ART 582 CP AVVOCATO PENALISTA

 ART 582 CP

ART 582 CP
•582 codice penale
•582 cp

ART 582 CP AVVOCATO PENALISTA
ART 582 CP AVVOCATO PENALISTA

Chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale(1) , dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente(2) , è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni 3).

Ai fini della configurabilità del delitto di lesioni personali, la nozione di malattia non comprende tutte le alterazioni di natura anatomica, che possono anche mancare, bensì solo quelle da cui deriva una limitazione funzionale o un significativo processo patologico o l’aggravamento di esso ovvero una compromissione delle funzioni dell’organismo, anche non definitiva, ma comunque significativa. (Fattispecie relativa ad aggressione consistita in una “tirata di capelli”, nella quale la Corte ha annullato con rinvio la decisione di merito che si era limitata a dar conto del referto medico che riportava, quale conseguenza a carico della vittima, “dolore in regione occipitale guaribile in giorni due”).

È configurabile il concorso formale tra il reato di violenza privata e quello di lesioni personali volontarie, non sussistendo tra le due fattispecie un rapporto di specialità ex art. 15 cod. pen. (In motivazione la Corte ha, altresì, richiamato l’art. 581, comma secondo, cod. pen., che esclude il concorso nel solo caso in cui la condotta violenta sia sussumibile nella fattispecie di percosse e non ove ricorrano più gravi fattispecie, come quella di lesioni personali).

 

 

LESIONI PERSONALI AGGRAVANTE USO ARMI

 

 

 

L’aggravante dell’uso delle armi è configurabile con riguardo al delitto di lesioni personali tentato, poiché l’estensione al tentativo delle circostanze previste per il corrispondente delitto consumato deve essere verificato sulla base di una valutazione di compatibilità logico-giuridica, tenuto conto della tipologia dell’aggravante contestata che, nella specie, connota la pericolosità della condotta, a prescinde dal verificarsi dell’evento.

lesioni gravissime,

 

 

la valutazione circa la sussistenza dell’aggravante dello sfregio permanente, inteso come turbamento irreversibile dell’armonia e dell’euritmia delle linee del viso, compete al giudice di merito, chiamato ad esprimere un giudizio che non richiede speciali competenze tecniche, perché ancorato al punto di vista di un osservatore comune, di gusto normale e di media sensibilità, e pertanto tale giudizio non risulta sindacabile in sede di legittimità.

(

Ai fini della configurabilità del delitto di lesioni personali (art. 582 c.p.), costituisce malattia la lesione cutanea consistente in un taglio all’avambraccio guaribile in tre giorni, in quanto anche una modesta soluzione di continuo dell’epidermide, con soffusione ematica, non può non comportare una sia pur minima, ma comunque apprezzabile compromissione locale della funzione propria dell’epidermide che non è solo quella di carattere estetico-sensoriale ma anche e soprattutto quella di protezione dell’intero organismo, in ogni sua parte, da contatti potenzialmente nocivi con agenti esterni di qualsivoglia natura.

 

Se la malattia ha una durata non superiore ai venti giorni e non concorre alcuna delle circostanze aggravanti prevedute negli articoli 61, numero 11-octies), 583 e 585, ad eccezione di quelle indicate nel numero 1 e nell’ultima parte dell’articolo 577, il delitto è punibile a querela della persona offesa(4).

La decisione ripercorre le posizioni assunte in dottrina ed in giurisprudenza in ordine al concetto di malattia e sottolinea che -a fronte di una nozione incentrata esclusivamente sulla mera alterazione anatomica, ancorché minima e localizzata, corrispondente alla definizione contenuta nella Relazione ministeriale al codice penale e largamente diffusa nella giurisprudenza più risalente- si è prospettata una concezione diversa, elaborata dalla dottrina, che “fa riferimento alla necessità che a questa alterazione (che peraltro può anche mancare) si accompagni l’esistenza di limitazioni funzionali”, così avvicinandosi ad una definizione di malattia più aderente a quella della scienza medica. Si tratta di una impostazione che è stata progressivamente condivisa da pronunce di legittimità (la sentenza n. 22156 del 19/04/2016 richiama: Sez. 4, Sentenza n. 3448, del 28/10/2004 Perna, Rv. 230896 in relazione alla qualificazione come malattia di un processo infiammatorio delle mammelle durato nel tempo, con anomala temperatura corporea e necessità di rimozione di protesi; Sez. 5, Sentenza n. 714 del 15/10/1998 Rocca, Rv. 212156, che ha confermato la natura di malattia dei segni di svenimento accompagnati da una difficoltà respiratoria durata tre o quattro minuti conseguenti ad una condotta di afferrare al collo per due volte una persona; Sez. 4, Sentenza n. 10643, 14/11/1996, Francolini, Rv. 207339, che ha invece escluso la malattia per le conseguenze di un intervento chirurgico di natura estetica che aveva provocato l’asimmetria delle mammelle e dei capezzoli). E che implica, in ogni caso, che l’alterazione comporti una perturbazione funzionale di tipo dinamico, la cui evoluzione può condurre alla guarigione o alla stabilizzazione in uno stato di benessere degradato o, in ipotesi infausta, alla morte (sul punto Sez. U, n. 9163 del 25/01/2005 – dep. 08/03/2005, Raso, Rv. 230317; Sez. 4″, Sentenza n. 4339 del 24/11/2015, dep. 2/02/2016, non massimata). 5. La particolarità del caso in esame sta nel fatto che, a fronte di una non più contestata condotta colposa, per imperizia e negligenza, tenuta dai tre sanitari, ciascuno in relazione alla propria sfera di intervento radiologico (S. ) o clinico (T. e R. ), non si è prodotto un aggravamento della perturbazione funzionale causata dalle lesioni derivate dalla caduta. Come bene spiega la Corte territoriale -riprendendo la perizia collegiale disposta in grado di appello- i lievi esiti algodisfunzionali ascrivibili alla frattura lombare L1 derivata dall’evento traumatico sono indipendenti dall’inadeguato trattamento. Ora, l’inadeguato trattamento in questo caso coincide con il ritardo nella diagnosi e nel trattamento, poi effettivamente posto in essere dai medici intervenuti in un secondo momento, a distanza di trenta giorni dalle dimissioni della persona offesa dal nosocomio ove era stata affidata alle cure degli imputati. 6. Ciò che occorre, quindi, stabilire è se possa considerarsi malattia, nel senso appena precisato, non l’aggravamento della lesione, ma il prolungamento del tempo necessario per la sua riduzione o per la sua definitiva stabilizzazione, posto che detto ritardo non incide sulla perturbazione funzionale di tipo dinamico. 7. La risposta deve essere positiva e va ricavata proprio dal rapporto fra il concetto giuridico di lesioni e quello di malattia. La malattia, infatti, nella sua nozione penalistica, non è il post factum della lesione, ma ne costituisce il nucleo intrinseco. L’utilizzo del verbo deriva, nel testo della norma cardine di cui all’art. 582 c.p. (Chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale dalla quale deriva una malattia è punito…), non indica un rapporto di conseguenzialità, ma cristallizza il concetto penalistico di malattia come connotato della nozione penalistica di lesione personale. 8. Dunque, è sulla durata della malattia (più o meno di quaranta giorni) o sulla specificità dell’alterazione funzionale che essa comporta (indebolimento o perdita di un senso o di un organo, perdita di un arto, grave compromissione o perdita della favella, della capacità di procreare, ecc.) che l’ordinamento misura la sanzione penale, con l’introduzione delle aggravanti di cui all’art. 583 c.p., commi 1 e 2″.

ART 582 CP

Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 8 novembre 2019 – 10 febbraio 2020, n. 5315 Presidente Di Salvo – Relatore Nardin Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 25 gennaio 20191 la Corte d’Appello di Messina, riformando la sentenza del Tribunale di Messina, ha assolto con la formula perché il fatto non sussiste R.D. , T.A. e S.S. dal reato di cui all’art. 590 c.p., loro contestato per non avere – nelle loro rispettive qualità di medici del Reparto di Ortopedia dell’ospedale (omissis) (R.D. , T.A. ) e di radiologo del medesimo nosocomio (S.S. )- diagnosticato, a L.V. , l’esistenza di una lesione fratturativa del corpo vertebrale L1, omettendo, di conseguenza, di porre in essere gli accertamenti al fine di assicurare al paziente la guarigione, determinando l’aggravamento delle sue condizioni e ritardo nell’individuazione della terapia adeguata. 2. Il fatto, per quanto non contestato con i motivi formulati in questa sede, viene così descritto dalle sentenze di merito: in data (omissis) L.V. , a bordo di un motociclo, a causa di una macchia d’olio sull’asfalto cade a terra. Condotto all’ospedale (omissis) , viene sottoposto ad accertamenti radiografici, effettuati da S.S. , che diagnostica infrazione dell’ipofisi traversa di L4 ed infrazione del malleolo peroneale sinistro. Il paziente viene, quindi, ricoverato nel reparto di Ortopedia, con un bendaggio morbido e l’arto offeso in scarico. Il (omissis); gli viene applicato un gambaletto gessato all’arto inferiore. Perdurando dolori alla schiena, nonostante l’assunzione di un analgesico, il (omissis) viene sottoposto a radiografia del torace dal S. , che non riscontra anomalie. Nella medesima giornata L. viene dimesso da T.A. con diagnosi di frattura composta del malleolo peroneale sinistro, infrazione apofisi traversa dx di L4, contusione arcata costale, trattamento gambaletto da tenere per trenta giorni. Dopo trenta giorni L.V. , anziché recarsi all’Ospedale (…), risentendo ancora della sintomatologia algica, si rivolge all’Ospedale di (omissis) , dove gli viene rimossa l’ingessatura e dove viene sottoposto a TAC della colonna vertebrale da D12 a L1. A seguito dell’accertamento diagnostico viene rilevata la presenza del crollo della vertebra L1, con frattura pluriframmentata- visibile radiologicamentee viene prescritto l’uso di un busto da associare a fisioterapia, con rivalutazione a trenta giorni. Trascorso detto periodoitipari viene nuovamente visitato, con conferma del quadro morboso e prosecuzione del trattamento per ulteriori trenta giorni. Alla visita del (OMISSIS) , gli viene prescritto lo svezzamento del busto ortopedico. 3. La sentenza di secondo grado, pur riconoscendo come antidoverosa la condotta tenuta dai tre medici, per difetto della predisposizione dei necessari approfondimenti diagnostici, richiamando le conclusioni del collegio peritale, incaricato dalla Corte territoriale di accertare l’eventuale incidenza dell’errore diagnostico sul processo patologico, ne esclude la rilevanza, osservando che, secondo i periti, i lievi esiti algodisfunzionali ascrivibili al tipo di frattura lombare L1, sono primitivamente ascrivibili all’evento traumatico ed indipendenti dall’inadeguato trattamento. Ciò posto, conclude affermando che la pur censurabile condotta degli imputati non ha cagionato alcuna lesione, come definita dalla giurisprudenza di legittimità, non essendosi verificata alcuna limitazione funzionale o processo patologico diverso da quello riscontrato, che si sarebbe comunque verificato anche qualora gli imputati avessero tenuto il comportamento doveroso. 4. Avverso la sentenza della Corte territoriale propone ricorso la parte civile formulando un unico, articolato motivo. 5. Con la censura, con cui afferma di voler involgere nell’impugnazione la sentenza nella sua interezza, lamenta il vizio di motivazione. Tratteggiata la vicenda nelle sue diverse fasi, sottolinea l’evidente rapporto fra l’errore diagnostico commesso dai tre imputati- di cui neppure la Corte territoriale dubita-ed il prolungamento della malattia. Riprende la nozione di malattia, come risultante dalla Relazione ministeriale al codice penale, come “qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo ancorché localizzata e non impegnativa delle condizioni organiche generali”. Richiama l’approdo della elaborazione della giurisprudenza di legittimità secondo cui per integrare la malattia non è sufficiente la mera alterazione anatomica, cui non consegua un processo patologico significativo, e deve comunque farsi riferimento al concetto di malattia fornito dalla scienza medica. Sostiene che, dunque, la malattia giuridicamente rilevante cui fa riferimento l’art. 590 c.p. non comprende tutte le alterazioni anatomiche, che possono anche mancare, ma le alterazioni da cui deriva un limite funzionale o un significativo processo patologico o, ancora, una compromissione di funzioni dell’organismo. Sostiene che la Corte territoriale abbia travisato questi principii, affermando la sussistenza della malattia, rilevante ai fini delle lesioni colpose, solo a fronte di alterazioni anatomo -funzionali tali da incidere sulla totale abilità psico-fisica del soggetto, cui residuino postumi permanenti per la compromissione anatomica. Assume che nel caso di specie la riduzione di funzionalità, peraltro corrispondente ad una lesione anatomica, avrebbe potuto assumere carattere irreversibile se a distanza di trenta giorni non fosse stata fatta la corretta diagnosi, con presa di coscienza della necessità di non compromettere la guarigione da parte del malato. La mancanza di tempestiva prescrizione di riposo ed immobilismo assoluto e dell’adozione di un apposito busto, ha certamente indotto la persona offesa, non adeguatamente informata, a porre in essere, inconsapevolmente, movimenti non consentiti, ma ordinari nella vita quotidiana. Per tali ragioni il ritardo nella guarigione clinica, pari a trenta giorni (durata dell’invalidità temporanea) va considerato malattia addebitabile alla condotta colposa dei sanitari, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale. Conclude per l’annullamento della sentenza impugnata. 7. Con memoria ritualmente depositata in Cancelleria si è costituito il giudizio il responsabile civile Azienda Ospedaliera (…), in persona del Direttore Generale, insiste per il rigetto del ricorso. Considerato in diritto 1. Il ricorso va accolto. 2. Con la doglianza, si contesta il percorso argomentativo con il quale la Corte territoriale è giunta ad escludere che il prolungamento di uno stato morboso, dovuto ad errore diagnostico ed al ritardo nella predisposizione di cure adeguate, possa qualificarsi come malattia, ai sensi dell’art. 582, come richiamato dall’art. 590 c.p., nonostante il ritardo non abbia provocato una compromissione della guarigione, ma solo la sua posticipazione. 3. Ora, il ragionamento della Corte territoriale muove da una nozione di malattia elaborata dalla giurisprudenza di legittimità con una pronuncia di alcuni anni orsono, secondo cui: “Ai fini della configurabilità del delitto di lesioni personali, la nozione di malattia giuridicamente rilevante non comprende tutte le alterazioni di natura anatomica, che possono in realtà anche mancare, bensì solo quelle alterazioni da cui deriva una limitazione funzionale o un significativo processo patologico ovvero una compromissione delle funzioni dell’organismo, anche non definitiva, ma comunque significativa” (così Sez. 4, n. 17505 del 19/03/2008, Pagnani, Rv. 239541; ed in seguito: Sez. 5, n. 40428 del 11/06/2009, Lazzarino e altri, Rv. 245378; Sez. 4, n. 22156 del 19/04/2016, P.C. in proc. De Santis, Rv. 267306, richiamata dalla Corte territoriale; da ultimo cfr. Sez. 5, n. 33492 del 14/05/2019, Gattuso Maria Teresa, Rv. 276930). 4. La sentenza testè richiamata affrontando il tema della definizione del concetto di malattia, nel diritto penale, muove dalla scelta del legislatore del 19301, di introdurre il reato di percosse, distinguendolo dal delitto di lesioni, laddove il previgente codice Zanardelli, 2/2 ricomprendeva le prime nel delitto denominato lesioni personali (all’art. 372), con cui veniva punita la condotta di “chiunque, senza fine di uccidere, cagioni ad alcuno un danno nel corpo, o nella salute o una perturbazione di mente”. Sarebbe stata l’indeterminatezza della nozione di danno ad indurre il legislatore del 1930 a distinguere i due reati, secondo il criterio della distinzione tra il caso del mero esercizio della violenza fisica (nel quale l’evento è costituito esclusivamente dal pregiudizio all’incolumità personale) e quello in cui alla violenza fisica consegua una malattia, concetto questo ritenuto più restrittivo di quello di danno (che ricomprende anche l’ipotesi di un mero dolore fisico). La decisione ripercorre le posizioni assunte in dottrina ed in giurisprudenza in ordine al concetto di malattia e sottolinea che -a fronte di una nozione incentrata esclusivamente sulla mera alterazione anatomica, ancorché minima e localizzata, corrispondente alla definizione contenuta nella Relazione ministeriale al codice penale e largamente diffusa nella giurisprudenza più risalente- si è prospettata una concezione diversa, elaborata dalla dottrina, che “fa riferimento alla necessità che a questa alterazione (che peraltro può anche mancare) si accompagni l’esistenza di limitazioni funzionali”, così avvicinandosi ad una definizione di malattia più aderente a quella della scienza medica. Si tratta di una impostazione che è stata progressivamente condivisa da pronunce di legittimità (la sentenza n. 22156 del 19/04/2016 richiama: Sez. 4, Sentenza n. 3448, del 28/10/2004 Perna, Rv. 230896 in relazione alla qualificazione come malattia di un processo infiammatorio delle mammelle durato nel tempo, con anomala temperatura corporea e necessità di rimozione di protesi; Sez. 5, Sentenza n. 714 del 15/10/1998 Rocca, Rv. 212156, che ha confermato la natura di malattia dei segni di svenimento accompagnati da una difficoltà respiratoria durata tre o quattro minuti conseguenti ad una condotta di afferrare al collo per due volte una persona; Sez. 4, Sentenza n. 10643, 14/11/1996, Francolini, Rv. 207339, che ha invece escluso la malattia per le conseguenze di un intervento chirurgico di natura estetica che aveva provocato l’asimmetria delle mammelle e dei capezzoli). E che implica, in ogni caso, che l’alterazione comporti una perturbazione funzionale di tipo dinamico, la cui evoluzione può condurre alla guarigione o alla stabilizzazione in uno stato di benessere degradato o, in ipotesi infausta, alla morte (sul punto Sez. U, n. 9163 del 25/01/2005 – dep. 08/03/2005, Raso, Rv. 230317; Sez. 4″, Sentenza n. 4339 del 24/11/2015, dep. 2/02/2016, non massimata). 5. La particolarità del caso in esame sta nel fatto che, a fronte di una non più contestata condotta colposa, per imperizia e negligenza, tenuta dai tre sanitari, ciascuno in relazione alla propria sfera di intervento radiologico (S. ) o clinico (T. e R. ), non si è prodotto un aggravamento della perturbazione funzionale causata dalle lesioni derivate dalla caduta. Come bene spiega la Corte territoriale -riprendendo la perizia collegiale disposta in grado di appello- i lievi esiti algodisfunzionali ascrivibili alla frattura lombare L1 derivata dall’evento traumatico sono indipendenti dall’inadeguato trattamento. Ora, l’inadeguato trattamento in questo caso coincide con il ritardo nella diagnosi e nel trattamento, poi effettivamente posto in essere dai medici intervenuti in un secondo momento, a distanza di trenta giorni dalle dimissioni della persona offesa dal nosocomio ove era stata affidata alle cure degli imputati. 6. Ciò che occorre, quindi, stabilire è se possa considerarsi malattia, nel senso appena precisato, non l’aggravamento della lesione, ma il prolungamento del tempo necessario per la sua riduzione o per la sua definitiva stabilizzazione, posto che detto ritardo non incide sulla perturbazione funzionale di tipo dinamico. 7. La risposta deve essere positiva e va ricavata proprio dal rapporto fra il concetto giuridico di lesioni e quello di malattia. La malattia, infatti, nella sua nozione penalistica, non è il post factum della lesione, ma ne costituisce il nucleo intrinseco. L’utilizzo del verbo deriva, nel testo della norma cardine di cui all’art. 582 c.p. (Chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale dalla quale deriva una malattia è punito…), non indica un rapporto di conseguenzialità, ma cristallizza il concetto penalistico di malattia come connotato della nozione penalistica di lesione personale. 8. Dunque, è sulla durata della malattia (più o meno di quaranta giorni) o sulla specificità dell’alterazione funzionale che essa comporta (indebolimento o perdita di un senso o di un organo, perdita di un arto, grave compromissione o perdita della favella, della capacità di procreare, ecc.) che l’ordinamento misura la sanzione penale, con l’introduzione delle aggravanti di cui all’art. 583 c.p., commi 1 e 2″. La scelta legislativa di ancorare la pena al tempo della durata della malattia -al di fuori delle ipotesi di alterazioni funzionali specifiche, ivi previste, rispetto alle quali il fattore tempo è neutro- consente di rispondere al quesito posto in precedenza. 9. L’ordinamento, infatti, misurando la durata della malattia come tempo necessario alla guarigione o al consolidamento definitivo degli esiti della lesione, assegna al tempo un peso che incide sulla quantità della sanzione, palesando una scelta che pone all’interno della reazione penale anche l’intervallo necessario per il raggiungimento di un nuovo stato di benessere della persona offesa, ancorché di benessere degradato, purché stabile. Ciò vale, com’è ovvio, sia per le lesioni dolose, che per le lesioni colpose che ripetono dalla disciplina di cui agli artt. 582 e 583 i criteri distintivi relativi alla qualificazione della gravità delle lesioni medesime. 10. Da quanto fin qui detto è agevole ricavare che ogni condotta colposa che intervenga sul tempo necessario alla guarigione, pur se non produce ex se un aggravamento della lesione e della relativa perturbazione funzionale, assume rilievo penale allorquando generi la dilatazione del periodo necessario al raggiungimento della guarigione o della stabilizzazione dello stato di salute. 11. Ritornando al caso di specie, va innanzitutto preso atto che secondo la stessa Corte territoriale la sussistenza della condotta colposa dei medici coinvolti non è contestata. Ora, essendo pacifico che l’omessa diagnosi del crollo della veterbra L1 e della frattura pluriframmentata, con conseguente omessa tempestiva prescrizione del trattamento di riduzione (busto ortopedico e fisioterapia), ha comportato l’adozione di misure di trattamento con un ritardo di trenta giorni, intervallo intercorso fra la dimissione dall’Ospedale Paparo ove operavano i tre imputati e la data in cui i sanitari dell’Ospedale (omissis) diagnosticarono la frattura in L1, impartendo la cura, ne consegue la necessità di rivalutare l’incidenza della condotta colposa degli imputati sul differimento della guarigione della persona offesa. La sentenza deve, pertanto, essere annullata agli effetti civili con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, per nuovo giudizio. P.Q.M. Annulla agli effetti civili la sentenza impugnata e rinvia, per nuovo giudizio, al giudice civi competente per valore.

La premeditazione va esclusa quando l’occasionalità del momento di consumazione del reato appaia preponderante, tale cioè da neutralizzare la sintomaticità della causale e della scelta del tempo, del luogo e dei mezzi di esecuzione. (Fattispecie di lesioni volontarie gravi, nella quale la determinazione delittuosa è insorta in maniera repentina ed estemporanea, a seguito del casuale incrociarsi di notte delle autovetture dell’aggressore e della vittima, tra i quali esistevano ragioni di contrasto, nonché del successivo arresto e scatenarsi dell’aggressione).

In materia di lesioni personali, quando vi è volontà di sottoporre la persona a una violenza fisica, l’intenzione scherzosa non incide sulla volontarietà del gesto e le lesioni conseguenti non possono essere ritenute colpose.

In relazione ad un’attività sportiva, come il gioco del calcetto, al cui contenuto regolamentare è estranea la violenza fisica, l’illecito sportivo è configurabile quando la condotta lesiva, quale il diretto controllo e il tiro del pallone, il tentativo di impossessarsene e di contenderlo all’avversario e la corsa per introdursi nell’azione, in attesa di ricevere il pallone in possesso di altri giocatori, si inserisca finalisticamente nel contesto dell’attività agonistica. L’illecito sportivo non si raffigura, invece, quando lo svolgimento della gara è solo l’occasione dell’azione volta a cagionare lesioni, sorretta dalla volontà di compiere un atto di violenza fisica, in realtà avulso dalle esigenze di svolgimento della gara stessa. (Fattispecie nella quale le lesioni sono state prodotte con un calcio sferrato da un giocatore mentre veniva effettuata una rimessa in campo da un avversario, e cioè in una fase in cui il gioco non era in via di svolgimento).

 ART 582 CP

In base al principio della verità naturale, il giudice, ai fini dell’accertamento dei fatti, può attingere la prova in qualsiasi modo che non sia specificamente precluso, sicché ben può — prescindendo dalla perizia medico legale — ricorrere alla utilizzazione di altre fonti di prova a sostegno del suo convincimento. La perizia, infatti, non può essere considerata come esclusivo mezzo di prova per l’accertamento di fatti lesivi quando possa prescindersi dal ricorso ad indagini richiedenti particolari cognizioni tecniche. (Nella specie la S.C. ha ritenuto che un graffio, una scalfittura sono eventi lesivi rilevabili anche da chi non possegga particolari cognizioni scientifiche e la loro descrizione, fatta anche da un profano, è sufficiente per il giudice come fondamento di un giudizio di responsabilità quando l’imputazione abbia ad oggetto il reato di lesioni lievi, di cui al capoverso dell’art. 582 c.p.).

La premeditazione va esclusa quando l’occasionalità del momento di consumazione del reato appaia preponderante, tale cioè da neutralizzare la sintomaticità della causale e della scelta del tempo, del luogo e dei mezzi di esecuzione. (Fattispecie di lesioni volontarie gravi, nella quale la determinazione delittuosa è insorta in maniera repentina ed estemporanea, a seguito del casuale incrociarsi di notte delle autovetture dell’aggressore e della vittima, tra i quali esistevano ragioni di contrasto, nonché del successivo arresto e scatenarsi dell’aggressione).

In materia di lesioni personali, quando vi è volontà di sottoporre la persona a una violenza fisica, l’intenzione scherzosa non incide sulla volontarietà del gesto e le lesioni conseguenti non possono essere ritenute colpose.

esecuzione

In relazione ad un’attività sportiva, come il gioco del calcetto, al cui contenuto regolamentare è estranea la violenza fisica, l’illecito sportivo è configurabile quando la condotta lesiva, quale il diretto controllo e il tiro del pallone, il tentativo di impossessarsene e di contenderlo all’avversario e la corsa per introdursi nell’azione, in attesa di ricevere il pallone in possesso di altri giocatori, si inserisca finalisticamente nel contesto dell’attività agonistica. L’illecito sportivo non si raffigura, invece, quando lo svolgimento della gara è solo l’occasione dell’azione volta a cagionare lesioni, sorretta dalla volontà di compiere un atto di violenza fisica, in realtà avulso dalle esigenze di svolgimento della gara stessa. (Fattispecie nella quale le lesioni sono state prodotte con un calcio sferrato da un giocatore mentre veniva effettuata una rimessa in campo da un avversario, e cioè in una fase in cui il gioco non era in via di svolgimento).

In base al principio della verità naturale, il giudice, ai fini dell’accertamento dei fatti, può attingere la prova in qualsiasi modo che non sia specificamente precluso, sicché ben può — prescindendo dalla perizia medico legale — ricorrere alla utilizzazione di altre fonti di prova a sostegno del suo convincimento. La perizia, infatti, non può essere considerata come esclusivo mezzo di prova per l’accertamento di fatti lesivi quando possa prescindersi dal ricorso ad indagini richiedenti particolari cognizioni tecniche. (Nella specie la S.C. ha ritenuto che un graffio, una scalfittura sono eventi lesivi rilevabili anche da chi non possegga particolari cognizioni scientifiche e la loro descrizione, fatta anche da un profano, è sufficiente per il giudice come fondamento di un giudizio di responsabilità quando l’imputazione abbia ad oggetto il reato di lesioni lievi, di cui al capoverso dell’art. 582 c.p.).

Ai fini dell’applicabilità dell’amnistia di cui al D.P.R. 12 aprile 1990, n. 75, l’art. 4 lett. d) di tale decreto prescrive che si deve tener conto della circostanza attenuante ex art. 98 c.p. nonché, nei reati «contro il patrimonio», delle circostanze attenuanti di cui all’art. 62 nn. 4 e 6 stesso codice. Pertanto, nel caso di reato «contro la persona» — nella specie lesioni aggravate ex artt. 582, 576 primo comma n. 1 e 61 n. 2 c.p. — non è possibile tener conto dell’attenuante concessa ex art. 62 n. 6 e, conseguentemente, applicare l’amnistia.

Il chirurgo che, in assenza di necessità ed urgenza terapeutiche, sottopone il paziente ad un intervento operatorio di più grave entità rispetto a quello meno cruento e comunque di più lieve entità del quale lo abbia informato preventivamente e che solo sia stato da quegli consentito, commette il reato di lesioni volontarie, irrilevante essendo sotto il profilo psichico la finalità pur sempre curativa della sua condotta, sicché egli risponde del reato di omicidio preterintenzionale se da quelle lesioni derivi la morte. (Nella fattispecie la parte offesa era stata sottoposta ad intervento chirurgico di amputazione totale addominoperineale di retto, anziché a quello preventivo di asportazione transanale di un adenoma villoso benigno in completa assenza di necessità ed urgenza terapeutiche che giustificassero un tale tipo di intervento e soprattutto senza preventivamente notiziare la paziente o i suoi familiari che non erano stati interpellati in proposito né minimamente informati dall’entità e dei concreti rischi del più grave atto operatorio eseguito, sul quale non vi era stata espressa alcuna forma di consenso).

Il delitto di cui all’art. 582 c.p. può essere commesso con qualunque mezzo idoneo e, quindi, anche introducendo nelle vene di altra persona sostanze stupefacenti mediante iniezione, in quanto lo stupefacente stesso, così iniettato, provoca un’alterazione dello stato fisico e psichico. Ne consegue che deve rispondere di omicidio preterintenzionale e non già di omicidio colposo colui che inietti ad una persona per via endovena dell’eroina cagionandone la morte, a nulla, peraltro, rilevando il consenso a farsi iniettare la droga.

ARRESTO PER BANCAROTTA A BOLOGNA – VICENZA RAVENNA MILANO AVVOCATO PENALISTA ARRESTO BANCAROTTA ART 582 CP

Nei reati la cui procedibilità a querela di parte dipende dal mancato raggiungimento di determinati limiti nella progressione dell’evento e/o dell’assenza di particolari circostanze, il tentativo — in mancanza di specifica normativa — non può che adeguarsi alle regole che disciplinano la procedibilità dell’omologo reato consumato e, quindi, a tal fine si deve tenere conto della eventuale già intervenuta realizzazione di quelle specifiche circostanze e dell’evento che si sarebbe prevedibilmente verificato ove fosse andata a termine l’azione dell’autore, con riferimento al caso concreto, cioè considerando non solo la condotta del medesimo autore ma anche i mezzi impiegati ed ogni altra circostanza di tempo, di luogo e di persona che avrebbero potuto concretamente, secondo il criterio dell’id quod plerunque accidit, avere una incidenza sulla misura o sulla specie dell’evento. Pertanto, nel delitto di lesioni volontarie, che è perseguibile a querela di parte ove il termine di guarigione non superi i venti giorni ed ove non ricorrano le circostanze indicate nell’art. 582 cpv. c.p., la procedibilità del tentativo rimane condizionata alla proposizione della querela della persona offesa solo se, con giudizio fondato sulle prevedibili conseguenze, in concreto valutate, e tenuto conto dei mezzi adoperati nonché di ogni altra utile circostanza, sia da ritenere che ove fosse stato raggiunto l’effetto mirato dell’agente, ne sarebbero conseguite lesioni di durata non superiore a venti giorni e sempreché non sia stata realizzata alcuna delle circostanze aggravanti previste dal citato capoverso dell’art. 582 c.p. Ove un concreto prognostico superi i 20 giorni, il delitto tentato è perseguibile di ufficio. Nei casi incerti, il principio per cui in dubio pro reo rende il tentativo di lesioni, delle quali non è possibile ipotizzare in concreto prognosi sui termini di guarigione, reato procedibile a querela.

In ordine al reato di lesioni volontarie il dolo consiste nella cosciente volontà del fatto e, inoltre, nella volontà dell’evento giuridico e cioè dell’offesa dell’interesse tutelato dalla norma, e poiché tale risultato si considera voluto non solo quando si sia concretato nel punto di mira dell’attività del soggetto, ma anche quando è stato previsto, e nel tempo stesso accettato per la eventualità del suo verificarsi, il dolo del delitto in esame sussiste tutte le volte che l’agente ha previsto che il suo comportamento avrebbe potuto determinare un’offesa alla integrità personale del soggetto passivo ed ha agito al fine o a costo di cagionarla.

L’azione violenta diretta a ledere l’integrità fisica della vittima non comporta la lesione della sua sfera psichica, annullandone la capacità di autodeterminazione. Diversamente, l’inevitabile costrizione a subire l’azione violenta insita nella consumazione del reato di lesioni volontarie comporterebbe necessariamente e sempre la configurazione, oltre che del reato di cui all’art. 582 c.p., anche di quella del reato di violenza privata, pur se l’azione aggressiva non fosse rivolta contro la sfera della libertà psichica dell’aggredito.

Non sussiste l’ipotesi delittuosa di sequestro di persona quando la materialità del fatto si esaurisca nell’estrinsecazione del comportamento violento, integrante lesioni personali, poste in essere dall’imputato. Infatti, anche se una durata minima della privazione della libertà di movimento non esclude la configurabilità del reato di sequestro di persona, il concetto stesso di questo delitto implica pur sempre una durata apprezzabile che va al di là della subitaneità, della fulmineità di un singolo atto.

Il delitto di lesioni personali volontarie non può ritenersi assorbito in quello di maltrattamenti in famiglia, trattandosi di illeciti che concorrono materialmente tra loro per la diversa obiettività giuridica.

Cagionare una lesione non ha necessariamente un significato circoscritto all’azione di picchiare, colpire, ma ha un’accezione più lata e comprensiva di qualsiasi violenta manomissione fisica dell’altrui persona. Conseguentemente anche un urto o una spinta intenzionale, che determini una caduta con effetti lesivi, integrano il reato di cui all’art. 582 c.p.

I reati di percosse e di lesioni personali volontarie hanno in comune l’elemento soggettivo, che consiste nella volontà di colpire taluno con violenza fisica. L’unica differenza tra i due reati va ravvisata nelle conseguenze che la violenza produce. Infatti, il primo è caratterizzato dalla condizione negativa, per cui la violenza non abbia cagionato, al di fuori di un’eventuale sensazione dolosa, effetti patologici costituenti malattia e cioè non si siano prodotte alterazione organiche o funzionali sia pure di modesta entità. Pertanto, nel caso in cui, a seguito delle percosse subite, la vittima riporta un trauma contusivo, che determini un’alterazione delle normali funzioni fisiologiche dell’organismo della parte lesa, da richiedere un processo terapeutico con specifici mezzi di cura e appropriate prescrizioni mediche, si configura il delitto di lesioni volontarie.

Nel reato di lesioni personali volontarie la sussistenza del dolo non può essere negata quante volte l’autore del reato abbia previsto che il suo comportamento avrebbe potuto determinare un pregiudizio all’integrità personale del soggetto passivo ed abbia ciò nonostante agito anche a costo di cagionarlo. Deve escludersi qualsiasi differenza tra il dolo delle percosse e il dolo delle lesioni personali volontarie, distinguendosi i due reati solo per l’elemento oggettivo e cioè per la presenza di una malattia nella fattispecie delle lesioni.

ARRESTO PER BANCAROTTA A BOLOGNA – VICENZA RAVENNA MILANO AVVOCATO PENALISTA ARRESTO BANCAROTTA ART 582 CP

L’elemento psicologico nel delitto di lesioni personali volontarie consiste nella volontà consapevole di attentare all’incolumità fisica altrui. E poiché l’atto di violenza fisica può avere, secondo le circostanze, effetti più o meno gravi, quando si accerti tale volontà l’agente risponde a titolo di dolo e non di colpa delle conseguenze lesive che ne derivano, le quali ricollegandosi all’iniziale atto di violenza, ne rappresentano un normale e prevedibile sviluppo. (Fattispecie in tema di lesioni personali conseguenti a un pugno. La Cassazione ha ritenuto esatta la tesi del giudice di merito secondo cui è irrilevante che l’agente non volesse in realtà cagionare alla persona offesa le lesioni da questa subite, essendo estranea al nostro ordinamento giuridico la figura delle lesioni preterintenzionali).

In tema di lesioni personali cagionate durante una competizione sportiva che implichi l’uso della forza fisica e il contrasto anche duro tra avversari,

l’area del rischio consentito è delimitata dal rispetto delle regole tecniche del gioco, la violazione delle quali, peraltro, va valutata in concreto, con riferimento all’elemento psicologico dell’agente il cui comportamento può essere – pur nel travalicamento di quelle regole – la colposa, involontaria evoluzione dell’azione fisica legittimamente esplicata o, al contrario, la consapevole e dolosa intenzione di ledere l’avversario approfittando della circostanza del gioco.

In tema di attività medico-chirurgica, allo stato attuale della legislazione

 deve ritenersi che il medico sia sempre legittimato ad effettuare il trattamento terapeutico giudicato necessario per la salvaguardia della salute del paziente affidato alle sue cure, anche in mancanza di esplicito consenso, dovendosi invece ritenere insuperabile l’espresso, libero e consapevole rifiuto eventualmente manifestato dal medesimo paziente. In tale ultima ipotesi, qualora il medico effettui ugualmente il trattamento rifiutato, potrà profilarsi a suo carico il reato di violenza privata ma non mai – ove il trattamento comporti lesioni chirurgiche ed il paziente venga successivamente a morte – il diverso e più grave reato di omicidio preterintenzionale, non potendosi ritenere che le lesioni chirurgiche, strumentali all’intervento terapeutico, possano rientrare nelle previsioni di cui all’art. 582 c.p.

Il delitto di lesioni volontarie derivanti da esercizio di attività medico-chirurgica

 è da escludere non solo quando il paziente abbia espresso un valido consenso, contenuto entro i limiti segnati dall’art. 5 c.c., ma anche quando il detto consenso non sia necessario, come può verificarsi in presenza di ragioni di urgenza terapeutica o in altre ipotesi previste dalla legge, le quali possono rendere configurabili cause di giustificazione diverse dal consenso dell’avente diritto, quali lo stato di necessità o l’adempimento di un dovere.

Il concetto clinico di malattia richiede il concorso del requisito essenziale di una riduzione apprezzabile di funzionalità,

 a cui può anche non corrispondere una lesione anatomica, e di quello di un fatto morboso in evoluzione, a breve o lunga scadenza, verso un esito che potrà essere la guarigione perfetta, l’adattamento a nuove condizioni di vita oppure la morte. Ne deriva che non costituiscono malattia, e quindi non possono integrare il reato di lesioni personali, le alterazioni anatomiche, a cui non si accompagni una riduzione apprezzabile della funzionalità. (Nella fattispecie, in cui gli imputati, medici chirurghi, erano stati assolti dal delitto p. e p. dall’art. 590 c.p. perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, la persona offesa aveva subito un intervento chirurgico al seno da cui era derivata l’asimmetricità delle mammelle e dei capezzoli. Tali conseguenze, per i giudici dell’appello, costituivano una lesione vale a dire un’alterazione peggiorativa della preesistente condizione anatomica in cui tali asimmetrie non erano presenti, ma non integravano l’evento malattia previsto dall’art. 590 c.p., potendo esclusivamente dare luogo a responsabilità con correlativo diritto al risarcimento del danno nella competente sede civile. La Corte di cassazione, nell’affermare il principio sopra menzionato, ha osservato che, se anche il danno lamentato consisteva nell’indebolimento permanente della funzione estetica di una parte della cute, l’evento era penalmente irrilevante, poiché l’unico inestetismo cutaneo permanente di rilevanza penale è la lesione gravissima che riguarda il viso.

Il dolo eventuale di lesioni è configurabile in tutti i casi nei quali un soggetto privi della libertà un’altra persona, poiché egli accetta il rischio che quest’ultima, per sottrarsi al suo stato, possa riportare danno. (Nella specie, relativa a rigetto di ricorso gli imputati, in concorso tra loro, non arrestando la corsa del taxi in movimento, a bordo del quale ritenevano, per fine di libidine e contro la sua volontà, una donna cagionavano alla stessa, gettatasi dall’auto, autolesioni personali).

 

Cass. pen. n. 6773/1996

Per la sussistenza del dolo nel delitto di lesioni personali, non è necessario che la volontà dell’agente sia diretta alla produzione di conseguenze lesive, essendo sufficiente l’intenzione di infliggere all’altrui persona una violenza fisica; basta, quindi, il dolo generico che deve reputarsi sussistente — sia pure nella forma eventuale — anche in ipotesi di azione commessa ioci causa allorché l’agente abbia previsto come probabile (e quindi ne abbia accettata la verificazione concreta) l’evento lesivo.

Ai fini dell’applicabilità dell’amnistia di cui al D.P.R. 12 aprile 1990, n. 75, l’art. 4 lett. d) di tale decreto prescrive che si deve tener conto della circostanza attenuante ex art. 98 c.p. nonché, nei reati «contro il patrimonio», delle circostanze attenuanti di cui all’art. 62 nn. 4 e 6 stesso codice. Pertanto, nel caso di reato «contro la persona» — nella specie lesioni aggravate ex artt. 582, 576 primo comma n. 1 e 61 n. 2 c.p. — non è possibile tener conto dell’attenuante concessa ex art. 62 n. 6 e, conseguentemente, applicare l’amnistia.

Il chirurgo che, in assenza di necessità ed urgenza terapeutiche, sottopone il paziente ad un intervento operatorio di più grave entità rispetto a quello meno cruento e comunque di più lieve entità del quale lo abbia informato preventivamente e che solo sia stato da quegli consentito, commette il reato di lesioni volontarie, irrilevante essendo sotto il profilo psichico la finalità pur sempre curativa della sua condotta, sicché egli risponde del reato di omicidio preterintenzionale se da quelle lesioni derivi la morte. (Nella fattispecie la parte offesa era stata sottoposta ad intervento chirurgico di amputazione totale addominoperineale di retto, anziché a quello preventivo di asportazione transanale di un adenoma villoso benigno in completa assenza di necessità ed urgenza terapeutiche che giustificassero un tale tipo di intervento e soprattutto senza preventivamente notiziare la paziente o i suoi familiari che non erano stati interpellati in proposito né minimamente informati dall’entità e dei concreti rischi del più grave atto operatorio eseguito, sul quale non vi era stata espressa alcuna forma di consenso).

Il delitto di cui all’art. 582 c.p. può essere commesso con qualunque mezzo idoneo e, quindi, anche introducendo nelle vene di altra persona sostanze stupefacenti mediante iniezione, in quanto lo stupefacente stesso, così iniettato, provoca un’alterazione dello stato fisico e psichico. Ne consegue che deve rispondere di omicidio preterintenzionale e non già di omicidio colposo colui che inietti ad una persona per via endovena dell’eroina cagionandone la morte, a nulla, peraltro, rilevando il consenso a farsi iniettare la droga.

Nei reati la cui procedibilità a querela di parte dipende dal mancato raggiungimento di determinati limiti nella progressione dell’evento e/o dell’assenza di particolari circostanze, il tentativo — in mancanza di specifica normativa — non può che adeguarsi alle regole che disciplinano la procedibilità dell’omologo reato consumato e, quindi, a tal fine si deve tenere conto della eventuale già intervenuta realizzazione di quelle specifiche circostanze e dell’evento che si sarebbe prevedibilmente verificato ove fosse andata a termine l’azione dell’autore, con riferimento al caso concreto, cioè considerando non solo la condotta del medesimo autore ma anche i mezzi impiegati ed ogni altra circostanza di tempo, di luogo e di persona che avrebbero potuto concretamente, secondo il criterio dell’id quod plerunque accidit, avere una incidenza sulla misura o sulla specie dell’evento. Pertanto, nel delitto di lesioni volontarie, che è perseguibile a querela di parte ove il termine di guarigione non superi i venti giorni ed ove non ricorrano le circostanze indicate nell’art. 582 cpv. c.p., la procedibilità del tentativo rimane condizionata alla proposizione della querela della persona offesa solo se, con giudizio fondato sulle prevedibili conseguenze, in concreto valutate, e tenuto conto dei mezzi adoperati nonché di ogni altra utile circostanza, sia da ritenere che ove fosse stato raggiunto l’effetto mirato dell’agente, ne sarebbero conseguite lesioni di durata non superiore a venti giorni e sempreché non sia stata realizzata alcuna delle circostanze aggravanti previste dal citato capoverso dell’art. 582 c.p. Ove un concreto prognostico superi i 20 giorni, il delitto tentato è perseguibile di ufficio. Nei casi incerti, il principio per cui in dubio pro reo rende il tentativo di lesioni, delle quali non è possibile ipotizzare in concreto prognosi sui termini di guarigione, reato procedibile a querela.

In ordine al reato di lesioni volontarie il dolo consiste nella cosciente volontà del fatto e, inoltre, nella volontà dell’evento giuridico e cioè dell’offesa dell’interesse tutelato dalla norma, e poiché tale risultato si considera voluto non solo quando si sia concretato nel punto di mira dell’attività del soggetto, ma anche quando è stato previsto, e nel tempo stesso accettato per la eventualità del suo verificarsi, il dolo del delitto in esame sussiste tutte le volte che l’agente ha previsto che il suo comportamento avrebbe potuto determinare un’offesa alla integrità personale del soggetto passivo ed ha agito al fine o a costo di cagionarla.

L’azione violenta diretta a ledere l’integrità fisica della vittima non comporta la lesione della sua sfera psichica, annullandone la capacità di autodeterminazione. Diversamente, l’inevitabile costrizione a subire l’azione violenta insita nella consumazione del reato di lesioni volontarie comporterebbe necessariamente e sempre la configurazione, oltre che del reato di cui all’art. 582 c.p., anche di quella del reato di violenza privata, pur se l’azione aggressiva non fosse rivolta contro la sfera della libertà psichica dell’aggredito.

Non sussiste l’ipotesi delittuosa di sequestro di persona quando la materialità del fatto si esaurisca nell’estrinsecazione del comportamento violento, integrante lesioni personali, poste in essere dall’imputato. Infatti, anche se una durata minima della privazione della libertà di movimento non esclude la configurabilità del reato di sequestro di persona, il concetto stesso di questo delitto implica pur sempre una durata apprezzabile che va al di là della subitaneità, della fulmineità di un singolo atto.

Il delitto di lesioni personali volontarie non può ritenersi assorbito in quello di maltrattamenti in famiglia, trattandosi di illeciti che concorrono materialmente tra loro per la diversa obiettività giuridica.

Cagionare una lesione non ha necessariamente un significato circoscritto all’azione di picchiare, colpire, ma ha un’accezione più lata e comprensiva di qualsiasi violenta manomissione fisica dell’altrui persona. Conseguentemente anche un urto o una spinta intenzionale, che determini una caduta con effetti lesivi, integrano il reato di cui all’art. 582 c.p.

I reati di percosse e di lesioni personali volontarie hanno in comune l’elemento soggettivo, che consiste nella volontà di colpire taluno con violenza fisica. L’unica differenza tra i due reati va ravvisata nelle conseguenze che la violenza produce. Infatti, il primo è caratterizzato dalla condizione negativa, per cui la violenza non abbia cagionato, al di fuori di un’eventuale sensazione dolosa, effetti patologici costituenti malattia e cioè non si siano prodotte alterazione organiche o funzionali sia pure di modesta entità. Pertanto, nel caso in cui, a seguito delle percosse subite, la vittima riporta un trauma contusivo, che determini un’alterazione delle normali funzioni fisiologiche dell’organismo della parte lesa, da richiedere un processo terapeutico con specifici mezzi di cura e appropriate prescrizioni mediche, si configura il delitto di lesioni volontarie.

Nel reato di lesioni personali volontarie la sussistenza del dolo non può essere negata quante volte l’autore del reato abbia previsto che il suo comportamento avrebbe potuto determinare un pregiudizio all’integrità personale del soggetto passivo ed abbia ciò nonostante agito anche a costo di cagionarlo. Deve escludersi qualsiasi differenza tra il dolo delle percosse e il dolo delle lesioni personali volontarie, distinguendosi i due reati solo per l’elemento oggettivo e cioè per la presenza di una malattia nella fattispecie delle lesioni.

L’elemento psicologico nel delitto di lesioni personali volontarie consiste nella volontà consapevole di attentare all’incolumità fisica altrui. E poiché l’atto di violenza fisica può avere, secondo le circostanze, effetti più o meno gravi, quando si accerti tale volontà l’agente risponde a titolo di dolo e non di colpa delle conseguenze lesive che ne derivano, le quali ricollegandosi all’iniziale atto di violenza, ne rappresentano un normale e prevedibile sviluppo. (Fattispecie in tema di lesioni personali conseguenti a un pugno. La Cassazione ha ritenuto esatta la tesi del giudice di merito secondo cui è irrilevante che l’agente non volesse in realtà cagionare alla persona offesa le lesioni da questa subite, essendo estranea al nostro ordinamento giuridico la figura delle lesioni preterintenzionali).

In tema di lesioni personali cagionate durante una competizione sportiva che implichi l’uso della forza fisica e il contrasto anche duro tra avversari,

l’area del rischio consentito è delimitata dal rispetto delle regole tecniche del gioco, la violazione delle quali, peraltro, va valutata in concreto, con riferimento all’elemento psicologico dell’agente il cui comportamento può essere – pur nel travalicamento di quelle regole – la colposa, involontaria evoluzione dell’azione fisica legittimamente esplicata o, al contrario, la consapevole e dolosa intenzione di ledere l’avversario approfittando della circostanza del gioco.

In tema di attività medico-chirurgica, allo stato attuale della legislazione

 deve ritenersi che il medico sia sempre legittimato ad effettuare il trattamento terapeutico giudicato necessario per la salvaguardia della salute del paziente affidato alle sue cure, anche in mancanza di esplicito consenso, dovendosi invece ritenere insuperabile l’espresso, libero e consapevole rifiuto eventualmente manifestato dal medesimo paziente. In tale ultima ipotesi, qualora il medico effettui ugualmente il trattamento rifiutato, potrà profilarsi a suo carico il reato di violenza privata ma non mai – ove il trattamento comporti lesioni chirurgiche ed il paziente venga successivamente a morte – il diverso e più grave reato di omicidio preterintenzionale, non potendosi ritenere che le lesioni chirurgiche, strumentali all’intervento terapeutico, possano rientrare nelle previsioni di cui all’art. 582 c.p.

Il delitto di lesioni volontarie derivanti da esercizio di attività medico-chirurgica

 è da escludere non solo quando il paziente abbia espresso un valido consenso, contenuto entro i limiti segnati dall’art. 5 c.c., ma anche quando il detto consenso non sia necessario, come può verificarsi in presenza di ragioni di urgenza terapeutica o in altre ipotesi previste dalla legge, le quali possono rendere configurabili cause di giustificazione diverse dal consenso dell’avente diritto, quali lo stato di necessità o l’adempimento di un dovere.

Il concetto clinico di malattia richiede il concorso del requisito essenziale di una riduzione apprezzabile di funzionalità,

 a cui può anche non corrispondere una lesione anatomica, e di quello di un fatto morboso in evoluzione, a breve o lunga scadenza, verso un esito che potrà essere la guarigione perfetta, l’adattamento a nuove condizioni di vita oppure la morte. Ne deriva che non costituiscono malattia, e quindi non possono integrare il reato di lesioni personali, le alterazioni anatomiche, a cui non si accompagni una riduzione apprezzabile della funzionalità. (Nella fattispecie, in cui gli imputati, medici chirurghi, erano stati assolti dal delitto p. e p. dall’art. 590 c.p. perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, la persona offesa aveva subito un intervento chirurgico al seno da cui era derivata l’asimmetricità delle mammelle e dei capezzoli. Tali conseguenze, per i giudici dell’appello, costituivano una lesione vale a dire un’alterazione peggiorativa della preesistente condizione anatomica in cui tali asimmetrie non erano presenti, ma non integravano l’evento malattia previsto dall’art. 590 c.p., potendo esclusivamente dare luogo a responsabilità con correlativo diritto al risarcimento del danno nella competente sede civile. La Corte di cassazione, nell’affermare il principio sopra menzionato, ha osservato che, se anche il danno lamentato consisteva nell’indebolimento permanente della funzione estetica di una parte della cute, l’evento era penalmente irrilevante, poiché l’unico inestetismo cutaneo permanente di rilevanza penale è la lesione gravissima che riguarda il viso.

Il dolo eventuale di lesioni è configurabile in tutti i casi nei quali un soggetto privi della libertà un’altra persona, poiché egli accetta il rischio che quest’ultima, per sottrarsi al suo stato, possa riportare danno. (Nella specie, relativa a rigetto di ricorso gli imputati, in concorso tra loro, non arrestando la corsa del taxi in movimento, a bordo del quale ritenevano, per fine di libidine e contro la sua volontà, una donna cagionavano alla stessa, gettatasi dall’auto, autolesioni personali).

(Cassazione penale, Sez. III, sentenza n. 8907 del 4 ottobre 1996)

Cass. pen. n. 6773/1996

Per la sussistenza del dolo nel delitto di lesioni personali, non è necessario che la volontà dell’agente sia diretta alla produzione di conseguenze lesive, essendo sufficiente l’intenzione di infliggere all’altrui persona una violenza fisica; basta, quindi, il dolo generico che deve reputarsi sussistente — sia pure nella forma eventuale — anche in ipotesi di azione commessa ioci causa allorché l’agente abbia previsto come probabile (e quindi ne abbia accettata la verificazione concreta) l’evento lesivo.

 
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Originally posted 2021-04-20 16:15:58.