PENALE DOGANALE: “beni a duplice uso” di cui alla L. n. 89 del 1997

PENALE DOGANALE: “beni a duplice uso” di cui alla L. n. 89

del 1997

 

PENALE DOGANALE

 

“beni a duplice uso” di cui alla L. n. 89 del 1997

PENALE DOGANALE

Rileva il Collegio che la condotta descritta è perfettamente sovrapponibile a quelle di cui alle normative precedenti (si ritorna, anzi, a far riferimento solo e genericamente ai “beni a duplice uso” di cui alla L. n. 89 del 1997, eliminando l’indicazione pleonastica delle “tecnologie” di cui alla L. n. 422 del 2000).

AVVOCATO PENALISTA BOLOGNA

Anche la sanzione può ritenersi sostanzialmente identica: cambia, infatti, solo la pecuniaria (non quella detentiva che rimane la stessa sia nel minimo che nel massimo), ma per ragioni di “arrotondamento” (nel passaggio all’Euro era stato necessario effettuare il ragguaglio con la sanzione indicata in Lire, inserendo anche i decimali); si tratta quindi, palesemente, di una semplificazione senza alcuna incidenza.

La “differenza” riguarda quindi esclusivamente il richiamo, oltre che al regolamento (sempre quello CE n. 1334/2000), anche “al presente decreto legislativo”. Bisogna, allora, accertare quale normativa sia più favorevole tra la L. 29 dicembre 2000, n. 422, art. 4 (vigente all’epoca del commesso reato) e il D.Lgs. 9 aprile 2003, n. 96, art. 16 (intervenuto successivamente, quando il procedimento era ancora pendente).

L’art. 2 c.p., comma 3 stabilisce infatti che “se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile”. La giurisprudenza di questa Corte è assolutamente pacifica nel ritenere che l’individuazione della norma più favorevole debba essere effettuata con riferimento al caso concreto, “confrontando i risultati che deriverebbero dall’applicazione delle due normative che si sono succedute, sicchè la legge nuova deve trovare applicazione solo quando determina risultati più vantaggiosi per l’imputato, fermo rimanendo che non è consentito combinare tra loro le due normative “(cfr. Cass. pen. sez. 5, n. 11337 del 10.12.1993).

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AVVOCATO PENALISTA ESPERTO DI ESPERIENZA APPELLO CASSAZIONE TRIBUNALE

La legge più favorevole va, quindi, individuata tenendo conto della disciplina complessiva risultante dalla norme precettive e sanzionatorie in relazione al caso concreto. Tanto premesso, la legge sopravvenuta non può dirsi più favorevole, nè con riferimento al precetto (continua ad essere sanzionata l’effettuazione di operazioni di esportazione di beni a doppio uso), nè alla sanzione (al B. è stata applicata la sola pena della multa in misura di poco superiore al minimo edittale): la Corte ha motivato la impossibilità di una riduzione al minimo assoluto “stante il numero e il peso della merce destinata ad essere esportata, dal contenuto altamente tossico”, per cui nessuna incidenza ha avuto la lieve variazione – formale peraltro come si è visto – nel minimo e nel massimo edittale; a parte il fatto che il trattamento sanzionatorio non è stato neppure oggetto di doglianzaPENALE DOGANALE

Nè, infine, la nuova normativa può ritenersi più favorevole per il solo fatto che faccia riferimento ad operazioni di esportazioni effettuate non solo ai sensi del regolamento ma anche “del presente decreto legislativo”. A prescindere dalla considerazione che, come si vedrà, tale ulteriore richiamo non ha alcuna rilevanza stante la chiarezza del regolamento, è insostenibile, piuttosto, ritenere che il prevenuto nell’effettuare quelle operazioni nel (OMISSIS) dovesse attenersi a prescrizioni non ancora in vigore (quali quelle del decreto legislativo che sarebbe stato emanato …nel 2003..)PENALE DOGANALE

La legge applicabile è quindi certamente quella in vigore all’epoca di commissione del fatto e cioè la L. 29 dicembre 2000, n. 422, art. 4, comma 5. 3.2) Alla stregua di siffatta normativa, va, quindi, stabilito il significato di “operazioni di esportazione”. Va premesso che, ai sensi dell’art. 12 preleggi, nell’applicazione della legge, “non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e della intenzione del legislatore”.

Quando la norma è chiara ed inequivocabile non è consentita la ricerca di una volontà del legislatore in contrasto con quella manifestata dalla dizione letterale della norma medesima. La ricerca di siffatta volontà è possibile solo quando la legge non sia chiara e si presti, quindi, a dubbi e difficoltà di comprensione.

Quando la lettera del precetto legislativo non sia chiara ed inequivocabile, la voluntas legis va desunta, oltre che dalle espressioni letterali, da un’adeguata valutazione del fondamento e dello scopo della norma, dovendo ricavarsi tale volontà “dai motivi informatori e ispiratori della statuizione legislativa, nonchè della finalità attraverso di essa perseguita”. Significativamente e non a caso viene adoperata costantemente, in tutti i testi legislativi che si sono succeduti in materia, come si è visto, l’espressione “operazioni di esportazione” e non semplicemente “esportazione”. Se, come sostiene lo stesso ricorrente, per esportazione deve intendersi “il regime che consente l’uscita dal territorio doganale”, l’accezione “operazioni di esportazione” non può che avere un significato più ampio che non sia coincidente con il primo, altrimenti non vi sarebbe stato motivo alcuno per operare la distinzione. Per “operazione” si intende “un insieme di attività”, una “serie di azioni o di iniziative”; tutte le definizioni che vengono riportate nei dizionari di lingua italiana fanno riferimento ad una pluralità di atti, coordinati tra loro e finalizzati al raggiungimento di un determinato scopo. L’uso nel testo normativo del plurale “operazioni” accentua ancor di più il riferimento ad un complesso di atti. Risulta, quindi, dalla espressione letterale usata la volontà del legislatore di far riferimento a tutte quelle operazioni che precedono l’esportazione vera e propria e che siano alla stessa finalisticamente collegate; vale a dire tutti quegli atti che precedono l’uscita del prodotto dal territorio doganale e che siano funzionalmente rivolti ad effettuare l’uscita medesima. Correttamente, pertanto, la Corte territoriale fa rientrare nella nozione di “operazioni di esportazione” la dichiarazione di esportazione, l’esibizione della documentazione alla dogana, l’introduzione del prodotto in dogana. Essendo la lettera del precetto assolutamente chiara, non è consentita alcuna ulteriore operazione di interpretazione (“in claris non fit interpretatio”). Peraltro, nel caso di specie, il significato letterale coincide perfettamente con la “ratio” della norma. La disciplina particolare per l’esportazione dei “beni a duplice uso” è dettata dalla preoccupazione di impedire che essi finiscano in mani di Stati od organizzazioni che possano utilizzarli per finalità destabilizzanti ed aggressive e, quindi, non per finalità di progresso, ma militari. Di qui la necessità di dar vita ad un regime vincolistico per l’esportazione di detti beni e di effettuare più penetranti controlli. E’ perfettamente spiegabile, allora, che il soggetto che intenda effettuare l’esportazione di tali beni (utilizzabili, si ripete, anche per fini militari) richieda tempestivamente l’autorizzazione prescritta, per consentire alle Autorità preposte di effettuare tutti i necessari controlli in ordine al luogo di destinazione ed al soggetto destinatario. Di qui la necessità, per evitare possibili elusioni dei controlli, che tutte le operazioni prodromiche all’esportazione ed alla stessa finalizzate siano precedute dal rilascio dell’autorizzazione. Il significato chiaro della norma, oltre ad essere confortato dalla “ratio” trova ulteriore e non equivoca conferma nel regolamento comunitario, cui la norma stessa rinvia. Secondo l’art. 12 del Regolamento 22.6.2000 n. 1334, infatti, “In occasione dell’espletamento delle formalità per l’esportazione di prodotti a duplice uso presso l’ufficio doganale competente per l’accettazione della dichiarazione d’esportazione, l’esportatore deve fornire la prova che tutte le autorizzazioni di esportazione necessarie sono state ottenute”. Le autorizzazioni necessarie, quindi, debbono precedere la presentazione della “dichiarazione di esportazione”. 3.3) La Corte Costituzionale ha più volte evidenziato che “il riconoscimento dell’ordinamento comunitario e di quello nazionale come reciprocamente autonomi, ma tra loro coordinati e comunicanti, porta a considerare l’immissione diretta nell’ordinamento interno delle norme comunitarie immediatamente applicabili come la conseguenza del riconoscimento della loro derivazione da una fonte (esterna) a competenza riservata, la cui giustificazione costituzionale va imputata all’art. 11 Cost. ed al conseguente particolare valore giuridico attribuito al Trattato istitutivo delle Comunità Europee e agli atti a questo equiparati. Ha ancora puntualizzato che, mentre gli atti idonei a porre quelle norme conservano il trattamento giuridico o il regime ad essi assicurato dall’ordinamento comunitario – nel senso che sono assoggettati alle regole di produzione normativa, di interpretazione, di abrogazione, di caducazione e di invalidazione proprie di quell’ordinamento – al contrario le norme da essi prodotte operano direttamente nell’ordinamento interno come norme investite di “forza o valore di legge”, vale a dire come norme che, nei limiti delle competenze e nell’ambito degli scopi propri degli organi di produzione normativa della Comunità, hanno un rango primario, pur non dando luogo a ipotesi di abrogazione o di deroga, nè a forme di caducazione o di annullamento per invalidità della norma interna incompatibile. Tali principi sono stati riferiti dalla Corte, nella pronuncia n. 170 del 1984, ai regolamenti comunitari e con la sentenza n. 113 del 1985 è stata ritenuta l’immediata applicabilità anche delle statuizioni delle sentenze interpretative della Corte di giustizia delle Comunità Europee pronunciate in via pregiudiziale ai sensi dell’art. 177 del Trattato. Successivamente analoga efficacia è stata riconosciuta, con sentenza n. 389 del 1989, anche alle norme comunitarie come interpretate in pronunce rese dalla medesima Corte in sede contenziosa ai sensi dell’art. 169 del Trattato. Con la sentenza n. 168 del 1991 la Corte costituzionale si è adeguata alla giurisprudenza comunitaria (sent. 22 giugno 1989, in causa 103/88; sent. 20 settembre 1988, in causa 31/87; sent. 8 ottobre 1987, in causa 80/86; sent. 24 marzo 1987, in causa 286/85) ed ha stabilito che in tutti i casi in cui alcune disposizioni di una direttiva appaiano, dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise, i singoli possono farle valere nei confronti dello Stato, sia che questo non abbia tempestivamente recepito la direttiva nel diritto nazionale sia che l’abbia recepita in modo inadeguato dinanzi ai giudici nazionali, “onde far disapplicare qualsiasi norma di diritto interno non conforme a detto articolo”. Ha altresì precisato che la ricognizione in concreto dei menzionati requisiti della direttiva costituisce l’esito di un’attività di interpretazione, che il giudice nazionale può effettuare direttamente ovvero rimettere alla Corte di giustizia ai sensi dell’art. 177, comma 2, del Trattato di Roma; facoltà, quest’ultima, che, invece, costituisce obbligo per il giudice nazionale di ultima istanza (art. 177, comma 3, cit.), sempre che – secondo quanto ritenuto dalla stessa giurisprudenza della Corte di giustizia con la sentenza 6 ottobre 1982, in causa 283/81 – il precetto della norma comunitaria non s’imponga con tale evidenza da non lasciare adito ad alcun ragionevole dubbio sulla sua interpretazione. (cfr. Cass. pen. sez. 3 n. 9983 del 1999). Stante la chiarezza, come si è visto, della norma comunitaria, non è necessario quindi sospendere il processo e rimettere gli atti alla Corte di Giustizia. 3.4) Palesemente infondata è, infine, la tesi difensiva secondo cui la norma mira a sanzionare l’inottemperanza dolosa al dovere di veridicità delle dichiarazioni fornite alla dogana. Tale interpretazione “restrittiva” è invero in contrasto evidente con il testo normativo che sanziona alternativamente chiunque effettui operazioni di esportazione senza la prescritta autorizzazione oppure con autorizzazione ottenuta fornendo dichiarazioni o documentazione false. 4) Quanto alla responsabilità soggettiva, è pacifico che il ricorrente era all’epoca del commesso reato rappresentante legale della società Italchimici s.p.a., esportatrice dei 243 fusti di cianuro di potassio. Ed è assolutamente pacifico che il diretto destinatario degli obblighi di legge sia colui che rappresenta la persona giuridica. La semplice accettazione della carica attribuisce infatti allo stesso doveri di vigilanza e controllo, il cui mancato rispetto comporta responsabilità penale o a titolo di dolo generico, per la consapevolezza che dalla condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato, o a titolo di dolo eventuale per la semplice accettazione del rischio che questi si verifichino (cfr. ex multis Cass. pen. sez. 3 n. 22919 del 6.4.2006). E’ ben possibile che vengano delegati formalmente ad altri, tecnicamente preparati, i compiti imposti dalla legge ai rappresentanti legali di una persona giuridica. Il problema della delega e dell’esonero da responsabilità penale del delegante è piuttosto dibattuto ed, in proposito, sono stati delineati, dalla giurisprudenza di questa Corte, limiti ed ambiti. E’ stato così affermato che l’atto di delega debba essere espresso, inequivoco e certo, dovendo inoltre investire persona tecnicamente capace, dotata delle necessari e cognizioni tecniche e dei relativi poteri decisionali e di intervento, che abbia accettato lo specifico incarico, fermo restando l’obbligo per il datore di lavoro di vigilare e controllare che il delegato usi, poi, concretamente la delega, secondo quanto la legge prescrive (cfr. Cass. Sez. 4, 25.8.2000 n. 9343 – Archetti; conf. Cass. pen. sez. 4, 1.4.2004, Rossetto). La delega, quindi, è in linea generale ed astratta consentita, ma per essere rilevante ai fini dell’esonero da responsabilità del delegante, deve, come ribadito da questa Corte (cfr. sez. 3 n. 26122 del 12.4.2005 – Capone), avere i seguenti requisiti: a) essere puntuale ed espressa, senza che siano trattenuti in capo al delegante poteri residuali di tipo discrezionale; b) il soggetto delegato deve essere tecnicamente idoneo e professionalmente qualificato per lo svolgimento del compito affidatogli; c) il trasferimento delle funzioni deve essere giustificato in base alle esigenze organizzative dell’impresa; d) unitamente alle funzioni debbono essere trasferiti i correlativi poteri decisionali e di spesa; e) l’esistenza della delega deve essere giudizialmente provata in modo certo. La Corte territoriale, con apprezzamento di fatto come tale non sindacabile in questa sede di legittimità, ha escluso che dalle risultanze processuali sia emerso il conferimento, con atto formale, della delega “alla gestione e trattazione dei prodotti chimici pericolosi ad un soggetto qualificato”. LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. LUPO Ernesto – Presidente – Dott. PETTI Ciro – Consigliere – Dott. TARDINO Vincenzo Luig – Consigliere – Dott. GENTILE Mario – Consigliere – Dott. AMORESANO Silvio – Consigliere – ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da: 1) B.R. N. IL (OMISSIS); avverso SENTENZA del 12/12/2007 CORTE APPELLO di GENOVA; visti gli atti, la sentenza ed il ricorso; udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. AMORESANO SILVIO; Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. D’Ambrosio Vito che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito il difensore avv. Porreca Eustacchio che ha concluso per il rigetto del ricorso. Fatto OSSERVA 1) Con sentenza del 12.12.2007 la Corte di Appello di Genova confermava la sentenza del Tribunale del 14.11.2002, con la quale B.R. era stato condannato, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche, alla pena di Euro 18.000,00 di multa per il reato di cui al D.Lgs. n. 89 del 1997, art. 7 perchè, quale legale rappresentante della s.p.a. Italchimici, effettuava attività di esportazione di 243 fusti di cianuro (massa netta Kg. 12.150) senza la prescritta autorizzazione ministeriale, essendo detto prodotto chimico contemplato nell’allegato 1 del reg. CE 3381/94 che istituisce un regime di controllo sui beni a duplice uso. Premesso che la norma applicabile è la L. n. 422 del 2000, art. 4 e non quella riportata nel capo di imputazione e che i 243 fusti di cianuro erano stati presentati in dogana ai fini dell’esportazione dallo spedizioniere GMT, mandatario della Italchimici, con regolare fattura, dichiarazione di esportazione e documentazione indicante la natura del bene da esportare, ritiene la Corte che le “operazioni di esportazione” di cui alla normativa contestata debbano comprendere anche le operazioni prodromiche alla esportazione e ad essa funzionalmente collegate. La conferma si ricava dall’art. 2, lett. c) del regolamento CE n. 1334/2000 che definisce esportatore qualsiasi persona fisica o giuridica per la quale è resa una dichiarazione di esportazione (dichiarazione che presuppone necessariamente atti prodromici). Lo stesso regolamento all’art. 2, lett. d) definisce la dichiarazione di esportazione come l’atto con il quale una persona manifesta, nelle forme e nelle modalità prescritte, la volontà di sottoporre un prodotto a duplice uso al regime di esportazione. Secondo la Corte, quindi, nel concetto di operazioni di esportazione rientrano certamente la dichiarazione di esportazione, l’approntamento e l’esibizione della documentazione alla dogana, l’introduzione del prodotto in dogana. Siffatte operazioni sono state poste in essere senza la prescritta autorizzazione ministeriale, per cui è configurabile il reato contestato. Aggiunge la Corte che se, come sostenuto dall’appellante, le espressioni “esportazione” ed “operazioni di esportazione” siano concettualmente identiche, non si spiegherebbe il motivo per cui il regolamento abbia usato espressioni diverse. Laddove la natura del prodotto lo richieda (possibilità anche di un uso bellico) viene quindi apprestata una tutela avanzata (autorizzazione ministeriale alle operazioni di esportazione) con anticipazione della soglia di punibilità. I giudici di merito escludono, infine, che possa definirsi operazione di esportazione solo quella posta in essere dopo l’ammissione al regime di esportazione perchè ci si troverebbe in presenza di un reato impossibile (le autorizzazioni necessarie, ai sensi dell’art. 12, del regolamento CE, debbono essere, infatti, già prodotte al momento dell’accettazione). Ritiene, poi, la Corte che il dolo (generico) richiesto dalla norma non venga meno per avere il legale rappresentante della Italchimici delegato ad altri la cura del settore chimico, dal momento che obbligato all’osservanza del precetto è, comunque, il medesimo legale rappresentante (a parte il fatto che non vi è prova di una delega formale). E’ del tutto inverosimile, in ogni caso, che dell’esportazione di ben 243 fusti di cianuro di potassio il B. non si sia occupato direttamente. Infine, secondo la Corte territoriale sono da escludere l’errore determinato da fatto altrui (non essendo stato certamente indotto da altri) e l’ignoranza scusabile della legge (potendo, con la normale diligenza, un soggetto operante nel settore venire a conoscenza degli adempimenti richiesti dalla normativa). 2) Propone ricorso per cassazione il B., a mezzo del suo difensore, denunciando, con il primo motivo, la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione alla interpretazione della nozione di “operazioni di esportazione”. Premette che, pur facendosi riferimento, sia nella sentenza di primo grado che nella sentenza di appello, alla normativa di cui alla L. n. 422 del 2000, art. 4, comma 5, non è stato in tal senso precisato il capo di imputazione. A parte il fatto che, al momento della celebrazione del giudizio di secondo grado, il quadro normativo era nuovamente mutato: la norma sanzionatoria è rappresentata dal D.Lgs. n. 96 del 2003, art. 16, che fa riferimento non solo al regolamento CE, ma anche alle disposizioni dello stesso decreto legislativo. Assume, poi, che risulta illogico dedurre (come fa la Corte) il significato dell’espressione “operazioni di esportazione” dalla nozione di esportatore e non da quella di esportazione (pur contenuta nel regolamento all’art. 2, lett. b, i) e che, comunque, è contraddittorio rispetto alla definizione regolamentare di esportatore non considerare che tale qualifica soggettiva è agganciata a due condizioni (non solo alla titolarità dell’interesse alla dichiarazione di esportazione ma anche alla facoltà di decidere l’invio dei prodotti fuori dal territorio doganale al momento dell’accettazione della dichiarazione). Può forse convenirsi che la dichiarazione di esportazione, l’approntamento e l’esibizione della documentazione, l’introduzione della merce in dogana costituiscano atti finalizzati al procedimento di esportazione, ma non certo che siano essi stessi operazioni di esportazione. Il richiamo della norma sanzionatoria al regolamento (ed ora allo stesso D.Lgs.) comporta il riferimento al codice doganale comunitario, secondo cui l’esportazione è il regime che consente l’uscita dal territorio doganale (art. 161), che non può avvenire se non dopo lo svincolo delle merci (art. 162), il cui presupposto è l’accettazione della dichiarazione di esportazione. Non vi è, poi, alcun dato positivo che avvalori l’assunto della Corte, secondo cui la diversa terminologia adoperata (operazioni di esportazione e non esportazione) starebbe ad indicare la volontà di apprestare una tutela anticipata in ordine a prodotti inclusi negli allegati 1 e 4, per cui è affetta da erronea applicazione della legge penale la statuizione della Corte medesima. Nè è esatto che, secondo la prospettazione difensiva, ci si troverebbe, stante la previsione dell’art. 12 del regolamento, in presenza di un reato impossibile. La struttura dolosa del reato è rivolta a sanzionare non le condotte colpose, ma quelle intenzionalmente dirette all’elusione dell’obbligo di munirsi della necessaria autorizzazione. La violazione si rende certamente possibile attraverso l’inottemperanza dolosa al dovere di veridicità delle dichiarazioni fornite alla dogana. Il momento consumativo del reato deve quindi essere identificato non con gli atti prodromici dell’esportazione, ma quantomeno al compimento della complessiva procedura che consente al prodotto di lasciare il territorio. Con il secondo motivo denuncia la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione all’attribuibilità del fatto al B.. La Corte non ha tenuto minimamente conto delle risultanze processuali da cui emerge la estraneità del ricorrente al fatto materiale ed ha confuso il piano della riferibilità soggettiva della condotta con quello dell’elemento soggettivo del reato. Il problema dell’elemento soggettivo del reato è stato sostanzialmente eluso, essendosi la Corte limitata alla definizione, di carattere astratto, della qualità del dolo. Censura, infine, l’erronea applicazione dell’art. 5 c.p. nella parte in cui la Corte ha ritenuto non scusabile l’ignoranza della normativa comunitaria e del precetto statale da parte dell’esportatore. La motivazione della sentenza impugnata è, invero, contraddittoria, non esistendo alcun ufficio doganale presso il quale un cittadino possa ottenere informazioni preventive; nè tiene conto della obiettiva difficoltà di accedere alla legislazione comunitaria. Chiede, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata. 3) Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato. 3.1) Va, innanzitutto, accertato quale sia la normativa applicabile. Il fatto, come da contestazione, risulta commesso in data (OMISSIS), per cui la normativa vigente all’epoca era prevista dalla L. 29 dicembre 2000, n. 422 e non dal D.Lgs. n. 89 del 1997 richiamato nel capo di imputazione. Di tanto danno atto sia il Tribunale che la Corte di Appello, (“la normativa citata nel capo di imputazione è stata abrogata e la condotta contestata risulta attualmente sanzionata negli stessi termini dalla L. n. 422 del 2000, art. 4″, che richiama il Regolamento CE 22.6.2000 nel cui allegato 1 è ricompreso il cianuro di potassio” – cfr. sent. Trib.). In effetti, il D.Lgs. 24 febbraio 1997, n. 89, art. 7, così disponeva: “Chiunque effettua operazioni di esportazione di beni a duplice uso senza la prescritta autorizzazione ovvero con autorizzazione ottenuta fornendo dichiarazioni o documentazioni false, ovvero con autorizzazione divenuta inefficace ai sensi dell’art. 4, comma 2, è punito con la reclusione da 2 a 6 anni o con la multa da Euro 25.822 ad Euro 258,228″. La L. 29 dicembre 2000, n. 422, art. 4, comma 5, così recitava: ” Chiunque, ai sensi del regolamento, effettua operazioni di esportazione di prodotti e tecnologie a duplice uso senza la prescritta autorizzazione ovvero con autorizzazione ottenuta fornendo dichiarazioni o documentazione false, è punito con la reclusione da 2 a 6 anni o con la multa da Euro 25.822 ad Euro 258,228″. Risulta evidente che le due normative sono sovrapponigli sia per quanto riguarda la condotta (“effettua operazioni di esportazione…senza autorizzazione”) che per quanto attiene alla sanzione. La diversità riguarda un allargamento della previsione anche alle esportazioni di tecnologie ed il richiamo al regolamento (la L. n. 422 del 2000, medesimo art. 4, comma 4 precisa che “ai fini dei commi 5, 6, 7, 8 e 9 si intende per regolamento il regolamento (CE) n. 1334/2000 del Consiglio del 22 giugno 2000”). L’espressione “ai sensi del regolamento” costituisce indubbiamente una “innovazione” rispetto alla disciplina abrogata, per cui correttamente la Corte territoriale ritiene che ad essa vada “attribuito un qualche significato”. Non c’è dubbio, quindi, che al fatto contestato debba essere applicata la disciplina vigente all’epoca di commissione. Essendo stata regolarmente ed ineccepibilmente contestata la condotta materiale, non rileva ovviamente l’erroneo richiamo alla normativa abrogata; nè rileva che i giudici di merito non abbiano, in dispositivo, provveduto formalmente ad indicare la normativa applicabile. E’ pacifico, invero, che ai sensi dell’art. 521 c.p.p., comma 1 il giudice possa attribuire al fatto una qualificazione giuridica diversa senza con ciò violare il principio della correlazione tra imputazione e sentenza. L’unico limite è rappresentato dalla circostanza che il fatto storico contestato rimanga identico in relazione alla condotta, all’evento ed all’elemento psicologico. Ma, a ben vedere, nel caso di specie non si è in presenza nemmeno di una (assolutamente consentita) diversa qualificazione giuridica, ma del mero richiamo della normativa vigente all’epoca del fatto in sostituzione di quella precedente abrogata ed erroneamente riportata nel capo di imputazione. Si assume, però, dal ricorrente che, al momento della decisione di secondo grado era intervenuto il D.Lgs. 9 aprile 2003, n. 96 che aveva abrogato formalmente la L. 29 dicembre 2000, n. 422, commi 4, 5, 6, 7, 8 e 9, statuendo all’art. 16, comma 1: “Chiunque, ai sensi del regolamento e del presente decreto legislativo, effettua operazioni di esportazione di beni a duplice uso senza la prescritta autorizzazione ovvero con autorizzazione ottenuta, fornendo dichiarazioni o documentazione false, è punito con la reclusione da 2 a 6 anni o con la multa da 25.000 a 250.000 Euro”. Rileva il Collegio che la condotta descritta è perfettamente sovrapponibile a quelle di cui alle normative precedenti (si ritorna, anzi, a far riferimento solo e genericamente ai “beni a duplice uso” di cui alla L. n. 89 del 1997, eliminando l’indicazione pleonastica delle “tecnologie” di cui alla L. n. 422 del 2000). Anche la sanzione può ritenersi sostanzialmente identica: cambia, infatti, solo la pecuniaria (non quella detentiva che rimane la stessa sia nel minimo che nel massimo), ma per ragioni di “arrotondamento” (nel passaggio all’Euro era stato necessario effettuare il ragguaglio con la sanzione indicata in Lire, inserendo anche i decimali); si tratta quindi, palesemente, di una semplificazione senza alcuna incidenza. La “differenza” riguarda quindi esclusivamente il richiamo, oltre che al regolamento (sempre quello CE n. 1334/2000), anche “al presente decreto legislativo”. Bisogna, allora, accertare quale normativa sia più favorevole tra la L. 29 dicembre 2000, n. 422, art. 4 (vigente all’epoca del commesso reato) e il D.Lgs. 9 aprile 2003, n. 96, art. 16 (intervenuto successivamente, quando il procedimento era ancora pendente). L’art. 2 c.p., comma 3 stabilisce infatti che “se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile”. La giurisprudenza di questa Corte è assolutamente pacifica nel ritenere che l’individuazione della norma più favorevole debba essere effettuata con riferimento al caso concreto, “confrontando i risultati che deriverebbero dall’applicazione delle due normative che si sono succedute, sicchè la legge nuova deve trovare applicazione solo quando determina risultati più vantaggiosi per l’imputato, fermo rimanendo che non è consentito combinare tra loro le due normative “(cfr. Cass. pen. sez. 5, n. 11337 del 10.12.1993). La legge più favorevole va, quindi, individuata tenendo conto della disciplina complessiva risultante dalla norme precettive e sanzionatorie in relazione al caso concreto. Tanto premesso, la legge sopravvenuta non può dirsi più favorevole, nè con riferimento al precetto (continua ad essere sanzionata l’effettuazione di operazioni di esportazione di beni a doppio uso), nè alla sanzione (al B. è stata applicata la sola pena della multa in misura di poco superiore al minimo edittale): la Corte ha motivato la impossibilità di una riduzione al minimo assoluto “stante il numero e il peso della merce destinata ad essere esportata, dal contenuto altamente tossico”, per cui nessuna incidenza ha avuto la lieve variazione – formale peraltro come si è visto – nel minimo e nel massimo edittale; a parte il fatto che il trattamento sanzionatorio non è stato neppure oggetto di doglianza. Nè, infine, la nuova normativa può ritenersi più favorevole per il solo fatto che faccia riferimento ad operazioni di esportazioni effettuate non solo ai sensi del regolamento ma anche “del presente decreto legislativo”. A prescindere dalla considerazione che, come si vedrà, tale ulteriore richiamo non ha alcuna rilevanza stante la chiarezza del regolamento, è insostenibile, piuttosto, ritenere che il prevenuto nell’effettuare quelle operazioni nel (OMISSIS) dovesse attenersi a prescrizioni non ancora in vigore (quali quelle del decreto legislativo che sarebbe stato emanato …nel 2003..). La legge applicabile è quindi certamente quella in vigore all’epoca di commissione del fatto e cioè la L. 29 dicembre 2000, n. 422, art. 4, comma 5. 3.2) Alla stregua di siffatta normativa, va, quindi, stabilito il significato di “operazioni di esportazione”. Va premesso che, ai sensi dell’art. 12 preleggi, nell’applicazione della legge, “non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e della intenzione del legislatore”. Quando la norma è chiara ed inequivocabile non è consentita la ricerca di una volontà del legislatore in contrasto con quella manifestata dalla dizione letterale della norma medesima. La ricerca di siffatta volontà è possibile solo quando la legge non sia chiara e si presti, quindi, a dubbi e difficoltà di comprensione. Quando la lettera del precetto legislativo non sia chiara ed inequivocabile, la voluntas legis va desunta, oltre che dalle espressioni letterali, da un’adeguata valutazione del fondamento e dello scopo della norma, dovendo ricavarsi tale volontà “dai motivi informatori e ispiratori della statuizione legislativa, nonchè della finalità attraverso di essa perseguita”. Significativamente e non a caso viene adoperata costantemente, in tutti i testi legislativi che si sono succeduti in materia, come si è visto, l’espressione “operazioni di esportazione” e non semplicemente “esportazione”. Se, come sostiene lo stesso ricorrente, per esportazione deve intendersi “il regime che consente l’uscita dal territorio doganale”, l’accezione “operazioni di esportazione” non può che avere un significato più ampio che non sia coincidente con il primo, altrimenti non vi sarebbe stato motivo alcuno per operare la distinzione. Per “operazione” si intende “un insieme di attività”, una “serie di azioni o di iniziative”; tutte le definizioni che vengono riportate nei dizionari di lingua italiana fanno riferimento ad una pluralità di atti, coordinati tra loro e finalizzati al raggiungimento di un determinato scopo. L’uso nel testo normativo del plurale “operazioni” accentua ancor di più il riferimento ad un complesso di atti. Risulta, quindi, dalla espressione letterale usata la volontà del legislatore di far riferimento a tutte quelle operazioni che precedono l’esportazione vera e propria e che siano alla stessa finalisticamente collegate; vale a dire tutti quegli atti che precedono l’uscita del prodotto dal territorio doganale e che siano funzionalmente rivolti ad effettuare l’uscita medesima. Correttamente, pertanto, la Corte territoriale fa rientrare nella nozione di “operazioni di esportazione” la dichiarazione di esportazione, l’esibizione della documentazione alla dogana, l’introduzione del prodotto in dogana. Essendo la lettera del precetto assolutamente chiara, non è consentita alcuna ulteriore operazione di interpretazione (“in claris non fit interpretatio”). Peraltro, nel caso di specie, il significato letterale coincide perfettamente con la “ratio” della norma. La disciplina particolare per l’esportazione dei “beni a duplice uso” è dettata dalla preoccupazione di impedire che essi finiscano in mani di Stati od organizzazioni che possano utilizzarli per finalità destabilizzanti ed aggressive e, quindi, non per finalità di progresso, ma militari. Di qui la necessità di dar vita ad un regime vincolistico per l’esportazione di detti beni e di effettuare più penetranti controlli. E’ perfettamente spiegabile, allora, che il soggetto che intenda effettuare l’esportazione di tali beni (utilizzabili, si ripete, anche per fini militari) richieda tempestivamente l’autorizzazione prescritta, per consentire alle Autorità preposte di effettuare tutti i necessari controlli in ordine al luogo di destinazione ed al soggetto destinatario. Di qui la necessità, per evitare possibili elusioni dei controlli, che tutte le operazioni prodromiche all’esportazione ed alla stessa finalizzate siano precedute dal rilascio dell’autorizzazione. Il significato chiaro della norma, oltre ad essere confortato dalla “ratio” trova ulteriore e non equivoca conferma nel regolamento comunitario, cui la norma stessa rinvia. Secondo l’art. 12 del Regolamento 22.6.2000 n. 1334, infatti, “In occasione dell’espletamento delle formalità per l’esportazione di prodotti a duplice uso presso l’ufficio doganale competente per l’accettazione della dichiarazione d’esportazione, l’esportatore deve fornire la prova che tutte le autorizzazioni di esportazione necessarie sono state ottenute”. Le autorizzazioni necessarie, quindi, debbono precedere la presentazione della “dichiarazione di esportazione”. 3.3) La Corte Costituzionale ha più volte evidenziato che “il riconoscimento dell’ordinamento comunitario e di quello nazionale come reciprocamente autonomi, ma tra loro coordinati e comunicanti, porta a considerare l’immissione diretta nell’ordinamento interno delle norme comunitarie immediatamente applicabili come la conseguenza del riconoscimento della loro derivazione da una fonte (esterna) a competenza riservata, la cui giustificazione costituzionale va imputata all’art. 11 Cost. ed al conseguente particolare valore giuridico attribuito al Trattato istitutivo delle Comunità Europee e agli atti a questo equiparati. Ha ancora puntualizzato che, mentre gli atti idonei a porre quelle norme conservano il trattamento giuridico o il regime ad essi assicurato dall’ordinamento comunitario – nel senso che sono assoggettati alle regole di produzione normativa, di interpretazione, di abrogazione, di caducazione e di invalidazione proprie di quell’ordinamento – al contrario le norme da essi prodotte operano direttamente nell’ordinamento interno come norme investite di “forza o valore di legge”, vale a dire come norme che, nei limiti delle competenze e nell’ambito degli scopi propri degli organi di produzione normativa della Comunità, hanno un rango primario, pur non dando luogo a ipotesi di abrogazione o di deroga, nè a forme di caducazione o di annullamento per invalidità della norma interna incompatibile.

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Tali principi sono stati riferiti dalla Corte, nella pronuncia n. 170 del 1984, ai regolamenti comunitari e con la sentenza n. 113 del 1985 è stata ritenuta l’immediata applicabilità anche delle statuizioni delle sentenze interpretative della Corte di giustizia delle Comunità Europee pronunciate in via pregiudiziale ai sensi dell’art. 177 del Trattato. Successivamente analoga efficacia è stata riconosciuta, con sentenza n. 389 del 1989, anche alle norme comunitarie come interpretate in pronunce rese dalla medesima Corte in sede contenziosa ai sensi dell’art. 169 del Trattato.

 

 

Con la sentenza n. 168 del 1991 la Corte costituzionale si è adeguata alla giurisprudenza comunitaria (sent. 22 giugno 1989, in causa 103/88; sent. 20 settembre 1988, in causa 31/87; sent. 8 ottobre 1987, in causa 80/86; sent. 24 marzo 1987, in causa 286/85) ed ha stabilito che in tutti i casi in cui alcune disposizioni di una direttiva appaiano, dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise, i singoli possono farle valere nei confronti dello Stato, sia che questo non abbia tempestivamente recepito la direttiva nel diritto nazionale sia che l’abbia recepita in modo inadeguato dinanzi ai giudici nazionali, “onde far disapplicare qualsiasi norma di diritto interno non conforme a detto articolo”. Ha altresì precisato che la ricognizione in concreto dei menzionati requisiti della direttiva costituisce l’esito di un’attività di interpretazione, che il giudice nazionale può effettuare direttamente ovvero rimettere alla Corte di giustizia ai sensi dell’art. 177, comma 2, del Trattato di Roma; facoltà, quest’ultima, che, invece, costituisce obbligo per il giudice nazionale di ultima istanza (art. 177, comma 3, cit.), sempre che – secondo quanto ritenuto dalla stessa giurisprudenza della Corte di giustizia con la sentenza 6 ottobre 1982, in causa 283/81 – il precetto della norma comunitaria non s’imponga con tale evidenza da non lasciare adito ad alcun ragionevole dubbio sulla sua interpretazione. (cfr. Cass. pen. sez. 3 n. 9983 del 1999). Stante la chiarezza, come si è visto, della norma comunitaria, non è necessario quindi sospendere il processo e rimettere gli atti alla Corte di Giustizia. 3.4) Palesemente infondata è, infine, la tesi difensiva secondo cui la norma mira a sanzionare l’inottemperanza dolosa al dovere di veridicità delle dichiarazioni fornite alla dogana. Tale interpretazione “restrittiva” è invero in contrasto evidente con il testo normativo che sanziona alternativamente chiunque effettui operazioni di esportazione senza la prescritta autorizzazione oppure con autorizzazione ottenuta fornendo dichiarazioni o documentazione false. 4) Quanto alla responsabilità soggettiva, è pacifico che il ricorrente era all’epoca del commesso reato rappresentante legale della società Italchimici s.p.a., esportatrice dei 243 fusti di cianuro di potassio. Ed è assolutamente pacifico che il diretto destinatario degli obblighi di legge sia colui che rappresenta la persona giuridica.

 

 

 

La semplice accettazione della carica attribuisce infatti allo stesso doveri di vigilanza e controllo, il cui mancato rispetto comporta responsabilità penale o a titolo di dolo generico, per la consapevolezza che dalla condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato, o a titolo di dolo eventuale per la semplice accettazione del rischio che questi si verifichino (cfr. ex multis Cass. pen. sez. 3 n. 22919 del 6.4.2006). E’ ben possibile che vengano delegati formalmente ad altri, tecnicamente preparati, i compiti imposti dalla legge ai rappresentanti legali di una persona giuridica. Il problema della delega e dell’esonero da responsabilità penale del delegante è piuttosto dibattuto ed, in proposito, sono stati delineati, dalla giurisprudenza di questa Corte, limiti ed ambiti.

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E’ stato così affermato che l’atto di delega debba essere espresso, inequivoco e certo, dovendo inoltre investire persona tecnicamente capace, dotata delle necessari e cognizioni tecniche e dei relativi poteri decisionali e di intervento, che abbia accettato lo specifico incarico, fermo restando l’obbligo per il datore di lavoro di vigilare e controllare che il delegato usi, poi, concretamente la delega, secondo quanto la legge prescrive (cfr. Cass. Sez. 4, 25.8.2000 n. 9343 – Archetti; conf. Cass. pen. sez. 4, 1.4.2004, Rossetto). La delega, quindi, è in linea generale ed astratta consentita, ma per essere rilevante ai fini dell’esonero da responsabilità del delegante, deve, come ribadito da questa Corte (cfr. sez. 3 n. 26122 del 12.4.2005 – Capone), avere i seguenti requisiti: a) essere puntuale ed espressa, senza che siano trattenuti in capo al delegante poteri residuali di tipo discrezionale; b) il soggetto delegato deve essere tecnicamente idoneo e professionalmente qualificato per lo svolgimento del compito affidatogli; c) il trasferimento delle funzioni deve essere giustificato in base alle esigenze organizzative dell’impresa; d) unitamente alle funzioni debbono essere trasferiti i correlativi poteri decisionali e di spesa; e) l’esistenza della delega deve essere giudizialmente provata in modo certo. La Corte territoriale, con apprezzamento di fatto come tale non sindacabile in questa sede di legittimità, ha escluso che dalle risultanze processuali sia emerso il conferimento, con atto formale, della delega “alla gestione e trattazione dei prodotti chimici pericolosi ad un soggetto qualificato”. A parte il fatto che, aggiunge opportunamente la Corte di merito, l’operazione di esportazione di 243 fusti di cianuro di potassio (per un peso di ben 13.996 Kg.) non poteva passare inosservata ed essere presa all’insaputa del rappresentante legale della società esportatrice, essendo egli, tra l’altro, “il titolare del contratto concluso con il destinatario del paese terzo” e colui “per cui conto è resa una dichiarazione di esportazione”.

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5) Il dolo del reato è indubbiamente “generico” per cui è indiscutibile che il ricorrente, nella qualità di legale rappresentante della società esportatrice, fosse consapevole che le operazioni di esportazione venivano effettuate senza il previo rilascio della prevista autorizzazione. Nè può essere invocata l’ignoranza delle legge penale, che, per essere rilevante, deve essere incolpevole. Ha rilevato, al contrario, la Corte di merito che, con l’uso della normale diligenza, il ricorrente poteva venire a conoscenza della necessità dell’autorizzazione per l’esportazione di cianuro di potassio, che appare nell’elenco dei beni a duplice uso di cui all’allegato al regolamento comunitario. Nè difficoltà di sorta potevano derivare “dall’obiettiva difficoltà di accedere alla legislazione comunitaria”. A parte il fatto che, come si è visto tale normativa è assolutamente chiara (art. 12 Reg.), il B., in quanto soggetto operante anche nel settore del commercio con l’estero, non poteva che “attrezzarsi” per venire a conoscenza degli adempimenti richiesti dalla normativa in vigore. Trattandosi, quindi, di un operatore professionale è assolutamente esigibile la conoscenza della normativa comunitaria; con la conseguenza che l’eventuale ignoranza della stessa non può essere ritenuta scusabile. 6) Il ricorso va pertanto rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Diritto PQM P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 9 ottobre 2008. Depositato in Cancelleria il 25 novembre 2008

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Originally posted 2020-05-01 18:35:49.