FURTO MILITARE @RICETTAZIONE MILITARE @APPROPRIAZIONE INDEBITA MILITARE AVVOCATO PENALE MILITARE  CASSAZIONE Capo IV REATI CONTRO IL PATRIMONIO.

FURTO MILITARE @RICETTAZIONE MILITARE @APPROPRIAZIONE INDEBITA MILITARE AVVOCATO PENALE MILITARE  CASSAZIONE

Capo IV
REATI CONTRO IL PATRIMONIO.

FURTO MILITARE @RICETTAZIONE MILITARE @APPROPRIAZIONE INDEBITA MILITARE AVVOCATO PENALE MILITARE  CASSAZIONE Capo IV REATI CONTRO IL PATRIMONIO.

Art. 230. Furto militare.

Il militare, che, in luogo militare, si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola ad altro militare che la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, è punito con la reclusione militare da due mesi a due anni.
Se il fatto è commesso a danno della amministrazione militare, la pena è della reclusione militare da uno a cinque anni.
La condanna importa la rimozione.
Agli effetti della legge penale militare, sotto la denominazione di luogo militare si comprendono le caserme, le navi, gli aeromobili, gli stabilimenti militari e qualunque altro luogo, dove i militari si trovano, ancorché momentaneamente, per ragione di servizio.

Art. 231. Circostanze aggravanti.

La pena è della reclusione da uno a cinque anni nel caso preveduto dal primo comma dell’articolo precedente, e da due a sette anni nel caso preveduto dal secondo comma dell’articolo stesso:

  1. se il colpevole usa violenza sulle cose o si vale di un qualsiasi mezzo fraudolento;
  2. se il colpevole porta in dosso armi o narcotici, senza farne uso;
  3. se il fatto è commesso con destrezza, ovvero strappando la cosa di mano o di dosso alla persona;
  4. se il fatto è commesso da tre o più persone, ovvero anche da una sola, che sia travisata.

Se concorrono due o più delle circostanze indicate nel comma precedente, ovvero se una di tali circostanze concorre con altra fra quelle indicate nell’articolo 61 del codice penale o nell’articolo 47 di questo codice, si applica la reclusione da due a otto anni, nel caso preveduto dal primo comma dell’articolo precedente, e la reclusione da tre a dieci anni, nel caso preveduto dal secondo comma dell’articolo stesso.
La condanna, quando non ne derivi la degradazione, importa la rimozione.

Art. 232. Furto a danno del superiore al cui personale servizio il colpevole sia addetto, o nell’abitazione dello stesso superiore.

Il militare addetto al personale servizio di un superiore, che, in qualsiasi luogo, s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola al superiore che la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, è punito con la reclusione da due a sette anni.
La disposizione del comma precedente si applica anche se il fatto è commesso, nell’abitazione del superiore, a danno di persona con questo convivente.
Se ricorre alcuna delle circostanze indicate nel primo comma dell’articolo precedente, la pena è della reclusione da tre a dieci anni.
Se concorrono due o più delle circostanze indicate nel primo comma dell’articolo precedente, o se alcuna di dette circostanze concorre con altra fra quelle indicate nell’articolo 61 del codice penale o nell’articolo 47 di questo codice, la pena è della reclusione da quattro a dodici anni.
La condanna, quando non ne derivi la degradazione, importa la rimozione.


Art. 233. Furto d’uso o su cose di tenue valore. Furto di oggetti di vestiario o di equipaggiamento.

Si applica la reclusione militare fino a sei mesi:

  1. se il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa sottratta, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita; (1)
  2. se il fatto è commesso su cose di tenue valore, per provvedere a un grave e urgente bisogno;
  3. se il fatto è commesso su oggetti di vestiario o di equipaggiamento militare, al solo scopo di sopperire a deficienze del proprio corredo.

 

Tali disposizioni non si applicano, se ricorre alcuna delle circostanze indicate nei nn. 1, 2 e 3 del primo comma dell’articolo 231.

 

(1) La Corte costituzionale, con sentenza 10 gennaio 1991, n. 2, ha dichiarato la illegittimità costituzionale di questo numero nella parte in cui non estende la disciplina ivi prevista alla mancata restituzione, dovuta a caso fortuito o forza maggiore, della cosa sottratta.

Art. 234. Truffa.

Il militare, che, con artifici o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con danno di altro militare, è punito con la reclusione militare da sei mesi a tre anni.
La pena è della reclusione militare da uno a cinque anni:

  1. se il fatto è commesso a danno dell’amministrazione militare o col pretesto di fare esonerare taluno dal servizio militare;
  2. se il fatto è commesso, ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario o l’erroneo convincimento di dover eseguire un ordine dell’autorità.

 

La condanna importa la rimozione.

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Art. 235. Appropriazione indebita.

Il militare, che, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile di altro militare, di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso, è punito con la reclusione militare fino a tre anni.
Se il fatto è commesso su cose possedute a titolo di deposito necessario o appartenenti all’amministrazione militare, la pena è aumentata.
Se il fatto è commesso su oggetti di vestiario o di equipaggiamento militare, al solo scopo di sopperire a deficienze del proprio corredo, si applica la reclusione militare fino a sei mesi.
Nei casi preveduti dal primo e dal secondo comma, la condanna importa la rimozione.

Art. 236. Appropriazione di cose smarrite o avute per errore o caso fortuito.

E’ punito con la reclusione militare fino a sei mesi:

  1. il militare, che, avendo trovato, in luogo militare, denaro o cose da altri smarrite, se li appropria o non li consegna al superiore entro ventiquattro ore;
  2. il militare, che si appropria cose appartenenti ad altri militari o all’amministrazione militare, delle quali sia venuto in possesso per errore altrui o per caso fortuito.

 

Se il colpevole conosceva il proprietario della cosa che si è appropriata, la pena è della reclusione militare fino a due anni.

Art. 237. Ricettazione.

Fuori dei casi di concorso nel reato, il militare, che, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve od occulta denaro o cose provenienti da un qualsiasi reato militare, o comunque si intromette nel farli acquistare, ricevere od occultare, è punito con la reclusione militare fino a due anni.
Se il denaro o le cose provengono da un reato militare, che importa una pena detentiva superiore nel massimo a cinque anni o una pena più grave, si applica la reclusione fino a sei anni.
Le disposizioni di questo articolo si applicano anche quando l’autore del reato, da cui il denaro o le cose provengono, non è imputabile o non è punibile.
La condanna, quando non ne derivi la degradazione, importa la rimozione.

 

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FURTO MILITARE

 

Art. 230. Furto militare.

Il militare, che, in luogo militare, si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola ad altro militare che la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, è punito con la reclusione militare da due mesi a due anni.
Se il fatto è commesso a danno della amministrazione militare, la pena è della reclusione militare da uno a cinque anni.
La condanna importa la rimozione.
Agli effetti della legge penale militare, sotto la denominazione di luogo militare si comprendono le caserme, le navi, gli aeromobili, gli stabilimenti militari e qualunque altro luogo, dove i militari si trovano, ancorché momentaneamente, per ragione di servizio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

. Nella giurisprudenza della Corte di cassazione sono emersi dunque tre orientamenti:

1) l’art. 13, comma 2, c.p.p. ha determinato l’abrogazione dell’art. 264 c.p.m.p. e non vi sono casi di attribuzione di procedimenti connessi all’autorità giudiziaria ordinaria diversi da quello in cui «il reato comune è più grave di quello militare»; perciò nel caso di concorso nel reato militare di persone civili e di persone militari la giurisdizione rispetto a queste ultime è del giudice militare;

2) l’art. 13, comma 2, c.p.p. non ha determinato l’abrogazione dell’art. 264 c.p.m.p.; le due disposizioni risultano collegate e in applicazione della seconda nel caso di concorso nel reato militare di persone civili e di persone militari la giurisdizione per tutte è del giudice ordinario;

3) l’art. 13, comma 2, c.p.p. presuppone una pluralità di reati, comuni e militari, ed è quindi inapplicabile nel caso di concorso nel reato militare di persone civili e di persone militari; in questo caso l’attribuzione al giudice ordinario della giurisdizione rispetto a tutti i concorrenti «discende direttamente dall’art. 103, comma 3, della Carta fondamentale».

  1. Il terzo orientamento tende a semplificare la questione: non sarebbe necessario stabilire se l’art. 264 c.p.m.p. è stato o meno abrogato, perché sarebbe la stessa norma costituzionale a fare escludere la giurisdizione del giudice militare, in favore di quello ordinario, nel caso di concorso di persone nel reato. Questa conclusione però si basa su un’interpretazione dell’art. 103, comma 3, Cost. che non trova fondamento né nella lettera della disposizione, né nella ricostruzione normativa che ne ha fattola Cortecostituzionale. Se si leggono in modo coordinato le diverse decisioni della Corte intervenute nel tempo non può infatti non concludersi che la disposizione costituzionale da un lato non assegna alla giurisdizione dei tribunali militari un carattere di inderogabilità e impedisce l’attribuzione a questa giurisdizione di reati che non siano militari o non siano commessi da appartenenti alle Forze armate, dall’altro però non impone alcuna specifica soluzione nel caso di procedimenti connessi e ne rimette la disciplina alla discrezionalità del legislatore. Del resto se l’interpretazione corretta dell’art. 103, comma 3, Cost. fosse quella indicata da Sez. I, 3 marzo 2005, Tria dovrebbe ragionevolmente prospettarsi una questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, c.p.p., perché nel caso della commissione di una pluralità di reati comporta il mantenimento della giurisdizione militare tutte le volte che il reato civile non è più grave di quello militare. I principi che regolano la giurisdizione militare nel caso di connessione di procedimenti sono stati da ultimo ricordati da due decisioni della Corte costituzionale. Nell’ordinanza n. 441 del 1998 la Corte ha chiarito che «l’art. 13, comma 2, c.p.p. – che opera una riduzione dei casi di connessione tra reati comuni e reati militari rispetto alla disciplina prevista dall’art. 49, terzo comma, c.p.p. del 1930 (poi superato dall’art. 8 l. 23 marzo 1956, n. 167, a sua volta sostitutivo dell’art. 264 c.p.m.p. mediante una disciplina che ha privilegiato la vis attractiva del giudice ordinario) – delinea una soluzione normativa non censurabile in quanto espressione di una scelta non irragionevole del legislatore, che si inserisce nell’impostazione di fondo del processo penale in favore della trattazione separata dei procedimenti». E successivamente, nell’ordinanza n. 204 del 2001, la Corte, dopo avere ricordato che i tribunali militari «si caratterizzano per la presenza, a fianco di giudici “togati”, di soggetti estranei alla magistratura idonei a fornire per il possesso di particolari requisiti culturali e professionali, un qualificato contributo alla comprensione delle vicende oggetto del giudizio», ha ribadito che «la disciplina in questione – in forza della quale, fra reati comuni e reati militari, la connessione di procedimenti opera entro circoscritti limiti (e cioè solo quando il reato comune è più grave di quello militare) con attribuzione della competenza per tutti i reati al giudice ordinario – si configura anch’essa come frutto di una scelta discrezionale del legislatore non eccedente i limiti della ragionevolezza, in quanto espressiva di un “bilanciamento” tra le esigenze proprie del giudizio sui reati militari e quelle cui risponde, in via generale, l’istituto della connessione».Deve quindi concludersi che l’orientamento espresso da Sez. I, 3 marzo 2005, Tria è privo di base normativa, dato che il legislatore con l’art. 13 comma 2, c.p.p. ha esercitato correttamente il proprio potere, e che non può farsi riferimento al terzo comma dell’art. 103 Cost. per ampliare la giurisdizione del giudice ordinario superando la previsione della norma processuale, tenuto anche conto dei limiti in cui il sistema processuale tende a privilegiare la riunione dei procedimenti e della particolare idoneità del giudice militare a conoscere dei reati militari. 5. Resta da stabilire se sia stato o meno abrogato l’art. 264 c.p.m.p.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE PENALI

SENTENZA 25 ottobre 2005 – dep. 10 febbraio 2006 n. 5135

(Presidente N. Marvulli, Relatore G. Lattanzi)


RITENUTO IN FATTO

  1. Elio M., per mezzo del suo difensore, ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza del 17 settembre 2004 con la qualela Cortemilitare di appello – Sezione distaccata di Napoli ha confermato la condanna del ricorrente alla pena di anni 1 e mesi 8 di reclusione militare per il reato di peculato militare aggravato (artt. 215 e 47 n. 2 c.p.m.p.), pronunciata dal Tribunale militare di Napoli il 20 novembre 2003.

Secondo l’imputazione il ricorrente, «all’epoca dei fatti maggiore E.I., nell’esercizio delle funzioni di capo ufficio amministrazione della Scuola allievi CC. di Campobasso, con più atti esecutivi del medesimo disegno criminoso, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso di somme di denaro appartenenti all’Amministrazione militare, accreditate sul capitolo 4601 del bilancio 1995, se ne appropriava nella misura di lire 34.763.745 in concorso con l’Arredamenti B. s.r.l., liquidando le fatture n. 178/95 e n. 148/95 emesse dalla suindicata società di importo maggiorato rispetto al valore della merce fornita».

Il Tribunale militare ha ritenuto che l’imputato avesse manipolato l’andamento di due gare a trattativa privata e avesse così favorito l’aggiudicazione all’impresa B. per un corrispettivo notevolmente superiore a quello medio di mercato, lucrando poi il sovrapprezzo. Alle due gare avevano preso parte, oltre all’impresa B., altre imprese che poi erano risultate collegate con la prima perché ne erano fornitrici. Inoltre le proposte presentate da alcune delle imprese invitate recavano firme che erano state disconosciute e lo stesso imputato aveva ammesso che per una sua decisione erano state invitate alle gare imprese estranee al settore merceologico di interesse. L’indagine peritale era giunta alla conclusione che esisteva una netta sproporzione tra i corrispettivi di aggiudicazione delle gare e i valori di mercato dei beni forniti.

Secondo il tribunale il fatto integrava un peculato militare, in quanto l’imputato era in possesso del denaro dell’amministrazione per ragione di ufficio, avendo il potere di disporre il pagamento in favore delle imprese aggiudicatrici. Il fatto appropriativo era stato individuato nell’emissione dei due mandati di pagamento per somme “maggiorate”, che avevano dato luogo a un’arbitraria disposizione dell’eccedenza pecuniaria e costituivano espressione di una signoria sulle somme corrisposte.

La Corte militare di appello, come si è detto inizialmente, ha confermato la decisione del tribunale.

  1. Prima di decidere sul merito la corte militare di appello ha ritenuto di dover verificare la propria di giurisdizione prendendo in esame la questione sulla esistenza o meno della giurisdizione militare quando, come è avvenuto nel caso in esame, vi sia stato il concorso nel reato militare di persone non appartenenti alle Forze armate.

Alla questione la corte ha ritenuto di dover dare una soluzione affermativa disattendendo l’orientamento giurisprudenziale più recente, secondo il quale sarebbe ancora in vigore, nonostante il disposto del secondo comma dell’art. 13 c.p.p, la disposizione dell’art. 264 c.p.m.p., che nel caso in questione attribuiva la giurisdizione al giudice ordinario. La corte infatti si è dichiarata convinta che l’art. 264 c.p.m.p. sia stato abrogato dalla successiva disposizione dell’art. 13, comma 2, c.p.p., che attribuisce la giurisdizione al giudice ordinario «soltanto quando il reato comune è più grave di quello militare», situazione che si riferisce al concorso di reati e non è ravvisabile nel caso di un unico reato militare commesso in concorso con persone non appartenenti alle Forze armate.

  1. Il ricorso si articola in cinque motivi.

Con il primo motivo il ricorrente ha dedotto il difetto di giurisdizione della corte militare. Secondo il ricorrente l’art. 264 c.p.m.p. non è stato abrogato e con l’avverbio “soltanto” la disposizione dell’art. 13, comma 2, c.p.p. ha introdotto nella previgente normativa la regola di operatività della connessione unicamente nel caso di reato comune più grave di quello militare, mantenendo rilevante, ai fini della giurisdizione, la connessione nelle ipotesi di concorso di persone nel reato previste dal citato art. 264.

Con il secondo motivo il ricorrente ha censurato la qualificazione giuridica del fatto rilevando che la liquidazione di fatture di importo maggiorato, con il conseguente pagamento al fornitore, non presuppone il possesso, da parte dell’agente, delle somme pagate. Nella condotta in contestazione manca il momento appropriativo che, a tutto voler concedere, si sarebbe potuto configurare soltanto ipotizzando una successiva consegna di denaro all’imputato da parte del privato «ovvero una condotta, oltre che insussistente, neppure congetturata nella fattispecie in contestazione».

Con il terzo motivo il ricorrente ha sostenuto che anche se si ritenesse provata la liquidazione di fatture per importi superiori al valore della merce fornita, non vi sarebbe comunque una condotta appropriativa, che presupporrebbe «l’esistenza di un surplus tra l’importo indicato nelle fatture e quanto effettivamente corrisposto alla ditta» fornitrice. «La maggiorazione degli importi rispetto al valore di mercato della merce poteva tutt’al più condurre a una condotta riconducibile nell’alveo dell’art. 323 c.p.».

Con il quarto motivo il ricorrente ha dedotto la manifesta illogicità della motivazione per la confusione operata tra il profilo dell’accertamento della irregolarità della gara e quello, che costituisce il vero thema decidendum, della sussistenza della condotta di appropriazione. Il materiale indiziario acquisito, a tutto voler concedere, sarebbe indicativo della irregolarità della gara vinta dall’impresa B. mentre per quanto concerne l’ esistenza di un accordo illecito tra questa impresa e il M. la sentenza si limita ad evidenziare il solo dato della sproporzione tra il prezzo di aggiudicazione e quello corrente sul mercato. Manca l’indicazione di prove, ancorché indiziarie, relative a «un accordo tra ditta e prevenuto in ordine al riversamento a favore del M. del sovrapprezzo lucrato dalla ditta».

Con il quinto motivo il ricorrente ha prospettato un vizio della motivazione con riferimento alla determinazione della pena irrogata. La sentenza trascura i pacifici elementi dell’incensuratezza e della specchiata condotta militare, pure emersi in giudizio, che avrebbero imposto una pena più mite.

  1. La prima sezione penale ha rimesso il ricorso alle Sezioni unite avendo rilevato l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale sulla vigenza dell’art. 264 c.p.m.p. e sull’attribuzione al giudice ordinario della giurisdizione quando il reato militare è commesso da un militare in concorso con persona non appartenente alle forze armate.

CONSIDERATO IN DIRITTO

 

  1. L’entrata in vigore della Costituzione con l’art. 103, comma3, hamesso in questione il rapporto tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione militare, regolato in precedenza dall’art. 49 comma 3 c.p.p. del 1930 con la previsione che «Nel caso di connessione fra procedimenti di competenza dell’Autorità giudiziaria ordinaria e procedimenti di competenza … dei tribunali militari, la competenza per tutti appartiene al giudice speciale».

Dopo un’iniziale incertezza (ved. Sez. un. 1° aprile 1948, Gramigna) la giurisprudenza della Cassazione aveva concluso che la disposizione del terzo comma dell’art. 49 cit. era stata abrogata per l’incompatibilità con la disposizione costituzionale e che quindi doveva trovare applicazione la regola generale contenuta nel primo comma dello stesso articolo, a norma del quale «Se i procedimenti connessi appartengono alcuni alla competenza dell’Autorità giudiziaria ordinaria e altri alla competenza dei giudici speciali … è competente per tutti il giudice ordinario» (ved. Sez. un., 12 maggio 1951, Barosini; Sez. un., 17 gennaio 1953, AA. P.M.; Sez. un., 4 luglio 1953, Celestini).

Il rapporto tra le due giurisdizioni ha trovato successivamente una disciplina legislativa più articolata nell’art. 8 l. 23 marzo 1956, n. 167, che ha sostituito l’art. 264 del codice penale militare di pace nei termini seguenti: «[1]Tra i procedimenti di competenza dell’autorità giudiziaria ordinaria e i procedimenti di competenza dell’autorità giudiziaria militare si ha connessione solamente quando essi riguardano delitti commessi nello stesso tempo da più persone riunite o da più persone anche in tempi e luoghi diversi, ma in concorso tra loro, o da più persone in danno reciprocamente le une delle altre, ovvero delitti commessi gli uni per eseguire o per occultare gli altri o per conseguirne o assicurarne, al colpevole o ad altri, il prezzo, il prodotto o la impunità. – [2] Nei casi preveduti nel comma precedente è competente per tutti i procedimenti l’autorità giudiziaria ordinaria. Non di meno la Corte di cassazione, su ricorso del pubblico ministero presso il giudice ordinario o presso il giudice militare, ovvero risolvendo un conflitto, può ordinare, per ragioni di convenienza, con sentenza, la separazione dei procedimenti. – [3] Il ricorso ha effetto sospensivo».

L’art. 264 c.p.m.p. ha formato oggetto di varie questioni di legittimità costituzionale, che hanno indotto la Corte costituzionale a delineare con successive decisioni la portata normativa dell’art. 103, comma 3, Cost. In sintesi, e per quanto qui interessa, la Corte ha ritenuto che la giurisdizione riconosciuta dalla norma costituzionale in tempo di pace ai tribunali militari non è inderogabile, sicché anche procedimenti che sarebbero di competenza del giudice militare possono essere attribuiti dal legislatore al giudice ordinario, quando gli stessi sono connessi con procedimenti di competenza di questo (C. cost., 8 aprile 1948, n, 29), mentre è escluso che procedimenti di competenza del giudice ordinario possano essere attribuiti al giudice militare per ragioni di connessione.

L’attribuzione al giudice ordinario dei procedimenti di competenza del giudice militare è rimessa alla discrezionalità del legislatore e dunque alla sua valutazione sulle ragioni della connessione e sulla opportunità del simultaneus processus, ed è per questa ragione che è stata ritenuta compatibile con l’art. 3 Cost. la norma dell’art. 264 c.p.m.p., anche se non consentiva la trattazione congiunta davanti al giudice ordinario nei casi di connessione derivanti dal concorso formale o dalla continuazione di reati commessi da persona appartenente alle Forze armate e rientranti alcuni nella cognizione del giudice ordinario e altri a in quella del giudice militare (C. cost., 28 luglio 1976, n. 196; C. cost., 20 maggio 1980, n. 73). Secondo la Corte infatti l’art. 264 c.p.m.p. aveva «dovuto contemperare esigenze diverse ed opposte, entrambe presenti nell’ordinamento giuridico: assicurando, da un lato, la congiunta cognizione dei casi per i quali risultava impossibile o comunque inopportuno mantenere separati i procedimenti; ma anche garantendo, d’altro lato, la competenza del giudice normalmente ritenuto più idoneo a risolvere determinate specie di controversie», nel presupposto della maggiore idoneità del giudice militare a conoscere dei procedimenti normalmente attribuiti alla sua giurisdizione (C.cost., 20 maggio 1980, n. 73).

  1. Il codice di rito vigente ha modificato radicalmente la disciplina della connessione tra reati di competenza del giudice ordinario e reati di competenza del giudice militare, quasi capovolgendola. L’art. 13, comma 2, c.p.p. infatti stabilisce che «Fra reati comuni e reati militari la connessione dei procedimenti opera soltanto quando il reato comune è più grave di quello militare, avuto riguardo ai criteri previsti dall’art. 16, comma3. Intale caso, la competenza per tutti i reati è del giudice ordinario». Ne risulta così una regolamentazione nella quale, da un lato, rientrano i casi, prima non previsti, del concorso formale e del reato continuato (costituendo ipotesi di connessione comprese nell’art. 12, comma 1, lett. b c.p.p.), relativi a reati comuni e reati militari, ma «soltanto quando il reato comune è più grave di quello militare», e, dall’altro, sono esclusi casi già previsti dall’art. 264 c.p.m.p., come quelli dei delitti commessi da più persone «in concorso tra loro, o da più persone in danno reciprocamente le une delle altre».Gli autori che hanno commentato la nuova disposizione hanno generalmente ritenuto che essa regolasse interamente la materia, con l’effetto di abrogare, a norma dell’art. 15 delle disposizioni sulla legge in generale, quella precedente dell’art. 264 c.p.m.p., e nello stesso senso si è inizialmente orientata la giurisprudenza della Corte di cassazione. La prima espressione di questo orientamento è rappresentata da Sez. I, 23 novembre 1995, De Marco, che, in presenza di un’imputazione di furto militare aggravato commesso in concorso con un civile, ha ritenuto infondata un’eccezione di difetto di giurisdizione del tribunale militare senza dubitare che ormai la regola sui rapporti tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione militare per ragioni di connessione fosse rinvenibile unicamente nell’art. 13, comma 2, c.p.p. L’attribuzione al tribunale militare del furto militare commesso in concorso con un civile è stata infatti giustificata con la considerazione che «la connessione di procedimenti prevista dall’art. 13 cpv. c.p.p. – che determina l’attribuzione di giurisdizione al giudice ordinario – opera solo nel caso che ci si trovi in presenza di reati comuni e di reati militari e che uno dei reati comuni sia più grave rispetto a quello militare. Diverso – secondo la sentenza – è il caso di un unico fatto delittuoso commesso in concorso da un civile e da un militare, i cui elementi integrano soggettivamente e oggettivamente gli estremi di un reato militare. In tale ipotesi, trattandosi di un unico reato, non opera la connessione prevista dall’art. 13 cpv. c.p.p., che richiede la presenza di più reati diversi». Sez. I, 15 dicembre 1999, Moccia è stata ancora più chiara, con l’affermazione che «l’art. 264 c.p.m.p., modificato dall’art. 8 l. 23 marzo 1956, n. 167, che prevedeva la competenza dell’autorità giudiziaria in caso di concorso di più persone nel reato e di nesso teleologico tra reati, risulta abrogato dalla successiva disposizione del codice di procedura penale del 1988», e nello stesso senso si è espressa anche Sez. I, 3 aprile 1997, X (in Rass. giust. mil., 1997, 111).

    Successivamente però nella giurisprudenza della Corte di cassazione sono emersi orientamenti diversi, esplicitati inizialmente da Sez. I, 21 aprile 2004, Bausone, che decidendo su un conflitto negativo tra giudice ordinario e giudice militare è giunta alla conclusione che la giurisdizione appartenesse al primo per la considerazione che l’art. 264 c.p.m.p. e l’art. 13, comma 2, c.p.p. «disciplinano fattispecie non del tutto omogenee, posto che l’art. 264 riguarda soltanto le ipotesi di delitti e non di reati in genere, come è previsto dall’art. 13, comma 2, c.p.p.» e che «i casi di connessione previsti dal codice militare sono parzialmente diversi da quelli indicati dall’art. 12 c.p.p.».

    Assai più argomentata è Sez. I, 20 gennaio 2005, Cimoli, uguale ad altre tre sentenze pronunciate nella stessa udienza nei procedimenti D’Angelo, Simone e Pisani. Secondo la sentenza Cimoli «la lettura della disposizione del codice rivela inequivocabilmente che il comma 2 dell’art. 13 non ha affatto abrogato l’art. 264 c.p.m.p. e che il suo campo di applicazione è unicamente circoscritto alla delimitazione della vis attractiva nella giurisdizione ordinaria di tutti i casi di connessione prefigurati dall’art. 264… Il coordinamento tra le due disposizioni rende, dunque, evidente che l’art. 13 segna un limite all’operatività della disposizione dell’art. 264 c.p.m.p., nel senso che quest’ultima norma, che sancisce la prevalenza della giurisdizione ordinaria su quella militare, non si applica quando il reato più grave sia quello militare». Secondo la sentenza Cimoli l’art. 13, comma 2, c.p.p. presuppone una pluralità di reati mentre nel caso del concorso di persone «il reato è unico» e si determina una fattispecie che non può essere regolata da tale articolo; perciò, a norma dell’art. 264 c.p.m.p., «deve trovare piena esplicazione la regola generale della devoluzione della cognizione dei procedimenti connessi alla giurisdizione ordinaria, in totale sintonia con la disciplina dell’art. 103, comma 3, Cost.». Per contro la sentenza ha considerato incompatibile con la normativa del nuovo codice la parte finale del secondo comma dell’art. 264 c.p.m.p. (che dava alla Corte di cassazione il potere di «ordinare per ragioni di convenienza, con la sentenza, la separazione dei procedimenti») e l’ha ritenuta «senz’altro abrogata a norma dell’art. 15 delle disposizioni sulla legge in generale». Con una pronuncia ancora più recente la prima sezione (sent. 3 marzo 2005, Tria) ha ribadito il nuovo orientamento aggiungendo che «il problema dell’abrogazione, totale o parziale, dell’art. 264 non ha decisiva influenza sulla definizione della questione relativa alla giurisdizione in caso di concorso di civili e di militari nello stesso delitto militare, per la precisa ragione che, una volta escluso che tale situazione rientri nell’ambito di operatività dell’art. 13, comma 2, del codice di rito, è inevitabile riconoscere che la soluzione accolta dalla uniforme giurisprudenza di questa Corte discende direttamente dall’art. 103, comma 3, della Carta fondamentale. La piena fondatezza di tale enunciato – secondo la sentenza – risulta evidente quando si considera che la Corte costituzionale ha costantemente affermato la regola della tassatività della giurisdizione speciale e della prevalenza della giurisdizione ordinaria».

  2. Nella giurisprudenza della Corte di cassazione sono emersi dunque tre orientamenti:

1) l’art. 13, comma 2, c.p.p. ha determinato l’abrogazione dell’art. 264 c.p.m.p. e non vi sono casi di attribuzione di procedimenti connessi all’autorità giudiziaria ordinaria diversi da quello in cui «il reato comune è più grave di quello militare»; perciò nel caso di concorso nel reato militare di persone civili e di persone militari la giurisdizione rispetto a queste ultime è del giudice militare;

2) l’art. 13, comma 2, c.p.p. non ha determinato l’abrogazione dell’art. 264 c.p.m.p.; le due disposizioni risultano collegate e in applicazione della seconda nel caso di concorso nel reato militare di persone civili e di persone militari la giurisdizione per tutte è del giudice ordinario;

3) l’art. 13, comma 2, c.p.p. presuppone una pluralità di reati, comuni e militari, ed è quindi inapplicabile nel caso di concorso nel reato militare di persone civili e di persone militari; in questo caso l’attribuzione al giudice ordinario della giurisdizione rispetto a tutti i concorrenti «discende direttamente dall’art. 103, comma 3, della Carta fondamentale».

  1. Il terzo orientamento tende a semplificare la questione: non sarebbe necessario stabilire se l’art. 264 c.p.m.p. è stato o meno abrogato, perché sarebbe la stessa norma costituzionale a fare escludere la giurisdizione del giudice militare, in favore di quello ordinario, nel caso di concorso di persone nel reato. Questa conclusione però si basa su un’interpretazione dell’art. 103, comma 3, Cost. che non trova fondamento né nella lettera della disposizione, né nella ricostruzione normativa che ne ha fattola Cortecostituzionale. Se si leggono in modo coordinato le diverse decisioni della Corte intervenute nel tempo non può infatti non concludersi che la disposizione costituzionale da un lato non assegna alla giurisdizione dei tribunali militari un carattere di inderogabilità e impedisce l’attribuzione a questa giurisdizione di reati che non siano militari o non siano commessi da appartenenti alle Forze armate, dall’altro però non impone alcuna specifica soluzione nel caso di procedimenti connessi e ne rimette la disciplina alla discrezionalità del legislatore. Del resto se l’interpretazione corretta dell’art. 103, comma 3, Cost. fosse quella indicata da Sez. I, 3 marzo 2005, Tria dovrebbe ragionevolmente prospettarsi una questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, c.p.p., perché nel caso della commissione di una pluralità di reati comporta il mantenimento della giurisdizione militare tutte le volte che il reato civile non è più grave di quello militare. I principi che regolano la giurisdizione militare nel caso di connessione di procedimenti sono stati da ultimo ricordati da due decisioni della Corte costituzionale. Nell’ordinanza n. 441 del 1998 la Corte ha chiarito che «l’art. 13, comma 2, c.p.p. – che opera una riduzione dei casi di connessione tra reati comuni e reati militari rispetto alla disciplina prevista dall’art. 49, terzo comma, c.p.p. del 1930 (poi superato dall’art. 8 l. 23 marzo 1956, n. 167, a sua volta sostitutivo dell’art. 264 c.p.m.p. mediante una disciplina che ha privilegiato la vis attractiva del giudice ordinario) – delinea una soluzione normativa non censurabile in quanto espressione di una scelta non irragionevole del legislatore, che si inserisce nell’impostazione di fondo del processo penale in favore della trattazione separata dei procedimenti». E successivamente, nell’ordinanza n. 204 del 2001, la Corte, dopo avere ricordato che i tribunali militari «si caratterizzano per la presenza, a fianco di giudici “togati”, di soggetti estranei alla magistratura idonei a fornire per il possesso di particolari requisiti culturali e professionali, un qualificato contributo alla comprensione delle vicende oggetto del giudizio», ha ribadito che «la disciplina in questione – in forza della quale, fra reati comuni e reati militari, la connessione di procedimenti opera entro circoscritti limiti (e cioè solo quando il reato comune è più grave di quello militare) con attribuzione della competenza per tutti i reati al giudice ordinario – si configura anch’essa come frutto di una scelta discrezionale del legislatore non eccedente i limiti della ragionevolezza, in quanto espressiva di un “bilanciamento” tra le esigenze proprie del giudizio sui reati militari e quelle cui risponde, in via generale, l’istituto della connessione».Deve quindi concludersi che l’orientamento espresso da Sez. I, 3 marzo 2005, Tria è privo di base normativa, dato che il legislatore con l’art. 13 comma 2, c.p.p. ha esercitato correttamente il proprio potere, e che non può farsi riferimento al terzo comma dell’art. 103 Cost. per ampliare la giurisdizione del giudice ordinario superando la previsione della norma processuale, tenuto anche conto dei limiti in cui il sistema processuale tende a privilegiare la riunione dei procedimenti e della particolare idoneità del giudice militare a conoscere dei reati militari. 5. Resta da stabilire se sia stato o meno abrogato l’art. 264 c.p.m.p.

    Dai lavori preparatori del codice emerge chiaramente l’intenzione del legislatore di abrogare tale disposizione e la convinzione di averne determinato l’abrogazione, a norma dell’art. 15 delle disposizioni sulla legge in generale, dal momento che con l’art. 13, comma 2, c.p.p. aveva provveduto a regolare l’intera materia. Sotto questo aspetto è significativa la vicenda dell’art. 210 delle norme di attuazione del codice di rito. Nel progetto preliminare l’articolo corrispondente conteneva un secondo comma che stabiliva: «E’ abrogato l’art. 264 del codice penale militare di pace» ma nel progetto definitivo il comma è stato soppresso «in quanto – si dice – l’articolo 13 del nuovo codice disciplina compiutamente la materia, determinando “ex se” l’abrogazione dell’articolo 264 c.p.m.p.». E che l’art. 13 sia diretto a disciplinare interamente la materia si desume chiaramente dal tenore della rubrica (“Connessione di procedimenti di competenza di giudici ordinari e speciali”), dalla collocazione della disposizione e dal contenuto dei suoi due commi, che fanno emergere una simmetria con l’art. 49 c.p.p. del 1930, sostituito, come si è visto, dall’art. 264 c.p.m.p. per la parte relativa alla connessione tra procedimenti di competenza del giudice militare e procedimenti di competenza del giudice ordinario. Nel progetto preliminare il secondo comma dell’art. 13 c.p.p. stabiliva che «Se alcuni dei procedimenti connessi appartengono alla competenza dei giudici ordinari e altri a quella dei tribunali militari, è competente per tutti il giudice ordinario». Era chiaro quindi che la disposizione disciplinava l’intera materia con una regola semplice: nei casi di connessione di procedimenti è competente per tutti il giudice ordinario. Poi – come si legge nella relazione al testo definitivo del codice – «è stata … apportata una modifica al comma 2, apparendo l’attrazione nella competenza dell’autorità giudiziaria dei reati militari connessi con un reato comune eccessivamente e irragionevolmente limitativa della giurisdizione militare», e «si è perciò ritenuto più opportuno prevedere l’operatività della connessione a favore dell’autorità giudiziaria ordinaria solo quando il reato appartenente alla sua cognizione sia più grave di quello militare».

    Così è venuta meno l’attribuzione al giudice ordinario di tutti i procedimenti connessi, ma ciò non significa che l’art. 13, comma 2, c.p.p. abbia cessato di regolare l’intera materia; significa solo che l’ha regolata in modo diverso sia dal progetto preliminare, sia dall’art. 264 c.p.m.p., limitando al massimo i casi in cui, per effetto della connessione, i procedimenti attribuiti al giudice militare vengono attratti nella sfera di giurisdizione del giudice ordinario. Il codice di rito costituisce la sede naturale per la disciplina della connessione tra procedimenti di competenza di giudici ordinari e di giudici speciali, e l’ha scandita nei due commi dell’art. 13 c.p.p., relativi il primo ai procedimenti di competenza della Corte costituzionale e il secondo a quelli di competenza del giudice militare. Perciò non è pensabile che rispetto al giudice militare il codice si sia limitato a introdurre una disposizione ulteriore, destinata a integrarsi con il preesistente art. 264 c.p.m.p. L’art. 13 c.p.p., come indica la rubrica, è diretto a disciplinare per intero la materia della «Connessione di procedimenti di competenza di giudici ordinari e speciali» e ha conseguentemente determinato l’abrogazione dell’art. 264 c.p.m.p., che in precedenza rispetto al giudice militare aveva la medesima funzione.

  2. Può dubitarsi che la soluzione adottata dal codice vigente sia la più opportuna, che cioè abbia individuato un caso di connessione dei procedimenti effettivamente meritevole più degli altri di una trattazione unitaria. Può opinarsi che maggiori siano le esigenze di trattazione unitaria quando il reato è commesso in concorso da persone militari con persone civili, ma la scelta del legislatore è chiara, così come è chiara l’implicazione abrogatrice dell’art. 264 c.p.m.p. E’ da aggiungere che la tesi dell’integrazione tra le due disposizioni che si sono succedute nel tempo appare insostenibile anche tecnicamente ove se ne considerino attentamente i contenuti normativi. Innanzi tutto non può non rilevarsi che tra i casi di connessione regolati dall’art. 264 c.p.m.p. non rientrano quelli del concorso formale e della continuazione tra reati militari e reati comuni, ai quali si riferisce l’art. 13, comma 2, c.p.p., in collegamento con l’art. 12, lett. b), c.p.p., sicché non può affermarsi, come ha fatto Sez. I, 20 gennaio 2005, Cimoli, che «l’art. 13 segna un limite all’operatività della disposizione dell’art. 264 c.p.m.p., nel senso che quest’ultima norma, che sancisce la prevalenza della giurisdizione ordinaria su quella militare, non si applica quando il reato più grave sia quello militare».Se i casi dell’art. 264 c.p.m.p. sono diversi da quelli dell’art. 13, comma 2, c.p.p. è insostenibile una ricostruzione del sistema che assegna alla seconda disposizione una funzione di limite della prima e se si va più a fondo nella considerazione del contenuto normativo dell’art. 264 c.p.m.p. ci si avvede che questa disposizione oltre che insuscettibile di integrazione nel senso prospettato risulta per alcuni aspetti incompatibile con il codice di rito vigente. L’art. 264 c.p.m.p. aveva, come naturale riferimento dell’epoca, l’art. 45 c.p.p. del 1930, che prevedeva casi di connessione non interamente coincidenti con quelli individuati dall’art. 12 del codice vigente e la sua applicazione comporterebbe l’attribuzione al giudice ordinario di procedimenti che secondo l’attuale normativa non potrebbero neppure considerarsi connessi, come quelli relativi a delitti commessi da più persone in danno reciprocamente le une delle altre o a delitti commessi per far conseguire o assicurare al colpevole o ad altri il profitto o il prezzo di precedenti delitti o l’impunità. In questi casi la conseguenza sarebbe assurda perché si verificherebbe uno spostamento della giurisdizione e una sottrazione del militare al suo giudice naturale in una situazione in cui poi davanti al giudice ordinario non potrebbero operare le regole sulla competenza per connessione o sull’attribuzione dei procedimenti connessi (art. 33 quater c.p.p.), con la possibilità di mantenere separato il procedimento la cui cognizione sarebbe spettata al giudice militare. In realtà le due normative non potrebbero integrarsi ma si sommerebbero, di modo che l’art. 264 c.p.m.p. opererebbe rispetto a casi di connessione non previsti dall’art. 13, comma 2, c.p.p., ai quali si aggiungerebbero i casi del concorso formale di reati e del reato continuato, quando «il reato comune è più grave di quello militare». Un assetto normativo, questo, insostenibile, con un risultato di ampliamento dell’area della giurisdizione militare opposto a quello perseguito dal legislatore, che ha voluto invece salvaguardarla attraverso la separazione dei procedimenti connessi in tutti i casi che non rientrano nella previsione dell’art. 13, comma 2, c.p.p. Il legislatore ha inteso privilegiare il giudice militare specializzato, anche per la particolare composizione collegiale che lo caratterizza, e ha fatto ciò riconoscendo una rilevanza limitata alla connessione, rilevanza che poi, nell’art. 14 c.p.p., per i procedimenti di competenza del tribunale per i minorenni, ha escluso del tutto, in conformità con i principi costituzionali di tutela dei minori.

    Si tratta di una soluzione che, come ha ricordato la Corte costituzionale nell’ordinanza n. 441 del 1998, ben «si inserisce nell’impostazione di fondo del processo penale in favore della trattazione separata dei procedimenti». Il regime di separazione infatti è previsto dall’art. 18 c.p.p. in numerosi casi ed inoltre è l’effetto assai frequente della scelta di un procedimento speciale (come il patteggiamento o il giudizio abbreviato) da parte di alcuni dei coimputati, con la conseguenza, quando ciò si verifica, che i procedimenti vengono definiti separatamente anche se riguardano lo stesso reato, commesso in concorso da più persone. Perciò non può apparire anomala la regola della separazione tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione militare adottata dal codice nel caso di concorso di civili nel reato militare.

  3. Inconclusione deve affermarsi il seguente principio: quando esiste connessione tra procedimenti di competenza del giudice ordinario e procedimenti di competenza del giudice militare, la giurisdizione spetta per tutti al giudice ordinario, a norma dell’art. 13, comma 2, c.p.p., soltanto se, trattandosi di procedimenti per reati diversi, il reato comune è più grave di quello militare, mentre in tutti gli altri casi rimangono separate le rispettive sfere di giurisdizione. Pertanto quando la connessione concerne procedimenti relativi allo stesso reato commesso da militari in concorso con civili il giudice militare mantiene integra nei confronti dei primi la propria giurisdizione. Ciò posto, il primo motivo, con il quale il ricorrente ha eccepito la mancanza di giurisdizione del giudice militare, risulta privo di fondamento
  4. E’ invece fondata la contestazione che il ricorrente, sotto vari profili, ha mosso alla configurazione giuridica data al fatto dai giudici di merito. Secondo l’accertamento dei giudici di merito il ricorrente aveva manipolato il risultato di due gare per la fornitura di mobili e ne aveva determinato l’aggiudicazione attraverso l’acquisizione di altre offerte compiacenti o addirittura false, meno vantaggiose per l’amministrazione. Per effetto di questi artifici l’amministrazione aveva pagato per i mobili un prezzo superiore al valore di mercato e la sentenza impugnata ha ritenuto che nella specie fossero ravvisabili gli elementi previsti dall’art. 215 c.p.m.p., cioè il possesso del denaro, data la «competenza funzionale del militare a disporre il pagamento», e l’appropriazione, «coincidente … con l’emanazione, da parte dell’imputato, di ognuno dei due atti dispositivi per somme “maggiorate” a favore della B.». Per inquadrare giuridicamente la vicenda occorre ricordare che in linea di principio, secondo la giurisprudenza di questa Corte, «la differenza tra il delitto di peculato e quello di truffa va ravvisata nel fatto che nel peculato il possesso è un antecedente della condotta e che gli artifici, i raggiri o la falsa documentazione non incidono sulla struttura del reato, ma servono per occultarlo; ricorre, viceversa, la truffa qualora la condotta fraudolenta sia predisposta al fine di consentire al soggetto agente di entrare in possesso della provvista, in vista della successiva condotta appropriativa» (Sez. VI, 4 giugno 1997, Finocchi, rv. 211009; in senso analogo ved. anche Sez. VI, 21 settembre 1988, Barone, rv. 179604; Sez. VI, 21 gennaio 1989, Acconcia, rv. 183173). Ciò considerato, il fatto nei termini in cui è stato accertato non poteva costituire il reato di peculato militare aggravato, oggetto della condanna (artt. 215 e 47 n. 2 c.p.m.p.), ma rientrava nello schema normativo della truffa militare aggravata (artt. 234 comma 2, n. 1 e 47 n. 2), perché l’atto dispositivo del pagamento e l’acquisizione della differenza tra il prezzo pagato e il valore della merce costituivano l’effetto degli artifici usati dal ricorrente per indurre in errore l’amministrazione militare e procurare all’impresa B. un ingiusto profitto Si tratta di un «fatto commesso in data non successiva al 28 dicembre 1995», per il quale sono state applicate l’attenuante dell’art. 48 comma 2 c.p.m.p. e le attenuanti generiche con valutazione di prevalenza, sicché, tenuto conto della pena prevista per la truffa militare. il reato risulta ampiamente prescritto. Di conseguenza deve pronunciarsi l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il reato è estinto per prescrizione.

PER QUESTI MOTIVI

La Corte di cassazione, qualificato il fatto come truffa aggravata (artt. 234, comma 2, n. 1 e 47, n. 2 c.p.m.p.) e tenuto conto delle già concesse attenuanti valutate prevalenti, annulla senza rinvio la sentenza impugnata per essere il reato estinto per prescrizione.

Così deciso in Roma il 25 ottobre 2005.

Depositata in cancelleria il 10 febbraio 2006.

 

Originally posted 2018-08-14 09:48:46.