica o interventistica, avente carattere di urgenza.

In conclusione, nessun rimprovero puo’ muoversi al sanitario e, per l’eventualita’ che, invece, si ravvisasse imperizia con riferimento alle scelte operate il 24 ottobre 2008, la stessa dovrebbe ricadere nell’ambito della causa di non punibilita’ introdotta dalla novella del 2017.

Dal canto suo, l’articolo 6 della legge Gelli-Bianco, volto ad incidere con la previsione di una causa di non punibilita’ sulla responsabilita’ colposa per morte o lesioni personali da parte degli esercenti la professione sanitaria, la ha introdotta come specificazione ai precetti penali generali in tema di lesioni personali colpose (articolo 590 cod. pen.) o omicidio colposo (articolo 589), con espressa limitazione agli eventi verificatisi a causa di “imperizia” e sul presupposto che siano state “”rispettate” le raccomandazioni previste dalle linee-guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee-guida risultino adeguate alle specificita’ del caso concreto”.

E’ comunque fatta salva, dall’articolo 7, la responsabilita’ civile dell’esercente la professione sanitaria, ai sensi dell’articolo 2043 cod. civ..

Il precetto dell’articolo 6 deve essere letto alla luce degli articoli 1, 3 e 5 che lo precedono: norme che costituiscono uno dei valori aggiunti della novella, nella ottica di una migliore delineazione della colpa medica, poiche’ pongono a servizio del fine principale dell’intervento legislativo – la sicurezza delle cure unitamente ad una gestione consapevole e corretta del rischio sanitario (articolo 1), a sua volta anticipato nel disegno della L. 28 dicembre 2015, n. 208, articolo 1, commi 538 e segg. (legge di stabilita’ per il 2016) – un metodo nuovo di accreditamento delle linee-guida. Queste ambiscono cosi’ a costituire non solo, per i sanitari, un contributo autorevole per il miglioramento generale della qualita’ del servizio, essendo, tutti gli esercenti le numerose professioni sanitarie riconosciute, chiamati ad attenervisi (articolo 5, comma 1), ma anche, per il giudizio penale, indici cautelari di parametrazione, anteponendosi alla rilevanza delle buone pratiche clinico-assistenziali, che, elemento valorizzato nel decreto Balduzzi, assumono oggi rilievo solo sussidiario per il minor grado di ponderazione scientifica che presuppongono, pur rimanendo comunque da individuare in modelli comportamentali consolidati oltre che accreditati dalla comunita’ scientifica.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE PENALI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CANZIO Giovanni – Presidente

Dott. IPPOLITO Francesco – Consigliere

Dott. CONTI Giovanni – Consigliere

Dott. DE CRESCIENZO Ugo – Consigliere

Dott. VESSICHELLI Maria – rel. Consigliere

Dott. RAMACCI Luca – Consigliere

Dott. ANDREAZZA Gastone – Consigliere

Dott. MONTAGNI Andrea – Consigliere

Dott. DE AMICIS Gaetano – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

 

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

(OMISSIS), nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 07/12/2015 della Corte di appello di Firenze;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal componente Dott. Maria Vessichelli;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. BALDI Fulvio, che ha concluso chiedendo sollevarsi la questione di legittimita’ costituzionale dell’articolo 590-sexies cod. pen.; in subordine l’annullamento con rinvio ai soli effetti civili;

udito il difensore della parte civile, avv. (OMISSIS), che ha concluso chiedendo la inammissibilita’ del ricorso;

udito il difensore dell’imputato, avv. (OMISSIS), che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso; in subordine, l’annullamento senza rinvio per essere il reato estinto per prescrizione; in ulteriore subordine sollevarsi la questione di legittimita’ costituzionale dell’articolo 590- sexies cod. pen..

RITENUTO IN FATTO

  1. Ha proposto ricorso per cassazione (OMISSIS) avverso la sentenza della Corte di appello di Firenze in data 7 dicembre 2015 con la quale e’ stato confermato, nei suoi confronti, il giudizio di responsabilita’ pronunciato dal Tribunale di Pistoia con riferimento all’imputazione di lesioni personali colpose.

1.1. Al ricorrente, nella qualita’ di medico specialista in neurochirurgia in servizio presso l’ambulatorio del Centro Fisioterapico (OMISSIS), e’ stato addebitato il comportamento omissivo ingiustificatamente tenuto dopo alcune visite del paziente (OMISSIS), nell’ottobre del 2008. Un comportamento contestato come caratterizzato da negligenza, imprudenza e imperizia e consistito nel non avere effettuato tempestivamente la diagnosi della sindrome da compressione della “cauda equina”, con conseguente considerevole differimento nella esecuzione – avvenuta ad opera di altro medico specialista, successivamente interpellato dalla persona offesa – dell’intervento chirurgico per il quale vi era, invece, indicazione di urgenza, in base alle regole cautelari di settore.

L’intervento doveva essere finalizzato alla decompressione della cauda e, per l’effetto, avrebbe dovuto impedire che la prolungata compressione in atto procurasse al paziente effetti poi riscontrati, e cioe’ un rilevante deficit sensitivo-motorio con implicazioni dirette sul controllo delle funzioni neurologiche concernenti l’apparato uro-genitale e di quelle motorie del piede destro.

1.2. In punto di fatto, era rimasto accertato che il ricorrente, in occasione della prima visita del 9 ottobre 2008, nella quale il paziente aveva manifestato forti dolori alla schiena, aveva prescritto una terapia farmacologica e richiesto una elettromiografia; in occasione della seconda visita, a distanza di una settimana, non avendo il (OMISSIS) eseguito l’esame diagnostico, il medico aveva prospettato, in ragione del persistere dei forti dolori, la eventuale necessita’ di un intervento chirurgico con inserimento di dischetti in silicone fra le vertebre; in occasione della terza visita del 23 ottobre, verificata la esecuzione dell’esame prescritto, il ricorrente aveva diagnosticato un’ernia in L2 e consigliato un intervento chirurgico per la relativa asportazione.

Il paziente aveva chiesto una pausa per riflettere ma la stessa notte (tra il 23 e il 24 ottobre) aveva accusato una marcata ingravescenza del quadro clinico, evidenziata da sintomi allarmanti di incontinenza fecale, notevole difficolta’ nella motilita’ degli arti inferiori ed infine perdita dello stimolo ad urinare.

L’indomani mattina, sollecitata telefonicamente all’imputato una visita in ragione della nuova e piu’ preoccupante condizione in cui versava, il (OMISSIS) l’aveva potuta ottenere non prima di una settimana, il 30 ottobre, ma, giunto in ritardo all’appuntamento, non aveva rinvenuto il medico. Questi, raggiunto telefonicamente per rimarcare la persistenza della sintomatologia invalidante, aveva replicato di poterlo operare non prima del mese successivo e di insistere nella terapia farmacologica, non accennando ad alcuna problematica legata all’urgenza, ma indicando il Pronto soccorso per la ricerca di un rimedio ai dolori. Una ricostruzione, quella appena ricordata, accreditata in base al racconto della persona offesa, che i giudici di primo e secondo grado hanno reputato affidabile sia per intrinseca coerenza, sia perche’ confortato dalla deposizione della teste (OMISSIS), sebbene in contrasto con la prospettazione dell’imputato che invece aveva affermato di non essere stato reso edotto, nella telefonata del 24 ottobre, della gravita’ dei nuovi sintomi.

Ritenutosi non adeguatamente seguito, il paziente si era rivolto ad altro sanitario, l’ortopedico dott. (OMISSIS), il quale a sua volta, fissato in tre giorni l’appuntamento ed effettuata la diagnosi di “sindrome della cauda”, nonche’ verificata l’urgenza dell’intervento di competenza neurochirurgica, aveva indirizzato il (OMISSIS) al CTO di Firenze ove, eseguita una TAC, questi era stato operato, in via d’urgenza, nella notte tra il 4 e il 5 novembre.

L’intervento era consistito nella decompressione della cauda ed exeresi di una grossa ernia discale espulsa.

1.3. A seguito dell’intervento, ed a distanza di circa due mesi, era stata accertata, mediante consulenza tecnica, la permanenza di una serie di gravi sintomi e quindi di un danno neurologico a carico delle funzioni sfinteriche, della sensibilita’ perineale e della motilita’ del piede destro, ritenuti effetto della prolungata compressione delle fibre della “cauda equina”, non prontamente contrastata con intervento chirurgico urgente. Questo sarebbe intervenuto tardi a causa del differimento della visita finalizzata alla diagnosi, ritardo quest’ultimo a sua volta dovuto alla sottovalutazione, imputata al ricorrente, dei gravi e allarmanti sintomi da ultimo manifestatisi nel paziente, pur affetto da lombosciatalgia cronica per la quale era da tempo seguito dal (OMISSIS) stesso.

In conclusione, il ritardo colpevole del (OMISSIS) veniva quantificato almeno nei sei giorni fatti inutilmente decorrere tra il momento in cui il paziente gli rappresento’ i gravissimi sintomi neurologici e quello in cui ritenne di far cadere l’appuntamento per la verifica della situazione, senza peraltro, neppure in quella occasione, prospettare la necessita’ di un pronto intervento chirurgico.

Nella sentenza di primo grado, inoltre, veniva verificata positivamente la configurabilita’ del nesso di causalita’ ed esclusa la causa di non responsabilita’ penale introdotta dal Decreto Legge n. 158 del 2012, articolo 3 (c.d. decreto Balduzzi) perche’ l’imputato non si era attenuto alle linee-guida o alle best practices che gli avrebbero imposto una diagnosi tempestiva e la sollecitazione di un intervento chirurgico non ulteriormente procrastinabile.

  1. Deduce il ricorrente:

– il vizio di motivazione e la violazione di legge con riferimento agli articoli 199 e 499 cod. proc. pen. in particolare denunciando il travisamento della prova costituita dalle dichiarazioni della teste (OMISSIS), citate a riscontro della versione della persona offesa costituita parte civile che sarebbero state frutto di domande suggestive del pubblico ministero.

– il vizio della motivazione e la violazione dell’articolo 40 cod. pen. in tema di nesso di causalita’.

Assume la difesa che illogicamente sarebbe stato trascurato il rilievo del consulente dell’imputato, accreditato neuropatologo, secondo cui, posto che nella cartella clinica relativa alla degenza per l’intervento neurochirurgico era stato attestato un recupero parziale del deficit motorio agli arti inferiori, avrebbe dovuto inferirsene che la compressione della cauda non aveva potuto avere la durata denunciata dalla parte civile, ma una ben inferiore, in quanto, diversamente, i relativi effetti sarebbero stati ben piu’ gravi.

Allo stesso modo, la difesa denuncia il travisamento delle certificazioni mediche in atti circa la datazione dei sintomi che derivava non dalla constatazione diretta da parte dei sanitari successivamente interpellati ma dalla ripresa delle dichiarazioni del paziente.

Posto, dunque, che il 30 ottobre era la data di effettiva “presa in carico”, da parte del ricorrente, quantomeno sul piano cognitivo, degli allarmanti sintomi della parte civile, non poteva non considerarsi che l’indicazione in quel frangente, da parte del medesimo, di rivolgersi al Pronto soccorso con urgenza rappresentava la corretta attuazione delle buone pratiche sanitarie.

Ne derivava altresi’ che, dovendosi imputare al (OMISSIS) l’ulteriore ritardo di cinque giorni connesso alla scelta di non recarsi al Pronto soccorso diversamente da quanto suggeritogli, ma di investire altri due sanitari, il differimento e l’addebito delle correlate conseguenze lesive non potevano ricondursi, con il necessario grado di certezza, al comportamento del ricorrente.

  1. Il ricorso e’ stato segnalato al Primo Presidente dal Presidente del Collegio della Quarta Sezione cui il processo era stato assegnato perche’, all’interno di questa, si registrava un contrasto giurisprudenziale su tema di possibile rilievo ai fini della trattazione, e cioe’ quello della misura della incidenza della recente L. 8 marzo 2017, n. 24, che, nell’abrogare la previgente disciplina della L. n. 189 del 2012, ha rimodulato i limiti della colpa medica a fronte del rispetto delle linee-guida dettate in materia, con conseguenze in punto di individuazione della legge piu’ favorevole.

Con decreto del 13 novembre 2017, il Primo Presidente ha disposto, ai sensi dell’articolo 610 cod. proc. pen., comma 2, l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, da trattarsi all’odierna udienza pubblica.

  1. Il difensore del ricorrente ha depositato memoria avente ad oggetto la specifica questione di diritto devoluta alle Sezioni Unite.

L’interpretazione letterale della riforma induce a ritenere che la nuova causa di non punibilita’ e’ operativa in ogni caso in cui risultino rispettate le raccomandazioni previste dalle linee-guida pertinenti. Anche l’andamento dei lavori parlamentari starebbe a dimostrare che la colpa grave non viene ritenuta ragione di inoperativita’ della causa che esclude la punibilita’.

Secondo la nuova normativa, il parametro di verifica della colpa e’ il rispetto, constatato ex post, della adeguatezza delle raccomandazioni contenute nelle linee-guida, non anche le modalita’ di applicazione in concreto delle stesse, altrimenti non comprendendosi quale possa essere l’area di operativita’ della causa di non punibilita’ introdotta dall’articolo 590-sexies cod. pen. e riferita espressamente all’imperizia.

Nel caso di specie, le linee-guida erano state correttamente individuate, e cioe’ il medico aveva fatto una scelta attendista in assenza di sintomi rivelatori della “sindrome della cauda”; quando invece tali sintomi egli aveva percepito, aveva correttamente avviato il paziente al Pronto soccorso per l’espletamento dell’attivita’ diagnostica o interventistica, avente carattere di urgenza.

In conclusione, nessun rimprovero puo’ muoversi al sanitario e, per l’eventualita’ che, invece, si ravvisasse imperizia con riferimento alle scelte operate il 24 ottobre 2008, la stessa dovrebbe ricadere nell’ambito della causa di non punibilita’ introdotta dalla novella del 2017.

  1. Il Procuratore generale, pur dando atto della inammissibilita’ dei motivi di ricorso volti ad accreditare una ricostruzione dei fatti alternativa a quella motivatamente emergente dalla sentenza impugnata, ha chiesto sollevarsi la questione di legittimita’ costituzionale dell’articolo 590-sexies cod. pen., per contrasto con i principi posti negli articoli 2, 3, 24, 25, 27, 32, 33, 101, 102 e 111 Cost..

Ha osservato preliminarmente che l’unica interpretazione possibile della nuova norma codicistica sarebbe quella propugnata dalla sentenza che ha dato luogo al contrasto giurisprudenziale, Sez. 4, n. 50078 del 19/10/2017, Cavazza, basata sulla lettera della legge, a differenza di quella della sentenza Tarabori della medesima Sezione, n. 28187 del 20/04/2017, che se ne e’ distaccata tentando una ricostruzione normativa costituzionalmente conforme ma inaccettabile perche’ sostanzialmente abrogativa del nuovo precetto. Il Procuratore generale ha percio’ rilevato che ci si troverebbe di fronte alla necessita’ di applicare una previsione normativa che confligge: con il principio di divieto ingiustificato di disparita’ di trattamento fra situazioni omologhe (le diverse forme di colpa e le diverse categorie di professionisti coinvolti); con il principio di tassativita’ della norma penale, per la derivazione delle linee-guida da fonte normativa secondaria; con quello di responsabilita’ personale, per la scarsa prevedibilita’ ed evitabilita’ dell’evento; con quello del diritto alla tutela della salute, posto in crisi da una richiesta di applicazione dei protocolli non chiaramente calibrati sul caso concreto; con quello della dignita’ della professione sanitaria, che si contrappone alla rigidita’ delle linee-guida da applicare; con quello della libera valutazione del giudice, che si verrebbe a limitare attribuendogli un criterio di giudizio non flessibile.

In subordine, il Procuratore generale ha sollecitato l’annullamento con rinvio al giudice civile, data la ormai maturata prescrizione del reato, per il necessario approfondimento riguardo alla possibilita’ di parametrazione della condotta del (OMISSIS) alle linee-guida e alla eventuale sussistenza di profili di negligenza nel suo operato.

CONSIDERATO IN DIRITTO

  1. La questione sottoposta alle Sezioni Unite e’ la seguente:

“Quale sia, in tema di responsabilita’ colposa dell’esercente la professione sanitaria per morte o lesioni, l’ambito applicativo della previsione di “non punibilita’” prevista dall’articolo 590-sexies cod. pen., introdotta dalla L. 8 marzo 2017, n. 24″.

  1. All’origine del contrasto giurisprudenziale che ha determinato la rimessione alle Sezioni Unite vi e’ la promulgazione della L. 8 marzo 2017, n. 24 (Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonche’ in materia di responsabilita’ professionale degli esercenti le professioni sanitarie), entrata in vigore il 1 aprile 2017, nota come “legge Gelli-Bianco” in ragione dei nomi dei rispettivi relatori di maggioranza alla Camera e al Senato. Questa, proseguendo nella volonta’ manifestatasi nella presente legislatura, di tipizzazione di modelli di colpa all’interno del codice penale, ha disposto, all’articolo 6, nel primo comma, la formulazione dell’articolo 590-sexies cod. pen.contenente la nuova disciplina speciale sulla responsabilita’ colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario e, nel secondo comma, la contestuale abrogazione della previgente disciplina extra-codice della materia. E cioe’ del Decreto Legge 13 settembre 2012, n. 158, articolo 3, comma 1, recante disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un piu’ alto livello di tutela della salute, decreto convertito, con modificazioni, dalla L. 8 novembre 2012, n. 189 e conosciuto come “decreto Balduzzi”, dal nome del Ministro della Salute del Governo che lo aveva presentato.

2.1. L’articolo 3 del d.l. Balduzzi era stato concepito per normare i limiti della responsabilita’ penale dell’esercente la professione sanitaria a fronte di un panorama giurisprudenziale divenuto sempre piu’ severo nella delineazione della colpa medica punibile, salvo il mantenimento di una certa apertura all’utilizzo della regola di esperienza ricavabile dall’articolo 2236 cod. civ., per la stessa individuabilita’ della imperizia, nei casi in cui si fosse imposta la soluzione di problemi di specifica difficolta’ di carattere tecnico-scientifico (fra le molte, Sez. 4, n. 16328 del 05/04/2011, Montalto, Rv. 251960; Sez. 4, n. 39592 del 21/06/2007, Bugge’, Rv. 237875).

Si era, invero, pervenuti nel volgere di un ventennio – dopo un passato di approdi giurisprudenziali piu’ indulgenti che ricavavano direttamente dall’articolo 2236 cod. civ. la possibilita’ di punire il solo errore inescusabile derivante dalla mancata applicazione delle cognizioni generali – ad un assetto interpretativo in base al quale la colpa medica non veniva di regola esclusa, una volta accertato che l’inosservanza delle linee-guida era stata determinante nella causazione dell’evento lesivo, essendo rilevante in senso liberatorio soltanto che questo, avuto riguardo alla complessiva condizione del paziente, fosse, comunque, inevitabile e, pertanto, ascrivibile al caso fortuito (Sez. 4, n. 35922 del 11/07/2012, Ingrassia, Rv. 254618).

Ebbene, l’articolo 3 citato era stato congegnato nel senso di sancire la esclusione della responsabilita’ per colpa lieve, quando il professionista, nello svolgimento delle proprie attivita’, non ulteriormente perimetrate con riferimento alla idoneita’ dell’evento ad integrare specifiche figure di reato ne’ quanto alla afferibilita’ alla negligenza, imprudenza o imperizia, si fosse “attenuto” a linee-guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunita’ scientifica.

2.2. Dal canto suo, l’articolo 6 della legge Gelli-Bianco, volto ad incidere con la previsione di una causa di non punibilita’ sulla responsabilita’ colposa per morte o lesioni personali da parte degli esercenti la professione sanitaria, la ha introdotta come specificazione ai precetti penali generali in tema di lesioni personali colpose (articolo 590 cod. pen.) o omicidio colposo (articolo 589), con espressa limitazione agli eventi verificatisi a causa di “imperizia” e sul presupposto che siano state “”rispettate” le raccomandazioni previste dalle linee-guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee-guida risultino adeguate alle specificita’ del caso concreto”.

E’ comunque fatta salva, dall’articolo 7, la responsabilita’ civile dell’esercente la professione sanitaria, ai sensi dell’articolo 2043 cod. civ..

2.3. Il precetto dell’articolo 6 deve essere letto alla luce degli articoli 1, 3 e 5 che lo precedono: norme che costituiscono uno dei valori aggiunti della novella, nella ottica di una migliore delineazione della colpa medica, poiche’ pongono a servizio del fine principale dell’intervento legislativo – la sicurezza delle cure unitamente ad una gestione consapevole e corretta del rischio sanitario (articolo 1), a sua volta anticipato nel disegno della L. 28 dicembre 2015, n. 208, articolo 1, commi 538 e segg. (legge di stabilita’ per il 2016) – un metodo nuovo di accreditamento delle linee-guida. Queste ambiscono cosi’ a costituire non solo, per i sanitari, un contributo autorevole per il miglioramento generale della qualita’ del servizio, essendo, tutti gli esercenti le numerose professioni sanitarie riconosciute, chiamati ad attenervisi (articolo 5, comma 1), ma anche, per il giudizio penale, indici cautelari di parametrazione, anteponendosi alla rilevanza delle buone pratiche clinico-assistenziali, che, elemento valorizzato nel decreto Balduzzi, assumono oggi rilievo solo sussidiario per il minor grado di ponderazione scientifica che presuppongono, pur rimanendo comunque da individuare in modelli comportamentali consolidati oltre che accreditati dalla comunita’ scientifica.

E’ qui sufficiente rammentare che dall’articolo 3 e’ prevista la istituzione di un Osservatorio delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanita’ destinato a raccogliere dati utili per la gestione del rischio sanitario e quelli concernenti le buone pratiche per la sicurezza delle cure, predisponendosi linee di indirizzo con l’ausilio delle societa’ scientifiche e delle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie. Oltre a cio’, viene regolamentata la creazione di un elenco delle predette societa’ e associazioni, aventi peculiari caratteristiche idonee a garantirne la trasparenza e la capacita’ professionale scientifica; enti deputati ad elaborare, unitamente alle istituzioni pubbliche e private, le raccomandazioni da includere in linee-guida che hanno la finalita’ di fungere da parametro per la corretta esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalita’ preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale.

Tali linee-guida sono recepite attraverso un sistema di pubblicita’ garantito dall’Istituto superiore di sanita’ pubblica che lo realizza nel proprio sito internet, previa una ulteriore verifica della conformita’ della metodologia adottata a standard definiti resi pubblici dello stesso Istituto.

E’ sicuramente rimarchevole che tanto l’istituzione dell’Osservatorio quanto la formazione del predetto elenco siano ufficialmente avvenuti mediante la pubblicazione di due decreti del Ministero della Salute in date, rispettivamente, 2 agosto e 29 settembre 2017 (in Gazzetta Ufficiale, Serie Generale, n. 186 del 10 agosto 2017 e n. 248 del 23 ottobre 2017).

  1. Va osservato preliminarmente che, sul tema della natura, finalita’ e cogenza delle linee-guida – che hanno assunto rilevanza centrale nel costrutto della intera impalcatura della legge – non vi e’ motivo per discostarsi dalle condivisibili conclusioni maturate in seno alla giurisprudenza delle sezioni semplici della Cassazione, icasticamente riprese e sviluppate, anche dopo la introduzione della novella, dalla sentenza Sez. 4, n. 28187del 20/04/2017, nota nel dibattito giurisprudenziale e dottrinale col riferimento al nome, Tarabori, della parte civile ricorrente contro il proscioglimento dell’imputato De Luca: sentenza che costituisce uno dei due poli del contrasto sottoposto alle Sezioni Unite, ma non sul tema della natura delle linee-guida, che non risulta investito da divergenza di interpretazioni.

Ebbene, puo’ convenirsi con il rilievo che, anche a seguito della procedura ora monitorata e governata nel suo divenire dalla apposita istituzione governativa, e quindi tendente a formare un sistema con connotati pubblicistici, le linee-guida non perdono la loro intrinseca essenza, gia’ messa in luce in passato con riferimento alle buone pratiche. Quella cioe’ di costituire un condensato delle acquisizioni scientifiche, tecnologiche e metodologiche concernenti i singoli ambiti operativi, reputate tali dopo un’accurata selezione e distillazione dei diversi contributi, senza alcuna pretesa di immobilismo e senza idoneita’ ad assurgere al livello di regole vincolanti.

La utilita’ della descritta introduzione delle linee-guida, pubblicate a cura del competente istituto pubblico, resta indubbia.

Da un lato, una volta verificata la convergenza delle piu’ accreditate fonti del sapere scientifico, esse servono a costituire una guida per l’operatore sanitario, sicuramente disorientato, in precedenza, dal proliferare incontrollato delle clinical guidelines. Egli e’ oggi posto in grado di assumere in modo piu’ efficiente ed appropriato che in passato, soprattutto in relazione alle attivita’ maggiormente rischiose, le proprie determinazioni professionali. Con evidenti vantaggi sul piano della convenienza del servizio valutato su scala maggiore, evitandosi i costi e le dispersioni connesse a interventi medici non altrettanto adeguati, affidati all’incontrollato soggettivismo del terapeuta, nonche’ alla malpractice in generale.

Dall’altro lato, la configurazione delle linee-guida con un grado sempre maggiore di affidabilita’ e quindi di rilevanza – derivante dal processo di formazione – si pone nella direzione di offrire una plausibile risposta alle istanze di maggiore determinatezza che riguardano le fattispecie colpose qui di interesse. Fattispecie che, nella prospettiva di vedere non posto in discussione il principio di tassativita’ del precetto, integrato da quello di prevedibilita’ del rimprovero e di prevenibilita’ della condotta colposa, hanno necessita’ di essere etero-integrate da fonti di rango secondario concernenti la disciplina delle cautele, delle prescrizioni, degli aspetti tecnici che in vario modo fondano il rimprovero soggettivo.

Con una espressione sintetica, proprio attraverso tali precostituite raccomandazioni si hanno parametri tendenzialmente circoscritti per sperimentare l’osservanza degli obblighi di diligenza, prudenza, perizia. Ed e’ in relazione a quegli ambiti che il medico ha la legittima aspettativa di vedere giudicato il proprio operato, piuttosto che in base ad una norma cautelare legata alla scelta soggettiva, a volte anche estemporanea e scientificamente opinabile, del giudicante. Sempre avendo chiaro che non si tratta di veri e propri precetti cautelari, capaci di generare allo stato attuale della normativa, in caso di violazione rimproverabile, colpa specifica, data la necessaria elasticita’ del loro adattamento al caso concreto.

Cosi’ come e’ da escludere che il nuovo sistema introdotto, pur sembrando formalmente sollecitare alla esatta osservanza delle linee-guida, anche al fine di ottenere il beneficio previsto in campo penale, possa ritenersi agganciato ad automatismi.

Non si tratta, infatti, di uno “scudo” contro ogni ipotesi di responsabilita’, essendo la loro efficacia e forza precettiva comunque dipendenti dalla dimostrata “adeguatezza” alle specificita’ del caso concreto (articolo 5), che e’ anche l’apprezzamento che resta, per il sanitario, il mezzo attraverso il quale recuperare l’autonomia nell’espletare il proprio talento professionale e, per la collettivita’, quello per vedere dissolto il rischio di appiattimenti burocratici. Evenienza dalla quale riemergerebbero il pericolo per la sicurezza delle cure e il rischio della “medicina difensiva”, in un vortice negativo destinato ad autoalimentarsi.

Non, dunque, norme regolamentari che specificano quelle ordinarie senza potervi derogare, ma regole cautelari valide solo se adeguate rispetto all’obiettivo della migliore cura per lo specifico caso del paziente e implicanti, in ipotesi contraria, il dovere, da parte di tutta la catena degli operatori sanitari concretamente implicati, di discostarsene.

  1. Tutto cio’ premesso, puo’ ora piu’ efficacemente riassumersi il senso del contrasto giurisprudenziale rilevato.

4.1. Il primo orientamento e’ sostenuto dalla sentenza De Luca-Tarabori sopra citata, concernente il caso di un medico psichiatra, responsabile del piano riabilitativo redatto per un paziente e chiamato a rispondere, a titolo di colpa, dell’omicidio volontario da questi compiuto, con un mezzo contundente, nella occasione della convivenza con la futura vittima, posta unitamente all’imputato in una struttura residenziale a bassa soglia assistenziale: posizione, quella del medico prosciolto dal Gip ai sensi dell’articolo 425 cod. proc. pen., che la Cassazione ha fatto oggetto di annullamento con rinvio, tra l’altro, per il necessario raffronto con le linee-guida del caso concreto, anche nella prospettiva della operativita’ del decreto Balduzzi quale legge piu’ favorevole.

Tale decisione, confrontandosi con le potenzialita’ apparentemente liberatorie della novella, muove dal preliminare rilievo di incongruenze interne alla formulazione del precetto dell’articolo 6 cit. che porrebbero in crisi la possibilita’ stessa di comprendere la ratio della norma e poi quella di applicarla, se dovesse darsi corso ad una adesione acritica alla lettera della legge.

Questa, infatti, con l’enunciato della non punibilita’ dell’agente che rispetti le linee-guida accreditate, nel caso in cui esse risultino adeguate alle specificita’ del caso concreto, sarebbe una norma quantomeno inutile perche’ espressione dell’ovvio; e cioe’ del fatto che chi rispetta le linee-guida scelte in modo appropriato non puo’ che essere riconosciuto esente da responsabilita’, sia a titolo di imperizia che ad altro titolo, perche’ non ha tenuto alcun comportamento rimproverabile.

La sentenza ripudia anche la interpretazione della norma secondo cui l’ambito della imperizia esclusa dall’area della colpevolezza sarebbe quello che vede prodotto l’evento lesivo in una situazione nella quale, almeno “in qualche momento della relazione terapeutica”, il sanitario “abbia comunque fatto applicazione di direttive qualificate”.

Infatti, ove tale evento lesivo fosse legato causalmente ad un comportamento in se’ connotato da imperizia ed esulasse dall’ambito specificamente regolato dalle linee-guida adottate dal sanitario nel caso concreto, sarebbero traditi, con l’applicazione della causa di non punibilita’, lo stesso principio costituzionale di colpevolezza e i connotati generali della colpa. Questa, pur non estendendosi a tutti gli eventi che comunque siano derivati dalla violazione di una prescrizione, e’ tuttavia inscindibilmente connessa ai risultati che la regola mira a prevenire e, soggettivamente, alla prevedibilita’ e prevenibilita’ oltre che, in sintesi, alla rimproverabilita’.

In conclusione, per l’orientamento in esame, non e’ consentito invocare l’utilizzo di direttive non pertinenti rispetto alla causazione dell’evento, per vedere esclusa la responsabilita’ colpevole, non dovendosi per giunta dimenticare il carattere non esaustivo e non cogente delle linee-guida.

La scelta contraria sarebbe in violazione dell’articolo 32 Cost., implicando un radicale depotenziamento della tutela della salute, e del principio di uguaglianza, ove stabilisse uno statuto normativo irrazionalmente diverso rispetto a quello di altre professioni altrettanto rischiose e difficili.

Secondo la sentenza De Luca-Tarabori, dunque, va escluso che il sintagma enunciativo della “causa di non punibilita’” possa davvero reputarsi riferibile dogmaticamente a tale istituto, dovendo piuttosto essere inteso come un atecnico quanto ripetitivo riferimento al giudizio di responsabilita’ con riguardo alla parametrazione della colpa.

Ne discende che, in primo luogo, va dato per certo che la nuova disciplina specificatrice dei precetti generali in tema di colpa comunque non e’ destinata ad operare negli ambiti che, per qualunque ragione, non siano governati da linee-guida, rientrando in questa ipotesi anche il caso di linee-guida pertinenti ma aventi ad oggetto regole di diligenza o prudenza e non di perizia; ne’ nelle situazioni concrete nelle quali le raccomandazioni dipendenti da quelle debbano essere radicalmente disattese per via delle peculiarita’ della condizione del paziente o per qualunque altra ragione imposta da esigenze scientificamente qualificate (la previsione della possibile inadeguatezza, nella relazione terapeutica esecutiva, peraltro, e’ essa stessa evidenza della impossibilita’ di qualificare la linea-guida come fonte di colpa specifica); ne’ in relazione alle condotte che, sebbene poste in essere nell’ambito di approccio terapeutico regolato da linee-guida pertinenti ed appropriate (con riferimento, dunque, al momento della scelta delle linee stesse), non risultino per nulla disciplinate in quel contesto regolativo.

Negli altri casi, il riferimento alle linee-guida e’ null’altro che il parametro per la individuazione-graduazione-esclusione della colpa secondo le regole generali, quando quella dipenda da imperizia.

Dal punto di vista del regime intertemporale, la previgente disciplina – che pure abrogata continuerebbe ad operare se risultasse essere legge sostanziale piu’ favorevole – appare avere tale connotato alla stregua della novella del 2017. Essa infatti, come interpretata dalla giurisprudenza maggioritaria di legittimita’, introduceva una ipotesi di decriminalizzazione delle condotte connotate da colpa lieve, a prescindere dal tipo di colpa, evenienza invece cancellata dalla legge Gelli-Bianco, con la conseguenza della impossibilita’ di continuare a distinguere, per i comportamenti futuri, ai fini della esclusione della responsabilita’ penale, la colpa lieve da quella grave.

In chiusura, la sentenza De Luca-Tarabori auspica che possa continuare a rappresentare un valido contributo la tradizione ermeneutica che accredita la possibile rilevanza, in ambito penale, dell’articolo 2236 cod. civ., quale regola di esperienza cui attenersi nel valutare, in ambito penalistico, l’addebito di imperizia.

4.2. La sentenza Cavazza che sostiene l’orientamento opposto e’ della Sez. 4, n. 50078 del 19/10/2017, intervenuta in un caso di doppia pronuncia conforme di condanna, nei confronti di un medico che aveva effettuato un intervento di ptosi (lifting) del sopracciglio, cagionando al paziente una permanente diminuzione della sensibilita’ in un punto della zona frontale destra per la lesione del corrispondente tratto di nervo. Tale decisione ha dichiarato la prescrizione del reato rilevando che la condotta del sanitario, descritta dai giudici del merito come gravemente imperita, non poteva godere della novella causa di non punibilita’ sol perche’ nella motivazione della sentenza non si affrontava il tema dell’eventuale individuazione di corrette linee-guida, omissione non piu’ emendabile per il sopravvenire della causa di estinzione; non poteva neppure beneficiare della previsione liberatoria della legge Balduzzi, data la accertata “gravita’” della colpa e dell'”errore inescusabile”, come plasmato dalla giurisprudenza della Cassazione con riferimento tanto alla scelta del sapere appropriato quanto al minimo di correttezza della fase esecutiva.

In essa si sostiene il carattere innovativo e in discontinuita’ col passato, sul versante penalistico, della legge Gelli-Bianco.

Questa viene recepita eminentemente in base al criterio della interpretazione letterale, il quale evidenzia che si e’ voluta adottare una causa di esclusione della punibilita’ per la sola imperizia, la cui operativita’ e’ subordinata al rispetto delle linee-guida ufficiali. Non manca, nella stessa sentenza, l’inquadramento sistematico di tale conclusione, basato sulla considerazione della finalita’ perseguita e cioe’ quella di attenuare specifici profili della colpa medica, favorendo tale professione di cui il legislatore ha inteso diminuire l’ambito della responsabilita’ penale, ferma restando quella civile.

Tale rispetto viene pero’ preteso soltanto nella fase della selezione delle stesse, cosicche’ resta fuori dalla gamma delle condotte punibili la “imperita applicazione” di esse, cioe’ la imperizia che cada nella fase esecutiva.

Si tratterebbe di una previsione, quella della non punibilita’, che opera al di fuori delle categorie dogmatiche della colpevolezza e della causalita’ colposa e trova giustificazione nell’intento del legislatore di non vedere mortificata la professionalita’ medica dal timore di ingiuste rappresaglie e, con una sola espressione, di prevenire la c.d. medicina difensiva.

  1. Ritengono le Sezioni Unite che in ciascuna delle due contrastanti sentenze in esame siano espresse molteplici osservazioni condivisibili, in parte anche comuni, ma manchi una sintesi interpretativa complessiva capace di restituire la effettiva portata della norma in considerazione. Sintesi che richiede talune puntualizzazioni sugli elementi costitutivi della nuova previsione, da individuare attraverso una opportuna attivita’ ermeneutica che tenga conto, da un lato, della lettera della legge e, dall’altro, di circostanze anche non esplicitate ma necessariamente ricomprese in una norma di cui puo’ dirsi certa la ratio, anche alla luce del complesso percorso compiuto negli anni dal legislatore sul tema in discussione. Percorso al quale non risultano estranei il contributo della Corte costituzionale ne’ gli approdi della giurisprudenza di legittimita’, di cui, dunque, ci si giovera’.

Infatti, val la pena osservare che il canone interpretativo posto dall’articolo 12 preleggi, comma 1, prevede la valorizzazione del significato immediato delle parole, di quello derivante dalla loro connessione nonche’ della “intenzione del legislatore”. E da tale disposizione – che va completata con la verifica di compatibilita’ coi principi generali che regolano la ricostruzione degli elementi costitutivi dei precetti – si evince un solo vincolante divieto per l’interprete, che e’ quello riguardante l’andare “contro” il significato delle espressioni usate, con una modalita’ che sconfinerebbe nell’analogia, non consentita nella interpretazione del comando penale. Non gli e’ invece vietato andare “oltre” la letteralita’ del testo, quando l’opzione ermeneutica prescelta sia in linea con i canoni sopra indicati, a maggior ragione quando quella, pur a fronte di un testo che lascia aperte piu’ soluzioni, sia l’unica plausibile e percio’ compatibile col principio della prevedibilita’ del comando; sia, cioe’, il frutto di uno sforzo che si rende necessario per giungere ad un risultato costituzionalmente adeguato, candidandosi cosi’ a dare luogo, in presenza di una divisione netta nella giurisprudenza delle sezioni semplici, al “diritto vivente” nella materia in esame.

Il tentativo di sperimentare una interpretazione costituzionalmente conforme e’, d’altro canto, il passaggio necessario e, se come nella specie concluso con esito positivo, ostativo all’investitura della Corte costituzionale, in contrasto con quanto auspicato dal Procuratore generale.

Ed e’, quella anticipata, l’elaborazione che le Sezioni Unite intendono rendere, essendo proprio compito, nell’esercizio della funzione nomofilattica, individuare il significato piu’ coerente del dato precettivo, anche scegliendo tra piu’ possibili significati e plasmando la regola di diritto la quale deve mantenere il carattere generale ed astratto.

Cio’, in altri termini, senza che sia riconducibile alla attivita’ interpretativa che ci si accinge a compiere un’efficacia sanante di deficit di tassativita’ della norma, non condividendosi il sospetto che la scelta sulla portata normativa dell’articolo 6 sia sospinta dalla esistenza di connotati di incertezza e di imprevedibilita’ delle conseguenze del precetto, le quali, se ravvisate, avrebbero condotto alla sola possibile soluzione di sollevare, nella sede propria, il dubbio di costituzionalita’.

  1. E’ utile premettere, all’analisi degli enunciati delle due sentenze in contrasto, che la ricostruzione del sistema di esenzione da pena della legge Gelli-Bianco usufruisce in maniera consistente del dibattito gia’ avviato su temi affacciatisi alla disamina della giurisprudenza e della dottrina in relazione al decreto Balduzzi, essendo presente anche in questo la previsione del raffronto del comportamento medico con il complesso di linee-guida o buone pratiche oggetto di accreditamento da parte della comunita’ scientifica e scaturendo da esso la necessita’ di confrontarsi col problema delle diverse forme di colpa generica.

6.1. Occorre ribadire che la valutazione da parte del giudice sul requisito della rispondenza (o meno) della condotta medica al parametro delle linee-guida adeguate (se esistenti) puo’ essere soltanto quella effettuata ex ante, alla luce cioe’ della situazione e dei particolari conosciuti o conoscibili dall’agente all’atto del suo intervento, altrimenti confondendosi il giudizio sulla rimproverabilita’ con quello sulla prova della causalita’, da effettuarsi ex post. Ma con la ulteriore puntualizzazione che il sindacato ex ante non potra’ giovarsi di una soglia temporale fissata una volta per sempre, atteso che il dovere del sanitario di scegliere linee-guida “adeguate” comporta, per il medesimo cosi’ come per chi lo deve giudicare, il continuo aggiornamento della valutazione rispetto alla evoluzione del quadro e alla sua conoscenza o conoscibilita’ da parte del primo. Attivita’, quella qui descritta, destinata a rimanere estranea al pericolo di vedere confuso il giudizio sulla “adeguatezza” delle linee-guida (ex ante) con quello sulle modalita’ e gli effetti della loro concreta “attuazione” che, essendo necessariamente postumo, non e’ incluso fra i criteri di individuazione della condotta esigibile.

6.2. Nella stessa ottica di fissazione delle linee generali lungo le quali sviluppare la disamina qui richiesta, va anche ribadita la consapevolezza della estrema difficolta’, che talvolta si presenta, nel riuscire ad operare una plausibile distinzione tra colpa da negligenza e colpa da imperizia. Distinzione comunque da non potersi omettere in quanto richiesta dal legislatore del 2017 che, consapevolmente, ha regolato solo il secondo caso, pur in presenza di un precedente, articolato dibattito giurisprudenziale sulla opportunita’ di non operare la detta differenziazione quando non espressamente richiesta dalla lettera della legge (come avveniva per il decreto Balduzzi) per la estrema fluidita’ dei confini fra le dette nozioni.

La distinzione riacquista oggi una peculiare rilevanza perche’, nell’ipotesi di colpa da negligenza o imprudenza, la novella causa di non punibilita’ e’ destinata a non operare; mentre la semplice constatazione della esistenza di linee-guida attinenti al caso specifico non comporta che la loro violazione dia automaticamente luogo a colpa da imperizia.

Si e’ gia’ rilevato che non puo’ escludersi che le linee-guida pongano regole rispetto alle quali il parametro valutativo della condotta dell’agente sia quello della diligenza, come nel caso in cui siano richieste prestazioni che riguardino piu’ la sfera della accuratezza di compiti magari particolarmente qualificanti, che quella della adeguatezza professionale (Sez. 4, n. 45527 del 01/07/2015, Cerracchio, non massimata sul punto).

E’ da citare il caso paradigmatico della omessa valutazione del sintomo e della conseguente omessa o ritardata diagnosi: una ipotesi da ascrivere, di regola, all’imperizia per inosservanza delle leges artis che disciplinano tale settore della attivita’ sanitaria, salvo il caso che il comportamento del sanitario sia improntato ad indifferenza, scelleratezza o comunque assoluta superficialita’ e lassismo, sicche’ possa escludersi di essere nel campo della negligenza propria dell’agire del sanitario o specifica di esso e dunque della imperizia.

Il superamento di tali difficolta’ che attengono, in genere, all’inquadramento del caso concreto piu’ che alle categorie astratte, va perseguito mediante il ricorso agli ordinari criteri sulla prova, sul dubbio e sulla ripartizione dell’onere relativo che, nella fattispecie qui in discussione, hanno condotto piu’ che plausibilmente alla delineazione di un caso di negligenza, dal quale non vi e’ ragione di prescindere, anche per mancanza di specifiche contestazioni sul punto da parte dell’interessato. Con la conseguenza che anche la prospettazione della questione di legittimita’ costituzionale sull’articolo 590-sexies, da parte del Procuratore generale, e’ destinata a mostrare la sua irrilevanza, non venendo in considerazione l’ipotesi della imperizia.

  1. Puo’ ora entrarsi nel merito del contrasto giurisprudenziale.

7.1. La sentenza Tarabori-De Luca ha il pregio di richiamare alla necessita’ di perimetrazione dell’ambito di operativita’ della novella, in modo da evidenziarne la notevole efficacia riduttiva rispetto al passato, pur non facendo a meno, nel prosieguo, di criticare in radice la eventualita’ stessa di trovarsi al cospetto di una vera e propria causa di non punibilita’.

E’ condivisibile la prima parte del ragionamento seguito, laddove si pongono in luce gli evidenti limiti applicativi alla causa di non punibilita’ enunciati dall’articolo 590-sexies, posto che la dipendenza di questa dal rispetto delle linee-guida adeguate allo specifico caso in esame, nell’ipotesi di responsabilita’ da imperizia, non consente di sfuggire alla esatta osservazione che lo speciale abbuono non puo’ essere invocato nei casi in cui la responsabilita’ sia ricondotta ai diversi casi di colpa, dati dalla imprudenza e dalla negligenza; ne’ quando l’atto sanitario non sia per nulla governato da linee-guida o da buone pratiche; ne’ quando queste siano individuate e dunque selezionate dall’esercente la professione sanitaria in maniera inadeguata con riferimento allo specifico caso. Evenienza, quest’ultima, comprensiva sia della ipotesi in cui la scelta e’ stata del tutto sbagliata, sia della ipotesi in cui la scelta sia stata incompleta per non essersi tenuto conto di fattori di co-morbilita’ che avrebbero richiesto il ricorso a piu’ linee-guida regolatrici delle diverse patologie concomitanti o comunque la visione integrata del quadro complesso, sia, infine, della ipotesi in cui il caso avrebbe richiesto il radicale discostarsi dalle linee-guida regolatrici del trattamento della patologia, in ragione della peculiarita’ dei fattori in esame.

Situazioni, quelle descritte, che danno conto della incompatibilita’ della novella con qualsiasi forma di appiattimento dell’agente su linee-guida che a prima vista possono apparire confacenti al caso di specie (e magari risultano, in rapporto al caso specifico, sbilanciate verso la tutela del generale contrasto del rischio clinico e quindi verso interessi aziendalistici piuttosto che verso la tutela della sicurezza della cura del singolo paziente) e conseguentemente con ipotesi di automatismo fra applicazione in tale guisa delle linee-guida ed operativita’ della causa di non punibilita’.

Una conclusione che consente anche di escludere che il precetto in esame possa essere sospettato di tensione col principio costituzionale di liberta’ della scienza e del suo insegnamento (articolo 33 Cost.), come pure di quello dell’assoggettamento del giudice soltanto alla legge (articolo 101 Cost.).

Cio’ posto, va tuttavia osservato che la sentenza richiamata commette l’errore di non rinvenire alcun residuo spazio operativo per la causa di non punibilita’, giungendo alla frettolosa conclusione circa l’impossibilita’ di applicare il precetto, negando addirittura la capacita’ semantica della espressione “causa di non punibilita’” e cosi’ offrendo, della norma, una interpretazione abrogatrice, di fatto in collisione con il dato oggettivo della iniziativa legislativa e con la stessa intenzione innovatrice manifestata in sede parlamentare. Senza considerare che la principale obiezione della sentenza in questione, e cioe’ la confusione della formulazione legislativa e la sua incongruenza interna, avrebbero dovuto trovare sfogo nella denuncia di incostituzionalita’ per violazione del principio di legalita’.

7.2. Dal canto suo, la sentenza Cavazza ha il pregio di non discostarsi in modo patente dalla lettera della legge, ma, per converso, nel valorizzarla in modo assoluto, cade nell’errore opposto perche’ attribuisce ad essa una portata applicativa impropriamente lata: quella di rendere non punibile qualsiasi condotta imperita del sanitario che abbia provocato la morte o le lesioni, pur se connotata da colpa grave. E cio’, sul solo presupposto della corretta selezione delle linee-guida pertinenti in relazione al caso di specie, si’ da rendere piu’ che concreti i profili di illegittimita’ della interpretazione stessa, quantomeno per violazione del divieto costituzionale di disparita’ ingiustificata di trattamento rispetto ad altre categorie di professionisti che parimenti operano con alti coefficienti di difficolta’ tecnica.

  1. Invero, proprio a partire dalla interpretazione letterale, non puo’ non riconoscersi che il legislatore ha coniato una inedita causa di non punibilita’ per fatti da ritenersi inquadrabili – per la completezza dell’accertamento nel caso concreto – nel paradigma dell’articolo 589 o di quello dell’articolo 590 cod. pen., quando l’esercente una delle professioni sanitarie abbia dato causa ad uno dei citati eventi lesivi, versando in colpa da imperizia e pur avendo individuato e adottato, nonche’, fino ad un certo punto, bene attualizzato le linee-guida adeguate al caso di specie.

8.1. Il comportamento dell’esercente la professione sanitaria oggetto di scrutinio e’ quello che ha prodotto un evento causalmente connesso ad un errore colpevole, a sua volta dipendente dalla violazione di una prescrizione pertinente. Sono destinati a rimanere esclusi i casi di eventi lesivi o letali connessi a comportamenti in relazione ai quali la violazione di prescrizioni potrebbe non essere per nulla ravvisabile o comunque potrebbe non essere stata qualificante, avendo il sanitario, ad esempio, fatto ricorso, pur senza l’esito sperato, e fatti salvi i principi in materia di consenso del paziente, a raccomandazioni o approdi scientifici di dimostrato, particolare valore i quali, pur sperimentati con successo dalla comunita’ scientifica, non risultino ancora avere superato le soglie e le formalita’ di accreditamento ufficiale descritte dalla legge.

8.2. La previsione della causa di non punibilita’ e’ esplicita, innegabile e dogmaticamente ammissibile non essendovi ragione per escludere apoditticamente – come fa la sentenza De Luca-Tarabori – che il legislatore, nell’ottica di porre un freno alla medicina difensiva e quindi meglio tutelare il valore costituzionale del diritto del cittadino alla salute, abbia inteso ritagliare un perimetro di comportamenti del sanitario direttamente connessi a specifiche regole di comportamento a loro volta sollecitate dalla necessita’ di gestione del rischio professionale: comportamenti che, pur integrando gli estremi del reato, non richiedono, nel bilanciamento degli interessi in gioco, la sanzione penale, alle condizioni date.

Semmai, e’ da sottolineare che era il decreto Balduzzi, non messo in discussione dalla giurisprudenza passata sotto il profilo della tecnica legislativa, ad agire sul terreno della delimitazione della colpa che da’ luogo a responsabilita’, circoscrivendo la operativita’ dei principi posti dall’articolo 43 cod. pen. e dunque derogando ad essa, tanto che il risultato e’ stato ritenuto quello della parziale abolitio criminis. Viceversa, la legge Gelli-Bianco non si muove in senso derogatorio ai detti principi generali, bensi’ sul terreno della specificazione, ricorrendo all’inquadramento nella non punibilita’, sulla base di un bilanciamento ragionevole di interessi concorrenti.

La possibile disparita’ di trattamento dovuta a tale opzione, rispetto ad altre categorie di professionisti che pure siano esposti alla gestione di peculiari rischi, non e’ automaticamente evocabile, una volta che l’intera operazione si riveli, anche per la delimitazione enucleata dallo stesso precetto, non irragionevole ed anzi in linea con uno schema gia’ collaudato dalla Corte costituzionale (sent. n. 166 del 1973; ord. n. 295 del 2013).

Anche la modifica in senso limitativo, rispetto all’articolo 3 del decreto Balduzzi, della esenzione da pena ai soli comportamenti che causano uno degli eventi descritti dagli articoli 589 e 590 cod. pen. fa ritenere piu’ adeguatamente finalizzato il nuovo precetto al contrasto del sospetto – che si materializzo’ con riferimento al citato articolo 3 – di incompatibilita’ con il divieto costituzionale di disparita’ di trattamento (articolo 3 Cost.), data l’ampiezza allora reputata ingiustificata, dal giudice che sottopose la norma allo scrutinio costituzionale, della platea dei soggetti che potevano avvantaggiarsene.

Appare infatti oggi, diversamente che in passato, direttamente connesso, l’intervento protettivo del legislatore, con la ragione ispiratrice della novella, che e’ quella di contrastare la c.d. “medicina difensiva” e con essa il pericolo per la sicurezza delle cure, e dunque creare – in relazione ad un perimetro piu’ circoscritto di operatori ed atti sanitari che si confrontano con la necessita’ della gestione di un rischio del tutto peculiare in quanto collegato alla mutevolezza e unicita’ di ognuna delle situazioni patologiche da affrontare – un’area di non punibilita’ che valga a restituire al sanitario la serenita’ dell’affidarsi alla propria autonomia professionale e, per l’effetto, ad agevolare il perseguimento di una garanzia effettiva del diritto costituzionale alla salute.

  1. La formulazione della causa di non punibilita’ nell’articolo 590-sexies sollecita dunque a sperimentare una interpretazione della norma che consenta di darle concreta applicazione.

Non e’ condivisibile, in senso ostativo, il rilievo contenuto nella sentenza De Luca-Tarabori, anche sulla scia di una parte della dottrina, secondo cui la formulazione lessicale del precetto creerebbe un corto circuito capace di renderlo inservibile.

La norma descrive un presupposto per la operativita’ della causa di non punibilita’ – quella del versare, il sanitario, nella situazione di avere cagionato per colpa da imperizia l’evento lesivo o mortale, pur essendosi attenuto alle linee-guida adeguate al caso di specie – che non e’ incongruente con la soluzione che promette. Le fasi della individuazione, selezione ed esecuzione delle raccomandazioni contenute nelle linee-guida adeguate sono, infatti, articolate al punto che la mancata realizzazione di un segmento del relativo percorso giustifica ed e’ compatibile tanto con l’affermazione che le linee-guida sono state nel loro complesso osservate, quanto con la contestuale rilevazione di un errore parziale che, nonostante cio’, si sia verificato, con valenza addirittura decisiva per la realizzazione di uno degli eventi descritti dagli articoli 589 e/o 590 cod. pen..

Si tratta, d’altro canto, di una struttura del precetto che ricalca quella dell’articolo 3 del decreto Balduzzi il quale, allo stesso modo, ricavava un’area di irresponsabilita’ a favore del sanitario che, pur rispettoso (“si attiene”) delle linee-guida, potesse riconoscersi in colpa nella causazione dell’evento lesivo dipendente dalla propria professione. Una struttura, cioe’, metabolizzata dalla giurisprudenza che su di essa ha edificato un complesso apparato ricostruttivo del precetto.

In tal senso, la sentenza Sez. 4, n. 16237 del 29/01/2013, Cantore, nel commentare la portata dell’articolo 3 del decreto Balduzzi, aveva osservato, con una affermazione utile anche relativamente alla formulazione dell’articolo 590-sexies, che “il professionista (che) si orienti correttamente in ambito diagnostico o terapeutico, si affidi cioe’ alle strategie suggeritegli dal sapere scientifico consolidato, inquadri correttamente il caso nelle sue linee generali e tuttavia, nel concreto farsi del trattamento, commetta qualche errore pertinente proprio all’adattamento delle direttive di massima alle evenienze ed alle peculiarita’ che gli si prospettano nello specifico caso clinico” e’ l’agente che in base al decreto del 2012 non rispondeva per colpa lieve.

9.1. L’errore non punibile non puo’, pero’, alla stregua della novella del 2017, riguardare – data la chiarezza dell’articolo al riguardo – la fase della selezione delle linee-guida perche’, dipendendo il “rispetto” di esse dalla scelta di quelle “adeguate”, qualsiasi errore sul punto, dovuto a una qualsiasi delle tre forme di colpa generica, porta a negare l’integrazione del requisito del “rispetto”.

Ne consegue che la sola possibilita’ interpretativa residua non puo’ che indirizzarsi sulla fase attuativa delle linee-guida, sia pure con l’esigenza di individuare opportuni temperamenti che valgano a non esporre la conclusione a dubbi o censure sul piano della legittimita’ costituzionale, per irragionevolezza o contrasto con altri principi del medesimo rango.

La ratio di tale conclusione si individua nella scelta del legislatore di pretendere, senza concessioni, che l’esercente la professione sanitaria sia non solo accurato e prudente nel seguire la evoluzione del caso sottopostogli ma anche e soprattutto preparato sulle leges artis e impeccabile nelle diagnosi anche differenziali; aggiornato in relazione non solo alle nuove acquisizioni scientifiche ma anche allo scrutinio di esse da parte delle societa’ e organizzazioni accreditate, dunque alle raccomandazioni ufficializzate con la nuova procedura; capace di fare scelte ex ante adeguate e di personalizzarle anche in relazione alle evoluzioni del quadro che gli si presentino. Con la conseguenza che, se tale percorso risulti correttamente seguito e, ciononostante, l’evento lesivo o mortale si sia verificato con prova della riconduzione causale al comportamento del sanitario, il residuo dell’atto medico che appaia connotato da errore colpevole per imperizia potra’, alle condizioni che si indicheranno, essere quello che chiama in campo la operativita’ della novella causa di non punibilita’.

Infatti, nel caso descritto, che e’ indispensabile contemplare per dare attuazione alla nuova riforma, puo’ dirsi che si rimanga nel perimetro del “rispetto delle linee guida”, quando cioe’ lo scostamento da esse e’ marginale e di minima entita’.

9.2. Viene di nuovo in considerazione, per tale via, la necessita’ di circoscrivere un ambito o, se si vuole, un grado della colpa che, per la sua limitata entita’, si renda compatibile con la attestazione che il sanitario in tal modo colpevole e’ tributario della esenzione dalla pena per avere rispettato, nel complesso, le raccomandazioni derivanti da linee-guida adeguate al caso di specie.

Tanto piu’ ove si consideri contestualmente che, come sottolineato nel parere espresso dalla Commissione giustizia del Senato sul disegno di legge approvato dalla Camera in prima lettura, il testo e’ volto ad assicurare una tutela effettiva della salute del paziente anche nello specifico ambito del processo civile garantendogli il risarcimento dovutogli in base ad una sentenza, attraverso una serie di strumenti disciplinati dall’articolo 7, oltre, tra l’altro, la previsione del sistema di assicurazione obbligatoria (articolo 9) accompagnato dalla azione diretta nei confronti della compagnia assicuratrice (articolo 12).

A cio’ va aggiunto che la contemplazione di un errore lieve (da imperizia) esente da sanzione penale ha, come pendant e rafforzamento sul piano sistemico, all’interno della legge Gelli-Bianco, la disciplina (articolo 16) che favorisce i flussi informativi volti a far emergere le criticita’ nel compimento della ordinaria attivita’ professionale, onde elaborarle e superarle, con divieto di utilizzazione di quei flussi nel processo penale: un insieme coordinato di regole, cioe’, finalizzato ad una gestione del rischio clinico sempre piu’ responsabilizzante per la stessa struttura organizzativa e senza la frustrante ricerca, in ogni caso, di un capro espiatorio.

E’ necessario peraltro sottolineare che non osta a tale scelta interpretativa l’obiezione di fondo, scaturente dalla giurisprudenza passata in tema di esclusione della operativita’ in ambito penale dell’articolo 2236 cod. civ., nonche’ da una parte dalla dottrina, secondo cui non e’ consentita e comunque non ha senso la distinzione tra colpa lieve e colpa grave nel diritto penale ove, applicando rigorosamente il criterio della valutazione ex ante ed in concreto il giudizio di prevedibilita’ ed evitabilita’ proprio della colpa, sono gia’ presenti tutti gli strumenti per la risoluzione dei casi liminari, potendosi giungere, per essi, alla esclusione, in radice, della ravvisabilita’ della colpa.

Invero, non solo la previsione esplicita della “colpa lieve” come ambito di esclusione della responsabilita’, nel decreto Balduzzi, ha dimostrato che e’ gia’ stato legittimato, dal legislatore, un approccio dogmatico diverso, apprezzabile non solo come opzione meramente interpretativa o ricognitiva dei termini generali di definizione della colpa, ma come possibilita’ aggiuntiva di misurazione di questa a fini diversi da quelli – gia’ previsti dall’articolo 133 cod. pen., comma 1, n. 3, – di commisurazione della pena. In piu’, l’interpretazione qui accolta, rispetto a quella appena ricordata, e’ destinata ad ampliare il novero dei comportamenti che si sottraggono legittimamente all’intervento del giudice penale e a far risaltare concretamente la intuibile volonta’ del legislatore di proseguire lungo la direttrice segnata dal decreto Balduzzi; soprattutto con la finalita’ di impedire che l’abrogazione di questo apra scenari di automatica reviviscenza dei pregressi indirizzi interpretativi che, per la loro estrema severita’ nel passato, sono all’origine del porsi del tema delle risposte difensive dei sanitari.

D’altra parte, il timore che la distinzione tra colpa lieve e colpa grave possa essere anche fonte di scelte non prevedibili e ondivaghe, dipendenti dalla ampiezza della valutazione del giudice e quindi in contrasto con la necessaria tassativita’ del precetto, non tiene conto che analogo timore sarebbe ravvisabile, a monte, riguardo al giudizio sulla “esigibilita’” della condotta, ossia al momento valutativo, qualificante per la individuazione stessa della colpevolezza: timori da sempre adeguatamente contrastati dalla complessa opera ricostruttiva, in seno alla dottrina e alla giurisprudenza, riguardo ai criteri utili per la tendenziale definizione dei giudizi in esame e, nella presente decisione, utilmente richiamati.

  1. La ricerca ermeneutica conduce a ritenere che la norma in esame continui a sottendere la nozione di “colpa lieve”, in linea con quella che l’ha preceduta e con la tradizione giuridica sviluppatasi negli ultimi decenni. Un complesso di fonti e di interpreti che ha mostrato come il tema della colpa medica penalmente rilevante sia sensibile alla questione della sua graduabilita’, pur a fronte di un precetto, quale l’articolo 43 cod. pen., che scolpisce la colpa senza distinzioni interne.

Dal punto di vista teorico non si individua alcuna ragione vincolante per la quale tale conclusione debba essere scartata, diversamente da quanto ritenuto da entrambe le sentenze che hanno dato luogo al contrasto.

Queste, peraltro, proprio sulla base di una conclusione di tal genere, fatta discendere dal silenzio della legge, si sono trovate a polarizzare in modo opposto le relative conclusioni, avendo osservato, la sentenza De Luca-Tarabori, che l’esonero complessivo da pena, destinato ad inglobare anche il responsabile di colpa grave da imperizia, non e’ praticabile perche’ genera una situazione in contrasto con il principio di colpevolezza e, la sentenza Cavazza, che la novella causa di non punibilita’ e’ destinata a operare senza distinzione del grado della colpa.

Al contrario, ritengono le Sezioni Unite che la mancata evocazione esplicita della colpa lieve da parte del legislatore del 2017 non precluda una ricostruzione della norma che ne tenga conto, sempre che questa sia l’espressione di una ratio compatibile con l’esegesi letterale e sistematica del comando espresso.

10.1. In tale prospettiva appare utile giovarsi, in primo luogo, dell’indicazione proveniente dall’articolo 2236 cod. civ..

L’articolazione colpa grave/altre tipologie di condotte rimproverabili, pur causative dell’evento, e’ presente nelle valutazioni giurisprudenziali sui limiti della responsabilita’ penale del sanitario che, sotto diversi profili, hanno valorizzato nel tempo i principi e la ratio della disposizione contenuta nella norma citata, plasmata, invero, nell’ambito civilistico del riconoscimento del danno derivante da prestazioni che implichino soluzione di problemi tecnici di speciale difficolta’ e che lo esclude, appunto, salvo il caso di dolo o colpa grave.

Ebbene, tralasciando l’ormai sopito dibattito sulla non diretta applicabilita’ del precetto al settore penale per la sua attinenza alla esecuzione del rapporto contrattuale o al danno da responsabilita’ aquiliana, merita di essere valorizzato il condivisibile e piu’ recente orientamento delle sezioni penali che hanno comunque riconosciuto all’articolo 2236 la valenza di principio di razionalita’ e regola di esperienza cui attenersi nel valutare l’addebito di imperizia, qualora il caso concreto imponga la soluzione del genere di problemi sopra evocati ovvero qualora si versi in una situazione di emergenza.

Cio’ che del precetto merita di essere ancor oggi valorizzato e’ il fatto che, attraverso di esso, gia’ prima della formulazione della norma che ha ancorato l’esonero da responsabilita’ al rispetto delle linee-guida e al grado della colpa, si fosse accreditato, anche in ambito penalistico, il principio secondo cui la condotta tenuta dal terapeuta non puo’ non essere parametrata alla difficolta’ tecnico-scientifica dell’intervento richiesto ed al contesto in cui esso si e’ svolto (Sez. 4, n. 4391 del 12/11/2011, dep. 2012, Di Lella, Rv.251941; Sez. 4, n. 16328 del 05/04/2011, Montalto, Rv. 251960; Sez. 4, n. 39592 del 21/06/2007, Bugge’, Rv. 237875; Sez. 4, n. 1693 del 29/09/1997, dep. 1998, Azzini, non massimata sul punto). Sicche’ l’eventuale addebito di colpa era destinato a venire meno nella gestione di un elevato rischio senza errori rimproverabili connotati da gravita’. Viceversa, quando non si fosse presentata una situazione emergenziale o non fossero da affrontare problemi di particolare difficolta’, non sarebbe venuto in causa il principio dell’articolo 2236 cod. civ. e non avrebbe avuto base normativa la distinzione della colpa lieve. Ne conseguiva che il medico in tali ipotesi, come in quelle nelle quali venivano in considerazione le sole negligenza o imprudenza, versava in colpa, essendo pacifico che in queste si dovesse sempre attenere ai criteri di massima cautela.

Un precetto, quello appena analizzato, che mostra di reputare rilevante, con mai perduta attualita’, la considerazione per cui l’attivita’ del medico possa presentare connotati di elevata difficolta’ per una serie imprevedibile di fattori legati alla mutevolezza del quadro da affrontare e delle risorse disponibili. Sicche’, vuoi sotto un profilo della non rimproverabilita’ della condotta in concreto tenuta in tali condizioni, vuoi sotto quello della mera opportunita’ di delimitare il campo dei comportamenti soggetti alla repressione penale, sono richieste misurazioni e valutazioni differenziate da parte del giudice.

Non e’ marginale, del resto, l’avallo dato a tale interpretazione da parte della Corte costituzionale, con sentenza n. 166 del 1973, per taluni aspetti ribadita dalla ordinanza n. 295 del 2013. Un avallo cui, viceversa, va riconosciuta riacquisita rilevanza ai fini che ci occupano, soprattutto a seguito della scelta, operata dalla legge Gelli-Bianco, di rendere la causa di non punibilita’ operativa soltanto in relazione alla colpa da imperizia, pur dopo che, nel recente passato, la giurisprudenza di legittimita’ applicativa del sopravvenuto decreto Balduzzi, aveva invece mostrato di propendere per la estensione della irresponsabilita’ da colpa lieve a tutte le forme di colpa generica. La prima pronuncia del Giudice delle leggi aveva, infatti, ammesso che gli articoli 589 e 42 cod. pen. potessero essere integrati dall’articolo 2236 cod. civ., cosi’ da ricavarsene il principio, costituzionalmente compatibile, della graduabilita’ della colpa da “imperizia” del sanitario impegnato nella soluzione di problemi tecnici di speciale difficolta’ e il riconoscimento della possibilita’ di esenzione di una parte di essa dal rilievo pena listico.

La stessa sentenza De Luca-Tarabori evoca tale soluzione sia pure per presentarla come strumento tecnico residuo per perseguire il pur meritevole fine di mandare esente da rimproverabilita’ l’errore colpevole del sanitario contestato a titolo di imperizia.

10.2. In secondo luogo, e’ un dato di fatto che il legislatore del 2012 abbia espressamente utilizzato e disciplinato l’ipotesi della “colpa lieve” del sanitario come quella da sottrarre, a condizioni date, alla responsabilita’ penale.

Tale opzione legislativa prescindeva dalla pregiudiziale della dimostrata situazione di particolare difficolta’ tecnica ed era invece plasmata sul criterio della conformazione alle linee-guida, con riferimento a situazioni che potevano sottrarsi alla repressione penale anche quando non qualificate da speciale difficolta’. Con l’avvertenza che se, da un lato, tale ultima condizione e’ quella che, di regola, ha minore attitudine a generare “colpa lieve”, dall’altro possono darsi condotte del sanitario che, pur rientranti agevolmente in linee-guida standardizzate, risultano di difficile esecuzione per la urgenza o per l’assenza di presidi adeguati.

Quella opzione ha dato luogo ad una cospicua elaborazione giurisprudenziale volta a fissare i criteri utili per individuare preventivamente e, quindi, in sede giudiziaria riconoscere il grado lieve della colpa, del quale – stante l’esplicito testo normativo sopravvenuto – non sembra ragionevole negarsi la idoneita’ alla convivenza con i principi generali dettati dall’articolo 43 cod. pen..

Questi, peraltro, continuano ad avere piena applicazione con riferimento alla colpa da negligenza e da imprudenza.

Bastera’, al fine di dare pratica attuazione alla lettura dell’articolo 590-sexies qui accreditata, rievocare i canoni maggiormente condivisi nel recente passato, sollecitati dall’esigenza di contrastare gli effetti di interpretazioni eccessivamente severe, nella cui filigrana traspariva una non condivisibile tendenza a fare della relazione sanitaria una “obbligazione di risultato”, laddove il fine di garantire la “sicurezza delle cure” ne ribadisce la natura di “obbligazione di mezzi”.

E’ da ribadire, cioe’, quanto gia’ sostenuto in molte sentenze pubblicate sotto la vigenza del decreto Balduzzi (tra le molte, Sez. 4, n. 16237 del 29/01/2013, Cantore, Rv. 255105; Sez. 4, n. 23283 del 11/05/2016, Denegri) in ordine al fatto che la colpa sia destinata ad assumere connotati di grave entita’ solo quando l’approccio terapeutico risulti marcatamente distante dalle necessita’ di adeguamento alle peculiarita’ della malattia, al suo sviluppo, alle condizioni del paziente. Ovvero, per converso, quando i riconoscibili fattori che suggerivano l’abbandono delle prassi accreditate assumano rimarchevole, chiaro rilievo e non lascino residuare un dubbio plausibile sulla necessita’ di un intervento difforme e personalizzato rispetto alla peculiare condizione del paziente: come nel caso di “patologie concomitanti” emerse alla valutazione del sanitario, e indicative della necessita’ di considerare i rischi connessi.

Nella demarcazione gravita’/lievita’ rientra altresi’ la misurazione della colpa sia in senso oggettivo che soggettivo e dunque la misura del rimprovero personale sulla base delle specifiche condizioni dell’agente e del suo grado di specializzazione; la problematicita’ o equivocita’ della vicenda; la particolare difficolta’ delle condizioni in cui il medico ha operato; la difficolta’ obiettiva di cogliere e collegare le informazioni cliniche; il grado di atipicita’ e novita’ della situazione; la impellenza; la motivazione della condotta; la consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa (oltre alle precedenti, Sez. 4, n. 22405 del 08/05/2015, Piccardo, Rv. 263736; Sez. 4, n. 47289 del 09/10/2014, Stefanetti, Rv. 260740).

In altri termini, e’ da condividere l’assunto consolidato nella giurisprudenza di legittimita’ secondo cui la valutazione sulla gravita’ della colpa (generica) debba essere effettuata “in concreto”, tenendo conto del parametro dell’homo eiusdem professionis et condicionis, che e’ quello del modello dell’agente operante in concreto, nelle specifiche condizioni concretizzatesi.

Meritano di essere ricordati, tali criteri, non sempre in relazione diretta al loro contenuto, riferito anche alla rimproverabilita’ del momento di “scelta” delle linee-guida adeguate al caso concreto che, come si e’ visto, esorbita dal perimetro di operativita’ della novella causa di non punibilita’. Piuttosto e’ utile richiamare l’elaborazione del metodo “quantitativo”, del quantum dello scostamento dal comportamento che ci si sarebbe attesi come quello utile, per determinare il grado della colpa.

La discrezionalita’ del giudice, ravvisabile nel dare pratica attuazione ai detti criteri nel contesto del decreto Balduzzi che li connetteva a linee-guida e buone pratiche di non univoca individuazione, risulta oggi drasticamente ricomposta attraverso la novella che riguarda il procedimento pubblicistico per la formalizzazione delle linee-guida rilevanti.

Oltre a cio’, la circoscrizione, dovuta alla legge Gelli-Bianco, della causa di non punibilita’ alla sola imperizia spinge ulteriormente verso l’opzione di delimitare il campo di operativita’ della causa di non punibilita’ alla “colpa lieve”, atteso che ragionare diversamente e cioe’ estendere il riconoscimento della esenzione da pena anche a comportamenti del sanitario connotati da “colpa grave” per imperizia – come effettuato dalla sentenza Cavazza – evocherebbe, per un verso, immediati sospetti di illegittimita’ costituzionale per disparita’ di trattamento ingiustificata rispetto a situazioni meno gravi eppure rimaste sicuramente punibili, quali quelle connotate da colpa lieve per negligenza o imprudenza; determinerebbe, per altro verso, un evidente sbilanciamento nella tutela degli interessi sottesi, posto che la tutela contro la “medicina difensiva” e, in definitiva, il miglior perseguimento della salute del cittadino ad opera di un corpo sanitario non mortificato ne’ inseguito da azioni giudiziarie spesso inconsistenti non potrebbero essere compatibili con l’indifferenza dell’ordinamento penale rispetto a gravi infedelta’ alle leges artis, ne’ con l’assenza di deroga ai principi generali in tema di responsabilita’ per comportamento colposo, riscontrabile per tutte le altre categorie di soggetti a rischio professionale; determinerebbe, infine, rilevanti quanto ingiuste restrizioni nella determinazione del risarcimento del danno addebitabile all’esercente una professione sanitaria ai sensi dell’articolo 7 della legge Gelli-Bianco, poiche’ e’ proprio tale articolo, al comma 3, a stabilire una correlazione con i profili di responsabilita’ ravvisabili ex articolo 590-sexies cod. pen..

10.3. E’ indicativa, in terzo luogo, l’evoluzione dei lavori parlamentari.

L’originario testo della legge approvato dalla Camera mostrava di volere differenziare, ai fini della esenzione da responsabilita’, la colpa grave (da imperizia) dagli altri minori gradi della (stessa tipologia di) colpa, in una prospettiva specifica. Nel senso, cioe’, che la colpa non grave (da imperizia) era automaticamente inclusa in detta esenzione anche a prescindere dal raffronto con linee-guida, mentre quella grave dello stesso tipo lo era alla condizione del rispetto delle stesse linee-guida.

La scomparsa della detta previsione dal testo successivamente passato al vaglio dell’altro ramo del Parlamento non puo’ pero’ dirsi un ripudio tout court della differenziazione del grado della colpa, non risultando in tal senso esplicitata la volonta’ del legislatore in alcun passo dei lavori preparatori, quanto piuttosto, come auspicato nel citato Parere della Commissione Giustizia del Senato, l’espressione della rinuncia a quella peculiare distinzione che si poneva come tendenzialmente apparente e quindi fortemente a rischio di censura per incostituzionalita’, perche’ garantiva una tutela eccessivamente e irragionevolmente estesa alla colpa tecnica del sanitario in tutte le sue espressioni, essendo per di piu’, la esclusione della imperizia grave in caso di rispetto delle linee-guida, conformata in una sorta di presunzione che poteva essere vinta soltanto con la prova delle “rilevanti specificita’ del caso concreto”.

Si apprende, dai resoconti delle discussioni della Commissione giustizia del Senato del 7, 8 e 21 giugno 2016 – mostratasi interessata a cristallizzare certi approdi della giurisprudenza di legittimita’ e a sollecitare una apposita riformulazione dell’articolo 6 poi realizzata -, semmai un reiterato ed esplicitato timore del legislatore che il comma 2 del precetto della legge in itinere si prestasse, attraverso la condizione del rispetto delle linee-guida, ad una interpretazione aperta alla esclusione della responsabilita’ penale anche per imperizia grave; evenienza non perseguita, oltre che in aperta discontinuita’ con i principi del decreto Balduzzi, nel cui solco, tanto nei lavori della Camera in prima lettura quanto in quelli del Senato, si dichiara di volersi mantenere.

Specularmente, puo’ dunque ammettersi che la colpa lieve e’ rimasta intrinseca alla formulazione del nuovo precetto, posto che la costruzione della esenzione da pena per il sanitario complessivamente rispettoso delle raccomandazioni accreditate in tanto si comprende in quanto tale rispetto non sia riuscito ad eliminare la commissione di errore colpevole non grave, eppure causativo dell’evento.

In conclusione, la colpa dell’esercente la professione sanitaria puo’ essere esclusa in base alla verifica dei noti canoni oggettivi e soggettivi della configurabilita’ del rimprovero e altresi’ in ragione della misura del rimprovero stesso. Ma, in quest’ultimo caso – e solo quando configurante “colpa lieve” -, le condizioni richieste sono il dimostrato corretto orientarsi nel campo delle linee-guida pertinenti in relazione al caso concreto ed il progredire nella fase della loro attuazione, ritenendo l’ordinamento di non punire gli adempimenti che si rivelino imperfetti.

  1. Sul quesito proposto devono quindi affermarsi i seguenti principi di diritto:

“L’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attivita’ medico-chirurgica:

  1. a) se l’evento si e’ verificato per colpa (anche “lieve”) da negligenza o imprudenza;
  2. b) se l’evento si e’ verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia quando il caso concreto non e’ regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali;
  3. c) se l’evento si e’ verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche clinico-assistenziali non adeguate alla specificita’ del caso concreto;
  4. d) se l’evento si e’ verificato per colpa “grave” da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficolta’ dell’atto medico”.
  5. Il connesso tema concernente la individuazione della legge piu’ favorevole, in dipendenza dai principi posti dall’articolo 2 cod. pen., comma 4, sulla successione delle leggi penali nel tempo, trova il proprio naturale sviluppo raffrontando il contenuto precettivo dell’articolo 590-sexies cod. pen., come individuato, con quello dell’articolo 3, abrogato.

Si enucleano soltanto i casi immediatamente apprezzabili.

In primo luogo, tale ultimo precetto risulta piu’ favorevole in relazione alle contestazioni per comportamenti del sanitario – commessi prima della entrata in vigore della legge Gelli-Bianco – connotati da negligenza o imprudenza, con configurazione di colpa lieve, che solo per il decreto Balduzzi erano esenti da responsabilita’ quando risultava provato il rispetto delle linee-guida o delle buone pratiche accreditate.

In secondo luogo, nell’ambito della colpa da imperizia, l’errore determinato da colpa lieve, che sia caduto sul momento selettivo delle linee-guida e cioe’ su quello della valutazione della appropriatezza della linea-guida era coperto dalla esenzione di responsabilita’ del decreto Balduzzi (v. Sez. 4, n. 47289 del 09/10/2014, Stefanetti, non massimata sul punto), mentre non lo e’ piu’ in base alla novella che risulta anche per tale aspetto meno favorevole.

In terzo luogo, sempre nell’ambito della colpa da imperizia, l’errore determinato da colpa lieve nella sola fase attuativa andava esente per il decreto Balduzzi ed e’ oggetto di causa di non punibilita’ in base all’articolo 590-sexies, essendo, in tale prospettiva, ininfluente, in relazione alla attivita’ del giudice penale che si trovi a decidere nella vigenza della nuova legge su fatti verificatisi antecedentemente alla sua entrata in vigore, la qualificazione giuridica dello strumento tecnico attraverso il quale giungere al verdetto liberatorio.

Analogamente, agli effetti civili, l’applicazione dell’articolo 3, comma 1, del decreto Balduzzi prevedeva un coordinamento con l’accertamento del giudice penale, nella cornice dell’articolo 2043 cod. civ., ribadito dall’articolo 7, comma 3, della legge Gelli-Bianco. La responsabilita’ civile anche per colpa lieve resta ferma (v. Sez. 3 civ., n. 4030 del 19/02/2013; Sez. 4 civ., ord. n. 8940 del 17/04/2014) a prescindere, dunque, dallo strumento tecnico con il quale il legislatore regoli la sottrazione del comportamento colpevole da imperizia lieve all’intervento del giudice penale.

  1. In ordine ai motivi di ricorso, deve rilevarsene la inammissibilita’ perche’ diversi da quelli che possono legittimamente fondare l’impugnazione dinanzi a questa Corte di legittimita’. La inammissibilita’ del ricorso impedisce, altresi’, la rilevazione della prescrizione atteso che il termine per la estinzione del reato non e’ piu’ decorso dalla data della pronuncia della sentenza impugnata, che non puo’ dirsi seguita dalla valida instaurazione di un rapporto processuale in prosecuzione.

13.1. La prima doglianza viene prospettata come vizio di motivazione anche nella forma del travisamento della prova (quella dichiarativa della teste (OMISSIS)) con riferimento alla ricostruzione dei fatti che precedettero il finale ricovero della persona offesa. In altri termini, posto che la rimproverabilita’ della condotta del neurochirurgo, censurata dai giudici di merito come ingiustificatamente manchevole, si fonda sull’assunto della sua piena consapevolezza dei gravissimi sintomi neurologici, comunicatigli dallo stesso (OMISSIS) la mattina del 24 ottobre 2008, il punto toccato dalla difesa e’ quello del mancato raggiungimento della prova – e a maggior ragione di una plausibile motivazione – riguardo alla effettivita’ e pienezza di detta conoscenza.

Per far cio’, il difensore ricorrente aggredisce la motivazione nel punto riguardante la asserita attendibilita’ della persona offesa – che tanto ha sostenuto – nonche’ il giudizio della Corte di merito riguardo alla idoneita’ della testimonianza della (OMISSIS) a costituire valido riscontro e comunque prova aggiuntiva della bonta’ del costrutto del denunciante: tale prova dichiarativa sarebbe, sul punto, frutto di domande suggestive della accusa.

Si tratta di censure volte, in realta’, a criticare inammissibilmente il punto di vista accolto e ampiamente motivato nella sentenza impugnata, sul piano della opinabilita’ piuttosto che su quello della decisiva carenza o manifesta illogicita’.

La evenienza di domande suggestive da parte del pubblico ministero risulta dedotta per la prima volta con il ricorso e in nessun modo riesce a dare corpo a una ammissibile censura sulla illogicita’ della motivazione riguardante la credibilita’ della teste, la quale e’ stata fondata su una serie di ulteriori elementi di fatto valorizzati in sentenza e non contestati nel ricorso.

Anche il tema della prova oggettiva della effettiva manifestazione, sin dal 24 ottobre, dei sintomi della cauda per i quali le linee-guida prescrivono un intervento di decompressione nelle 24-48 ore, risulta congruamente affrontato nella sentenza impugnata ove sono posti in evidenza i numerosi e gravi elementi (la certificazione rilasciata dal dott. (OMISSIS); la assoluta non significativita’ della diversa data riportata nella relazione di dimissione del paziente dal C.T.O. di Firenze l’11 novembre; il grado di recupero incompleto del paziente, dopo l’intervento, come accertato dal c.t. della persona offesa) dimostrativi della correttezza della ricostruzione sostenuta dalla accusa e del tutto razionalmente condivisa dai giudici, con una motivazione alla quale la difesa ricorrente oppone soltanto diversi elementi di fatto, considerazioni congetturali e, in definitiva, una alternativa ricostruzione di quelli, che e’ prospettiva non perseguibile nella sede di legittimita’.

13.2. Il secondo motivo e’ inammissibile per analoghe considerazioni.

La contestazione della motivazione sul nesso di causalita’ ha natura e valenza meramente fattuali, fondandosi sul presupposto della preferibilita’ della tesi dell’imputato circa il momento in cui ebbe effettivamente conoscenza della gravita’ dei sintomi e della condizione del paziente e, conseguentemente spostata in avanti di una settimana tale evenienza -, sulla richiesta che sia riconosciuta la assenza di qualsiasi rimproverabilita’ nelle sue scelte diagnostiche e terapeutiche. Il tutto, con sollecitazione, altresi’, del riconoscimento che il rapporto di causalita’ con l’evento andrebbe ridelineato, dovendo esso essere riferito all’unica condotta colpevole individuabile: quella della persona offesa che, pure invitata tempestivamente a recarsi al pronto soccorso, avrebbe lasciato trascorrere numerosi giorni prima di sottoporsi all’intervento chirurgico.

Ebbene, va ribadito che la proposta di alternativa ricostruzione delle emergenze fattuali non e’ ricevibile dalla Cassazione, dovendosi piuttosto notare che il rapporto di causalita’ e’ stato razionalmente delineato alla stregua di un giudizio di alta probabilita’ logica, nel rispetto degli approdi condivisi della giurisprudenza di legittimita’ (Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 22213). Con riferimento, cioe’, alla natura della patologia accertata; alla gravita’ dei relativi sintomi che danno indicazione di intervento urgente nelle 48 ore secondo le acquisizioni scientifiche non contestate nemmeno dalla difesa; al momento di acquisizione della conoscenza dei sintomi da parte del sanitario cui il paziente si era affidato; al comportamento gravemente negligente e ingiustificatamente omissivo, motivo dell’inescusabile ritardo che ha dato luogo al non tempestivo riconoscimento della patologia, al suo aggravamento e all’instaurarsi dei postumi neurologici accertati.

Un comportamento che la giurisprudenza costante di questa Corte inquadra nella cornice della negligenza avendo il medico l’obbligo di seguire, appunto con diligenza, il decorso della sintomatologia del paziente che a lui si affida ed essendo suo dovere assicurare, attraverso i concordati controlli periodici, nonche’ interpretando e valorizzando le sintomatologie riferite, o comunque apprese, che l’intervento eventualmente richiesto con urgenza abbia luogo o venga indicato come indifferibile, mediante le necessarie comunicazioni (vedi, tra le molte, Sez. 4, n. 40703 del 14/06/2016, Roggia, Rv. 267778).

  1. Alla inammissibilita’ del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed a versare alla cassa delle ammende la somma che si reputa equo determinare in Euro 2.000,00.

In virtu’ del principio della soccombenza, il ricorrente deve anche essere condannato alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, liquidate, alla luce della nota depositata, come in dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 alla cassa delle ammende, nonche’ alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, liquidate in complessivi Euro 4.000,00, oltre gli accessori di legge.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – rel. Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27977/2018 proposto da:

C.A., rappresentata e difesa dall’avvocato GIACOMO MEZZENA, e con il medesimo elettivamente domiciliata in ROMA, presso lo studio dell’avvocato ANDREA GRAZIANI, in P.LE CLODIO, 14, pec: giacomomezzena.pec.it;

– ricorrente –

contro

FONDAZIONE MONTE TABOR, IN LIQUIDAZIONE E CONCORDATO PREVENTIVO (già Fondazione San Raffaele del Monte Tabor), in persona del liquidatore, rappresentato e difeso dall’avvocato FABIO FEDI, e con il medesimo elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MICHELANGELO PINTO, n. 22, presso lo studio dell’avvocato FEDERICO CAPARROTTA, pec: fabio.fedi.vareseavvocati.it;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1007/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 22/02/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 13/10/2020 dal Consigliere Dott. ANNA MOSCARINI.

Svolgimento del processo

1. La signora C.A. convenne davanti al Tribunale di Milano la Fondazione Monte Tabor in liquidazione ed i Dottori D.M. e Ca.Lu. affinchè fosse accertata la responsabilità solidale dei medesimi nella causazione degli eventi lesivi dalla stessa subiti a seguito di interventi chirurgici effettuati in data (OMISSIS) e (OMISSIS) per violazione dell’obbligo del consenso informato, con conseguente condanna al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti. Assunse di non aver ricevuto un’adeguata informazione in ordine alle complicanze possibili degli interventi effettuati, in particolare circa la possibile comparsa di un laparocele quanto al primo intervento e al rischio di lesione dell’uretere quanto al secondo intervento.

2. Nel contraddittorio con i convenuti e svolta una CTU medico-legale, il Tribunale di Milano, con sentenza n. 4310/2016, ritenne provato che i trattamenti sanitari de quibus erano stati eseguiti correttamente e, quanto alla violazione del diritto al consenso informato, statuì quanto segue: preso atto che la paziente aveva lamentato la lesione del proprio diritto all’autodeterminazione sotto il solo profilo del pregiudizio alla salute, non era stata fornita prova neppure presuntiva del fatto che, ove la paziente fosse stata effettivamente e correttamente resa edotta delle possibili conseguenze negative degli interventi, avrebbe rifiutato di sottoporsi agli stessi.

3. La C. propose appello censurando la sentenza di primo grado perchè, pur avendo riconosciuto la carenza di un consenso informato adeguato, aveva comunque rigettato la domanda risarcitoria senza considerare che ella, già nel 2004, si era rifiutata di sottoporsi ad un analogo intervento. Chiese anche la riforma della sentenza di primo grado sulla condanna alle spese.

4. La Corte d’Appello di Milano, con sentenza n. 1007 del 22/2/2018, ha rigettato l’appello in base alla stessa ratio decidendi del giudice di primo grado: ha ritenuto infatti che l’attrice avrebbe dovuto dare prova del fatto che, ove fosse stata correttamente informata dei possibili esiti delle operazioni, avrebbe rifiutato l’intervento. La Corte territoriale ha rilevato che l’appellante non aveva nulla allegato circa le ragioni per cui nel 2004 aveva rifiutato di sottoporsi all’intervento e che il suo consenso all’operazione doveva ritenersi implicito nell’aver sottoscritto un foglio nel quale erano prospettate complicanze potenzialmente ben più gravi (quali la lesione di organi endoaddominali) di quelle effettivamente verificatesi. Quanto al distinto danno per violazione del diritto all’autodeterminazione, quale riflesso del diritto alla libertà personale, la Corte territoriale ha configurato in astratto i confini della sua risarcibilità (non aver ottenuto un’adeguata informazione e quindi non essersi potuto liberamente determinare sul sottoporsi o meno all’intervento; con riguardo al diritto alla salute qualora fosse stato correttamente informato poter evitare di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti), lo ha distinto dal diritto alla salute identificandolo con una forma di rispetto per la libertà dell’individuo ed un mezzo per il perseguimento dei suoi interessi che si sostanzia non solo nella facoltà di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico ma anche di eventualmente rifiutare la terapia o di decidere consapevolmente di interromperla, atteso il principio personalistico che anima la nostra Costituzione la quale vede nella persona umana un valore in sè e ne sancisce il rispetto in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua persona in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive. Esso trova fondamento nell’art. 2 Cost. e negli artt. 13 e 32 Cost.. Dunque può assumere rilievo a fini risarcitori benchè non sussista la lesione della salute o se la lesione della salute non sia causalmente collegabile alla lesione di quel diritto, quante volte siano configurabili conseguenze pregiudizievoli di apprezzabile gravità se integranti un danno non patrimoniale, che siano derivate dalla violazione del diritto fondamentale all’autodeterminazione in se stesso considerato.

Ciò posto in termini generali, quanto alla lesione del diritto alla salute, rispetto al quale il diritto all’autodeterminazione è stato invocato, la Corte territoriale ha fatto riferimento all’onere della paziente di provare, anche mediante presunzioni, che, qualora fosse stata adeguatamente informata, avrebbe rifiutato l’intervento, ed ha ritenuto che a tale onere ella non avesse ottemperato, con la conseguenza che alcuna valutazione, neppure presuntiva, fosse possibile effettuare circa la sussistenza di una voce di danno. Ad avviso della corte territoriale il rispetto al diritto all’autodeterminazione del paziente deve essere valutato in concreto, tenendo presenti le reali possibilità di scelta che si ponevano nel caso in cui fosse stato adeguatamente informato per cui la rilevanza causale del mancato consenso sussiste soltanto quando una tale disinformazione abbia comportato una scelta terapeutica che altrimenti sarebbe stata con elevata probabilità rifiutata o modificata dal paziente stesso. Il paziente avrebbe dovuto dar prova di una condizione di risarcibilità del danno, mentre gli esiti terapeutici degli interventi chirurgici sono stati, ad avviso del giudice, sopravvalutati quali complicanze possibili degli interventi medesimi.

Avverso la sentenza che ha rigettato l’appello e parzialmente compensato le spese tra le parti, in ragione della difficile e relativamente nuova tematica del consenso informato, la C. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi. La Fondazione Monte Tabor in liquidazione e concordato preventivo ha resistito con controricorso.

6. La causa è stata fissata ex art. 380 bis c.p.c., all’odierna adunanza camerale in vista della quale la ricorrente ha depositato memoria mentre il P.G. non ha depositato conclusioni scritte.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo – difetto di motivazione rispetto ad un fatto decisivo per la controversia, contraddittorietà della motivazione. Violazione o falsa applicazione dell’art. 32 Cost. – la ricorrente, dopo aver riportato integralmente il proprio atto di appello, assume che la sentenza impugnata abbia una motivazione contraddittoria perchè, d’un lato, ha ammesso che l’atto di acquisizione del consenso informato era lacunoso e, dall’altro, ha erroneamente invertito l’onere della prova ritenendo che dovesse essere il paziente a provare di non aver ricevuto idonea informazione.

1.1. Il motivo è in parte inammissibile in parte infondato. D’un lato solleva un vizio di contraddittorietà della motivazione che non ha più ingresso nel giudizio di legittimità: la motivazione c’è ed è ben più ampia del minimo costituzionale richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte. In ogni caso il motivo è infondato perchè la sentenza impugnata ha accertato che la paziente non aveva fornito la prova che, qualora fosse stata idoneamente informata, avrebbe comunque deciso di non sottoporsi all’intervento, con ciò conformandosi alla consolidata giurisprudenza di questa Corte secondo la quale “In tema di responsabilità professionale del medico, in presenza di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito dal quale siano tuttavia derivate conseguenze dannose per la salute, ove tale intervento non sia stato preceduto da un’adeguata informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili, il medico può essere chiamato a risarcire il danno alla salute solo se il paziente dimostri, anche tramite presunzioni, che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l’intervento, non potendo altrimenti ricondursi all’inadempimento dell’obbligo di informazione alcuna rilevanza causale sul danno alla salute” (Cass., 3, n. 2847 del 9/2/2010; Cass., 3 n. 2998 del 16/2/2016; Cass., 3, n. 26827 del 14/11/2017).

Sul punto, come è noto, la giurisprudenza di questa Corte è del tutto consolidata nel senso di configurare il diritto all’autodeterminazione quale diritto autonomo e distinto rispetto al diritto alla salute e nell’individuarne il fondamento negli artt. 213 e 32 Cost. (Cass., 3, n. 28985 dell’11/11/2019; Cass., 3, n. 16892 del 25/6/2019; Cass., 3, n. 19199 del 19/7/2018; Cass., 3, n. 17022 del 28/6/2018), ma è altresì consolidata nel richiedere un giudizio controfattuale su quale sarebbe stata la scelta del paziente ove fosse stato correttamente informato atteso che, se avesse prestato senza riserve il consenso a quel tipo di intervento, la conseguenza dannosa si sarebbe dovuta imputare esclusivamente alla lesione del diritto alla salute determinata dalla successiva errata esecuzione della prestazione professionale, mentre, se egli avesse negato il consenso, il danno biologico scaturente dalla inesatta esecuzione della prestazione sanitaria sarebbe riferibile “ab origine” alla violazione dell’obbligo informativo e concorrerebbe unitamente all’errore relativo alla prestazione sanitaria alla sequenza causale produttiva della lesione della salute quale danno conseguenza (Cass., 3, n. 28985 dell’11/11/2019). La giurisprudenza è in particolare consolidata nel senso di ritenere che le conseguenze dannose derivanti dal diritto all’autodeterminazione debbano essere debitamente allegate dal paziente tenuto conto che il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla sua scelta soggettiva (criterio della vicinanza della prova) essendo il discostamento dalle indicazioni terapeutiche del medico, eventualità non rientrante nell’id quod plerunque accidie al riguardo la prova può essere fornita con ogni mezzo, ivi compreso il notorio, le massime di esperienza e le presunzioni, non essendo configurabile un danno risarcibile “in re ipsa” (Cass., 3, n. 28985 dell’11/11/2019; Cass., 3, n. 20885 del 22/8/2018; Cass., 3, n. 2369 del 31/1/2018; Cass., 3, n. 2998 del 16/2/2016).

2. Con il secondo motivo – violazione o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., erronea motivazione della condanna alle spese di giudizio – censura il capo di sentenza che, rigettando l’appello, ha consequenzialmente condannato l’appellante, peraltro alla sola metà, delle spese del grado.

Il motivo è infondato in quanto la Corte d’Appello ha seguito, in punto di condanna alle spese, un percorso logico-giuridico del tutto inappuntabile evidenziando il difetto di motivazione in ordine ad un’asserita eccessiva onerosità della condanna alle spese, liquidate invece in maniera congrua e peraltro compensate per la metà, il difetto di una argomentazione autonoma in punto di spese di CTU, il difetto di motivazione in ordine alla mancata specificazione della quota di spese a favore di ciascuno dei convenuti considerando il fatto che la condanna, riguardante la metà delle spese di lite, liquidate in misura ridotta è unitaria giacchè i convenuti sono stati difesi dallo stesso legale e comunque, in assenza di precisazione la quota di ciascun convenuto si presume uguale in applicazione analogica di quanto previsto dall’art. 97 c.p.c., comma 2.

3. Conclusivamente il ricorso va rigettato e la ricorrente condannata alle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo. Si dà atto della sussistenza dei presupposti per la condanna della ricorrente al versamento del cd. “raddoppio” del contributo unificato, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 4.200 (oltre Euro 200 per esborsi), più accessori di legge e spese generali al 15%.

Si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003art. 52.

Conclusione

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 13 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 marzo 2021

Originally posted 2019-02-09 20:42:29.