Bancarotta fraudolenta, dolo, infedeltà patrimoniale, esimente dei vantaggi compensativi, benefici indiretti
TRIBUNALE BOLOGNA APPELLO BOLOGNA. TRIBUNALE RAVENNA. TRIBUNALE RIMINI, TRIBUNALE FORLI, TRIBUNALE MELANO, TRIBUNALE VENEZIA, APPELLO VENEZIA, TRIBUNALE PAVIA, TRIBUNALE VICENZA TRIBUNALE ROVIGO, TRIBUNALE TREVISO
Bancarotta fraudolenta, dolo, infedeltà patrimoniale, esimente dei vantaggi compensativi, benefici indiretti
Afferma la Suprema corte di cassazione che la portata esimente di tali vantaggi compensativi, espressamente prevista per il reato di infedeltà patrimoniale di cui all’art. 2634 c.c., pur se estesa nella sua operatività ai reati di bancarotta dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. 5, n. 49787 del 05/06/2013, Bellemans, Rv. 257562), presuppone, secondo gli stessi principi nell’occasione enunciati, non solo l’esistenza di un vantaggio complessivamente ricevuto dal gruppo a seguito delle operazioni, ma anche l’idoneità dello stesso a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi cagionati alla società fallita dalle operazioni, in modo che le stesse risultino non incidenti sulle ragioni dei creditori. Entrambe le condizioni sono, a ben vedere, espressione del particolare rigore che deve contraddistinguere le valutazioni sull’esistenza e la significatività di vantaggi compensativi in presenza dell’intervenuto fallimento della società; fallimento che inevitabilmente implica il pregiudizio per le posizioni creditorie. E’ in altre parole necessario, perchè possa essere esclusa la rilevanza penale del fatto, che le operazioni contestate abbiano prodotto benefici indiretti tali da renderle in concreto ininfluenti sulla creazione di tale pregiudizio (Sez. 5, n. 30333 del 12/01/2016, Falciola, Rv. 267883).
Questa Corte Suprema ha peraltro avuto modo di precisare come l’allegazione di un siffatto vantaggio non sia sufficiente ad escludere la natura distrattiva dell’operazione; essendo altresì necessaria la dimostrazione non solo del compimento dell’operazione in una logica di gruppo, ma anche dell’esistenza di una saldo finale positivo che renda l’operazione stessa soltanto temporaneamente svantaggiosa, e quindi in conclusione non depauperativa, per la società controllata (Sez. 5, n. 46689 del 30/06/2016, Coatti, Rv. 268675).
Sulla sussistenza dei fatti di bancarotta documentale, la sentenza impugnata era motivata in base alla mancanza di riscontri documentali che riferissero all’attività imprenditoriale le operazioni di giroconto e di compensazione annotate nella contabilità, ai versamenti di somme in conto capitale in misura inferiore agli importi degli aumenti deliberati, all’omessa registrazione di operazioni rilevanti effettuate nel 2003 e dell’erogazione delle somme in favore delle altre società ed all’eliminazione dei crediti nei confronti di queste ultime mediante un anomalo giroconto verso un’unica posizione creditoria riferita incomprensibilmente allo stabilimento di Asti.
Siffatta motivazione non incorre nel lamentato vizio di contraddittorietà intrinseca rispetto all’affermazione della regolare tenuta delle scritture ed all’avvenuta ricostruzione dei movimenti ritenuti distrattivi. Della regolarità della contabilità si dava invero atto per il solo aspetto formale, individuandosi la sussistenza del reato contestato nella difformità fra tali formali registrazioni ed effettivi movimenti finanziari; e, per altro verso, il reato contestato è ravvisabile non solo quando la ricostruzione contabile sia assolutamente impossibile, ma anche laddove la stessa sia ottenuta con accertamenti di particolare diligenza (Sez. 5, n. 45174 del 22/05/2015, Faragona, Rv. 265682; Sez. 5, n. 21588 del 19/04/2010, Suardi, Rv. 247965).
Neppure si espone, la sentenza impugnata, alla censura di contraddittorietà estrinseca dedotta dal ricorrente con riguardo alla circostanza per la quale il F. sarebbe stato estromesso dall’amministrazione della fallita allorchè si manifestavano le segnalate anomalie contabili. Tale circostanza, qui come per altre censure che saranno di seguito esaminate, è infatti oggetto di una mera deduzione di merito, non consentita in questa sede a fronte del coerente riferimento della Corte territoriale alla pregnante posizione gestionale assunta dal F. quale amministratore delegato della società dal 21 settembre 2001 e presidente del consiglio di amministrazione dal 27 marzo 2002 alla fine del 2003, e comunque irrilevante rispetto ai doveri di controllo derivanti da siffatta posizione.
Sull’elemento psicologico del reato di bancarotta documentale, posto che detto reato è in concreto contestato all’imputato nei termini non di una mera omissione nella tenuta della contabilità – nel qual caso sarebbe richiesto il dolo qualificato individuato dalla giurisprudenza di legittimità nella volontà di impedire la ricostruzione dei fatti gestionali e così occultare gli stessi al controllo dei creditori, con il conseguente pregiudizio per gli stessi (Sez. 5, n. 11115 del 22/01/2015, Di Cosimo, Rv. 262915; Sez. 5, n. 25432 del 11/04/2012, De Mitri, Rv. 252992; Sez. 5, n. 32173 del 11/06/2009, Drago, Rv. 244494) – ma dell’impossibilità di ricostruire i movimenti finanziari della fallita in conseguenza della mancata o anomala contabilizzazione di determinate operazioni, il relativo coefficiente soggettivo si atteggia nella forma del dolo generico, dato dalla consapevolezza che tali modalità di registrazione contabile possano produrre le descritte conseguenze in tema di irricostruibilità dell’andamento gestionale (Sez. 5, n. 48523 del 06/10/2011, Barbieri, Rv. 251709; Sez. 5, n. 21872 del 25/03/2010, Laudiero, Rv. 247444).
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l’amministratore di diritto risponde del reato di bancarotta fraudolenta documentale, atteso il diretto e personale obbligo dell’amministratore ufficiale di tenere e conservare le suddette scritture (Sez. 5, n. 19049 del 19/02/2010, Succi e altri, Rv. 247251), anche se è necessario che sia fornita dimostrazione dell’effettiva e concreta consapevolezza del loro stato, tale da impedire la ricostruzione del movimento degli affari (Sez. 5, n. 43977 del 14/07/2017, Pastechi e altro, Rv. 271754; Sez. 5, n. 642 del 30/10/2013, Dennajo, Rv. 257950). Nel caso di specie, al di là della motivazione specificamente e sinteticamente dedicata a questo aspetto dalla Corte di merito, dal complesso motivazionale della sentenza impugnata si evince – in termini di prova logica – che l’imputato era consapevole della condizione contabile della (OMISSIS). L’ampiezza delle mancanze documentali, da una parte, e la stessa singolarità della vita societaria siccome destinata ad un’attività di impresa caratterizzata da forti anomalie, dall’altra, lasciavano infatti ritenere che il soggetto incaricato della gestione fosse a conoscenza della situazione; nè le sentenze di merito o la stessa impostazione del ricorrente – del tutto assertiva sul punto – depongono nel senso di classificare la figura dell’imputato, a dispetto della qualifica formalmente rivestita, come quella di una mera testa di legno, a prescindere dal contributo e dall’influenza, nelle scelte di impresa, di Pi.At.. A quest’ultimo riguardo, quand’anche la Corte territoriale avesse errato nell’indicazione del rapporto di parentela che legava quest’ultimo al ricorrente, ciò non avrebbe alcun riverbero sulla sentenza impugnata, non caratterizzandosi quale elemento decisivo. Giova, a quest’ultimo proposito, rievocare il principio di diritto secondo cui, quando viene dedotto vizio di motivazione, la presenza di minime incongruenze argomentative, che non siano inequivocabilmente munite di un chiaro carattere di decisività, non può dar luogo all’annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto, ma è solo l’esame del complesso probatorio entro il quale ogni elemento sia contestualizzato che consente di verificare la consistenza e la decisività degli elementi medesimi oppure la loro ininfluenza ai fini della compattezza logica dell’impianto argomentativo della motivazione (Sez. 1, n. 46566 del 21/02/2017, M e altri, Rv. 271227; Sez. 2, n. 9242 del 8/02/2013, Reggio, Rv. 254988). 2.3. Quanto al terzo motivo di ricorso si richiamano le stesse argomentazioni svolte in ordine al terzo motivo di ricorso della coimputata, essendo le doglianze del tutto sovrapponibili (cfr. supra p. 1.3.). 3. Sia per Cl. che per Pi.Pa., va precisato che l’inammissibilità dei ricorsi principali comporta, ai sensi dell’art. 585 c.p.p., comma 4, secondo periodo, l’inammissibilità derivata dei motivi aggiunti. 4. Il ricorso di P.G. è, nel suo complesso, infondato e va pertanto respinto. 4.1. Il primo ed il secondo motivo di ricorso – entrambi concernenti il propugnato bis in idem con il reato di cui alla sentenza della sezione distaccata di Foligno del Tribunale di Perugia del 20 aprile 2011 – è infondato e a tale conclusione può giungersi a prescindere dalla motivazione resa sul punto dalla Corte territoriale, trattandosi di questione processuale che impone una verifica diretta da parte di questa Corte e che va risolta indipendentemente dalla giustificazione resa rispetto alla corrispondente censura dal Giudice di merito. Il ricorrente sostiene, in particolare, che la circostanza di essere già stato processato per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 – processo conclusosi con l’assoluzione perchè il fatto non sussiste – renderebbe improcedibile ex art. 649 c.p.p. la contestazione odierna, di bancarotta fraudolenta documentale per sottrazione, trattandosi dello stesso fatto. 4.1.1. Per inquadrare la doglianza, occorre ricordare che un’importante chiave di lettura della disposizione in argomento si deve alla sentenza della Corte Costituzionale n. 200 del 2016, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 649 c.p.p. per contrasto con l’art. 117 Cost., comma 1, in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU (secondo cui “Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato”). In particolare, la disposizione del nostro codice di rito è stata reputata incostituzionale nella parte in cui, secondo il diritto vivente, escludeva che il fatto fosse il medesimo per la sola circostanza che sussistesse un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza irrevocabile e il reato per cui era iniziato il nuovo procedimento penale. Nel circoscrivere il giudizio di incostituzionalità rispetto a quanto opinato dal Giudice rimettente, la pronunzia della Consulta ha indicato all’interprete quale debba essere il percorso di verifica dell’identità del “fatto” che può condurre alla sentenza di improcedibilità ex art. 649 c.p.p. A questo riguardo, la Corte Costituzionale ha sostenuto che il fatto storico-naturalistico che rileva, ai fini del divieto di bis in idem da leggersi in chiave convenzionale, è “l’accadimento materiale, certamente affrancato dal giogo dell’inquadramento giuridico, ma pur sempre frutto di un’addizione di elementi la cui selezione è condotta secondo criteri normativi”; criteri normativi – opina il Giudice delle leggi – che ricomprendono non solo l’azione o l’omissione, ma anche l’oggetto fisico su cui cade il gesto ovvero l’evento naturalistico che ne è conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta dal comportamento dell’agente, secondo una dimensione empirica, così come accertata nel primo giudizio. Tale concetto – ha ricordato la Consulta – non è estraneo all’esegesi della Corte di cassazione sull’art. 649 codice di rito (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, Donati, Rv. 231799), laddove si sono valorizzati, quali indicatori delle medesimezza del fatto richiesta dal legislatore, tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale). In altri termini, la verifica circa il bis in idem, pur dovendo attingere il fatto materiale e non già la fattispecie astratta, impone di riguardarlo comunque individuando, nel comportamento sub iudice, gli elementi di sovrapponibilità fattuale rispetto alla struttura della fattispecie come prevista dal legislatore. Come ha scritto la Corte Costituzionale, il fatto va apprezzato “secondo l’accezione che gli conferisce l’ordinamento”, ma, a smentire la possibile riemersione dell’idem legale, “ad avere carattere giuridico è la sola indicazione dei segmenti dell’accadimento naturalistico che l’interprete è tenuto a prendere in considerazione per valutare la medesimezza del fatto” (in termini e per un’ampia ricostruzione del tema, cfr. Sez. 5, n. 11049 del 13/11/2017, dep. 2018, Ghelli, Rv. 272839, in motivazione, nonchè Sez. 4, n. 12175 del 03/11/2016, dep. 2017, Bordogna e altri, Rv. 270387). E’ bene chiarire – per sgomberare il campo da talune ambiguità interpretative sul tema in discorso che ancora oggi si rilevano – che la soluzione del quesito circa la possibilità di concorso formale tra i due reati – il reato fallimentare e quello tributario – non ha implicazioni, in un senso o in un altro, sulla soluzione della quaestio iuris posta dal ricorrente. La Consulta, infatti, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p., ha escluso che la possibilità astratta che due fattispecie, commesse con un’unica azione od omissione, concorrano tra loro nel caso in cui vengano giudicate insieme consenta di prescindere, quando si tratti di raffrontare situazioni oggetto di diversi processi – l’uno già conclusosi, l’altro in corso di svolgimento – dalla verifica circa la medesimezza del fatto nella chiave sopra evidenziata e di processare comunque nuovamente l’imputato già condannato per il primo reato (ripudiando così il diritto vivente fino ad allora emerso dalla giurisprudenza di questa Corte). A questo proposito, la Corte Costituzionale ha però anche escluso che vi siano implicazioni a contrario, nel senso che, ogni qualvolta possa ipotizzarsi in astratto un concorso formale tra due reati, automaticamente vi sia medesimezza del fatto e debba operare, pertanto, il divieto di bis in idem. Ciò, d’altra parte, è la logica conseguenza della diversità di piani su cui si collocano le valutazioni a farsi in punto di concorso formale e di idem factum, dal momento che lo Stato può ben scegliere di far confluire sulla medesima condotta due fattispecie penali senza che si violi la garanzia individuale del divieto di bis in idem, “che si sviluppa invece con assolutezza in una dimensione esclusivamente processuale, e preclude non il simultaneus processus per distinti reati commessi con il medesimo fatto, ma una seconda iniziativa penale, laddove tale fatto sia già stato oggetto di una pronuncia di carattere definitivo” (così la Consulta). Sostiene, ancora, la Corte Costituzionale che “In definitiva l’esistenza o no di un concorso formale tra i reati oggetto della res iudicata e della res iudicanda è un fattore ininfluente ai fini dell’applicazione dell’art. 649 c.p.p., una volta che questa disposizione sia stata ricondotta a conformità costituzionale, e l’ininfluenza gioca in entrambe le direzioni, perchè è permesso, ma non è prescritto al giudice di escludere la medesimezza del fatto, ove i reati siano stati eseguiti in concorso formale. Ai fini della decisione sull’applicabilità del divieto di bis in idem rileva infatti solo il giudizio sul fatto storico”. In definitiva, quindi, per verificare se vi sia bis in idem, il raffronto deve essere tra la prima contestazione, per come si è sviluppata nel processo, e il fatto posto a base della nuova iniziativa del pubblico ministero, secondo una prospettiva concreta e non legata alla struttura delle fattispecie ma pur sempre inquadrando gli accadimenti storici secondo la “griglia” normativa condotta-nesso causale-evento; nell’effettuare detta operazione, si deve tuttavia prescindere dalla risoluzione dell’ulteriore interrogativo – estraneo al tema del bis in idem processuale in chiave convenzionale – se tra i due reati possa esservi concorso formale e, quindi, prescindere dai vari criteri interpretativi su questo distinto tema. 4.1.2. Fatta questa premessa e riguardando le fattispecie concrete poste al vaglio di questo Collegio, va osservato che vi sono due momenti di distinguo tra le condotte contestate nell’uno e nell’altro processo, che impediscono di ritenere la sovrapponibilità predicata dal ricorrente. Con due precisazioni. La prima è che, dato lo scarno tessuto motivazionale della sentenza del Tribunale di Perugia, si potrà ragionare prevalentemente se non esclusivamente su quanto si legge nel capo di imputazione, fermo restando che l’impugnante non ha fornito altri elementi per meglio precisare la condotta oggetto di accertamento in quel processo. La seconda è che non rileva, ad escludere il bis in idem, che la sovrapposizione possa riguardare solo la bancarotta fraudolenta documentale per sottrazione e non quella generale di cui alla L.Fall., art. 216, comma 1, n. 2), seconda parte, dal momento che a P. – come già sopra ricordato – è effettivamente contestata solo la prima tipologia di condotta. Ebbene, venendo alle ragioni che conducono ad escludere l’improcedibilità, in primo luogo, si osserva che non vi è una completa sovrapposizione tra le condotte oggetto dei due procedimenti, in quanto, nel processo in corso, si contesta la sottrazione di tutte le scritture fino alla data del fallimento, dichiarato il 23 luglio 2009, mentre, nel processo per il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ci si riferiva ai fatti anteriori al (OMISSIS), data dell’accertamento della Guardia di Finanza. Ne consegue che le due condotte non coincidono quanto all’oggetto del reato che, nella vicenda oggi sub iudice, concerne una più ampia piattaforma documentale, comprensiva anche delle scritture tenute dal (OMISSIS) al 23 luglio 2009, egualmente non fornite da P. alla curatela fallimentare. Ciò segna una differenza tra le due condotte, che costituisce un primo ostacolo all’invocata improcedibilità. Il secondo momento di differenziazione concerne la natura delle scritture che, nel caso del reato fallimentare, sono tutte quelle obbligatorie e quelle facoltative richieste dalle dimensioni dell’impresa, come sancito dall’art. 2214 c.c., commi 1 e 2, mentre, quanto al reato tributario, sono costituite solo da quelle obbligatorie ai fini fiscali. In questo senso, l’esame della censura risente particolarmente del difetto di allegazione del ricorrente, sicchè, in mancanza di qualsivoglia specificazione circa le scritture di cui concretamente si contestava la sottrazione nel processo di Foligno, non ci si può che limitare alla lettura della contestazione elevata dal pubblico ministero e riportata nell’epigrafe della sentenza allegata al ricorso (in cui si parla di “documenti contabili e fiscali di cui era obbligatoria la conservazione”), riguardandola alla luce dell’esegesi giurisprudenziale sul punto. Secondo Sez. 5 n. 32367 del 2016 (che ha concluso negativamente circa l’esistenza di un bis in idem, in una situazione analoga a quella odierna), il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 indica quale oggetto della condotta le “scritture contabili” o i “documenti di cui è obbligatoria la conservazione” ai fini fiscali, che comprendono non solo quelle formalmente istituite in ossequio a specifico dettato normativo, ma anche quelle obbligatorie in relazione alla natura ed alle dimensioni dell’impresa (es. libro cassa, scritture di magazzino, scadenzario et similia), nonchè la corrispondenza posta in essere nel corso dei singoli affari, il cui obbligo di conservazione deve farsi risalire al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 22, comma 3 (Sez. 3, n. 1377 del 01/12/2011). La bancarotta fraudolenta documentale ha ad oggetto, invece, i libri previsti obbligatoriamente dall’art. 2214 c.c. (in primis libro giornale e libro degli inventari), nonchè le scritture contabili richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa – indipendentemente dall’obbligo di conservazione fiscale – che consentano, tuttavia, la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari (negli stessi sensi, quanto alla differente base documentale, Sez. 5, n. 35591 del 20/06/2017, Fagioli e altro, Rv. 270811; Sez. 5, n. 16360 del 01/03/2011, Romele, Rv. 250175). 4.2. Il ricorso è manifestamente infondato quando affronta la questione della effettiva disponibilità della documentazione in capo a P., giacchè la Corte di merito, a pag. 10, afferma che l’indicazione della consegna delle scritture nell’atto notarile, il mancato reclamo delle stesse per diversi anni da parte di P., la mancata indicazione del commercialista dove le medesime erano state tenute, significano che il ricorrente ne ebbe la disponibilità. Peraltro, la circostanza stessa che egli riferì al curatore che esse erano detenute da un commercialista e non già che non gli erano state consegnate all’atto dell’immissione nella carica, smentisce la tesi che oggi il ricorrente pare voler propugnare. Si tratta di un ordito argomentativo privo di falle logiche che le censure del ricorrente non sono idonee a mettere in discussione. Quanto al coefficiente soggettivo, il passaggio della motivazione che riguarda questo aspetto non può essere messo in discussione in quanto non censurato nei motivi di appello. Ne consegue l’inammissibilità del ricorso perchè non possono essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunciare siccome non devolute con la dovuta specificità alla sua cognizione, tranne che si tratti di questioni rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del giudizio o che non sarebbe stato possibile dedurre in precedenza (cfr. l’art. 606 c.p.p., comma 3, quanto alla violazione di legge; si vedano, con specifico riferimento al vizio di motivazione, Sez. 2, n. 29707 del 08/03/2017, Galdi, Rv. 270316; Sez. 2, n. 13826 del 17/02/2017, Bolognese, Rv. 269745; Sez. 2, n. 22362 del 19/04/2013, Di Domenica). 5. All’inammissibilità dei ricorsi di Cl. e Pi.Pa. consegue la condanna di ciascuno di essi, ai sensi dell’art. 616 c.p.p. (come modificato ex L. 23 giugno 2017, n. 103), al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende, così equitativamente determinata in relazione ai motivi di ricorso che inducono a ritenere i proponenti in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. 13/6/2000 n. 186). Al rigetto del ricorso di P.G. segue la condanna del medesimo al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. dichiara inammissibili i ricorsi di Pi.Pa. e Pi.Cl., che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Rigetta il ricorso di P.G. che condanna al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 10 gennaio 2022. Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2022
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Sentenza 2 marzo 2022, n. 7557 Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. BRUNO Paolo Antonio – Presidente – Dott. CATENA Rossella – Consigliere – Dott. SCARLINI Enrico V. S. – Consigliere – Dott. BORRELLI Paola – rel. Consigliere – Dott. CARUSILLO Elena – Consigliere – ha pronunciato la seguente: SENTENZA sui ricorsi proposti da: P.G.L., nato a (OMISSIS); PI.CL., nata a (OMISSIS); PI.PA., nato a (OMISSIS); avverso la sentenza del 08/06/2020 della CORTE APPELLO di PERUGIA; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. PAOLA BORRELLI; udite le conclusioni del Procuratore generale Dott. ODELLO LUCIA, che ha chiesto dichiararsi inammissibili i ricorsi. Svolgimento del processo 1. La decisione impugnata è stata pronunziata l’8 giugno 2020 dalla Corte di appello di Perugia, che ha riformato parzialmente la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva condannato P.G., Pi.Cl. e Pi.Pa. per bancarotta fraudolenta documentale in relazione alla (OMISSIS) s.r.l., dichiarata fallita dal Tribunale di Perugia il 23 luglio 2009. La riforma in appello è consistita nella rimodulazione in mitius della durata delle pene accessorie di cui alla L.Fall., art. 216, u.c. a seguito della sentenza n. 222 del 2018 della Corte costituzionale e nell’applicazione, al P. e a Pi.Pa., della pena accessoria dell’interdizione dai Pubblici Uffici per anni cinque, omessa dal Collegio di prime cure. I tre imputati sono stati chiamati a rispondere del reato quali amministratori della (OMISSIS) s.r.l. succedutisi nella carica e la condotta contestata è composita, nel senso che, per gli anni antecedenti all’immissione nella carica di P., Cl. e Pi.Pa. sono stati riconosciuti responsabili per aver tenuto le scritture in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari, mentre, a P., è stata addebitata la successiva sottrazione delle scritture. 2. Contro la sentenza di cui sopra hanno proposto ricorso per cassazione tutti gli imputati. 3. Il ricorso presentato nell’interesse di Pi.Cl. si compone di tre motivi. 3.1. Il primo motivo di ricorso lamenta violazione di legge quanto all’elemento materiale del reato. Ricorda l’impugnativa che la ricorrente ha rivestito la carica amministrativa solo dal (OMISSIS) al (OMISSIS), mentre il reato contestato, ove sussistente, non può che essersi concretizzato fra il (OMISSIS) ed il 23 luglio 2009, quanto amministratori erano U.A. e P.G.. Il reato di bancarotta in discorso non può essere addebitato all’amministratore quando esso si è consumato successivamente alla dismissione della carica, altrimenti si tratterebbe di responsabilità oggettiva. 3.2. Il secondo motivo di ricorso deduce vizio di motivazione perchè la Corte territoriale avrebbe trascurato – tacendo del tutto sul punto – quanto dichiarato dal curatore, vale a dire che, nel biennio (OMISSIS), non si era consumato alcun reato, nè si erano create le premesse per quelli successivamente commessi. 3.3. Il terzo motivo di ricorso lamenta difetto di motivazione quanto al tema della consegna della documentazione contabile. In particolare – lamenta la ricorrente – la Corte di merito ha trascurato che, il (OMISSIS), contestualmente alla cessione delle quote (come risulta dal relativo atto notarile), era stata consegnata a P. tutta la documentazione della società, circostanza confermata da quest’ultimo al curatore, aggiungendo che l’incarto era conservato presso un commercialista di (OMISSIS); nè mai P. aveva lamentato la mancata consegna della documentazione societaria. 4. Il ricorso presentato nell’interesse di Pi.Pa. è anch’esso composto da tre motivi. 4.1. Il primo motivo di ricorso lamenta vizio di motivazione perchè la Corte distrettuale non avrebbe passato in rassegna quanto dichiarato dal curatore, secondo cui i reati fallimentari che avrebbero condotto alla dichiarazione di fallimento erano stati commessi negli anni immediatamente precedenti il (OMISSIS), periodo in cui amministratore era stata U.A.. 4.2. Il secondo motivo di ricorso lamenta difetto di motivazione quanto al coefficiente soggettivo, riconosciuto in capo al ricorrente ancorchè la stessa sentenza impugnata avesse ritenuto Pi.At. il vero dominus delle operazioni. La Corte territoriale, in altri termini, ha riconosciuto la responsabilità del prevenuto solo per il rapporto di parentela con il predetto Pi.At., rapporto peraltro equivocato perchè quest’ultimo non è il padre del ricorrente, ma lo zio. La sentenza impugnata sarebbe censurabile perchè ha attribuito al prevenuto una responsabilità da posizione, mentre la gestione della società era da ricondurre esclusivamente ad Pi.At., essendo Pi.Pa. un giovane di ventitre anni incapace di rendersi conto delle anomalie della vita societaria. Sul coinvolgimento di Pi.At. la Corte di merito avrebbe trascurato le dichiarazioni di Pe.Si., che aveva affermato che mise in contatto Pi.At. e P.G. al fine di perfezionare la cessione delle quote nell'(OMISSIS). Tra l’altro la Corte di appello avrebbe anche del tutto omesso di considerare che i reati fallimentari per cui è processo risultano commessi in epoca successiva a quella in cui Pi.Pa. rivestì la carica di amministratore. 4.3. Il terzo motivo di ricorso deduce vizio di motivazione e ripropone le stesse censure del terzo motivo del ricorso di Pi.Cl., alla cui illustrazione si rinvia. 5. Il ricorso presentato nell’interesse di P.G. è affidato a tre motivi. 5.1. Il primo motivo di ricorso lamenta violazione di legge e agita il tema del bis in idem tra la bancarotta fraudolenta documentale per cui si procede ed il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10. In primo luogo, il ricorrente sostiene la deducibilità della questione anche in sede di legittimità laddove – come sarebbe in questo caso – non sono necessari accertamenti in fatto, se non l’esame della sentenza per il reato ex art. 10 cit., allegata al ricorso. Quanto alle argomentazioni adoperate dalla Corte territoriale per smentire il motivo di appello sul bis in idem, la difformità evidenziata circa il diverso ambito temporale dei due reati non sarebbe tale, considerato che la dichiarazione di fallimento – che sposta la data del commesso reato al 23 luglio 2009 -costituisce solo una condizione obiettiva di punibilità, mentre i fatti-reato erano emersi in esito a due verifiche fiscali della Guardia di Finanza che la Corte di appello colloca negli anni (OMISSIS). Prosegue il ricorrente assumendo che il fatto storico alla base dei due addebiti è lo stesso, giacchè l’occultamento o la distruzione dei libri e delle scritture contabili – con l’intento e l’effetto di rendere maggiormente difficoltosa la ricostruzione del patrimonio, dei redditi e del volume degli affari – rende le fattispecie esattamente sovrapponibili tra loro. La sentenza di primo grado, cui quella di appello ha prestato adesione, si era rifatta ad alcune pronunzie, trascurando la più recente giurisprudenza, secondo cui il problema del bis in idem può porsi quanto alla bancarotta documentale. 5.2. Il secondo motivo di ricorso lamenta mancanza, manifesta illogicità o contraddittorietà della motivazione in punto di bis in idem. 5.3. Il terzo motivo di ricorso denunzia vizio di motivazione e violazione di legge: la sentenza impugnata non avrebbe fatto luce su alcune questioni affrontate nell’atto di appello: – il libro giornale era stato acquisito dalla Guardia di Finanza nel (OMISSIS), sicchè l’imputato non poteva considerarsi colpevole della sua sparizione; – il registro dei beni ammortizzabili e il registro cronologico di carico e scarico degli animali non erano stati nè rinvenuti nè esibiti e, quindi sono stati ritenuti non istituiti, donde, anche in questo caso, P. non poteva considerarsi responsabile della loro sparizione; – i reati finanziari commessi dagli imputati sono stati commessi tra il (OMISSIS) ed il (OMISSIS), quindi ben prima che P. assumesse la carica di amministratore; – l’atto notarile fa riferimento solo alle scritture contabili e non ai libri ed ai registri; – la Corte territoriale ha omesso di considerare la testimonianza del teste Pe., che aveva negato di aver visto consegnare alcunchè a P. in occasione dell’atto notarile. Contesta, poi, il ricorrente che la Corte territoriale abbia espressamente adoperato un metodo di valutazione complessivo e non frazionato e predica la necessità di accertare se, dopo che i coimputati avevano tenuto la contabilità in maniera irregolare, P. l’avesse distrutta o sottratta. Anche sotto il profilo soggettivo, la motivazione omnibus sarebbe viziata per assoluta assenza di prova che la condotta del ricorrente andava ad inserirsi in una serie causale relativa agli anni precedenti ed in ordine alla quale non aveva apportato alcun contributo. 6. Con motivi nuovi, la difesa di Patrizio Pi. ha dedotto quanto segue. 6.1. Ricollegandosi al primo motivo di ricorso, il ricorrente ribadisce che la Corte di appello non ha tenuto conto delle dichiarazioni del curatore fallimentare rese nel corso del dibattimento di primo grado, secondo cui i reati fallimentari che avrebbero condotto alla dichiarazione di fallimento erano stati commessi negli anni immediatamente precedenti al (OMISSIS), data che segna la cessione delle quote in favore di P. e fino alla quale la carica di amministratore unico era stata rivestita da U.A.. Secondo il ricorrente, tali circostanze segnerebbero la sua estraneità rispetto al fatto sub iudice alla luce della giurisprudenza più recente, che ha chiarito che la responsabilità dell’amministratore per bancarotta fraudolenta “può essere affermata solo quando risulti dimostrata la collocazione cronologica degli atti di distrazione nel corso della sua gestione oppure l’esistenza di un accordo con l’amministratore subentrato per il compimento di tali atti” (Cass. pen., sez. V, sent. n. 23679/2021); quanto alla bancarotta fraudolenta documentale, l’amministratore non può, in ragione della qualifica ricoperta in un periodo precedente, rispondere anche della tenuta della contabilità in quello successivo alla dimissione della carica” (Cass. Pen. Sez. V, sent. n. 15988/2019). 6.2. Relativamente al secondo motivo di ricorso, posto che i reati fallimentari oggetto del presente processo risultano commessi in un periodo successivo rispetto a quello in cui Pi.Pa. rivestiva la carica di amministratore della (OMISSIS) s.r.l., il ricorso sostiene che quest’ultima carica era solo formale, mentre l’amministratore di fatto della (OMISSIS) s.r.l. era Pi.At.. Il rapporto di mera parentela non può da solo costituire la prova della sussistenza dell’elemento psicologico del reato. La prova effettiva dell’estraneità dai fatti di Pi.Pa. è data dalle dichiarazioni di Pe.Si., che affermò di aver messo in contatto Pi.At. – e non Pa. – e P. al fine di perfezionare la cessione delle quote societarie nell'(OMISSIS). 6.3. Quanto al terzo motivo di ricorso, il ricorrente ritiene che la propria responsabilità sia fondata sul fatto di non aver consegnato al curatore fallimentare la contabilità relativa al periodo in cui rivestiva la carica di amministratore unico della società. Di contro, dall’atto notarile e dalle stesse dichiarazioni rese da P. al curatore, risultava che tutta la documentazione era stata ceduta da U.A. a P., che non aveva mai lamentato la mancata consegna. 7. Anche nell’interesse di Pi.Cl. sono stati depositati motivi nuovi. 7.1. Il primo motivo nuovo si ricollega al corrispondente del ricorso principale ed invoca il principio secondo cui all’amministratore possono essere addebitate solo le condotte poste in essere nel periodo in cui rivestiva la carica. Per il resto, la doglianza riproduce quella del ricorso principale. 7.2. Il secondo motivo di ricorso ritorna sulle dichiarazioni del curatore, che aveva escluso la commissione di qualsiasi reato nel periodo di carica dell’imputata. 7.3. Il terzo motivo di ricorso ribadisce che la documentazione concernente la società era stata consegnata a P. e che, pertanto, nulla poteva essere addebitato alla Pi.. 8. Gli Avvocati Guido Bacino e Marco Brusco, nell’interesse, rispettivamente, di P. e dei Pi., hanno presentato telematicamente memorie e conclusioni scritte, con le quali, ribadendo o richiamando le proprie argomentazioni, hanno insistito per l’accoglimento dei ricorsi. Motivi della decisione 1. Il ricorso presentato nell’interesse di Pi.Cl. è inammissibile. 1.1. Il primo motivo di ricorso – che contesta la decisione della Corte territoriale sub specie dell’addebitabilità del fatto all’imputata – è inammissibile dal momento che il ricorso omette di confrontarsi con il dato riportato all’ottava pagina della sentenza impugnata, dove si legge che gli accertamenti della Guardia di Finanza del (OMISSIS) e del (OMISSIS) avevano consentito di verificare la situazione delle scritture a quella data e di far venire alla luce anomalie contabili riferibili anche al periodo in cui la carica amministrativa era stata rivestita dalla Pi., vale a dire dalla costituzione della società fino al (OMISSIS). La Corte di appello, infatti, per quanto di interesse in ordine alla posizione di Pi.Cl., ha rimarcato che il registro delle fatture attive riportava l’ultima annotazione al 31 marzo 1999, il libro giornale e il libro dei beni ammortizzabili non erano stati scritturati, il libro degli inventari riportava quale ultima operazione scritturata il 31 dicembre 1998, mentre il registro dei verbali delle assemblee, quello dei verbali del consiglio di amministrazione, il libro soci e il registro di carico e scarico animali erano scritturati fino al 21 settembre 1998. Si tratta di dati accertati dalla Guardia di Finanza che – a dispetto di quanto asserito nel ricorso – non hanno fotografato la sola situazione del (OMISSIS) e del (OMISSIS), ma anche quella determinatasi nel corso degli anni, quando era stata amministratrice Pi.Cl., donde tutte le osservazioni del suo ricorso che attengono alla sua estraneità non fanno i conti con queste circostanze. Peraltro la Corte di appello segnala che, fin dalla data di costituzione della società, erano emerse operazioni con società cartiere, tra cui la Agroinvest – altra società riferibile alla galassia Pi. – ed altre cartiere nel (OMISSIS) e vi era un anomalo volume di vendite al (OMISSIS), il che costituisce un utile indicatore per ravvisare la logica alla base delle anomalie documentali verificatesi. A colorare la volontà mistificatoria della condotta degli imputati tutti vi è poi la circostanza, evidenziata dal curatore e valorizzata dalla Corte territoriale, secondo cui la società non aveva mai operato realmente, tanto che, a riprova della mancanza di una regolare attività di impresa, l’unico creditore è stato Equitalia Umbra per 33 milioni di Euro. Tanto precisato e tenuto conto della genericità estrinseca che caratterizza il ricorso rispetto all’anzidetto ordito argomentativo, l’impugnativa deve essere dichiarata inammissibile, giacchè si scontra con gli insegnamenti della Corte, ribaditi da Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Galtelli, Rv. 268823, secondo cui i motivi di ricorso per cassazione sono inammissibili non solo quando risultino intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato. 1.2. Quanto al vizio di motivazione predicato nel secondo motivo di ricorso, quest’ultimo è generico quando fa riferimento alle dichiarazioni del curatore che sarebbero state pretermesse; ad ogni buon conto, la Corte di appello non ha taciuto nulla di quanto affermato dal curatore, mentre la ricorrente, dal canto suo, ha trascurato quanto pure si legge nella sentenza impugnata come ricavabile dalle informazioni rinvenienti dal personale della Guardia di Finanza, a proposito sia delle anomalie contabili che dei rapporti della (OMISSIS) con le società cartiere dalla costituzione fino al (OMISSIS). 1.3. Il terzo motivo di ricorso – che coltiva il tema della consegna della documentazione contabile a P. – è inammissibile in quanto non coglie la ratio decidendi della pronunzia avversata, dal momento che alla Pi. non è contestato di non avere tenuto la contabilità, ma di averla tenuta in guisa da non consentire la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari nel periodo in cui era amministratrice della (OMISSIS) s.r.l., come testimoniato dagli accertamenti della Guardia di Finanza riportati a pag. 8 (cfr. p. 1.1., sub motivo primo). Ne consegue che la consegna della contabilità a P. – tema su cui ella insiste – non la esonererebbe da responsabilità, dal momento che attiene ad una fase successiva a quella in cui la ricorrente e gli altri amministratori avevano – malamente, secondo quanto ricostruito dai Giudici di merito – curato la tenuta delle scritture contabili della società. 2. Anche il ricorso di Pi.Pa. è inammissibile. 2.1. Il primo motivo di ricorso – che agita l’argomento dell’estraneità dell’imputato ai fatti sub iudice – è inammissibile giacchè si registra una mancanza di confronto con quanto si legge a pag. 8 a proposito della situazione delle scritture e del rapporto con società cartiere, di cui si è detto anche a proposito del primo motivo di ricorso di Pi.Cl. (cfr. supra, p. 1.1.). Peraltro la Corte di appello ha precisato che il curatore non aveva mai sostenuto che l’omessa o irregolare tenuta delle scritture contabili si riferisse al solo periodo (OMISSIS)/(OMISSIS), quanto piuttosto che, in quest’ultimo lasso di tempo, vi fossero state violazioni in materia di IVA. Piuttosto, la Corte di appello ha rimarcato che la Guardia di Finanza aveva chiarito che le omissioni contabili avevano riguardato anche il periodo in cui Pi.Pa. era stato amministratore. 2.2. Il ricorso è manifestamente infondato e parzialmente aspecifico per quanto concerne la posizione di Pi.Pa. rispetto ad At.. Ciò che rileva è, infatti, che Patrizio Pi. fosse amministratore al momento dei brogli contabili e dei rapporti con le società cartiere, situazioni anomale che pervadevano profondamente la realtà societaria, tanto da metterne in discussione la concreta operatività, creando così una situazione che il ricorrente non poteva ignorare, quale amministratore. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, l’amministratore di diritto risponde del reato di bancarotta fraudolenta documentale, atteso il diretto e personale obbligo dell’amministratore ufficiale di tenere e conservare le suddette scritture (Sez. 5, n. 19049 del 19/02/2010, Succi e altri, Rv. 247251), anche se è necessario che sia fornita dimostrazione dell’effettiva e concreta consapevolezza del loro stato, tale da impedire la ricostruzione del movimento degli affari (Sez. 5, n. 43977 del 14/07/2017, Pastechi e altro, Rv. 271754; Sez. 5, n. 642 del 30/10/2013, Dennajo, Rv. 257950). Nel caso di specie, al di là della motivazione specificamente e sinteticamente dedicata a questo aspetto dalla Corte di merito, dal complesso motivazionale della sentenza impugnata si evince – in termini di prova logica – che l’imputato era consapevole della condizione contabile della (OMISSIS). L’ampiezza delle mancanze documentali, da una parte, e la stessa singolarità della vita societaria siccome destinata ad un’attività di impresa caratterizzata da forti anomalie, dall’altra, lasciavano infatti ritenere che il soggetto incaricato della gestione fosse a conoscenza della situazione; nè le sentenze di merito o la stessa impostazione del ricorrente – del tutto assertiva sul punto – depongono nel senso di classificare la figura dell’imputato, a dispetto della qualifica formalmente rivestita, come quella di una mera testa di legno, a prescindere dal contributo e dall’influenza, nelle scelte di impresa, di Pi.At.. A quest’ultimo riguardo, quand’anche la Corte territoriale avesse errato nell’indicazione del rapporto di parentela che legava quest’ultimo al ricorrente, ciò non avrebbe alcun riverbero sulla sentenza impugnata, non caratterizzandosi quale elemento decisivo. Giova, a quest’ultimo proposito, rievocare il principio di diritto secondo cui, quando viene dedotto vizio di motivazione, la presenza di minime incongruenze argomentative, che non siano inequivocabilmente munite di un chiaro carattere di decisività, non può dar luogo all’annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto, ma è solo l’esame del complesso probatorio entro il quale ogni elemento sia contestualizzato che consente di verificare la consistenza e la decisività degli elementi medesimi oppure la loro ininfluenza ai fini della compattezza logica dell’impianto argomentativo della motivazione (Sez. 1, n. 46566 del 21/02/2017, M e altri, Rv. 271227; Sez. 2, n. 9242 del 8/02/2013, Reggio, Rv. 254988). 2.3. Quanto al terzo motivo di ricorso si richiamano le stesse argomentazioni svolte in ordine al terzo motivo di ricorso della coimputata, essendo le doglianze del tutto sovrapponibili (cfr. supra p. 1.3.). 3. Sia per Cl. che per Pi.Pa., va precisato che l’inammissibilità dei ricorsi principali comporta, ai sensi dell’art. 585 c.p.p., comma 4, secondo periodo, l’inammissibilità derivata dei motivi aggiunti. 4. Il ricorso di P.G. è, nel suo complesso, infondato e va pertanto respinto. 4.1. Il primo ed il secondo motivo di ricorso – entrambi concernenti il propugnato bis in idem con il reato di cui alla sentenza della sezione distaccata di Foligno del Tribunale di Perugia del 20 aprile 2011 – è infondato e a tale conclusione può giungersi a prescindere dalla motivazione resa sul punto dalla Corte territoriale, trattandosi di questione processuale che impone una verifica diretta da parte di questa Corte e che va risolta indipendentemente dalla giustificazione resa rispetto alla corrispondente censura dal Giudice di merito. Il ricorrente sostiene, in particolare, che la circostanza di essere già stato processato per il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 – processo conclusosi con l’assoluzione perchè il fatto non sussiste – renderebbe improcedibile ex art. 649 c.p.p. la contestazione odierna, di bancarotta fraudolenta documentale per sottrazione, trattandosi dello stesso fatto. 4.1.1. Per inquadrare la doglianza, occorre ricordare che un’importante chiave di lettura della disposizione in argomento si deve alla sentenza della Corte Costituzionale n. 200 del 2016, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 649 c.p.p. per contrasto con l’art. 117 Cost., comma 1, in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU (secondo cui “Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato”). In particolare, la disposizione del nostro codice di rito è stata reputata incostituzionale nella parte in cui, secondo il diritto vivente, escludeva che il fatto fosse il medesimo per la sola circostanza che sussistesse un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza irrevocabile e il reato per cui era iniziato il nuovo procedimento penale. Nel circoscrivere il giudizio di incostituzionalità rispetto a quanto opinato dal Giudice rimettente, la pronunzia della Consulta ha indicato all’interprete quale debba essere il percorso di verifica dell’identità del “fatto” che può condurre alla sentenza di improcedibilità ex art. 649 c.p.p. A questo riguardo, la Corte Costituzionale ha sostenuto che il fatto storico-naturalistico che rileva, ai fini del divieto di bis in idem da leggersi in chiave convenzionale, è “l’accadimento materiale, certamente affrancato dal giogo dell’inquadramento giuridico, ma pur sempre frutto di un’addizione di elementi la cui selezione è condotta secondo criteri normativi”; criteri normativi – opina il Giudice delle leggi – che ricomprendono non solo l’azione o l’omissione, ma anche l’oggetto fisico su cui cade il gesto ovvero l’evento naturalistico che ne è conseguito, ovvero la modificazione della realtà indotta dal comportamento dell’agente, secondo una dimensione empirica, così come accertata nel primo giudizio. Tale concetto – ha ricordato la Consulta – non è estraneo all’esegesi della Corte di cassazione sull’art. 649 codice di rito (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, Donati, Rv. 231799), laddove si sono valorizzati, quali indicatori delle medesimezza del fatto richiesta dal legislatore, tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale). In altri termini, la verifica circa il bis in idem, pur dovendo attingere il fatto materiale e non già la fattispecie astratta, impone di riguardarlo comunque individuando, nel comportamento sub iudice, gli elementi di sovrapponibilità fattuale rispetto alla struttura della fattispecie come prevista dal legislatore. Come ha scritto la Corte Costituzionale, il fatto va apprezzato “secondo l’accezione che gli conferisce l’ordinamento”, ma, a smentire la possibile riemersione dell’idem legale, “ad avere carattere giuridico è la sola indicazione dei segmenti dell’accadimento naturalistico che l’interprete è tenuto a prendere in considerazione per valutare la medesimezza del fatto” (in termini e per un’ampia ricostruzione del tema, cfr. Sez. 5, n. 11049 del 13/11/2017, dep. 2018, Ghelli, Rv. 272839, in motivazione, nonchè Sez. 4, n. 12175 del 03/11/2016, dep. 2017, Bordogna e altri, Rv. 270387). E’ bene chiarire – per sgomberare il campo da talune ambiguità interpretative sul tema in discorso che ancora oggi si rilevano – che la soluzione del quesito circa la possibilità di concorso formale tra i due reati – il reato fallimentare e quello tributario – non ha implicazioni, in un senso o in un altro, sulla soluzione della quaestio iuris posta dal ricorrente. La Consulta, infatti, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p., ha escluso che la possibilità astratta che due fattispecie, commesse con un’unica azione od omissione, concorrano tra loro nel caso in cui vengano giudicate insieme consenta di prescindere, quando si tratti di raffrontare situazioni oggetto di diversi processi – l’uno già conclusosi, l’altro in corso di svolgimento – dalla verifica circa la medesimezza del fatto nella chiave sopra evidenziata e di processare comunque nuovamente l’imputato già condannato per il primo reato (ripudiando così il diritto vivente fino ad allora emerso dalla giurisprudenza di questa Corte). A questo proposito, la Corte Costituzionale ha però anche escluso che vi siano implicazioni a contrario, nel senso che, ogni qualvolta possa ipotizzarsi in astratto un concorso formale tra due reati, automaticamente vi sia medesimezza del fatto e debba operare, pertanto, il divieto di bis in idem. Ciò, d’altra parte, è la logica conseguenza della diversità di piani su cui si collocano le valutazioni a farsi in punto di concorso formale e di idem factum, dal momento che lo Stato può ben scegliere di far confluire sulla medesima condotta due fattispecie penali senza che si violi la garanzia individuale del divieto di bis in idem, “che si sviluppa invece con assolutezza in una dimensione esclusivamente processuale, e preclude non il simultaneus processus per distinti reati commessi con il medesimo fatto, ma una seconda iniziativa penale, laddove tale fatto sia già stato oggetto di una pronuncia di carattere definitivo” (così la Consulta). Sostiene, ancora, la Corte Costituzionale che “In definitiva l’esistenza o no di un concorso formale tra i reati oggetto della res iudicata e della res iudicanda è un fattore ininfluente ai fini dell’applicazione dell’art. 649 c.p.p., una volta che questa disposizione sia stata ricondotta a conformità costituzionale, e l’ininfluenza gioca in entrambe le direzioni, perchè è permesso, ma non è prescritto al giudice di escludere la medesimezza del fatto, ove i reati siano stati eseguiti in concorso formale. Ai fini della decisione sull’applicabilità del divieto di bis in idem rileva infatti solo il giudizio sul fatto storico”. In definitiva, quindi, per verificare se vi sia bis in idem, il raffronto deve essere tra la prima contestazione, per come si è sviluppata nel processo, e il fatto posto a base della nuova iniziativa del pubblico ministero, secondo una prospettiva concreta e non legata alla struttura delle fattispecie ma pur sempre inquadrando gli accadimenti storici secondo la “griglia” normativa condotta-nesso causale-evento; nell’effettuare detta operazione, si deve tuttavia prescindere dalla risoluzione dell’ulteriore interrogativo – estraneo al tema del bis in idem processuale in chiave convenzionale – se tra i due reati possa esservi concorso formale e, quindi, prescindere dai vari criteri interpretativi su questo distinto tema. 4.1.2. Fatta questa premessa e riguardando le fattispecie concrete poste al vaglio di questo Collegio, va osservato che vi sono due momenti di distinguo tra le condotte contestate nell’uno e nell’altro processo, che impediscono di ritenere la sovrapponibilità predicata dal ricorrente. Con due precisazioni. La prima è che, dato lo scarno tessuto motivazionale della sentenza del Tribunale di Perugia, si potrà ragionare prevalentemente se non esclusivamente su quanto si legge nel capo di imputazione, fermo restando che l’impugnante non ha fornito altri elementi per meglio precisare la condotta oggetto di accertamento in quel processo. La seconda è che non rileva, ad escludere il bis in idem, che la sovrapposizione possa riguardare solo la bancarotta fraudolenta documentale per sottrazione e non quella generale di cui alla L.Fall., art. 216, comma 1, n. 2), seconda parte, dal momento che a P. – come già sopra ricordato – è effettivamente contestata solo la prima tipologia di condotta. Ebbene, venendo alle ragioni che conducono ad escludere l’improcedibilità, in primo luogo, si osserva che non vi è una completa sovrapposizione tra le condotte oggetto dei due procedimenti, in quanto, nel processo in corso, si contesta la sottrazione di tutte le scritture fino alla data del fallimento, dichiarato il 23 luglio 2009, mentre, nel processo per il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ci si riferiva ai fatti anteriori al (OMISSIS), data dell’accertamento della Guardia di Finanza. Ne consegue che le due condotte non coincidono quanto all’oggetto del reato che, nella vicenda oggi sub iudice, concerne una più ampia piattaforma documentale, comprensiva anche delle scritture tenute dal (OMISSIS) al 23 luglio 2009, egualmente non fornite da P. alla curatela fallimentare. Ciò segna una differenza tra le due condotte, che costituisce un primo ostacolo all’invocata improcedibilità. Il secondo momento di differenziazione concerne la natura delle scritture che, nel caso del reato fallimentare, sono tutte quelle obbligatorie e quelle facoltative richieste dalle dimensioni dell’impresa, come sancito dall’art. 2214 c.c., commi 1 e 2, mentre, quanto al reato tributario, sono costituite solo da quelle obbligatorie ai fini fiscali. In questo senso, l’esame della censura risente particolarmente del difetto di allegazione del ricorrente, sicchè, in mancanza di qualsivoglia specificazione circa le scritture di cui concretamente si contestava la sottrazione nel processo di Foligno, non ci si può che limitare alla lettura della contestazione elevata dal pubblico ministero e riportata nell’epigrafe della sentenza allegata al ricorso (in cui si parla di “documenti contabili e fiscali di cui era obbligatoria la conservazione”), riguardandola alla luce dell’esegesi giurisprudenziale sul punto. Secondo Sez. 5 n. 32367 del 2016 (che ha concluso negativamente circa l’esistenza di un bis in idem, in una situazione analoga a quella odierna), il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 indica quale oggetto della condotta le “scritture contabili” o i “documenti di cui è obbligatoria la conservazione” ai fini fiscali, che comprendono non solo quelle formalmente istituite in ossequio a specifico dettato normativo, ma anche quelle obbligatorie in relazione alla natura ed alle dimensioni dell’impresa (es. libro cassa, scritture di magazzino, scadenzario et similia), nonchè la corrispondenza posta in essere nel corso dei singoli affari, il cui obbligo di conservazione deve farsi risalire al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 22, comma 3 (Sez. 3, n. 1377 del 01/12/2011). La bancarotta fraudolenta documentale ha ad oggetto, invece, i libri previsti obbligatoriamente dall’art. 2214 c.c. (in primis libro giornale e libro degli inventari), nonchè le scritture contabili richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa – indipendentemente dall’obbligo di conservazione fiscale – che consentano, tuttavia, la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari (negli stessi sensi, quanto alla differente base documentale, Sez. 5, n. 35591 del 20/06/2017, Fagioli e altro, Rv. 270811; Sez. 5, n. 16360 del 01/03/2011, Romele, Rv. 250175). 4.2. Il ricorso è manifestamente infondato quando affronta la questione della effettiva disponibilità della documentazione in capo a P., giacchè la Corte di merito, a pag. 10, afferma che l’indicazione della consegna delle scritture nell’atto notarile, il mancato reclamo delle stesse per diversi anni da parte di P., la mancata indicazione del commercialista dove le medesime erano state tenute, significano che il ricorrente ne ebbe la disponibilità. Peraltro, la circostanza stessa che egli riferì al curatore che esse erano detenute da un commercialista e non già che non gli erano state consegnate all’atto dell’immissione nella carica, smentisce la tesi che oggi il ricorrente pare voler propugnare. Si tratta di un ordito argomentativo privo di falle logiche che le censure del ricorrente non sono idonee a mettere in discussione. Quanto al coefficiente soggettivo, il passaggio della motivazione che riguarda questo aspetto non può essere messo in discussione in quanto non censurato nei motivi di appello. Ne consegue l’inammissibilità del ricorso perchè non possono essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunciare siccome non devolute con la dovuta specificità alla sua cognizione, tranne che si tratti di questioni rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del giudizio o che non sarebbe stato possibile dedurre in precedenza (cfr. l’art. 606 c.p.p., comma 3, quanto alla violazione di legge; si vedano, con specifico riferimento al vizio di motivazione, Sez. 2, n. 29707 del 08/03/2017, Galdi, Rv. 270316; Sez. 2, n. 13826 del 17/02/2017, Bolognese, Rv. 269745; Sez. 2, n. 22362 del 19/04/2013, Di Domenica). 5. All’inammissibilità dei ricorsi di Cl. e Pi.Pa. consegue la condanna di ciascuno di essi, ai sensi dell’art. 616 c.p.p. (come modificato ex L. 23 giugno 2017, n. 103), al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende, così equitativamente determinata in relazione ai motivi di ricorso che inducono a ritenere i proponenti in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. 13/6/2000 n. 186). Al rigetto del ricorso di P.G. segue la condanna del medesimo al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. dichiara inammissibili i ricorsi di Pi.Pa. e Pi.Cl., che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Rigetta il ricorso di P.G. che condanna al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 10 gennaio 2022. Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2022
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